Appunti su Giovanni Giolitti

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Appunti su Giovanni Giolitti

L’ETA’ GIOLITTIANA

Leader indiscusso dei gruppi liberali italiani, la sua politica si colloca ormai, agli inizi del Novecento, al centro dello schieramento politico parlamentare italiano, tra una destra reazionaria, antidemocratica, nazionalista etc. e una sinistra dominata dai socialisti. Destra e Sinistra ormai tendono ad assumere il loro significato moderno  (niente a che vedere con la ‘destra storica’ e la ‘sinistra storica’)
Gli elementi di continuità dei vari governi guidati da Giolitti sono costituiti dal costante tentativo (proprio di un liberal-conservatore illuminato come Giolitti) di evitare che il rapporto tra lo Stato liberale e le organizzazioni del movimento operaio imboccassero la via dello scontro aperto. In sostanza, G. era convinto di dover abbandonare i metodi repressivi crispini e del di Rudinì, per evitare che “un troppo brusco  impatto o una troppo violenta compressione [dell’agitazione popolare] determinassero precipitazioni pericolose” (Revelli, p.345). Per Giolitti ( a differenza di Crispi) la questione sociale non era da intendersi né da risolversi come questione di ordine pubblico, da affrontare con le sciabolate e i fucili.
La sua azione politica tenderà sempre –infatti- a rafforzare le posizioni dei gruppi riformisti del PSI, nel tentativo di “parlamentarizzare il conflitto” (Revelli) e di prevenire attraverso una serie di riforme e interventi statali possibili scoppi rivoluzionari.  Insomma, Giolitti si muoveva sulla linea politica che già era stata di Peel in Inghilterra e di Cavour in Italia: le riforme per prevenire le rivoluzioni.
Il modello politico giolittiano subirà un progressivo sfaldamento nei suoi ultimi anni di governo, allorché i gruppi massimalisti-rivoluzionari del PSI conquisteranno la maggioranza nel partito espellendo parte della corrente filogiolittiana e riformista (quella di Bissolati).
G. era già stato presidente del Consiglio nel 1892-3.

L’Italia della quale G. avrebbe assunto il governo, nonostante forme rappresentative e liberali, poggiava su una base popolare esigua: ne rimanevano fuori sia i socialisti sia i cattolici.
Il nuovo corso giolittiano (nuovo rispetto ai metodi dei vari Crispi, Rudinì, Pelloux etc.) era già evidente nel discorso alla Camera del 1901 (discorso che determinò la caduta del ministero Saracco e il passaggio al ministero Zanardelli, in cui G. ebbe funzioni decisive):
“Io non temo mai le forze organizzate: temo assai di più le forze inorganiche… La ragione principale per cui si osteggiano le camere del lavoro è questa: che l’opera loro tende a far crescere i salari. Il tenere i salari bassi comprendo che sia un interesse degli industriali, ma che interesse ha lo Stato di fare che il salario del lavoratore sia tenuto basso?…
Il governo, quando interviene per tenere bassi i salari commette un’ingiustizia, un errore economico e un errore politico. Commette un’ingiustizia, perché manca al suo dovere di assoluta imparzialità fra i cittadini, prendendo parte alla lotta contro una classe. Commette un errore economico, perché turba il funzionamento della legge economica della offerta e della domanda… Commette infine un grave errore politico perché rende nemiche dello Stato quelle classi”
Il tema dell’ingiustizia rivela un senso nuovo della concezione dello Stato: lo Stato come luogo deputato a conciliare i contrasti della società civile, non come strumento di una classe sociale a danno delle altre.
Il tema dell’errore politico è indicativo del timore di Giolitti (e dei ceti imprenditoriali più aperti e illuminati, che sostenevano G.) per il possibile radicalizzarsi della lotta sociale in senso rivoluzionario.
Il tema dell’errore economico esprime la convinzione giolittiana (propria di gran parte degli economisti liberisti del tempo) che la crescita dei salari svolga una funzione positiva, ampliando la domanda di beni e favorendo ulteriormente lo sviluppo industriale.
Dunque lo Stato non deve intervenire a imporre tariffe salariali: esso deve lasciare le parti sociali (operai e imprenditori) libere di discutere tra di loro, anche con ricorsi a scioperi e serrate. Lo Stato deve solo vigilare ed impedire violenze e scioperi a carattere politico, non certo scioperi di carattere economico-salariale (quanta differenza rispetto a Crispi!). Eppure, ricorda Revelli, “dai liberisti puri lo divideva l’atteggiamento protezionistico verso la grande industria”, che egli sempre volle difendere dalla concorrenza estera con sistemi di barriere doganali.

