Chimica fotografia in bianco e nero

Chimica fotografia in bianco e nero

 

 

 

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Chimica fotografia in bianco e nero

Fotografia e Fotografie
Identificazione delle tecniche, archiviazione, conservazione,
catalogazione e digitalizzazione

 

"Si direbbe che la Fotografia porti sempre il suo referente con sé, tutti e due contrassegnati dalla medesima immobilità amorosa o funebre, proprio in seno al mondo in movimento" (Roland Barthes, La camera chiara. Note sulla fotografia, Torino, Einaudi, 1980, p. 7).

Quando si guarda una fotografia per Barthes si vede sempre il suo oggetto, l'oggetto riprodotto, il suo referente: "Questa è mia madre", si dice mostrando una fotografia ("una foto è sempre invisibile", p. 8). Per il semiologo francese anche in questo senso la fotografia "si sottrae"(p. 6), sfugge ad ogni classificazione possibile, all'applicazione delle categorie consuete che si utilizzano nei confronti delle altre immagini, e il suo referente, del quale la fotografia analogica non può fare a meno, aderisce, rendendo indissolubile l'aderenza tra fotografia in quanto macchina (riproduzione tecnica, dispositivo) e l'oggetto che mostra.  
Ma la fotografia, all'interno di un archivio, deve essere anche considerata come oggetto, nel senso di bene culturale costituito con il concorso di elementi tecnici (il procedimento adottato), fisici (passe-partout, cornici, astucci, album) e chimici. Meglio quindi in questo caso fare riferimento alle fotografie per evidenziarne la condizione di oggetto fisico (il risultato dell'imprimersi della luce su determinate sostanze chimiche, fotosensibili, tramite un procedimento di natura chimico-fisica) da distinguere dalla fotografia nel suo statuto ontologico di immagine fotografica.

Comunemente si considera che l'interesse, relativamente recente in Italia, per la fotografia come bene culturale prenda avvio dall'intervento di Andrea Emiliani, La fotografia come bene culturale, al Convegno dal titolo omonimo di Modena del 1979 (trascritto in Corinna Guidici, a cura di, Quaderni di Palazzo Pepoli Campogrande. Attività dell’archivio e gabinetto fotografico della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici per le province di Bologna, Ferrara, Forlì, Ravenna e Rimini, Bologna, s.n., 1995, pp. 24-33). L'occasione in sé e le riflessioni teoriche e pratiche che ne scaturirono portarono alla redazione di norme omogenee per la descrizione e la definizione comune dell’oggetto fotografico e di una sua sistematizzazione a livello legislativo (D.LG.S. n° 490 del 1999 e, dello stesso anno, la redazione della Scheda F, strutturazione dei dati delle schede di catalogo, da parte di una commissione scientifica nata in seno all'ICCD - Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali).
Ancora più recente è la conservazione delle immagini fotografiche come disciplina autonoma praticata da personale specificatamente preparato; se gli interventi di restauro vanno lasciati all'intervento di professionisti, il conservatore e l'archivista possono adottare delle buone norme di manipolazione, conservazione e archiviazione del materiale fotografico, per cui risulta necessario l'identificazione delle tecniche fotografiche dalla cui corretta individuazione dipende la loro conservazione e archiviazione.

La riproducibilità tecnica delle immagini, dall'invenzione di Daguerre nel 1839 o meglio di Talbot con il metodo negativo/positivo negli stessi anni, si è evoluta in svariate forme e tecniche di riprese e stampa ed è approdata su altri media quali il cinema, la televisione e oggi più di tutte la tecnologia digitale, modificando le modalità di trasmissione, documentazione e conservazione dei saperi, quelle di indagine delle scienze, quelle della produzione artistica, via via fino a influenzare la stessa modalità di autorappresentazione e la percezione di sé delle comunità umane.
Mi sembra di non secondaria importanza sottolineare la seppur forse ovvia importanza dell'aspetto tecnico (sia nel campo della chimica dei materiali sensibili che in quello dell’ottica e delle meccanica degli apparecchi fotografici) il cui progresso andava di pari passo con la diffusione della fotografia e la diversificazione dei suoi usi; le tecniche di ripresa e stampa, con le loro specificità e limiti, influiscono sul risultato finale oltre che essere parte integrante e attiva nello svolgimento della storia stessa della fotografia.

