Psichiatria

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Psichiatria


La storia, la nascita e l’evolversi della professione infermieristica in ambito psichiatrico sono intimamente legate, com'è ovvio, alla storia della salute mentale ed al suo sviluppo e alle scoperte nel razionale scientifico della malattia stessa. Non a caso le prime testimonianze esistenti della figura dell’infermiere nell’ambiente psichiatrico vengono associate alla definizione di "guardiano dei matti" piuttosto che “custode del malato”, come persona, in quanto proveniente dai ceti più umili, generalmente analfabeta, ignorante e brutale, in grado di suscitare il timore dei medici stessi oltre che dei pazienti in loro custodia. Saranno gli stessi medici che si faranno carico di recuperare il controllo su tale figura tentando di delimitarne l'autonomia e di controllarne le manifestazioni violente.
Il mestiere di custode-infermiere era considerato "pericoloso per la vita" in quanto gli stessi infermieri erano costretti a restare sempre insieme ai pazienti con l'obbligo dell'internato e della divisa, oltre al veto di dormire al di fuori delle mura dell'istituto o quello di sposarsi. Essi avevano, di fatto, la libera facoltà decisionale di premiare e punire gli infermi, ordinando bagni caldi e freddi improvvisi e violenti, promuovendo la reclusione forzata ed incatenando i malati senza farne regolare rapporto, arrivando agli assurdi dell’abuso di potere. Questo è stato il modello prevalente in Europa sino alla fine del XIX secolo. Con l’avvento del XX secolo nacque l'esigenza di dare un'istruzione professionale ai custodi, “riformandoli” in infermieri “veri e propri”. Iniziavano a sorgere le prime regole riguardanti e delimitanti essenzialmente il ruolo della custodia, della cura e della sicurezza dei pazienti. Si cominciò, per esempio, col divieto di ogni attività che non avesse alcuna attinenza con l'assistenza diretta al malato. Tale “regime di disciplina” era garantito da una ronda interna anch'essa costituita da infermieri, altri ancora e diversi però per mansioni e ruolo da quelli adibiti all'assistenza diretta. Ciò nonostante è comprensibile come l'autonomia degli infermieri fosse ancora estremamente ridotta e le condizioni di vita durissime: perdurava, infatti, l'obbligo dell'internato all’interno di stanze non molto diverse da quelle dei pazienti stessi se non, in certi casi estremi, nelle medesime ed ancora, giungendo negli anni Trenta, rimaneva in auge il divieto di sposarsi.
La stessa autorità e lo stesso rigore di fondo nella riorganizzazione degli istituti costituiva la base pregnante del rapporto medico-infermiere, che risultava essere incentrato sul principio d'autorità del medico il quale ordinava all'infermiere che prontamente eseguiva senza indugi. Fino agli anni Settanta gli infermieri, in stretta e rigorosa collaborazione del medico, assicuravano l'esecuzione e l’esercizio dei trattamenti terapeutici dell'epoca quali: insulino e malarioterapia, elettroshock, o ancora bagni caldi in alternanza a bagni freddi. Di pari passo iniziavano a prendere forma e coscienza le innovative idee sulla psichiatria degli anni Sessanta che permisero l’inizio del cambiamento, seppur mai radicale, della figura dell'infermiere psichiatrico; nel periodo successivo vengono posti sotto critica spietata gli istituti manicomiali come luoghi di monopolio e detenzione, iniziano ad emergere le potenzialità dell'infermiere, che per la prima volta non viene più visto come “mezzo di repressione e custodia” bensì da figura carceraria diventa l’importante “tassello” di un’équipe assistenziale multidisciplinare con funzioni terapeutiche. Dal 1976 cessano le attività e le istituzioni dei corsi per infermiere psichiatrico a scapito della figura dell'infermiere unico e polivalente.
Siamo alla fine degli anni Settanta ed è il periodo della legge del 13 maggio 1978, n. 180 passata alla storia come la vera e grande riforma dei manicomi: ora è l'aspetto relazionale, la scienza e la ricerca a farla da padrone. La legge Basaglia come è largamente noto, "chiude" l'esperienza manicomiale e "apre" all'esperienza territoriale.
Vengono abrogati numerosi articoli di leggi quali: 14 febbraio 1904, n. 36 ("Disposizioni sui manicomi e sugli alienati"), del codice penale stesso di cui , in particolare, è opportuno sottolineare l’abrogazione dell'art. 715 c.p. che puniva l'inosservanza degli obblighi di custodia, di cui gli infermieri psichiatrici erano i principali destinatari in quanto a sanzioni.
Nascono i D.S.M., i reparti di diagnosi e cura e i day-hospytal istituiti all’interno degli ospedali generali oltre alla rete di assistenza territoriale che man mano va delineandosi oltre l’introduzione del principio della volontarietà dei trattamenti. Si decreta la nascita del trattamento sanitario obbligatorio (TSO) solo a particolari condizioni, con una procedura a garanzia del “pieno rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione".
Gli infermieri godono quindi di indipendenza ed autonomia professionale, decade il ruolo di custode e lascia spazio a tutte quelle competenze di natura relazione, assistenziale ed educativa giustificate da un percorso formativo del tutto diverso: laurea triennale ed eventuale master in ambito psichiatrico.
PARTE PRIMA
1. LA MALATTIA MENTALE
L'interesse per la malattia dell’uomo non fa solo parte della storia contemporanea, dal momento che il vasto campo medico trae origine sin dai tempi di Ippocrate e ancora precedentemente a livello di culture e civiltà appartenenti al nostro passato anche più remoto. Il concetto di malattia, in contrapposizione alla salute, sono pertanto antichi almeno quanto l’uomo stesso che, per cercare di controllarne i disagi, ha cercato nel corso dei secoli le più svariate soluzioni. Una sorte certamente diversa è toccata ad un aspetto particolare del disagio e del patire: il disturbo mentale. La sensibilità e la ricerca per un valido supporto e per la palliazione del malessere psichico da parte delle società e delle stesse primordiali comunità scientifiche, rispetto a questa specifica branca sia dell’aspetto medico che di quello assistenziale, hanno iniziato ad assumere un carattere scientifico concreto solo agli inizi della metà del ventesimo secolo.
A tutt’oggi non esiste, infatti, ancora una chiara e precisa definizione per quella che viene chiamata “malattia mentale”; solo il manuale del DSM-IV, sebbene citi inizialmente di non fornire una classificazione dei disturbi mentali, né alcuna definizione specifica rispetto i precisi confini di un concetto di “disturbo mentale”” , nel passo successivo fornisce questa sorta di definizione “[…] nel DSM ogni disturbo mentale è concepito come una sindrome o pattern comportamentali o psicologici clinicamente significativi che si verificano in una persona e che sono associati con attuale di stress (sintomo doloroso) o disabilità (riduzione delle capacità in una o più aree della funzionalità) o con un significativo aumento del rischio di morte, sofferenza, disabilità, o importante perdita di libertà […] qualsiasi sia la causa, la sindrome deve essere considerata come la manifestazione di una disfunzione comportamentale, psicologica o biologica della persona. Comportamento deviante, politico o religioso, sessuale o conflitti tra individuo e società non sono disturbi mentali a meno che la devianza o conflitto siano sintomo della disfunzione della persona, come sopra descritta.”
1.1. LA MALATTIA MENTALE NELL’ANTICHITA’
Le devianze mentali sono conosciute sin dall’antichità. Popoli che appartengono alle primordiali civiltà passate come gli antichi Egizi, considerati ad ogni modo all’avanguardia per molti aspetti in virtù dell’epoca, delle risorse e della cultura scientifica, reputavano che tutte le malattie, indipendentemente dai loro segni e sintomi , possedessero un’origine fisica. In particolare supponevano risiedesse nel cuore la sede dei sintomi che oggi hanno assunto la connotazione di psichici, non essendoci, di fatto, distinzione tra la malattia fisica e mentale.
Perfino in alcuni scritti dell’antica Grecia sono state reperite, su antichi documenti, parti di descrizioni di persone depresse o affette da disturbi d’ansia i cui sintomi elencati, in seguito ad attente comparazioni, sono risultati essere perfettamente paragonabili a quelli di un paziente di oggi; cambiavano sicuramente i metodi e la prassi curativa.
In quel tempo si credeva che i pazzi fossero persone con la mente sconvolta dal fato, dal destino, da un malocchio o dagli dei stessi. In quest’ottica di diagnosi i malati venivano “accompagnati” nell’iter curativo, che prendeva il nome di “Incubazione Onirica”, con l’aiuto di varie figure quali: medici, familiari stessi o addirittura con la supervisione di oracoli che, in quanto esperti di destino, svestendo le vesti di premonitori degli eventi futuri, si ergevano a liberatori di anime dannate .
Figura 1. Un bambino malato visita il tempio di Esculapio - John William Waterhause (1877).
In quei tempi, la concezione di salute era associata a quella di “crasi” (o equilibrio) tra gli umori. Si consideravano essenzialmente quattro qualità: caldo, secco, freddo, umido e altrettanti quattro umori tra i quali sangue, flegma, bile gialla, bile nera. Ad ognuno veniva associato un organo del nostro corpo identificato come il contenitore dello specifico umore secondo lo schema associativo che segue: sangue – fegato, flegma – polmoni, bile gialla – cistifellea, bile nera – milza. Alla base del sistema stesso vi era la dottrina tradizionale “dei quattro elementi” o “radici” del mondo: fuoco, aria, terra ed acqua, interconnessi con le entità cosmiche il Sole, il Cielo, la Terra e l’Acqua. L’infermo veniva quindi portato in un tempio dedicato ad Esculapio (dio della medicina), grotte dalle intere pareti ricoperte di immagini figuranti i più svariati miracoli e fatto quindi adagiare su di un apposito giaciglio (il Kline). L’intento, utilizzando purghe, bagni, e droghe a fronte di una forte suggestione era quello di purificare la persona affetta dalla malattia mentale per permetterle di ottenere la visione del dio, di sentire la voce, “il soffio del vento curativo” o ancora essere abbagliati da una forte luce: solo se accadeva tutto quanto descritto si poteva allora sperare in una prossima e pronta guarigione. Fu Ippocrate il primo a intuire che le affezioni della psiche e dell’epilessia (il morbo sacro) in particolare fossero malattie non molto differenti dalle altre, pertanto curabili a tutti gli effetti senza dover chiamare in causa il favore e l’aiuto degli dei dell’Olimpo. Lui stesso, a tal proposito, nel 400 a.C. circa, nella sua opera “Sulla Malattia Sacra” scriveva: “[…] gli uomini devono sapere che il piacere, la letizia, il riso, gli scherzi e così pure il dolore, la pena, l’afflizione ed il pianto, da nessuna parte ci vengono se non dal cervello. E sempre per opera sua diventiamo folli ed usciamo di senno ed abbiamo incubi e terrori e, talvolta di notte, talvolta anche durante il giorno, soffriamo di sogni e di smarrimenti ingiustificati e di preoccupazioni infondate e siamo incapaci di riconoscere le cose solite che ci appaiono e ci sentiamo sprovveduti […]”. Ippocrate per primo iniziò ad essere il promotore di una visione olistica dell’uomo e la sua “Teoria Umorale” è il simbolo del più antico tentativo, nel mondo occidentale, di utilizzare un approccio razionale per poter ipotizzare una spiegazione eziologica differente all’insorgere delle malattie, dei disagi psichici e fisici; di fatto, superando ogni teoria legata alla superstizione, alla magia piuttosto che alla religione stessa. Ippocrate e i suoi successori ritenevano, seppur ad oggi paia un ragionamento molto semplicistico, che anche le malattie mentali facessero parte di “squilibri umorali”. Bastava quindi, per esempio, che la bile del fegato fosse in eccesso per “invadere” il cervello ed indurre il soggetto a divenire maniacale; altresì che fosse la bile nera, quella della milza, ad eccedere ed inebriare la mente, per far cadere il soggetto in depressione ed ansia. In questo, come in altri scritti dell’antica Grecia, si trovano descrizioni di pazienti depressi o con disturbi d’ansia i cui sintomi sono perfettamente accostabili e riconducibili a quelli di un paziente d’oggi. Questo importante risultato ci fa pensare quindi che, in verità, non è mai stata la nostra natura a cambiare, per lo meno da quell’epoca ad oggi; piuttosto è l’uomo che, grazie alla continua volontà di scoprire, col passare degli anni e l’evolversi, si è dotato di mezzi, conoscenze, e basi che man mano che assumevano una connotazione meno basata sull’empirismo e sempre più scientifica ci permettevano di conoscere molto meglio l’affascinante mondo della medicina e in particolare della psiche.