5 ministeri giolitti: 1892-3; 1903-5; 1906-9; 1911-14; 1920-21 (l’ultimo governo nei tristi anni di preparazione dell’avvento del fascismo al potere –ne riparleremo poi)

I primi quindici anni del Novecento videro l’egemonia costante di G., anzi, non mancarono coloro che lamentarono una specie di ‘dittatura’ dello statista piemontese. In verità G. non esitò a ricorrere ai più vari sistemi di pressione e di intimidazione affinché anche dai collegi elettorali del Sud uscissero deputati favorevoli al governo. La cosa fu denunciata da Gaetano Salvemini,  a quell’epoca militante socialista ( uscirà nel 1911 dal PSI perché lo giudicava troppo filo-giolittiano; resterà sempre ferocemente democratico, meridionalista, antifascista). Salvemini giunse addirittura a definire Giolitti “ministro della malavita”. S. non aveva tutti i torti nel denunciare il carattere clientelare, corruttorio e autoritario della politica di G. verso il Sud. Il suo sistema era infatti fondato  sul sostegno alla industrie del triangolo industriale settentrionale e sul tentativo di accordo con il mondo operaio e socialista (sviluppato nel Nord, assente nel Sud): sistema di potere definito  “della democrazia industriale”. Ma il medesimo sistema andava a scapito del meridione: il Sud veniva usato come serbatoio elettorale e area di esercizio del potere clientelare.

  L’azione di governo volta ad ampliare le basi del consenso sociale allo Stato liberale divenne evidente nel significativo invito rivolto al socialista moderato Filippo Turati affinché costui partecipasse al suo secondo ministero (1903-1905, il primo governo guidato da Giolitti nel Novecento).
Un invito del genere era da considerarsi decisamente ‘rivoluzionario’ nella storia dei governi italiani d’allora. Ma Turati, benché inclinasse al riformismo e a posizioni filo-giolittiane, credette opportuno  non compromettere il PSI nella collaborazione con un governo ‘borghese’, cosa che probabilmente non avrebbe riscosso l’approvazione della base del partito, e che avrebbe rafforzato il gruppo della estrema sinistra massimalista all’interno del partito. L’aumento dei prezzi aveva reso più tesi i rapporti sociali e determinato un dilagare di scioperi. La corrente socialista riformista (Turati, Bissolati), in difficoltà, temeva di veder intaccata la sua egemonia nel PSI, se avesse collaborato in modo diretto e ‘governativo’ con Giolitti.
Cresceva intanto il peso della corrente rivoluzionaria (Enrico Ferri, Arturo Labriola, più tardi Benito Mussolini).
Il rifiuto di Turati determinò una relativa sterzata a destra della politica giolittiana, e la forza pubblica intervenne  con maggiore frequenza e durezza durante le manifestazioni operaie. Allora Psi e organizzazioni sindacali proclamarono lo sciopero generale (1904).  Ma il solo metodo ‘repressivo’ cui Giolitti ricorse quando, come in questo caso, giudicò che al normale svolgimento dello sciopero si fosse sostituita una vera e propria tendenza a sovvertire lo Stato liberale e borghese, fu di proporre alla corona di sciogliere la Camera dei deputati e convocare i comizi elettorali.   Le elezioni del 1904 diedero ragione ai moderati di Giolitti anche perché il nuovo pontefice (Pio X), preoccupato per la crescita socialista, aveva permesso ai cattolici di votare a favore dei candidati giolittiani in alcuni collegi elettorali.

Nel secondo ministero G. riuscì anche a varare il provvedimento di nazionalizzazione delle ferrovie (il cui stato pietoso non era funzionale allo sviluppo e all’espansione economica italiana) e ad avviare alcuni notevoli lavori pubblici (traforo del Sempione). La scrupolosa amministrazione giolittiana permise un nuovo raggiungimento del pareggio del bilancio. Lo Stato cominciava a godere di un credito internazionale piuttosto solido.

Con il terzo ministero (1906-9) diventava più insistito e frequente il ricorso a metodi clientelari nel Sud. Intanto, nel 1906 era nata la Confederazione generale del Lavoro, grande blocco sindacale operaio, mentre nel 1910 sarebbe nata la Confindustria.