La pervasività dell'immagine fotografica, oggi in termini esponenziali come quantità e diffusione grazie al digitale, è il risultato estremo del progresso tecnologico che ha portato un procedimento complesso a divenire atto di facile uso, rito sociale: dalle Vest pocket cameras (1912) all’iPhone.
Questo naturalmente ci pone, come addetti ai lavori prima di tutto, di fronte alla necessità di selezionare con metodo le immagini che vale la pena di conservare e delle quali occuparsi; azione che diventa oggi la parte più difficile del lavoro dello studioso, del conservatore e dell’archivista.

 

 

 

 

 

1. tipologie e tecniche di stampa, condizionamento e conservazione degli originali

 

Metodi e strumenti di indagine

1) esame visuale della fotografia (grado di incidenza della fonte luminosa sulla superficie dell'immagine);
2) esame visuale attraverso strumenti ottici (lente d’ingrandimento, microscopio, ecc. almeno 30 x);
3) esame stratigrafico;
4) esame chimico (per esperti).

L'osservazione della superficie, con l'aiuto anche di una lente d'ingrandimento, e del supporto è utile per studiarne le caratteristiche generali; in particolare è bene scegliere le zone dell'immagine in cui sono presenti ricche gamme di luci basse (neri) e luci alte (bianchi). Nei ritratti si esamina la zona dell'occhio, ricca di dettagli e sfumature, che mantiene la forma originaria anche in fase di ingrandimento. Altrettanto utile per una prima suddivisione è il tono dell'immagine, continuo per le "vere" fotografie, retinato per le immagini ottenute tramite procedimenti fotomeccanici.
Per un più attento esame stratigrafico dell'immagine generalmente si scelgono gli angoli in cui risultano più evidenti gli elementi che compongono la carta. Per i negativi il solo esame visuale è generalmente sufficiente.

L'osservazione del materiale fotografico così come la sua consultazione e movimentazione dovrebbe sempre essere fatta utilizzando guanti di cotone per evitare di lasciare impronte digitali sull'emulsione e che queste possano rovinare il fototipo. La postazione di lavoro dovrebbe essere dotata di un ripiano pulito e sgombro da qualsiasi altro materiale che non sia necessario per l'osservazione; la superficie delle immagini va protetta con fogli di poliestere su cui appoggiare anche gli strumenti d'osservazione per evitare eventuali graffi o abrasioni della superficie delle fotografie. Strumenti utili per l'osservazione sono una buona lente d'ingrandimento (almeno 10x / 30x per un microscopio monoculare) e una buona illuminazione elettrica orientabile. Prima dell'osservazione del fototipo potrebbe essere necessario ricorrere a una pulitura che può essere eseguita dal catalogatore stesso tramite, per esempio, pennelli di martora morbidi che puliscano l'originale dalla polvere senza causare graffi o abrasioni. L'esame visuale comprende anche l'analisi delle diverse forme di degrado, spesso molto utili per il riconoscimento delle diverse tecniche. Per questo si rimanda alle singole schede.

Conservazione

Un corretto utilizzo dei fototipi è la prima azione per la tutela delle raccolte fotografiche. E oggi più che mai parte integrante di questo processo è la digitalizzazione del materiale, seppur rimangano aperti grossi e numerosi dubbi sulla conservazione stessa dei file collegata all'obsolescenza dei supporti di memorizzazione informatici.
Tralasciando quest'ultimo aspetto che costituisce discorso a se stante vista la sua complessità, si ricorda però che pur non potendo agire sul naturale invecchiamento dei materiali si può certamente intervenire controllandolo e riducendolo a livelli minimi, agendo direttamente sui fattori responsabili della stabilità delle opere:

Condizioni ambientali dell'archivio
Temperatura, umidità relativa e inquinamento gassoso dei locali dove sono conservati i materiali;
Qualità dei materiali per l'archiviazione
Le buste, le scatole e i contenitori in genere usati per archiviare i fototipi devono essere confezionati con materiali adatti che non danneggino l'immagine fotografica;
Tipo di utilizzo delle raccolte
I criteri con cui le fotografie vengono movimentate, maneggiate, catalogate e riprodotte influiscono in maniera determinante sulla loro conservazione. Così come le strategie di conservazione delle raccolte sono influenzate dalla disponibilità o meno di una loro digitalizzazione che consenta la consultazione dei materiali a video, non dovendo ricorrere all'originale se non in casi eccezionali.