Frutto dello stesso processo culturale ed evolutivo è stato indubbiamente anche il brusco, drastico e radicale cambiamento del modo con cui la scienza, ed in questo caso la medicina, si è rapportata con le persone malate, con la società stessa, come ha saputo accogliere e farsi accettare, ed anche correre ai ripari, senza negare mai il proprio passato in nessuno dei suoi aspetti, nei momenti in cui ha scoperto di sbagliare da anni.
Figura 2. Schema di rappresentazione dei quattro temperamenti secondo Galeno (ca.168 d.C.).
Le teorie curative, palliative ed assistenziali oltre che l’interesse per le varie sfaccettature della malattia mentale, perdurarono ed arrivarono sino ai tempi di Roma imperiale, in cui il sunto della pratica medica era poi riassumibile in queste poche righe: in caso di “squilibrio umorale” per ristabilirlo occorre eliminare la parte in eccesso. Per farlo bisognava affidarsi a pratiche, quanto mai improvvisate o solitamente basate sull’empirismo, quali: bagni caldi o freddi, salassi, purghe e spesso somministrazione delle prime droghe o infusi di erbe. Alcuni scritti risalenti a quell’epoca raccontano di come Galeno curasse la depressione dell’imperatore con una miscela di liquerizia, miele, oppio e vino. Per quanto concerne le “somatizzazioni” (sintomi somatici senza danni fisici), esse prendevano il nome di isterie, dal termine greco Hustéra indicante l’utero: in quanto si spiegavano asserendo che, con il movimento interno, l’organo entrasse in contatto con il cuore, il fegato, la milza, la testa e gli arti stessi che influenzandosi dolevano. L’isteria fu interpretata per la prima volta come il frutto dell’insoddisfazione sessuale ed erotica , il che coinciderà con la ben più recente interpretazione della stessa scuola psicoanalitica di Freud. La storia della medicina nell’antica Roma narra, però, di come una nuova visione religiosa dell’uomo e la demonologia abbiano via via distolto l’attenzione volta verso la salute mentale, riducendone così l’interesse specifico e la ricerca scientifica nella direzione intrapresa da Ippocrate. Sebbene in quel periodo storico Roma abbia avuto l’onore di ospitare personaggi illustri, tra cui ricordiamo Celso (14 a.C. – 37 d.C.), Galeno (129 d.C. – 216 d.C.) o Aureliano (V secolo d.C.) che fu il primo sostenitore della musico- ed idro-terapia consigliando al tempo stesso di tenere liberi malati di mente ed assisterli contro le misure coercitive della sua epoca, il legame tra psicosi e fattori esterni era quanto mai divenuta casuale ed irrimediabilmente il frutto di interpretazioni irrazionali e riduzionistiche, che andranno a protrarsi sino al Medioevo. Storicamente si è soliti indicare come chiusura del periodo “aureo” della medicina romana la scomparsa di Galeno, dopo la quale il dogma degli antichi concetti si perpetuò per oltre tre secoli. Degno di una particolare attenzione, per un’accezione completamente diversa che avevano della cura delle malattie mentali sono gli Etruschi, di cui ancora oggi si sa poco come popolo e come origini. Sicuro è che fra le usanze appurate vi fosse quella della trapanazione del cranio come dimostrano reperti scheletrici e storici a documentazione di tale pratica di cui non è ancora stata data una spiegazione esaustiva.
“[…] Restano solo alcune ipotesi per tentare di fornire qualche spiegazione, come quella secondo cui la trapanazione del cranio sarebbe stata l’ultima risorsa dei medici di fronte a gravi casi di pazzia, di isterismo, di stati epilettici o simili, di tumore cerebrale, di nevralgia del trigemino, e addirittura di cefalea ribelle. Attraverso quel piccolo foro aperto nel cranio nessun demone avrebbe resistito alla tentazione di imboccare la via d’uscita e di abbandonare per sempre il malato, non essendo di certo gli Etruschi a conoscenza della patogenesi o del determinismo delle varie affezioni morbose. Per la trapanazione del cranio gli Etruschi non si servivano solo di thumi (un coltello a forma di piccola ascia bipenne) ma anche di ossa animali ben appuntite a forma di punteruoli. La maggior parte di queste trapanazioni sono avvenute sul cadavere per opera dell’antico chirurgo stregone, allo scopo superstizioso di fare uscire gli spiriti bellicosi dal cranio del nemico ucciso; ma molte altre sono state eseguite su individui deceduti durante l’intervento o subito dopo per le logiche e prevedibili complicanze sopravvenute.”
Figura 3. Trapanazione del cranio. Incisione in legno di Wechtelin.
Stampata nel Feltbuch der Wunderartznei di H. von Gersdorff
Durante tale periodo, l’opinione comune a cui si rifacevano i dottori e la collettività era proprio il frutto di interpretazioni sempre più sconnesse da quello che poteva essere il canale scientifico per l’interpretazione della malattia mentale. Si assisteva, di fatto, al sopravvento della religione sulla medicina; si passò dal credere che “i matti” avessero enormi massi in testa che impedivano loro il normale funzionamento della ragione, sino ad interpretare a lungo i disturbi mentali (e non solo) come una punizione divina. I pazzi erano calcolati come persone abbandonate da Dio o possedute dal demonio. Addirittura, ancora sull’ondata di pensiero degli “Umori Corporali”, si credeva vi fossero demoni e spiriti maligni che potessero insinuarsi all’interno del corpo dei malati e causare squilibri interni. Si istituì l’esorcismo, uno dei volti più oscuri della repressione sociale della nostra storia, architettato in leggi, istituzioni e regole in grado di prendere il sopravvento in breve tempo su ogni aspetto decisionale e curativo, su materiali e metodi di espiazione della “vergogna” della pazzia, con largo consenso e partecipazione sociale.
In questo oscuro periodo furono così gli esorcisti, i monaci ed i sacerdoti oltre che alla Chiesa in sé, coinvolta a tutto tondo, a prendere il posto dei medici curando con preghiere alternate ad acqua ed olio santo, fino ad arrivare a maltrattamenti, percosse, roghi e vere e proprie inquisizioni. Non di rado, soprattutto le donne inferme, venivano accusate perfino di stregoneria e condotte per assurdo al rogo, reputato un giusto mezzo per verificarne la veridicità o per l’espiazione della componente demoniaca dai loro corpi. Il medioevo seguì questo filone dell’interpretazione della salute mentale fino a tutto il quindicesimo secolo compreso; fatta eccezione per la Scuola medica salernitana, antenata delle moderne università, ritenuta la prima e quindi più antica e rinomata di tutto il mondo. Si narra che tale scuola riunisse, all’interno di quello che era poi il suo precetto fondamentale, il meglio di tutte le grandi correnti mediche di quei tempi: l’armonia psichica, fisica e la vicinanza al paziente. Negli stessi anni, sorgevano i primi istituiti di ricovero di cui si hanno notizie, dove i pazienti venivano tenuti sotto regime autarchico spesso legati o incatenati ad un letto di paglia privo di lenzuola; non compariva ancora assistenza al malato in quanto la finalità non era tanto la cura delle persone che vi venivano rinchiuse senza distinzione di sesso, età o patologia, quanto l’esclusiva sorveglianza o repressione degli stessi in atteggiamenti non conformi alla società di allora.
Figura 4. Scuola medica Salernitana rappresentata in una miniatura dell’epoca.
Per secoli i malati mentali furono additati come peccatori o posseduti, trattati alla stregua di prostitute e delinquenti; rinchiusi in spazi in cui l’unica attenzione di carattere sanitaria riguardava gli ambienti, che fossero ben illuminati ed ampi, volti a contenere, edificati con l’idea comune che in questo modo si sarebbero disperse malattie ed eventuali contagi in spazi areati. Il malato, per il periodo di grande crisi e carestia, come era il tardo medioevo, costituiva quindi sì una grossa falla sociale ma allo stesso tempo un ottimo capro espiatorio nel diffuso clima di incertezze in cui versava l’intera società.
Arriva poi il 1500 ed il 1600 d.C. epoca caratterizzata ancora dall’emarginazione sociale forzata dei soggetti ritenuti pazzi; erano infatti molte le città tedesche dove venivano allontanati imbarcandoli verso destini non meglio conosciuti per dar la possibilità alle persone “normali” di vivere serene. Lo stesso Torquato Tasso nel 1579, affetto da deliri persecutori, fu rinchiuso nell’Ospedale Sant’Anna da Alfonso II, nella cella che prese poi il suo nome per sette lunghi anni, prima di ritrovare la libertà con l’aggravante di avere tendenze punitive. Si noti come il processo di istituzione di luoghi adibiti alla reclusione degli insani non colse impreparati nemmeno i Francesi che nel 1676 d.C. sotto la guida di Luigi XIII diedero vita agli Hospitaux generaux (letteralmente gli ospedali generali) per il “ricovero” degli infermi mentali che ormai riassumevano le più svariate categorie di povere persone di ceti in condizioni socio-economiche molto gravi, o in senso lato chiunque avesse potuto turbare l’ordine pubblico e sociale in mano ai borghesi. Il decreto stipulò pertanto l’incipit per la “grande reclusione degli squilibrati”. La persona disagiata era vista come turbamento alla quiete pubblica, un problema da risolvere a tutti i costi: in questo caso con la reclusione carceraria.
“ Lo svilupparsi di istituti destinati alla carcerazione ha comportato la creazione di figure addette alla custodia dei carcerati, figure che possiamo riconoscere come i precursori dell’infermiere di salute mentale. Queste persone, avendo un compito di carattere essenzialmente custodialistico e repressivo, erano scelte in base alle loro caratteristiche fisiche che dovevano esprimere forza per garantire una migliore repressione.
Con l’Illuminismo e il riconoscimento dei diritti universali dell’uomo, avvenuto grazie alla rivoluzione francese, si svilupparono i concetti di cura e umanità. Dominava il pensiero meccanicista e la malattia mentale veniva riconosciuta come un problema biologico che tuttavia si doveva isolare e mantenere sotto controllo. Gli istituti carcerari lentamente si trasformarono e nacquero i primi manicomi: istituti specializzati nella custodia dei “matti”.