Il quarto ministero Giolitti (1911-14) deve essere ricordato per

  1. la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita, strappate a società private che esercitavano –disse Giolitti- “l’usura sul risparmio della povera gente”. Gli utili del monopolio statale vennero devoluti  alla Cassa per la Vecchiaia e l’Invalidità dei lavoratori. Anche in Italia stava nascendo il sistema della ‘protezione sociale’ (la stessa cosa era già avvenuta in Inghilterra, Germania e Francia), un sistema il cui scopo politico era anche quello di frenare l’avanzata del socialismo anticipando e soddisfacendo (sia pur ancora in misura assai ridotta) i bisogni minimi della classe operaia.  Ricordo che la Cassa Nazionale sugli Infortuni del Lavoro era già stata istituita nel 1883, sotto Depretis.
  2. L’introduzione del suffragio universale maschile (1912). Nasceva dallo Stato liberale lo Stato democratico (ma era una democrazia tutta e solo maschile!). la precedente riforma elettorale, varata nel 1882 da Depretis, aveva portato gli elettori da mezzo milione a circa 2 milioni, dando diritto di voto ad ogni cittadino maggiorenne che avesse compiuto la seconda elementare: cosa che finiva per escludere le masse dei meno abbienti. La nuova proposta fatta approvare da Giolitti conservava il diritto di voto a coloro che avessero compiuto i 21 anni e sapessero leggere e scrivere; lo estendeva a tutti i cittadini che avessero prestato il servizio militare; lo estendeva comunque a tutti coloro che avessero compiuto i 30 anni.    Il numero di elettori passava d’un colpo a 9 milioni circa.

Le conseguenze del suffragio un. masch. si videro l’anno seguente, nelle elezioni politiche del 1913, e furono di duplice natura: la pattuglia dei rappresentanti socialisti alla Camera (dei deputati, l’unica eleggibile, stante lo Statuto Albertino) aumentò, raggiungendo la cinquantina di deputati; le forze cattoliche, in occasione delle elezioni, furono costrette ad allearsi ai liberali, entrando nella lotta politica per contrastare ai socialisti la via verso il potere politico. Tra i giolittiani e l’Unione Elettorale Cattolica era stato stretto, infatti, il PATTO GENTILONI (Gent. era il leader dell’Un. EL. Cat.) proprio in vista delle elezioni. Il patto stabiliva che i cattolici avrebbero votato quei canditati liberali che a loro volta si fossero impegnati ad opporsi a qualsiasi legislazione anti-clericale (istituzione del divorzio, abolizione insegnamento religione nelle scuole pubbliche etc.)    In questo modo i cattolici, che già nelle elezioni del 1904 avevano visto attenuato il NON EXPEDIT, fecero un ulteriore passo verso il normale inserimento nel ‘paese legale’. (Il non expedit sarà definitivamente abrogato nel 1919, con la nascita di un vero e proprio partito cattolico, il PARTITO POPOLARE, e con la presentazione di candidati cattolici nei collegi elettorali).
Il patto con i cattolici rafforzava le posizioni dei liberali giolittiani (che ancora una volta, nel 1913, vinsero le elezioni), permettendo la formazione di un più solido blocco conservatore grazie al controllo esercitato dai cattolici sulle masse contadine. Tuttavia il modello politico giolittiano andava già mostrando grosse crepe: nonostante l’introduzione del suffragio, la ‘parlamentarizzazione pacifica’, il dialogo e la mediazione con il PSI apparivano sempre più difficili.
Se da un lato il peso dei cattolici diventava troppo vincolante per il liberalismo di Giolitti, dall’altra il riformismo socialista presentava segni di forte crisi: già nel 1912, al Congresso di Reggio Emilia, la sinistra rivoluzionaria del PSI, guidata da Benito Mussolini, aveva conquistato la maggioranza nel partito, espellendo alcuni dei maggiori rappresentanti (Bissolati) della componente moderata, riformista e filo-giolittiana. Questo significava che il PSI era sempre meno disposto a dialogare e collaborare con le forze borghesi liberali rappresentate da Giolitti.
L’attacco da sinistra a Giolitti veniva anche dal SINDACALISMO RIVOLUZIONARIO che, a differenza della CGL riformista e moderata, e sulla scorta delle teorie di Sorel, riteneva di dover educare gli operai alla lotta politica (e non alla semplice lotta salariale e d economica): lo sciopero generale, secondo i sindacalisti rivoluzionari, avrebbe innescato la rivoluzione anti-borghese.