 

Utilizzo dei fototipi, la loro archiviazione, consultazione e riproduzione

Si rimanda alle schede delle singole tecniche per una trattazione più approfondita dei principali fenomeni di degrado, delle loro manifestazioni e delle modalità di conservazione. Si ricorda l'importanza di rilevare lo stato di conservazione del materiale conservato in archivio procedendo alla compilazione di schede fondo più o meno approfondite.
Utilizzo
- È buona norma predisporre un'area di lavoro sgombra da qualsiasi materiale non necessario, meglio ancora se ricoperta da alcuni fogli di carta bianca.
- Indispensabile l'utilizzo di guanti di cotone o di lattice per maneggiare le opere di qualsiasi tipo perché pur avendo le mani pulite queste sono ricoperte da una naturale pellicola grassa e acida che depositandosi sull'immagine favorisce i fenomeni di ossidazione.
- Utilizzare entrambe le mani per reggere una fotografia, o sostenerla con un cartoncino rigido.
- Non usare nastri adesivi, punti metallici, spilli, graffette o elastici sul materiale fotografico.
- Non bisogna mai provare a forzare i fototipi arrotolati su se stessi, siano essi stampe fotografiche o negativi su pellicola; né se incollati all'interno di vecchie buste.
- Per la misurazione dei fototipi servirsi preferibilmente di un righello rigido da disporre a fianco del materiale e non a diretto contatto, azione che potrebbe graffiare o rigare l'immagine.
- Per la segnatura delle opere mai applicare etichette autoadesive, la cui colla decomponendosi facilmente danneggia il fototipo, così come l'apposizione di timbri è da evitare, in particolare quelli a inchiostro. L'impiego di una matita morbida è ancora il sistema più sicuro, da utilizzarsi anche per numerare i negativi su lastra scrivendo sul bordo emulsionato privo di immagine.
Riproduzione
- La riproduzione delle immagini deve essere condotta facendo attenzione all'impiego di luci molto potenti; il calore emanato dalle lampade può surriscaldare le opere facendole deformare.
- La riproduzione delle opere non dovrebbe mai essere eseguita più di una volta, le diverse sollecitazioni, anche a distanza di tempo, danneggiano i materiali. Nel caso della riproduzione di positivi mancanti di negativo originale si consiglia di eseguire un nuovo negativo da utilizzare per tutte le ristampe successive.
- Lo scanner piano impiegato per la riproduzione dei materiali deve essere pulito e non surriscaldato prima del suo utilizzo; non devono mai essere utilizzati scanner a tamburo. La pulizia del piano dello scanner non può essere eseguita con lubrificanti o qualsiasi altra sostanza che entri in contatto con il fototipo.
- Nel caso di opere particolarmente fragili è necessario ricorrere alla riproduzione delle opere fotografandole.
Archiviazione e conservazione
- Nel caso di lastre rotte o incrinate, diversamente dalla norma, l'archiviazione deve essere orizzontale. Nel caso di lastre o stampe rotte i piccoli frammenti devono essere riposti a parte in buste.
- Le pellicole in nitrato, materiale altamente infiammabile, sono da conservarsi a parte rispetto al resto dei fototipi, ricorrendo a buste di carta a riserva alcalina, evitando invece quelle di plastica.
- In generale le stampe in album possono essere interfogliate con fogli di carta per conservare fotografie se sembra che possano subire danni dalle stampe adiacenti o dalle pagine dell’album. Non si dovrebbe fare questo se la legatura dovesse essere sollecitata dall’eccessivo volume della carta. Dovrebbero essere collocati in piano, preferibilmente in scatole foderate con una imbottitura di carta velina non acida.
- La collocazione in orizzontale delle fotografie è di norma da preferire a quella in verticale, perché offre un sostegno completo e impedisce danni meccanici come incurvature. La collocazione in verticale, d’altra parte, può rendere la raccolta più facilmente accessibile e ridurre le necessità di manipolazione, oltre che, nel caso di supporti su vetro, auspicabile dato il peso del vetro che potrebbe incrinare o rompere il vetro delle lastre sottostanti.
- Le scatole contenenti materiale fotografico dovrebbero essere collocate su scaffali metallici. Ove possibile, pezzi di dimensioni simili dovrebbero essere sistemati insieme; la mescolanza di varie grandezze può provocare abrasioni e rotture. Indipendentemente dalla dimensione della fotografia, tutte le custodie all’interno di una scatola dovrebbero essere della stessa grandezza, corrispondente a quella della scatola. Le scatole non dovrebbero essere riempite eccessivamente.
Condizioni ambientali dei locali
- La temperatura e la conseguente umidità relativa dei locali di archiviazione deve essere costantemente monitorata, evitando assolutamente sbalzi improvvisi. Diversamente da quanto si pensa comunque la temperatura è un elemento secondario rispetto all'umidità per il controllo della stabilità dei materiali. Vi sono però alcuni procedimenti naturalmente instabili, come le pellicole in nitrato e in generale i materiali a colori, che sono maggiormente sensibili ai valori della temperatura. Questa costituisce un problema solo nel caso di livelli troppo alti, mentre la conservazione a basse temperature è una delle migliori soluzioni conservative ma occorre che siano rispettati alcuni parametrici tecnici che se non controllati possono danneggiare invece che migliorare le condizioni delle raccolte.
Gli ambienti troppo umidi (+50 % di U.R.) favoriscono lo sviluppo di muffe, il deterioramento chimico dell'immagine e dei suoi supporti (ossidazioni e sbiadimenti tra i primi), il rigonfiamento della gelatina da cui l'adesione delle emulsioni ad altri materiali con cui sono a contatto (come buste), l'ingiallimento  e progressivo sbiadimento delle stampe all'albumina.
Gli ambienti troppo asciutti (-30% di U.R.) favoriscono la deformazione e l'infragilimento dei materiali, di cui un effetto comune è la tendenza, soprattutto di alcuni fototipi come le stampe all'albumina, ad arrotolarsi.
La media di U.R. (30% - 50%) costituisce la condizione ottimale di conservazione, ma va comunque ricordato che per le stampe fotografiche il valore di riferimento è di 30% - 40% al fine di bloccare i processi di ossidazione delle immagini argentiche.