E’ opportuno ricordare in particolare due figure di quel periodo: lo psichiatra francese Pinel, e l’infermiere Jean Baptiste Pussin. Il primo ebbe l’intuizione di cerare un ambiente umano attorno al pazzo, togliendo le catene che fino ad allora ne avevano caratterizzato l’approccio, e fondando il suo modello di cura sulla relazione interpersonale. Nello stesso periodo, Pussin, che era stato lui stesso un paziente, adottò e sviluppò i principi introdotti da Pinel. Fu l’artefice del trattamento morale e del regime umanitario nell’assistenza agli internati. Con Pussin, che in un certo senso per il contesto psichiatrico potrebbe essere paragonato a Florence Nightingale, la figura dell’infermiere nel manicomio assunse sempre maggiore rilevanza.” Sempre Pinel proprio agli inizi del 1800 d.C. riuscì ad inaugurare il primo manicomio, liberando i malati incatenati all’ospedale di Parigi. Egli sosteneva l’esigenza di raffrontarsi col malato di mente, dell’imprescindibile bisogno di instaurare un rapporto duraturo e veritiero nel tempo col paziente, basato su fiducia e rispetto reciproco che, sommato alla decisione di non utilizzare i metodi di contenzione ed i trattamenti disumani di cui era prassi comune farne abuso, diede la sensazione di essere per la prima volta nella storia di fronte ad una vera rivoluzione nella cura e nell’assistenza all’infermo.
Figura 5. Pinel libera dalle catene i mlati di mente – Tony Robert Fleury (1876)
Cominciò così ad essere pensiero comune che la malattia mentale fosse realmente curabile o per lo meno in parte, isolando il malato ma per sottoporlo ad un percorso “riabilitativo”. Pinel, grazie alla sua teoria, riuscì a descrivere nei minimi particolari numerose patologie psichiche, fornendo un’interpretazione diversa e distaccata da quella di molti suoi colleghi di quel periodo, anticipando i fattori eziologici che ritroveremo alla base della psichiatria moderna: i traumi, l’ereditarietà della psicosi, lo stress e lo stato sociale. Per correttezza storica è giusto ricordare una delle eccellenze di quell’epoca in Italia, che ben cinque anni prima anticipava il pensiero dei francesi Pinel e Pussin e rispondeva al nome di Vincenzio Giuseppe Affortunato Chiarugi (1759-1820) di professione medico. Per narrare della sua vita e del suo contributo alla psichiatria è giusto affidarsi alle parole del suo conterraneo Paolo Pianigiani che, in uno dei suoi articoli, scriveva in ricordo di Chiarugi: “[…] Fu studente precoce, a vent’anni era già laureato medico alla facoltà di Pisa e dopo un anno di perfezionamento a Firenze, ebbe patente ufficiale di “medico fisico in Firenze e città, e terra e castella e luogo di Sua Altezza Reale”. Questa Altezza Reale era il Granduca Pietro Leopoldo di Lorena, che subito individuò nel giovanissimo medico il più adatto a concretizzare nei fatti la sua visione e il suo progetto per i malati di mente, e non solo quelli, della Toscana. Dopo due anni di esperienza, Vincenzio ebbe l’incarico di “medico astante”, cioè a dire, incaricato, con stipendio, presso l’ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova. Da qui Chiarugi fu dislocato al Santa Dorotea, una sorta di ricovero, dove erano venuti a riunirsi i due precedenti ospizi per i matti, la cosiddetta “Pazzeria” (interna al Santa Maria Nuova) e “la Casa de’ Pazzerelli”, già presente al S. Dorotea. Ancora prima i matti erano tenuti rinchiusi al carcere della Stinche, se nullatenenti, oppure in ambiente meno ostile, in appositi locali alla Fortezza da Basso, se benestanti e in grado di pagare una retta. A questo punto la carriera di Vincenzio è fulminante, viene incaricato dal Granduca di organizzare il nuovo Ospedale di Bonifazio, che aveva sede dove attualmente c’è la Questura.
Qui il nostro medico ha modo di progettare locali adatti, spazi aperti, dove i matti potevano essere curati e non solo, come in precedenza, tenuti prigionieri spesso in catene.
Figura 6. Frontespizio del Trattato “Della pazzia in genere e in specie”. V. Chiarugi (1793)
Oltre ai dementi, il Bonifazio ospitava anche i malati di malattie cutanee.
Chiarugi vi è nominato “primo infermiere” e “medico curante”, in pratica era il responsabile della cura dei dementi e della gestione dell’intera struttura. Nel 1789, l’anno della Rivoluzione francese, il Granduca, evidentemente soddisfatto del lavoro svolto, lo incarica di stendere il “Regolamento dello Spedale di Santa Maria Nuova e di Bonifazio”, che ancora oggi è ricordato come esempio di sapienza medica e organizzazione ospedaliera. Lo spirito nuovo, che ispirava queste nuove regole, era il rispetto che si doveva dare ai malati di mente, in precedenza trattati come “indemoniati” o roba simile. La cura precedente altro non era che la prigione e le percosse, la mortalità dei ricoverati evidentemente altissima. Con Chiarugi si apre un nuovo capitolo nella cura dei matti, considerati come veri e propri malati e trattati con rispetto, c’è la proibizione assoluta di tenerli incatenati; si pensi che nella “civilissima” Inghilterra, la domenica si portavano in visita e a pagamento i bambini nei manicomi, per farli divertire. Nel 1793 Chiarugi dà alle stampe il suo trattato sulla pazzia dal titolo “Della pazzia in genere e in specie” considerato ancora oggi il punto di partenza dei moderni studi in quella materia.[…]” Nonostante la diatriba tra Francia e Italia per contendersi chi, tra Pinel e Chiarugi, sia stato il reale precursore delle prime leggi per l’abolizione delle contenzioni, ciò che veramente importa sottolineare di quel periodo è la novità del pensiero che pian piano si stava instillando tra le società e le culture europee di quel secolo: i malati venivano finalmente riconosciuti come persone affette da disturbi disomogenei e pertanto divisi e sottoposti a cure diversificate, seppur ancora molto lontane da quelle odierne. Ci vollero anni prima di raggiungere risultati soddisfacenti, anni per un cambiamento concreto che, fatta eccezione di poche realtà “illuminate”, non paresse solo un allontanamento dei pazzi dalle carceri per “riconfinarli” nei manicomi.
PERIODO STORICO APPROCCIO ASSISTENZIALE
Civiltà Antiche Magico-religioso
Civiltà greco-romana Naturalistico
Medioevo Capro espiatorio
Rivoluzione Industriale Rifiuto della società
Illuminismo Rifiuto umanizzato
Organicistico
Fine Ottocento inizio Novecento Approccio scientifico Psicologico
Sociale
Figura 7. Cultura dominante del periodo storico e approccio assistenziale alla persona con disturbo psichico.
“Nel XIX secolo, tuttavia, da un lato la soppressione dei diritti dell’uomo, conseguente alla Restaurazione, dall’altro l’affermazione della scienza del razionalismo e dell’empirismo portarono alla conclusione di questa esperienza. Lo psichiatra Esquirol, autore nel 1837 del libro Delle case dei pazzi, fece riappropriare il medico dello spazio conquistato dagli infermieri e rinforzò il carattere custodialistico dell’assistenza al “pazzo”. Gli interventi “terapeutici”di questo periodo erano essenzialmente violenti ed assumevano una forte connotazione punitivo - repressiva.
Nel manicomio descritto da Esquirol l’infermiere era del tutto subalterno al medico e aveva un ruolo analogo a quello di un domestico. Agli infermieri erano affidati in compiti di custodia, di cura e di sicurezza, mentre erano loro vietate le attività diverse dall’assistenza diretta. I guardiani dei matti non potevano disporre liberamente della propria vita, ed avevano l’obbligo di vivere all’interno del manicomio e il divieto di sposarsi. In caso di matrimonio infatti, l’infermiere perdeva il lavoro. Tuttavia all’interno del manicomio, l’infermiere-guardiano godeva di ampia discrezionalità nei confronti degli internati, sui quali si rivaleva attraverso premi e punizioni.
Solo verso la fine dell’Ottocento si cominciò ad avvertire la necessità di dare qualche rudimentale formazione al personale di assistenza nei manicomi. Venne pubblicato il primo manuale per gli infermieri psichiatrici, il Manuale di istruzioni per i custodi dei matti.
In questo periodo si cominciò anche a sentire l’esigenza di regolare i manicomi. Tra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, in tutta Europa vennero emanate le prime leggi che regolavano la cura degli alienati. In generale esse prevedevano per gli internati un trattamento morale e una gestione umana dei manicomi. In Italia per avere una legge analoga si dovrà attendere sino al 1904.”
L’Ottocento rimane pertanto caratterizzato per la ricerca di un “manicomio di cura”, che sopperisca all’indifferenziazione degli asili precedenti, dove era l’istituzione stessa a farla da padrone. In progressiva e simultanea sinergia rispetto all’osservazione scientifica del paziente, iniziava a prendere largo la strutturazione di un’organizzazione con fini pedagogici annessa con diversi scopi tra cui: inserimento nel mondo del lavoro (produzioni agricole piuttosto che fabbriche o piccoli laboratori), in contesti scolastici, biblioteche, chiese, aree per il coinvolgimento ludico, ecc. Sorgevano vere e proprie “città dei pazzi” desinate ad accogliere una popolazione malata, dal principio sino a fine vita.
1744 (Inghilterra) Vagrancy Act (regolamenta i manicomi privati)
1774 (Inghilterra) Act of Regulating Private Madhouse
1808 (Inghilterra) Country Asylum Act ( manicomi pubblici)
1837 (Francia) Regolamento dei manicomi francesi
1904 (Italia) R.D. sui manicomi e sugli alienati
1909 (Italia) Regolamento del R.D. del 1904
Regolamenta anche la figura dell’infermiere psichiatrico
Figura 8. Le prime leggi sulla cura degli alienati in Europa.
1.2. LA MALATTIA MENTALE NEL XX SECOLO
Contestualmente alle idee illuministiche, da metà Ottocento, iniziarono a fiorire nuove teorie su base scientifica dai nascenti pensieri sociologici e psicologici attraverso i quali si cercava di superare la vecchia concezione meccanicistica della psichiatria “illuminata” proponendosi per il recupero dell’individuo come essere biologico e spirituale, sino all’affermarsi con l’avvento del XX secolo di un vero e proprio modello bio-psico-sociale.
“ La seconda metà dell’Ottocento si caratterizzò per gli importanti progressi nella medicina. In particolare, la scoperta del treponema pallido rinforzò l’idea organicistica del disturbo mentale associato a un’origine essenzialmente biologica. Questa impostazione resistette e si rafforzò fino alla prima metà del XX secolo. Nello stesso periodo furono introdotti alcuni trattamenti terapeutici quali ad esempio la malarioterapia, l’elettroshock, l’insulinoterapia, che attraverso cicli di “shock” si proponevano di migliorare il quadro sintomatologico. Ma spesso questi interventi assumevano una valenza punitiva e repressiva.
Solo nel secondo dopoguerra, con la scoperta dei farmaci psicotropi, si ebbe un notevole progresso nel trattamento dei disturbi psichici, potendo intervenire molto più efficacemente sulla sintomatologia. Ma l’autentica rivoluzione nell’approccio al disagio mentale si ebbe in conseguenza dei fenomeni culturali che hanno caratterizzato gli anni Settanta: il femminismo e la diffusione del pensiero socialista. Concetti come uguaglianza e solidarietà ripresero vigore e la persona tornò al centro dell’attenzione. Queste filosofie ebbero un’enorme influenza nell’approccio alla persona disturbata, che recuperò la dignità di persona, sebbene debole ed in difficoltà, ma che come tale doveva essere riabilitata, accolta e reinserita nella società. I manicomi aprirono le porte e si crearono nuovi Servizi sul territorio. Si svilupparono anche nuovi modelli operativi e il ruolo degli infermieri assunse nuova rilevanza all’interno delle equipe di cura.