Nel 1914 si chiudeva il 4° governo Giolitti. Ben più drammatico sarebbe stato il 5° governo, sotto l’arrembante assalto del fascismo.

Breve rassegna di giudizi su Giolitti.

Il mondo liberale, da Nino Valeri a Benedetto Croce, ha continuato a dare giudizi positivi dell’età giolittiana. Per costoro, Giolitti è stato uno spirito autenticamente liberale, e si è battuto su due fronti: contro il reazionarismo ottuso delle destre più retrive e contro il massimalismo rivoluzionario delle sinistre radicali, sempre a tutela delle libertà parlamentari. Per Croce l’età giolittiana è stata davvero il ‘decennio d’oro’ dell’Italia prima della Grande Guerra e del fascismo.
Giolitti è stato criticato sia da destra sia da sinistra come il massimo esponente del mondo borghese.
Per Papini, Prezzolini etc. Giolitti rappresenta l’apparizione dell’Italia prosaica, ‘borghese’ nel senso di ‘meschina, vile, filistea, pantofolaia, priva di slanci eroici ed ideali’: il ‘borghesismo giolittiano’ contro cui la destra si scaglia è un atteggiamento psicologico fatto di calcolo, grettezza, propensione al compromesso (innanzitutto con il PSI). Con D’Annunzio, Papini, Marinetti etc. “giolittismo” diventa un termine dispregiativo. E’ questo l’antigiolittismo reazionario e nazionalista, antiparlamentare e antiliberale, nostalgico di uno Stato autoritario, propenso a tentare soluzioni di forza contro la marea avanzante delle sinistre. Un antigiolittismo proto-fascista.
Ma vi è stato anche un antigiolittismo di sinistra. Abbiamo già ricordato Salvemini; bisogna ricordare il rifiuto di Giolitti nelle correnti massimaliste del PSI, i vari Ferri e Serrati, che hanno visto in G. il rappresentante della borghesia (qui intesa non come forma mentis, non  come categoria psicologica, ma come classe sociale oppressiva da combattere e distruggere con la rivoluzione). L’anti-parlamentarismo, il rifiuto di sedere-e-discutere, caratterizza la sinistra e la destra radicale di quegli anni.

   Ma dopo la terribile esperienza del fascismo, la sinistra italiana (anche quella comunista) ha fatto autocritica: lo stesso Togliatti (leader del PCI) ha sottolineato nel secondo dopoguerra lo spirito autenticamente liberale di Giolitti, un uomo che più e meglio degli altri aveva compreso la necessità di mediare tra gli estremi politici per evitare, con una vigorosa politica riformista, che la società italiana avesse a spezzarsi in due. Molti uomini della sinistra, dopo gli orrori della s° g. mond.,  hanno riconosciuto nel loro stesso antigiolittismo una delle cause (o per lo meno una facilitazione) dell’avvento del fascismo al potere. E come ha ricordato lo storico inglese Denis Mack Smith, bisogna riconoscere che il fascismo è andato al potere più per demeriti dei suoi avversari (in lite tra di loro e incapaci di far fronte uniti alla minaccia costituita da Mussolini) che per forze e meriti propri. Come dire che l’antigiolittismo delle sinistre ha poi fatto il gioco del fascismo.

 