 

 

I valori relativi di T° e U.R. si differenziano a seconda dei materiali, come segue:

 

U.R.

Stampe fotografiche monocrome

18°±4°

30% - 40%

Stampe fotografiche a colori

-3°±2°

30%

Lastre b/n

18°±2°

35% ± 5%

Pellicola b/n al nitrato

12°±1°

45% ± 5%

Pellicola b/n all'acetato

18°±2°

35% ± 5%

Pellicola b/n in poliestere

21°

20% - 30%

Pellicola a colori

-10°±2°

30% ± 5%

Negli ambienti di archiviazione si dovrebbero inoltre adottare misure per ridurre l’esposizione alla luce, alle radiazioni ultraviolette, all’inquinamento atmosferico e pulviscolare. In particolare per le radiazioni luminose ricordare che tutti i fototipi (e in modo particolare quelli a colori) sono particolarmente sensibili alle radiazioni inferiori ai 400nm (ultravioletto) che provocano reazioni fotochimiche complesse, e alle radiazioni superiori ai 750nm (infrarosso) che favoriscono i fenomeni di ossidazione mediante aumento della temperatura. Le stampe fotografiche, normalmente conservate al buio, non devono mai essere esposte alla luce naturale diretta, mentre tra le fonti artificiali si devono privilegiare quelle con basse emissione di U.V. (Tungsteno o tungsteno-alogeno) sebbene la rilevante emissione di infrarosso (con conseguente produzione di calore) ne renda l'uso particolarmente delicato e necessariamente sconsigliato in piccoli ambienti chiusi e privi di ventilazione come vetrinette e bacheche.
In caso di esposizione, da limitare naturalmente non solo come densità ma anche come durata, i valori di illuminamento si differenziano a seconda della tipologia dei materiali (si riportano solo quelli trattati nelle schede successive):

carta salata
albumina
stampe a colori

 

                                  50 lux

celloidina
citrato
gelatina bromuro d'argento
gelatina cloro-bromuro d'argento

 

                                100 lux

                                     

 