Oggi, chi ha un disagio psichico è visto come un individuo che si relaziona con il mondo esterno adottando modelli comportamentali non condivisi dalla società nella quale è inserito e che provocano una perdita di autonomia nella capacità di autocura. Per questo l’intervento assistenziale è teso ad aiutare la persona a reintegrarsi nella società, trovando il possibile compromesso nell’adozione di nuovi modelli comportamentali che le permettano allo stesso tempo di rimanere se stessa, di interagire positivamente con la società e di recuperare le capacità di autocura.” Dovendo quindi delineare i punti chiave di quest’ultimo periodo storico di avvicinamento alla psichiatria moderna si possono certamente annoverare tra i tanti: il superamento del concetto di cronicità, l’accettazione e la comprensibilità del delirio, la cura ed il rimedio terapeutico al posto della custodia, lo spostamento dell’attenzione terapeutica dall’allontanamento del paziente alla cura del disagio, della sofferenza e dell’esistenza stessa del paziente; il tutto basato sul ripensamento generale del ruolo della psichiatria e delle sue figure di riferimento, che lentamente hanno iniziato a spostare l’asse di interesse dalla malattia alla persona, dalla cura con l’internamento a quella domiciliare sul territorio, a scambiare l’esclusione con il reinserimento sociale.
PARTE SECONDA
2. LA NORMATIVA E L’ORGANIZZAZIONE DEI SERVIZI DI SALUTE MENTALE IN ITALIA
Affrontata nella prima parte la storia dello sviluppo della psichiatria principalmente in ambito europeo, diviso per macroperiodi, avendo introdotto il lento ma progressivo nascere della professione infermieristica in campo psichiatrico, che man mano, in un “gioco” di ruoli prima acquisiti e poi sottratti e nuovamente riconquistati, in questa seconda parte si affronteranno le tappe storiche, le leggi, e quanto ha permesso di arrivare ai giorni d’oggi l’infermiere ad essere una figura facente parte dell’equipe multidisciplinare di presa in carico e cura del paziente affetto da malattie mentali. Si focalizzerà pertanto l’attenzione alla nostra realtà, quella della cura, dell’assistenza e del supporto in ambito di sanità mentale, cercando di carpirne i passaggi salienti della storia della evoluzione professionale. Per capire i “materiali”, ma soprattutto i metodi ed in seconda istanza i risultati ottenuti, bisogna suddividere il secolo intercorso tra il 1880 ed il 1980 in almeno tre periodi salienti, concludendo poi con l’ultima fase: quella di perfezionamento e messa in opera di quanto detto e legiferato a livello nazionale. L’ultimo trentennio potrebbe sembrare un periodo di stasi pur, di fatto, essendo stato molto produttivo soprattutto per l’affinamento, in particolare a livello regionale e non solo, di quelli che sono stati i grandi decreti riformisti di fine anni ’80.
2.1 I PERIODI STORICI DELL’EVOLUZIONE DELLA PSICHIATRIA
Come anticipato nell’introduzione alla seconda parte, la prima tappa dell’evoluzione della psichiatria e delle figure professionali ad essa connesse inizia nel 1880 circa e mantiene nonostante tutto, contando certamente molte evoluzioni al proprio interno, alcune caratteristiche peculiari di spicco. Il periodo è sicuramente, come anticipato nella prima parte della tesi, quello che descrive il sorgere delle strutture manicomiali per l’isolamento e la cura del malato mentale, pertanto si assiste al boom delle costruzioni di istituti manicomiali.
Tale tendenza era certamente sostenuta dall’enfasi, una vera e propria convinzione, che bisognasse cercare di isolare i casi di pazzia dal resto della società a garanzia e protezione del rigore e dell’ordine pubblico. Si assiste pertanto all’incremento spropositato di posti letto dedicati al ricovero dei pazienti manicomiali ed il ruolo della famiglia viene indebolito di fronte alla legge che giudica, perizia e decide autonomamente dell’esistenza e della degenza degli infermi. Aumentano spropositatamente anche gli investimenti pubblici nelle istituzioni psichiatriche, a sostegno di una convinta e fervida lotta al rigore sociale, all’emarginazione della patologia psichica, sostenuta dallo stesso popolo.
Figura 9. Reparto vuoto del’ex istituto manicomiale di Rovigo (1930-1997)
Manca un’ottica individuale, manca la visione di insieme dell’uomo e della malattia; l’asse decisionale è inquadrato verso la repressione della malattia, la stessa che spaventa e deve essere, in qualche modo, arginata e curata. Viene meno l’individuo, si percepisce chiaramente la mancanza di un processo decisionale, curativo ed assistenziale volto a dare il senso di una fase di insorgenza, poi di presa in carico e cura ed infine di dimissione e sostegno del malato.
Le uniche figure professionali di cui facevano vanto gli istituti erano i medici ed i primi infermieri.
L’unico trattamento previsto, in una fase di affinamento di tecniche, metodi diagnostici, palliativi e risolutivi della malattia mentale, era il contenimento fisico e la “reclusione” del soggetto alienato.
Bisogna attendere sino alla fine della seconda guerra mondiale, precisamente intorno al 1950, per percepire il sentore di cambiamento, di presa di posizione da parte di istituzioni pubbliche e società stessa riguardo alla situazione in cui versavano i manicomi.
Le strutture tracimavano di reclusi, si faceva fatica per molti pazienti ad individuarne una vera e propria causa ezio-patologica a sostegno del loro internamento. Si iniziava a comprendere sempre meno il maltrattamento, l’abuso ed i metodi a dir poco spartani, empirici e molto lontani da una parvenza terapeutica. È la prima volta che spinti da una corrente di pensiero riformista di quegli anni, non solo i medici e gli infermieri ma anche i cittadini e la stessa società si interrogano sempre più sull’esistenza di una “questione morale” alla base della clinica e della cura psichiatrica. Questa seconda tappa, segnando il declino del manicomio e dell’istituzione, culmina con i migliori propositi per il restauro dell’intera sfera terapeutica e strutturale alla base della gestione dei malati mentali. E’ con la spinta rivoluzionaria, figlia degli anni ’60 e ’70, che nasce il rifiuto alla violenza come ogni essere umano e di conseguenza la negazione degli istituti manicomiali come luoghi di diagnosi e cura.
Diminuiscono i posti letto dedicati ai ricoveri, spesso ancora coatti, anche in virtù di una diminuzione degli investimenti pubblici in infrastrutture manicomiali, la spesa pubblica in questo senso quasi raggiunge la soglia zero.
Al contempo cresce invece il ruolo della famiglia nell’assistenza e nella cura del malato; famiglia da cui viene rivendicato, anche se non ancora del tutto riconosciuto, un vero e proprio ruolo terapeutico e di supporto alla malattia del caro affetto da problemi psichici. Nascono e si inseriscono all’interno dell’equipe multidisciplinare, a sostegno della cura alla malattia mentale, nuove figure professionali che col tempo acquisiscono ambiti decisionali e terapeutici ben precisi e riconosciuti da tutti, aiutati anche da leggi “ad hoc”. Sono gli albori di professionisti della salute quali: psicologi clinici, terapisti della riabilitazione e assistenti sociali.
Anche gli infermieri acquisiscono sempre più autonomia, o quanto meno un ruolo molto più mirato all’assistenza ed al sostegno del paziente con disturbi psichici piuttosto che al suo contenimento fisico coercitivo.
Rispetto al periodo precedente sono lampanti le innovazioni anche dal profilo terapeutico, con l’avvento dei primi psicofarmaci, si intravedono le prime dimissioni, nasce un senso di responsabilità verso la presa in carico del paziente.
Lo stesso che, se prima non avrebbe mai immaginato di lasciare un manicomio, ora può sperare in un percorso riabilitativo, in una via d’uscita alla propria malattia, alla riconquista, nel caso in cui l’avesse perso, di un senso alla vita stessa.
Mancano allo stesso tempo o sono comunque in fase di perfezionamento, gli aspetti di una personalizzazione terapeutico – riabilitativa, di controllo farmacologico e riabilitativo che serviranno nell’epoca successiva a completare il quadro temporo-sequenziale di input, processo ed esito come indicatori di efficienza e qualità sanitaria.
Dal 1980 circa ad oggi assistiamo, di fatto, alla riorganizzazione dei servizi di salute mentale. I manicomi, volti ormai a scomparire del tutto, vengono sostituiti con strutture ridotte ed ideate per svolgere la funzione di diagnosi, cura, sostegno e riabilitazione dei pazienti a trecentosessanta gradi sotto ogni aspetto. Si raggiunge pertanto il grado di pertinenza assistenziale individuale, spostando definitivamente l’asse delle funzioni terapeutiche non più sulla malattia ma sull’individuo in quanto essere bio-psico-sociale.
Si assiste, in una sorta di vera e propria reazione a catena, ad una drastica diminuzione dei posti letto oltre che al riconoscimento totale di un ruolo sociale, educativo, terapeutico ed assistenziale della famiglia.
Gli investimenti pubblici diminuiscono e volgono maggiore attenzione al contenimento della spesa pubblica, al rapporto costo/efficienza, lasciando ampio spazio agli invece numerosi investitori privati.
Si istituiscono vere e proprie equipe multidisciplinari che lavorano negli stessi ambienti, agli stessi livelli assistenziali sia in sede ospedaliera che territoriale; il paziente, in questo modo, è seguito in tutto e per tutto ciò che concerne la sua fase di instabilità psichica.
Si stabilizza, in questa maniera, l’equilibrio fra controllo ed indipendenza del paziente preso in carico; si assiste all’attenuazione delle mansioni di repressione e custodia del’assistito sino alla loro scomparsa nel passaggio alle nuove teorie e pratiche terapeutico – riabilitative.
2.2. LA PSICHIATRIA PRE-BASAGLIA
In Italia, agli inizi del ‘900, si iniziò ad intuire la necessità di regolamentare e “blindare” le condizioni operative ed organizzative, nonché i canoni a cui gli istituti psichiatrici dovessero rispondere per essere accreditati come tali. Nacquero pertanto le prime leggi sia riguardo la struttura e la gestione dei manicomi, sia per quanto concerne l’accesso a ricoprire alcune cariche e ruoli, con particolare attenzione proprio nei confronti degli infermieri in psichiatria.
Insorse l’esigenza di emanare una legge specifica che, una volta pubblicata, potesse regolamentare definitivamente le sedi di ricovero per i malati di mente.
Preposte tali necessità, venne promulgato il Regio Decreto n. 615 del 16 agosto 1909 (che comprendeva il “regolamento” per la messa in atto della Legge n. 36 del 14/02/1904 “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Cura e custodia degli alienati” ). In queste due leggi in particolare è facile notare come si rispecchiasse la società ed il pensiero appartenente all’epoca restauratrice francese, secondo la quale la persona alienata doveva essere allontanata dalla società e sottoposta a “cure”. Oltre a ribadire il concetto di internamento, ed i regimi carcerari, le stesse strutture preposte a soddisfare la necessità di isolamento dei pazienti mentalmente instabili furono poste sotto stretto e rigoroso controllo non del Ministero della Salute bensì di quello degli Interni e dei Prefetti. Il ricovero poteva pertanto essere disposto dalle autorità facenti parte della pubblica sicurezza, facendo fede anche semplici certificati medici attestanti l’indicazione a fermi provvisori.
Trascorso il periodo, al massimo mensile, di ricovero previsto dalle autorità vigenti, se il tribunale confermava ed autorizzava il fermo oltre tale periodo si incorreva nella reclusione manicomiale definitiva, senza vie di fuga nemmeno dalla segnalazione al casellario giudiziale. Più che di ricovero si trattava forse di “arresto” o quanto meno era difficile ritrovare un connotato terapeutico in quella che a tutti gli effetti era la reclusione di una persona scomoda agli occhi di una società di certo poco accorta.