LA POLITICA ESTERA DI GIOLITTI.. LA GUERRA DI LIBIA.
Dopo l’aggressivo triplicismo anti-francese di Crispi, l’opera diplomatica di Rudinì (uomo politico di fine Ottocento, il cui governo fu responsabile, tra l’altro, dei ‘fatti di Milano del 1898) aveva restituito alla Triplice Alleanza il carattere di patto puramente difensivo che essa aveva avuto sin dalle origini.
L’Italia, attenta alle questioni del Mediterraneo, aveva ristabilito relazioni cordiali con la Francia, con l’Inghilterra e la Russia.  I governi del primo quindicennio del Novecento proseguirono nella medesima direzione, mirando a preparare una situazione nella quale fosse possibile per l’Italia l’occupazione di un tratto della costa settentrionale dell’Africa.
Nel 1902 l’Italia aveva stretto accordi con la Francia: le due nazioni si concedevano reciprocamente mano libera in Marocco (occupato nel 1911 dalla Francia) e in Tripolitania (oggetto degli interessi italiani).  Analoghi accordi l’Italia stipulava anche con l’Inghilterra, riconoscendole l’influenza sull’Egitto.
La stessa Russia si impegnò a riconoscere le aspirazioni italiane su Tripoli e la Cirenaica (= la Libia).
Sulla base di questi precedenti diplomatici, Giolitti nel 1911 ritenne giunto il momento di accampare diritti sulla Libia davanti al governo turco (l’autorità politica legittima che formalmente governava quelle terre nord-africane). Per la verità non esistevano grossi motivi di interesse economico che potessero spingere l’Italia sulle coste libiche, se non forse quello di costituire una colonia di popolamento (Gaeta, Villani).
La motivazione più convincente fu forse quella di dar sfogo alle pressioni dell’industria bellica italiana e di tacitare, nel contempo, le spinte nazionalistiche delle cerchie reazionarie, da sempre critiche nei confronti del moderatismo politico di Giolitti, in modo da accontentare le destre e preparare la possibilità di introdurre il suffragio universale maschile nell’anno successivo e accontentare così anche le esigenze dei gruppi socialisti riformisti. Come dire che la politica pendolare e bifronte di Giolitti tentava di mediare tra gli estremi politici, dando ‘un colpo alla botte e un colpo al cerchio’. Si potrà qui notare quanto la questioni di politica interna possano, per ragioni elettorali, influenzare la politica estera di uno Stato!
[ Ricordo che l’ideologia politica della destra nazionalista, bellicista, antidemocratica e antisocialista, era interessata a sostituire all’idea socialista della lotta di classe l’idea –meno pericolosa in termini sociopolitici- della lotta delle ‘nazioni povere’ come l’Italia, la “grande proletaria” cantata da Corradini ma anche da Pascoli, contro le grandi ‘nazioni ricche’ che congiuravano per togliere spazio alla vitalità espansiva dei giovani Stati. L’idea della ‘lotta nazionale’ implicava il richiamo alla unione delle classi di tutto un popolo per poter vincere contro le nazioni ‘plutocratiche’, ricche. Queste farneticazioni nazionaliste finivano per esaltare la guerra, “sola igiene del mondo”, ma svolgevano anche una funzione propagandistica anti-socialista all’interno del Paese]
Inoltre, come scrisse Giolitti  nelle sue MEMORIE, “se in Libia non fossimo andati noi, ci sarebbe andata qualche altra potenza…” e l’Italia non avrebbe tollerato la ripetizione di una nuova beffa quale quella della occupazione francese della Tunisia nel 1881.
La guerra di Libia assumeva agli occhi di molti italiani il carattere di riscatto degli insuccessi africani del 1896 (Adua), e poteva scaricare all’esterno l’aggressività sociale che era venuta accumulandosi.

  L’impresa non presentava gravi difficoltà militari, data la grande debolezza dell’impero turco in via di disfacimento.
La guerra di Libia fu esaltata dai circoli militari e dai nazionalisti dannunziani  [ Ricordo che l’ideologia politica della destra nazionalista, bellicista, antidemocratica e antisocialista, era interessata a sostituire all’idea socialista della lotta di classe l’idea –meno pericolosa in termini sociopolitici- della lotta delle ‘nazioni povere’ come l’Italia, la “grande proletaria” cantata da Corradini ma anche da Pascoli, contro le grandi ‘nazioni ricche’ che congiuravano per togliere spazio alla vitalità espansiva dei giovani Stati. L’idea della ‘lotta nazionale’ implicava il richiamo alla unione delle classi di tutto un popolo per poter vincere contro le nazioni ‘plutocratiche’, ricche. Queste farneticazioni nazionaliste finivano per esaltare la guerra, “sola igiene del mondo”, ma svolgevano anche una funzione propagandistica anti-socialista all’interno del Paese].
La guerra fu dichiarata nel 1911 e in breve l’Italia riuscì a vincere e dichiarare la sua sovranità assoluta sulla Libia, occupando anche le isole del Dodecaneso (attorno a Rodi). Con la pace del 1912, a Losanna, l’Italia vedeva riconosciuta la sua sovranità sulla Libia; essa avrebbe restituito il Dodecaneso solo dopo che la Turchia avesse ritirato tutte le sue truppe dalla Libia (per lo scoppio della prima guerra mondiale, tale clausola non entrò in vigore, e il Dodecaneso rimase all’Italia sino alla 2° g. mondiale).

 

Fonte: http://www.arcadiaclub.com/zips/appunti/Giolitti.doc

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