Ciò che è ancora più importante evidenziare è che, con il Regio decreto del 16 agosto 1909 n. 615, nacque la figura dell’Infermiere psichiatrico i cui requisiti previsti, come si evince nella successiva analisi di alcuni articoli della legge stessa, erano semplicemente: saper leggere e scrivere per poter aggiornare di volta in volta i registri di vigilanza, una sana e robusta costituzione fisica (per essere in grado di sedare i comportamenti dei malati) e non per ultimo risiedere nei pressi dell’istituto in cui si lavorava per necessaria continua reperibilità.
Gli infermieri psichiatrici dovevano come recita la legge: “ […] essere dotati di sana e robusta costituzione fisica, riconosciuta con apposita visita medica, aver serbato una buona condotta morale e civile, saper leggere e scrivere e avere compiuto 21 anni se maschi, e 18 se femmine.”. Nell’articolo 24 della stessa legge si evincono le caratteristiche del percorso formativo e lavorativo degli stessi infermieri: “ Il direttore del manicomio personalmente o per mezzo di medici da lui prescelti, deve costituire corsi speciali teorico-pratici per l’istruzione degli infermieri provvisori o effettivi […]”; ed ancora “Spetta agli infermieri, sotto la dipendenza del direttore, dei medici e del capo infermieri, di sorvegliare e assistere i malati affidati a ciascuno di essi; vigilare attentamente affinché questi non nuociano a sé e agli altri, e provvedere a ogni loro bisogno; curare, per quanto è possibile, di adibirli a quelle occupazioni che dai medici fossero indicate adatte all’indole e alle attitudini di ciascuno, eseguire tutte le indicazioni impartite dai superiori per la buona manutenzione dei locali, degli arredi e riferire immediatamente ai superiori stessi tutto quanto concerne il malato e il servizio […]”. L’infermiere che avesse condotto e portato a termine tale percorso formativo presso gli istituti di ricovero, una volta attestate e certificate le “formalità” previste dalla legge, poteva accedere al test finale. Dopodiché si era assunti in prova per la durata di due anni allo scadere dei quali, valutate fondamentalmente l’attenzione, il controllo e lo zelo nell’attività lavorativa a contatto coi malati, il rapporto diveniva stabile.
L’insegnamento si basava anch’esso su pochi ma ben chiari capisaldi formativi quali: sedare una crisi, fare la “cravatta”, mettere le fasce di contenzione, vigilare durante l’elettroshock-terapia per evitare possibili fratture al paziente date dalle convulsioni. Bisogna infine ricordare l’articolo 34 che, in un suo passo, riferendosi agli infermieri dichiarava “[…] rispondono dei malati loro affidati e della custodia degli strumenti impiegati per il lavoro.”; quasi a voler sancire una volta per tutte di chi dovesse essere il ruolo di responsabilità.
Figura 10. Fase contenitiva dell’elettroshock-terapia che spettava all’infermiere.
È di fatto lampante come il processo di sorveglianza stretta ed obbligata dei degenti da parte degli infermieri portasse ad uno stretto legame col malato del quale spesso si aveva timore. Etichettati come pericolosi per sé e per gli altri, si sapeva che, di qualunque incidente avessero provocato gli infermi, ne rispondeva immediatamente con pena d’incriminazione il personale di turno. All’interno di un rigido sistema in cui ognuno era obbligato da articoli di legge a ricoprire il proprio mansionario, l’infermiere fu fondamentalmente “l’attore” principale di questa tragica parentesi storica per la psichiatria del ‘900: seguendo e registrando la vita disperata, le manifestazioni di follia sino, nei peggiori ma non rari casi, la morte del malato stesso. Un ruolo forzato, obbligato e dettato dalla preoccupazione di poter peccare di zelo ed essere giudicato per negligenza lavorativa, dal terrore di un immediato coinvolgimento giuridico, che lasciava ben poco spazio a libere interpretazioni o pensieri propri.
Anche il contesto lavorativo, l’istituto manicomiale stesso in cui i primi infermieri si trovavano a ricoprire le loro prime mansioni di domestico, custode ed esecutore di ordini, era dettagliatamente regolamentato da una sua gerarchia e struttura ben delineata nel decreto.
Figura 10. Sala vigilanza del manicomio provinciale di Pergine Valsugana, 1910 circa.
Nello stesso, infatti, si trova traccia negli articoli 3 e 4 di tali disposizioni: “Ogni manicomio […] non può ricoverare che il numero di alienati consentito dalla capacità dei locali di cui dispone, e deve aver i locali ripartiti in guisa da assicurare la separazione dei due sessi e le diverse categorie di alienati”; e ancora “Ogni manicomio […] deve avere locali distinti per accogliere i ricoverati in osservazione con una o più camere per gli agitati e i pericolosi, locali ove i malti possano occuparsi nel lavoro, preferibilmente in forma di colonie agricole, locali di isolamento per i pericolosi ricoverati definitivamente, […] locali di isolamento per malattie infettive, locali speciali per i ricoverati in osservazione giudiziaria […]”. Per quanto concerne la gerarchia istituzionale il medico era l’unico vero detentore del potere decisionale all’interno del manicomio, basti pensare che, all’epoca, nessun infermiere avrebbe mai potuto ricorrere a mezzi coercitivi se non in casi eccezionali tramite il permesso scritto del dottore stesso. Non per ultimo il decreto poneva distinzione fra l’infermiere “tout court” (infermiere semplice) e infermiere sorvegliante; il primo adibito esclusivamente alla custodia del malato e all’esecuzione d’ordini, il secondo, con almeno tre anni di esperienza lavorativa e nomina diretta del direttore d’istituto, svolgeva alcune delle attuali competenze riservate ai coordinatori con particolare attenzione al controllo e la verifica del lavoro svolto dagli infermieri. Solo nei confronti dei medici denominati “alienisti”, venivano poste in essere pratiche a tutela del loro lavoro, contro eventuali licenziamenti illegittimi quali: il periodo di preavviso e garanzie scritte.
Grazie all’attenta analisi di queste norme si evince quale fosse vera logica manicomiale di un periodo storico che perseverò nell’inadeguatezza dei mezzi e dei metodi, nonostante il progresso, sino agli anni ’80.
Sino ad allora, seppur vero solo formalmente, l’infermiere doveva avere gli stessi requisiti del suo collega nato ottant’anni prima: saper leggere scrivere e godere dell’idoneità psico-fisica attestata da regolare certificazione.
Questo avvalla nuovamente la tesi che la comunità stessa insieme ai legislatori, hanno da sempre dimostrato marcato disinteresse nei confronti del ruolo dell’infermiere e, al contempo, posto il medico come unico punto di riferimento nel processo curativo della malattia mentale e non solo.
Solo la legge 431/1969 “Provvidenza per l’assistenza psichiatrica” nota come “legge Mariotti” divide le due epoche dell’assistenza e della cura psichiatrica pre- e post- Basaglia. Arrivando ben sessant’anni dopo l’ultimo decreto in merito a tale materia, assunti i cambiamenti sociali e culturali degli stessi anni ’60, introdurrà alcuni importanti cambiamenti che segneranno il primo passo verso la presa di coscienza di una terribile situazione: quella dell’insostenibilità degli istituti manicomiali. Innanzi tutto la legge riformò dalla radice il concetto di manicomio stesso, rinominandolo ospedale psichiatrico ridefinendone i poteri, le moli di pazienti ospitati, riducendo drasticamente i posti letto e le dimensioni delle strutture. Un grosso contributo apportato sempre dalla legge Mariotti derivò poi dal fatto di lasciare “carta bianca” alle Province per la messa in opera, sia dal punto di vista strutturale che organico, di eventuali Centri di igiene mentale. Tali strutture, inserite nel contesto dell’assistenza e parte integrante della sanità pubblica, daranno il via alla nascita delle prime collaborazioni lavorative. Si aggregano quindi, uniti dallo scopo comune di diagnosi, cura e riabilitazione un pool di persone qualificate molto più variegato rispetto al passato: psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali e personale ausiliario. È, di fatto, la prima volta nella storia nazionale che si assiste a un vero e proprio riconoscimento “professionale” a tutte queste figure viste insieme come qualcosa di positivo, produttivo ed atto alla miglioria del servizio al cittadino stesso che, in caso di necessità, potrà fruire di un trattamento sanitario migliore ed integrato.
Bisogna sottolineare che, parallelamente, in quegli anni, precisamente a partire dal1971, si evidenziarono una serie di riforme strutturali e funzionali anche alla base della didattica. Tali cambiamenti permisero enormi passi avanti, lasciandosi alle spalle anni di totale mancanza di interesse verso la professione infermieristica in tutti i suoi ambiti. Per esempio, per ciò che riguarda gli infermieri uomini, solo con la Legge n. 124 del 25/02/1971 si estese la possibilità di iscrizione anche presso la Scuola per Infermieri Professionali, in particolare per dare modo ai molti Infermieri Generici, ancora presenti in largo numero tra le file del personale d'assistenza, di usufruire di una particolare sanatoria che favorisse la loro riqualificazione. Sino ad allora un uomo che avesse voluto intraprendere la carriera infermieristica era “blindato” da leggi a non poter partecipare ai corsi professionalizzanti, trovandosi di fronte alla scelta di poter intraprendere solo la carriera scolastica per infermiere generico, infermiere geriatrico e infermiere psichiatrico. Sorvolando le innumerevoli lotte intestine per quanto concerne la professione ed in particolare riguardo la "svalutazione" del titolo professionale stesso, la presenza dei maschi nel mondo infermieristico è stata ed è importante in quanto testimonia come "fare l'infermiere" non fosse un modo istintivo e materno di approcciarsi agli infermi, e neppure una missione religiosa esclusivamente femminile nei confronti dei sofferenti, bensì un lavoro da affrontare con passione e dedizione, oltre le generalità del professionista, fondato su sani e saldi principi teorici.
Inoltre la presenza dei maschi, all’interno degli istituti scolastici adibiti alla formazione professionale, mise fine al Convitto, una vita quasi monacale a cui erano obbligate le donne che scegliessero di essere Infermiere.
In questa fase storica, la professione Infermieristica italiana inizia il suo lungo percorso verso la visibilità, il riconoscimento sociale e professionale.
Nel 1975 l'Italia ratificò l'Accordo Europeo di Strasburgo sulle funzioni e sulla formazione infermieristica. Compiendo questo passo cambiò tutta l'organizzazione didattica, il Corso passò da 2 a 3 anni di formazione, le ore di teoria aumentarono e fu istituito un tirocinio necessario come strumento didattico per insegnare la professione, tutelato e pianificato per raggiungere obiettivi formativi stabiliti.
Negli stessi anni le funzioni amministrative di formazione professionale passarono dallo Stato alle Regioni: permettendo l'inserimento delle Scuole per Infermieri in canali formativi "protetti", controllati ed omogenei su tutto il territorio regionale.
In risposta a questa presa di coscienza a tutto tondo, di fronte a riforme che hanno concesso un radicale miglioramento qualitativo rispetto la formazione e la professionalità lavorativa dell’infermiere anche la società non tese più ad isolare e distinguere i singoli casi di malattia. Capì che, qualsiasi fosse la natura del disagio, ogni singolo caso andava innanzitutto identificato nelle sue peculiarità e gestito in maniera adeguata una volta attribuito al giusto percorso curativo. Riconobbe la salute come un bene che necessitava d’essere garantito e tutelato anche nei casi più estremi, anche dove non vi fosse una logica spiegazione alla malattia, mettendo a disposizione il meglio in quanto a innovazione, tecnologia e professionalità per far fronte alla salute del paziente.
Venne inoltre stabilita la possibilità di accedere al servizio di igiene mentale non più esclusivamente tramite fermo, ma anche per mezzo di ricoveri volontari, abolendo la prassi dell’iscrizione al casellario giudiziale dopo ogni ricorso alla cura mentale. Sono queste le premesse al “terreno fertile” dove solo dopo 9 anni nascerà e crescerà la vera e propria rivoluzione dell’assistenza psichiatrica italiana, con particolare riferimento all’indipendenza dell’infermiere in seguito al riaffermarsi della professione stessa.
Si giunge al 1978 anno in cui, il 13 maggio, viene proclamata legge la proposta di riforma ispirata dallo psichiatra e neurologo italiano Franco Basaglia, da cui trarrà il nome in quanto vero e proprio ispiratore dell’ideale che portò al cambiamento. Lui stesso dichiarava: “Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c'è un altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione.”.
2.3. LA RIFORMA BASAGLIA
La legge Basaglia rappresenta la prima ed unica legge cornice che impose la chiusura degli istituti manicomiali, istituendo la prassi e le regole del trattamento sanitario obbligatorio (T.S.O.), formalizzando l’istituzione ed i servizi della sanità mentale pubblica, rimanendo ancora attualmente in vigore.
La legge 13 maggio 1978, n. 180, successivamente inclusa dalla legge di istituzione del Servizio sanitario nazionale n.833 del 1978, conclude così il ciclo rivoluzionario del modello di assistenza psichiatrica avviato dalla “legge Mariotti”.
L’introduzione di questa nuova legge, prevede la disposizione di chiusura dei neo rinominati ospedali psichiatrici ed il passaggio delle competenze organizzative ed istituzionali dalle Province al Servizio sanitario nazionale. Il passo successivo riguarda la riorganizzazione di matrice dipartimentale dell’assistenza psichiatrica, assegnando agli stessi Dipartimenti, oltre alla funzione di cura e tutela della salute mentale, anche quella di prevenzione e riabilitazione. Stipula con chiarezza l’assoluto divieto di ricovero in ospedali psichiatrici degli eventuali pazienti bisognosi di cure in ambito psichiatrico, istituendo appositi servizi all’interno degli ospedali generali.
In questo passaggio di chiusura dei manicomi, oltre ai pazienti, vengono “liberati” anche gli infermieri stessi che lavorano al loro interno. Non era cambiato molto negli ultimi ottant’anni, il ruolo era pressappoco il medesimo di allora. Nessuno si era occupato di rammodernare le mansioni specifiche di questa figura di fatto non ancora professionale, quantomeno non riconosciuta come tale né dai degenti, né dalla società. La legge 180/1978 stravolge il regime di ricovero che da forzato ed alienante, incomincia ad essere essenzialmente volontario e riabilitante, volto al reinserimento nel tessuto sociale del medesimo paziente una volta curato.
Il processo di conversione subito dopo la legge Basaglia, fu arduo e non poco spinoso, specie nel momento in cui si doveva far fronte agli incessanti interrogativi sul futuro lavorativo e operativo di molti infermieri di quell’epoca.
Si faticava a lasciare il posto ai nuovi compiti e ai nuovi ruoli in cambio della, seppur primitiva, sicura e tradizionale posizione custodiale. Era il momento di esprimere, con un drastico cambio di atteggiamento, le potenziali capacità assistenziali all’interno dei processi di cura e riabilitazione del malato.
Purtroppo era proprio in questo nuovo “gioco delle parti” che l’infermiere non riusciva ad ottenere un proprio ruolo, una propria mansione specifica, cosa che pareva generare grandi difficoltà per altri professionisti del settore.
Nei nuovi posti di lavoro, peccando di un ruolo ben definito, dopo la legge 180, probabilmente per comodità, o per poca coesione e forza di gruppo, si preferì continuare a mantenere vivo lo stigma che assegnava all’infermiere il ruolo di custode. La stragrande maggioranza di chi tentò di ricercare una propria identità autonomamente si trovò ben presto a ricoprire le mansioni più disparate: amministrativo, autista, portinaio, custode e tesoriere di chiavi dei servizi, piuttosto che inserviente di altre figure professionali, in primis del medico che, nell’imitarlo, per i più scaltri era riprovevolmente la massima aspirazione. Con il Decreto del Presidente della Repubblica del 14 marzo 1974, n. 225, art. 2, punto 12, lettera g: “Istituzione del mansionario”, era molto approssimativo per quanto riguardava l’ambito psichiatrico sebbene fosse la prima ed unica legge a cui, all’epoca, ci si poteva appellare in caso di obbligo a svolgere mansioni inferiori ad un determinato standard; ricordando che se da un lato il mansionario tutelava dall’altro “castrava” la forte spinta alla crescita professionale difesa dai pochi lungimiranti.
2.3.1 IL TRATTAMENTO SANITARIO OBBLIGATORIO (TSO)
Il trattamento sanitario obbligatorio (TSO) è un atto di temporanea sospensione della libertà personale di duplice natura: sanitaria e di ordine pubblico. “ Il TSO è una procedura eccezionale e per essere attivata devono sussistere contemporaneamente le seguenti condizioni :
• Le condizioni psichiche richiedono interventi terapeutici urgenti;
• Il paziente rifiuta l’intervento;
• Non è possibile attuare interventi tempestivi e idonei in ambito extraospedaliero.
La procedura si attiva con la richiesta di un medico, che deve essere convalidata da un medico di una struttura pubblica. Entro 48 ore dalla convalida il Sindaco emana l’ordinanza di ricovero, che solo allora può essere eseguito. Entro 48 ore dal ricovero il provvedimento deve essere notificato al giudice tutelare, il quale può convalidarlo o revocarlo. Il provvedimento non può durare più di sette giorni. Se permangono le condizioni per cui è necessario prolungare ulteriormente il trattamento obbligatorio, il responsabile dell’SPDC deve formulare la proposta motivata al Sindaco, che informa il giudice tutelare. Anche la sopraggiunta cessazione delle condizioni per il trattamento obbligatorio e la sua revoca devono essere tempestivamente comunicate al Sindaco.
L’infermiere può essere coinvolto in una procedura di TSO sia nel momento del ricovero (anche sul territorio), sia durante il ricovero in ospedale e pertanto a confrontarsi con questioni etiche e giuridiche particolarmente delicate. L’intervento sanitario viene posto in essere senza il consenso del paziente al solo scopo di tutelarne la salute. È quindi necessario adottare un atteggiamento fermo e deciso, ma sempre rispettoso della dignità della persona.”
Si può notare come seppur paia a prima vista una procedura articolata e macchinosa di certo raggiunge in maniera infallibile lo scopo di essere controllata a più livelli. Il primo dà priorità allo psichiatra e alla conseguente convalida di un dottore appartenente alla sanità pubblica anche non psichiatra, poi la pratica passa tra le mani del Sindaco (massima autorità sanitaria territoriale) e, solo in ultima istanza, come terzo grado di controllo compare la necessità della convalida di un giudice tutelare. Come cita l’Art. 6 della legge Basaglia: “Gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relative alle malattie mentali sono attuati di norma dai Servizi e Presidi psichici extra-ospedalieri. […] Gli Ospedali Generali […] non devono essere dotati di un numero di posti letto superiore a 15 […] sono organicamente e funzionalmente collegati, in forma dipartimentale, con gli altri servizi e presidi psichiatrici esistenti nel territorio”.
I restanti articoli regolamentavano invece il trasferimento alle Regioni delle competenze in materia di assistenza psichiatrica. Questo avrebbe dovuto, dal momento dell’emanazione della legge n. 180/78, sottintendere l’immediata chiusura di tutte le strutture manicomiali. Di fatto la normativa in merito necessitò di un periodo ben più lungo prima di essere integralmente applicata in quanto, nell’immediato, mancavano le strutture residenziali delineate nel progetto di riforma in sede legislativa, per rendere la legge a tutti gli effetti operativa.
La riforma, infatti, si preoccupava, in particolar modo dall’Art. 6 all’Art.11, oltre che di stipulare la definitiva chiusura degli ospedali Psichiatrici, di ridisegnare quello che solo nell’epoca “post-Basaglia” verrà ulteriormente modificato e ridefinito come rete dei servizi psichiatrici.
2.4. LA PSICHIATRIA POST-BASAGLIA
Negli anni successivi all’emanazione della legge Basaglia, l’intera sanità pubblica dovette oltre che mettere in moto una serie di onerosi investimenti di ristrutturazione del servizio psichiatrico, anche iniziare il lento ma essenziale cambiamento del proprio assetto amministrativo e assistenziale.
Per quanto riguarda lo specifico campo psichiatrico si avanzò una proposta di definizione del futuro DSM (Dipartimento di Salute Mentale).
Esso divenne, grazie alla Legge Regionale n.61 del 23 ottobre 1989, “Disposizioni per l’assistenza dei malati di mente e per la riorganizzazione dei Servizi Psichiatrici” (ben undici anni dopo la legge n. 180), un centro di coordinamento volto ad occuparsi dell’assistenza psichiatrica che, ancora oggi, è in grado di regolare la sanità a livello territoriale.
Questa struttura assunse una posizione di maggiore spicco riaffermandosi, a distanza di cinque anni, con la stesura del Progetto Obiettivo di Tutela della Salute Mentale per il biennio 1994-96, organo essenziale all’interno di ogni Azienda Sanitaria Locale (ASL) . Il DSM è dunque la struttura di coordinamento dei Servizi e dei Presidi extraospedalieri svolgendo funzioni: ambulatoriale, ospedaliera, semiresidenziale e residenziale. Questo modello strutturalmente ramificato, ha lo scopo di garantire un intervento appropriato ad ogni evento che si palesi nella storia di un paziente psichiatrico.
Ciascun utente possiede dei bisogni che evolvono nel tempo e possono richiedere interventi differenziati a seconda delle fasi della malattia. In questo modo ogni paziente possiede il proprio piano terapeutico e riabilitativo, diversificato da ogni altro degente, che non può trovare una risposta in un’unica struttura.
Proprio per questo ogni DSM consta di un Centro di salute mentale (CSM), un Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (SPDC), oltre a strutture intermedie residenziali e semiresidenziali.
Figura 11. Funzioni del DSM.
Il CSM rappresenta la base organizzativa dell’equipe assistenziale, il fulcro delle attività a garanzia del mantenimento della persona assistita all’interno del proprio contesto socio-ambientale e gode di massima autonomia. È da qui che si coordinano gli interventi atti alla cura, alla prevenzione e alla riabilitazione nei territori di competenza, col supporto funzionale dei vari distretti. Si svolgono principalmente attività quali: accoglienza, accettazione della domanda di cura, presa in carico dei pazienti, definizione e attuazione di programmi terapeutico - riabilitativi personalizzati, collaborazione e supporto ai medici di famiglia, consulenze per strutture residenziali, valutazioni continue che garantiscano adesione e pertinenza dei servizi erogati qualunque sia la loro natura.
Il reparto SPCD è la struttura integrata all’ospedale, per cui svolge attività di consulenza interna, adibito alla presa in carico dei pazienti nei momenti di grave scompenso, all’attuazione dei trattamenti sanitari obbligatori (TSO), ma anche il reparto in cui è possibile usufruire del diritto di ricovero volontario.
Il DH (Day Hospital) in quanto struttura a carattere semiresidenziale si assume il compito di svolgere le attività relative alle prestazioni diagnostiche, terapeutiche e riabilitative nel medio e breve termine. È direttamente coordinato dal DSM e finalizzato a ridurre al minimo il ricovero ospedaliero o eventualmente la durata dello stesso garantendo trattamenti farmacologici non effettuabili a domicilio e accertamenti diagnostici.
Il CD (Centro Diurno) è l’area semiresidenziale svolgente funzioni terapeutico – riabilitative in ambito territoriale. Gli interventi attuati in tale struttura sono rivolti alla presa di coscienza della propria malattia, allo sviluppo di punti di forza su cui costruire una maggiore autonomia, autostima e cura di sé, svolgendo in gruppo o singolarmente le attività di vita quotidiana piuttosto che rivolte al futuro reinserimento lavorativo.
Le strutture che appartengono al reinserimento sociale protetto sono ad esempio le comunità terapeutiche o gli alloggi protetti, entrambe strutture extraospedaliere in cui si svolgono attività terapeutico e socio – riabilitative, per ricreare una vera e propria rete di servizi, rapporti ed opportunità di reinserimento nel tessuto sociale interamente improntata sulle necessità del paziente stesso.
Si può dunque affermare che un adeguato funzionamento del modello DSM appena descritto si pone come obiettivo, oltre alla gestione tempestiva delle acuzie, quello di svolgere un ruolo di prevenzione: primaria sul territorio, cercando di ridurre i rischi dell’insorgenza della patologia; secondaria con la diagnosi e cura precoce nel caso dovesse insorgere uno squilibrio, ed infine terziaria, nel tentativo di reinserire la persona affetta da disturbi psichici all’interno del tessuto sociale, limitandone al minimo il grado di disabilità conseguente alla malattia.
Questo approccio moderno alla persona affetta da problemi di salute mentale è il frutto di una forte collaborazione ed interazione tra le figure professionali facenti parte dell’equipe multidisciplinare che opera sinergicamente al comune obiettivo di salute individuale, dando spazio al recupero delle capacità di autocura ed al continuo progredire verso livelli di autonomia più elevati.
In questo riassetto organizzativo della sanità pubblica ed in particolare, come sopracitato, con la nascita nell’epoca post-Basaglia del Dipartimento di salute mentale, l’infermiere è coinvolto nella gestione del paziente in prima linea.
Mai come prima avrà modo e luogo di far emergere la propria professionalità acquisita in questo lungo e tortuoso percorso di riconoscimento istituzionale e sociale a ridosso della storia della medicina.
Pertanto giunti alla fine del ventesimo secolo possiamo finalmente decretare l’infermerie come figura professionale autonoma, dotata di potere decisionale e di competenze ben delineate, con un ruolo ed un posto ben preciso e fondamentale all’interno dell’equipe assistenziale operante nella sanità mentale. Nasce quindi un nuovo modo di approcciarsi alla cura ed alla riabilitazione del paziente psichiatrico e l’infermiere ne è piena espressione in ogni struttura del DSM.
PARTE TERZA
3. L’ASSISTENZA INFERMIERISTICA AL DISAGIO PSICHICO
Il processo di Nursing in ambito psichiatrico è un’esperienza di forte interazione tra infermiere e paziente, che tende alla promozione dell’assistenza individualizzata ed a modificare ogni schema di rapporto tra personale ed assistito.
Un modo per comprendere meglio il ruolo dell’infermiere in ambito psichiatrico può essere quello di capire come le grandi teoriche del nursing abbiano affrontato almeno indirettamente un ambito così specifico come quello della salute mentale.
Precisando che ogni teoria prende in rassegna ed analisi una parte delle realtà, è facilmente intuibile che non vi sia la possibilità di individuarne una come riferimento assoluto, tanto meno per uno specifico indirizzo psichiatrico.
Necessita quindi integrarle tra di loro in modo tale da attingere in ogni sfaccettatura dell’assistenza e ricreare un modello di nursing psichiatrico. Al di là dell’esistenza o meno di una vera ed affermata disciplina, il professionista, in quanto ritenuto tale, deve comunque agire secondo propria scienza e conoscenza, attingendo dal proprio background lavorativo, esperienziale e formativo che, se di un certo livello, può essere sempre un ottimo strumento per l’instaurazione di una nuova strategia ponderata sui bisogni reali.
L’integrazione tra diverse teorie fa comunque sì che l’approccio dell’intera equipe assistenziale non prenda mai iniziative proprie e si basi sempre sul concetto fondamentale del “prendersi cura di”.
Per garantire una buona risposta professionale, in relazione alla richiesta d’aiuto di un paziente con disagio psichico è necessario pianificare un progetto terapeutico pensato e costruito con e per lui stesso, arrivando ad un grande progetto di cura in cui ogni professionista, facendo la propria parte, partecipa portando il suo progetto di intervento fondato su competenze tecniche, linguaggio e ottica terapeutica comune.
È utile conoscere ed apprendere le teorie che sono alla base del pensiero infermieristico ma allo stesso tempo farne un buon utilizzo nella pratica quotidiana, non dimenticando gli aspetti eventualmente non calcolati nelle stesse, ricordando che possono essere usate dal professionista come “difesa” coi colleghi in caso di necessità o col paziente se ci si dovesse trovare in difficoltà.
L’infermiere è chiamato a cogliere ciò che la situazione di necessità prospetta, i segnali di allarme e di carenza di autocura, a valutare le risorse utilizzabili, quelle residue e a mediare con tutti i “tasselli” del mosaico assistenziale e terapeutico da ricostruire in stretta collaborazione con l’equipe. Così come deve risultare diversificato da paziente a paziente ogni piano assistenziale, diversa deve essere anche la scelta di orientamento verso una teoria rispetto ad un’altra.
L’importante è non incorrere nell’errore di considerare i frutti del pensiero di grandi teoriche come a se stanti, bensì saperli mediare come concetti diversi ma pur sempre rivolti al paziente, ricordando il motto di Kurt Lewin, pioniere della psicologia sociale: "Non c'è niente di più pratico di una buona teoria".
In base a tale logica si potrebbe quindi pensare che in un contesto di un reparto SPDC, l’orientamento teorico possa attingere da autori quali V.Henderson che prendono in considerazione i bisogni di base. Analogamente si potrebbe identificare D.Orem come teorica di riferimento in un contesto che richieda maggior interesse rispetto alla riabilitazione come nelle strutture residenziali; e C.Roy, promotrice di una visione olistica dell’individuo, per quanto concerne i servizi territoriali.
Vi sono moltissimi altri modelli concettuali che presi in esame potrebbero calzare molto bene ad una macroarea del DSM così come ad un’altra, ma, come si può notare anche dai precedenti esempi, nessuna teoria è in assoluto la migliore per un determinato contesto, perché nessun paziente può essere preso in carico facendo fronte ad un singolo problema.
A tal proposito bisogna che il paziente sia preso in carico in una visione olistica dell’individuo in quanto essere bio-psico-sociale, ragion per cui una buona assistenza non può prescindere dal garantire:
• un’ottima raccolta di segni e sintomi, di dati diagnostici e caratteristiche salienti circa l’assistito e la sua famiglia;
• l’individuazione delle priorità assistenziali e l’individuazione dei campi d’azione dove collocare gli interventi assistenziali, grazie alla stesura di un piano al quale faranno riferimento tutti gli elementi dell’equipe;
• la continuità assistenziale alla singola persona, il controllo, il monitoraggio attento degli aspetti migliorativi del paziente circa la qualità di vita, la conoscenza e l’accettazione del disagio, l’autonomia e l’indipendenza sotto ogni aspetto vitale;
• la pertinenza e la motivazione dell’intervento attuato con particolare cura alla dignità ed al rispetto dell’individuo.
Questi punti cardine dell’agire dell’infermiere in ambito psichiatrico vengono poi tradotti in pratica in una serie di azioni che hanno come obiettivo ultimo il raggiungimento del massimo livello di benessere possibile dell’assistito. Non mira tanto a risolvere allucinazioni o deliri, compito dello psichiatra in particolare, quanto ad aiutare la persona nell’incapacità, dovuta alla malattia, di soddisfare in autonomia uno o più bisogni.
I sintomi di ogni patologia psichiatrica, comportano una sensibile perdita della capacità di auto curarsi, di badare ai propri bisogni primari ed in primo luogo alle proprie esigenze vitali limitando il paziente nelle proprie capacità, magari acquisite ed esercitate sino alla comparsa del disagio psichico stesso. Utilizzare il processo di nursing si può dire che renda implicita la necessità di avere ottime capacità relazionali, oltre a competenza, abilità e conoscenza pratica e teorica.
“ Si può definire il processo di nursing in psichiatria come un approccio sistematico per affrontare i problemi di vita della persona derivanti dal disturbo psichico, che comprende le fasi dell’osservazione, dell’accertamento, della pianificazione, attuazione e valutazione e che permette al paziente di risolvere o di adattarsi a quei problemi.”
L’infermiere deve quindi orientare il proprio operato verso gli aspetti compromessi del malato (in salute mentale quello psichico e sociale sono sicuramente prioritari rispetto agli altri) con l’obiettivo di sopperire alle sue dimensioni compromesse tramite l’insegnamento e lo sviluppo di modelli comportamentali adattivi, coerenti e funzionali alla quotidianità.
Fra tutte le figure professionali che “ruotano” intorno al paziente psichiatrico, l’infermiere deve saper sfruttare la sua posizione privilegiata dal costante contatto con la persona assistita per poter garantire una funzione di mediatore tra la realtà e la percezione delirante e deviata della realtà della persona assistita. Solo in questo modo la relazione d’aiuto sarà efficace al punto da permettere al paziente psichiatrico di percepire ed interpretare i segnali del mondo esterno in maniera da finalizzare le proprie reazioni al miglioramento del proprio stato d’essere.
L’infermiere, favorito dall’incontro con l’assistito per un tempo maggiore in ambienti e circostanze delle più disparate rispetto ad altre figure professionali, diventa una figura prioritaria nel cammino verso la riconquista dei modelli comunicativi e comportamentali che permetteranno il recupero di una vita ed un ruolo sociale. Egli opera pertanto con la persona singola così come in gruppo, rendendosi disponibile nella fase di relazione d’aiuto non solo attraverso abilità colloquiali, ma anche tramite abilità pratiche affinate nel suo percorso formativo e lavorativo. In questo processo, inteso per l’appunto come continuo progredire, l’infermiere deve essere in grado di mediare abilmente, a seconda del paziente che ha di fronte e del grado di compliance dello stesso, il livello di supporto, sostegno, incoraggiamento e aiuto nelle richieste e nelle attività promosse dall’assistito. In ragione di tutto questo è facile capire che l’infermiere è presente in ogni livello, o meglio in ogni anello della catena dell’assistenza al malato psichiatrico, ricoprendo un ruolo ben delineato e preciso all’interno di ogni funzione nella struttura del DSM.
3.1. L’INFERMIERE ALL’INTERNO DEL DSM
Fermo restando che l’infermiere presta il proprio lavoro e la propria professionalità all’interno di ogni contesto del Dipartimento di salute mentale, cercando di apportare un grande contributo volto alla soddisfazione dei bisogni del paziente con disturbo psichico, è giusto delinearne le proprie competenze nelle diverse manifestazioni d’assistenza che può ricoprire all’interno del sistema.
L’analisi infermieristica è perciò mirata, oltre che sulla considerazione della tipica necessità di essere aiutati manifestata dai pazienti, a garantire l’integrazione con il lavoro delle altre figure professionali che operano nelle disparate strutture dipartimentali, per poter garantire in ogni specifico contesto un modus operandi che faccia percepire all’assistito la sicurezza di una vera presa in carico del suo disturbo psichico e di quanto ne consegue.
Cercando di delineare la particolare caratterizzazione dell’intervento infermieristico nelle diverse macroaree dipartimentali si può affermare che:
• nel contesto ospedaliero l’infermiere si fa carico della gestione delle problematiche inerenti ad una grave compromissione delle capacità di autocura del paziente che potrà presentarsi in regime di ricovero programmato piuttosto che volontario. In linea di massima in ospedale si tende a trattare le persone nel periodo di maggiore difficoltà in relazione alla propria malattia psichica, pertanto gli obiettivi saranno la soddisfazione immediata dei bisogni primari, il lento ma imprescindibile recupero del contatto con la realtà, la prevenzione di ogni rischio oltre che il continuo monitoraggio dell’instabilità psico-emotiva derivante dal ricovero in acuzia. Altro compito fondamentale è quello di far comprendere al paziente che l’equipe che lo assisterà nel suo percorso terapeutico – riabilitativo lavora per il proprio benessere psico-fisico e sociale, ed è per questo che vi dovrà essere massima fiducia reciproca. Questo grande progetto di reinserimento dell’assistito necessita giocoforza di un’oculata raccolta dati per la sua elaborazione. L’infermiere nel contesto del ricovero ospedaliero rappresenta oltre quanto citato anche la garanzia all’aderenza al piano terapeutico impostato dallo psichiatra tramite la somministrazione dei farmaci e l’attento monitoraggio degli effetti terapeutici e collaterali potenzialmente severi nell’immediata compromissione della salute dell’assistito. Infine, è sempre compito infermieristico, così come accade in altri reparti, quello di favorire il riallacciamento dei rapporti fra il ricoverato e l’ambiente esterno, il contesto sociale con particolare attenzione rivolta alla famiglia.
• Nelle strutture intermedie l’infermiere assume ruoli diversi a seconda dello stadio del processo assistenziale in cui prende in carico un determinato paziente. Interviene pertanto a supporto della pianificazione riabilitativa nelle misure da intraprendere per affrontare e, laddove esiste la possibilità, superare le situazioni particolarmente sfavorevoli al progresso dell’autocura di sé. Si fa garante della pertinenza e dell’aderenza al piano di reinserimento sociale forte della collaborazione con la restante parte dell’equipe per il ripristino delle interazioni con società ed eventuali realtà lavorative.
• Sul territorio, l’infermiere ha come sede operativa ed organizzativa il Centro di salute mentale. In questo ambito dell’assistenza al paziente psichiatrico l’assistenza infermieristica è concentrata su assistiti che hanno, in genere, recuperato le abilità attinenti alla sfera sociale e relazionale necessarie per poter convivere nel tessuto sociale, non presentando richiesta di un inserimento in ambienti protetti. I metodi e le strategie utilizzati sono i più disparati e variano in funzione della tipologia di paziente in carico da semplici visite domiciliari a veri e propri interventi in associazione ad altre figure professionali tramite riunioni o incontri ambulatoriali, garantendo la somministrazione dei farmaci prescritti, ma, in particolar modo, il monitoraggio del grado di compliance del paziente, del suo stato di salute e stabilità mentale per evitare ricadute. Molto importanti in tal senso sono i meccanismi che vanno ad instaurarsi con la famiglia stessa dell’assistito a cui è data la possibilità di essere anch’essa seguita e supportata sfruttando attività di counseling e spazi di ascolto collettivo. Sul territorio il paziente, alle volte, necessita di essere seguito in tutto e per tutto quel che concerne le attività di base che una persona in buona salute psico-fisica compie quotidianamente. Le esigenze di un paziente psichiatrico spesso vanno oltre il dolore della malattia, a cui normalmente siamo abituati a far riferimento come necessità primaria di un paziente tipo, ed è compito dell’infermiere capire le lacune dovute agli handicap collaterali alla patologia per poter mettere in atto processi adeguati a frenarne almeno nell’immediato il disagio.
Analizzare accuratamente come oggi l’infermiere si inserisca in ogni specifico contesto del Dipartimento di salute mentale, pone le ultime basi su cui si potranno trarre le conclusioni di quella che è stata la storia dell’infermieristica in ambito psichiatrico. Si può riassumere quanto detto in precedenza dicendo che, nel contesto del CSM, l’infermiere svolge un ruolo di intermediario, filtrando la domanda d’aiuto ed indirizzando la persona, accorsa al servizio spontaneamente piuttosto che sotto indicazione del medico di base curante, di familiari o altri ancora, verso l’equipe che se ne farò carico. Solitamente quest’ultima è composta da svariati professionisti che hanno sede nello stesso Centro di salute mentale quali: psichiatri, infermieri, psicologi, educatori professionali ed assistenti sociali (configurazione corrispondente al CSM dell’ASL AT di Asti). Pertanto, ad ogni utente, sarà assegnato uno psichiatra e un infermiere (infermiere case manager) responsabili del proprio benessere psico-fisico in ogni sua sfaccettatura, ricreando un’organizzazione capillare ai fini di una presa in carico collaborativa ed integrata fra medico psichiatra, infermiere referente e restanti figure professionali. Affinché il servizio funzioni è necessario allacciare un rapporto di fiducia reciproca fra utente e Servizio e tra Servizio ed utente finale. Questo non può prescindere dalla profonda ed accurata analisi del contesto che circonda il paziente, le sue relazioni con l’ambiente esterno, con la propria famiglia e, laddove l’avesse, con il proprio lavoro. Il tutto avviene nella fase di presentazione in contesto domiciliare piuttosto che ambulatoriale o in sede di primo colloquio, ma rappresenta comunque un processo che inizia sicuramente nell’istante preciso della presa in carica e che è soggetto a numerose successive rivisitazioni. In genere, stabilito un contatto che porti al consolidamento del rapporto stesso, i referenti propongono all’assistito una sorta di contratto terapeutico, nel quale vengono esplicitati gli obiettivi da raggiungere e i reciproci impegni che l’equipe ed il paziente stesso intendono assumere per il loro raggiungimento. Tramite le svariate azioni che variano dal counseling alla relazione interpersonale, dall’ascolto ed il colloquio alla relazione non verbale, l’infermiere aiuta il paziente educandolo al rispetto del contratto, orientando i suoi sforzi al confronto con la realtà per il suo reinserimento nel più breve tempo possibile.
A volte l’equipe indirizza la persona presa in carico ad usufruire di strutture intermedie, facenti parte del DSM, quali il Day Hospital (DH). Gli infermieri che operano in questo contesto garantiscono al paziente la sensazione e la reale percezione di essere “curato”, eseguendo, ad esempio, analisi e farmacoterapie altrimenti impossibili da effettuare a proprio domicilio, con la garanzia di non essere ricoverato “a pieno regime”. In questa maniera il paziente acquisisce fiducia nei propri referenti e ne giova il rapporto instaurato col Servizio e la continuità assistenziale non viene mai trascurata in quanto ogni assistito è oggetto di rivalutazione e considerazione ad ogni incontro (in genere settimanale) degli operatori delle diverse strutture facenti parte del dipartimento. Sempre compito dell’infermiere, in strettissima collaborazione con i servizi, le cooperative e gli assistenti sociali, è quello di costruire, nel caso fosse presente ricostruire, la rete di servizi di supporto esterna alla realtà dipartimentale, che permetta all’assistito, una volta recuperate le condizioni psico-fisiche necessarie, un adeguato reinserimento nel contesto sociale. Qualora le condizioni fisiopatologiche e psichiche del paziente non permettano al paziente di poter prendere contatto con la realtà che lo circonda, si può propendere per un ricovero ospedaliero nell’’SPDC (servizio psichiatrico di diagnosi e cura), dove il paziente ha modo di recuperare il proprio momento di scompenso e, superata la difficoltà, ritrovare un discreto equilibrio. Gli infermieri nell’SPDC si preoccupano di stimolare alla soddisfazione dei propri bisogni di base, nel rispetto del contratto scritto, cercando di educare lo stesso alla cura di sé e del rispetto di ciò che gli sta intorno, cautelando gli altri ospiti ed il personale stesso da eventuali comportamenti aggressivi. Questo incide spesso all’interno della quotidianità lavorativa su molti aspetti lavorativi dell’infermiere in reparto che in questo, piuttosto che in altri contesti, è particolarmente esposto e soggetto al confronto con vissuti di frustrazione, rifiuto e controaggressività.
Anche dopo gli inserimenti protetti dei degenti, una volta valutate le condizioni base per l’attuazione da parte dell’equipe allargata (del CSM unita all’SPDC), all’interno di appartamenti o strutture residenziali, l’infermiere e lo psichiatra referente continuano nel loro programma di incontri con l’utente allo scopo di rivalutarne le condizioni psicofisiche e per monitorare il processo terapeutico – assistenziale. Tutto quanto precedentemente citato fa parte del sostegno offerto dal DSM al cittadino che ne abbia bisogno.
CONCLUSIONI
Attraverso l’analisi della nascita, della trasformazione e della creazione di una propria identità da parte dell’infermiere psichiatrico, emerge quanto la figura infermieristica stessa stia attraversando tutt’oggi una progressiva crescita professionale. Crescita che da sempre è stata contraddistinta dall’intenzione e dalla ferma volontà di raggiungere l’acclamata autonomia professionale che, di conseguenza, diede luce alle diverse sfaccettature di una professione ancora poco conosciuta e stimata a livello comunitario. L’infermiere psichiatrico trae origini ed autonomie imprescindibili dal percorso storico – culturale della professione infermieristica stessa in senso più generico. Come affrontato nella trattazione precedente, le difficoltà al passaggio da “custode dei matti” ad essenziale “tassello” dell’assistenza inserito nel nuovo contesto dipartimentale, non sono state solamente interne, nell’indagine di una nuova metodica di essere infermieri psichiatrici, ma in particolar modo nell’opinione, restia al cambiamento, sia delle altre figure professionali operanti nel settore sanitario che nella società stessa. Sebbene siano “concentrati” nell’ultimo frangente storico, alcuni cambiamenti sono stati condotti e portati a termine con successo, basti pensare che, non più di un secolo fa, all’infermiere psichiatrico, per autodeterminarsi, bastava saper leggere e scrivere. Attualmente, nel nuovo ordinamento universitario, sono previsti percorsi post laurea e corsi master per l'approfondimento clinico - assistenziale delle conoscenze in psichiatria dell'infermiere; un ulteriore passo verso un futuro garante di un’assistenza individualizzata, olistica e puntuale su ogni aspetto del paziente e più in generale dell’uomo, che la teorica Dorothea Horem amava giustamente definire: “Un essere bio – psico – sociale in continua relazione con l'ambiente esterno…”.
Oggi l’infermiere in ambito psichiatrico, da quanto si evince dalla lettura storica, prima della sua trasformazione culturale e poi della completa emancipazione segnata dal distacco totale dal mansionario, sta conquistando costantemente ampi spazi di autonomia professionale incanalando i propri sforzi verso la collaborazione e la pianificazione dell’assistenza, che poco per volta è in procinto di sostituire completamente lo “stigma” del passato. Un tempo lo psichiatra costituiva il centro nevralgico del processo terapeutico e decisionale, ponendosi al completo comando delle figure sanitarie subordinate al proprio comando; oggi la presa in carico è competenza dell’equipe multidisciplinare, che crea una rete di interventi e servizi a supporto globale della domanda d’aiuto del paziente psichiatrico.
È un modo di prendersi cura differente, che chiama in causa anche figure esterne ed estranee al DSM, in cui l’infermiere opera sia a livello istituzionale che sociale prendendo parte nell’organico di: Centro di salute mentale, Reparto ospedaliero di diagnosi e cura (SPDC), Day Hospital (DH), Centri diurni (CD), Comunità terapeutiche, Assistenza territoriale, Gruppi appartamento, Istituzioni non psichiatriche volte al recupero sociale.
Si può affermare con certezza che l’infermiere che opera in ambito psichiatrico abbia il ruolo di mediatore tra la psichiatria (in quanto scienza medica) e la società che deve accogliere ed accettare il disagio psichico frapposto tra l’assistito ed il tessuto sociale con cui egli si relaziona nel quotidiano.

Fonte: http://tesinetemi.altervista.org/alterpages/files/tesidilaureaSTORIADELLAUTONOMIAEDELLARESPONSABILITADELLINFERMIEREINAMBITOPSICHIATRICO.doc

 

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