Caratteristiche dei contenitori
- I contenitori devono essere sufficientemente capienti da alloggiare le opere senza però essere troppo larghi.
- I prodotti utilizzati per l'archiviazione dei fototipi devono essere confezionati appositamente per il materiale fotografico, in quanto causa dei principali deterioramenti riscontrabili sotto forma di ingiallimenti, sbiadimenti e ossidazioni dell'immagine. Secondo la normativa ISO 10214 le caratteristiche generali dei materiali da archiviazione dei documenti fotografici sono: assenza di acidi, assenza di perossidi, stabilità chimica, superficie leggermente ruvida.
La carta è il materiale più utilizzato per il confezionamento di buste e scatole. Le buste in carta semitrasparente, chiamata comunemente pergamino, sono state per molti anni (almeno fino all'introduzione delle sostanze plastiche) tra i materiali più diffusi negli archivi ma responsabili di danneggiamenti causati dalle sostanze prodotte dall'invecchiamento dei composti (resine e cere).
L'impiego di buste a riserva alcalina è consigliato per i seguenti procedimenti trattati in questa sede: pellicole in nitrato, pellicole in acetato, stampe montate su cartoni acidi; mentre le buste a pH neutro sono preferibili per i procedimenti a colori. Secondo la normativa ISO le carta delle buste deve avere le seguenti caratteristiche: cotone sbiancato al solfito, fibre kraft con alfa-cellulosa + 87%, no fibre lignificate, no particelle metalliche, no cere, no plastificanti, pH compreso tra 7.2 e 9.5, riserva alcalina 2% di carbonato di calcio, minimo additivi (neutri o alcalini), no carte pergamino; mentre quella delle scatole le seguenti: pH compreso tra 7.2 e 9.5 e riserva alcalina 2% di carbonato di calcio.
- Tra le sostanze plastiche, che facilitano la consultazione dell'originale permettendone la visione diretta dello strato immagine, sono da utilizzare solo quelle in cui ne è indicata la composizione (occorre verificare la presenza di sostanze additive che possono interagire negativamente con il materiale fotografico che vi entra in contatto): il polietilene (PE) e il polipropilene (PP). È invece da evitare, malgrado la sua commercializzazione per uso fotografico, il polivinilcloruro (PVC) responsabile di diverse forme di degrado, in particolare per l'elevata percentuale di cloro. Segno di danneggiamento piuttosto comune in questo caso è per esempio la formazione di caratteristiche macchie lucide sul foglio di plastica, dovute alla tendenza di alcune sostanze plastiche, come il PVC, di aderire alle emulsioni.
Grazie alla sua stabilità chimica e fisica, alla sua alta qualità e all'elevato grado di trasparenza, superiore agli altri materiali, il polietilentereftalato (PET) è particolarmente indicato per l'archiviazione delle fotografie, anche se bisogna comunque fare una distinzione tra i vari materiali disponibili, evitando per esempio le pellicole opache. Il PET costituisce oggi il miglior materiale plastico per l'archiviazione di fotografie anche se il suo costo risulta nettamente superiore a quello di altri materiali.
Anche il PET però, così come il PE e il PP deve però essere testato prima di essere impiegato, superando il test di reattività: P.A.T. (Photographic Activity Test).
Modelli di contenitori
- Buste: i fototipi, siano essi negativi o positivi, dovrebbero essere disposti singolarmente all'interno di una busta. I negativi su lastra richiedono una archiviazione verticale (appoggiati sul lato maggiore), a differenza dei positivi su carta che non avendo supporti rigidi richiedono un'archiviazione orizzontale che limiti la possibilità che questi si incurvino.
Le buste a cartellina (camicie: foglio ripiegato senza parti incollate) sono la soluzione più semplice, non indicate per l'archiviazione di fototipi su supporti in pellicola e soprattutto in vetro. Per i primi in formato 35 mm sono particolarmente indicate le buste di plastica o carta trasparenti con compartimenti, con o senza perforazione laterale per l'archiviazione in raccoglitori ad anelli. Le strisce di negativi o positivi su pellicola in formato 35 mm o 6x6 possono essere archiviati anche in buste di carta per strisce con tre lati chiusi, con o senza ribalta. Mentre per formati maggiori si trovano in commercio buste in carta di formato corrispondente.
Per i supporti in vetro sono fabbricate buste di carta a quattro lembi.
Per i positivi su carta, oltre alla semplice camicia di carta o ai fogli di carta velina con cui interfogliare le stampe all'interno delle scatole, si possono impiegare buste in plastiche con o senza perforazione laterale per raccoglitori costituite da tasche singole o a scompartimenti, permettendo di archiviare materiale di diverso formato in poco spazio e concentrato; inoltre la consultazione risulta facilitata dalla trasparenza del materiale in cui sono inserite, senza doverle rimuovere dal contenitore.
- Scatole per archiviazione orizzontale per i positivi su carta: con coperchio o a conchiglia, modulari e automontanti; scatole per archiviazione verticale per i supporti in vetro (e pellicola): con lembo apribile sulla parte frontale e divisori interni (nel caso dei supporti in pellicola), automontanti e modulari.
La carta come materiale di archiviazione è preferibile per la maggiore protezione delle immagini alla luce, il limitato rischio di microabrasioni (come quelle dovute alla particelle presenti nella polvere, e la praticità dell'essere il migliore materiale su cui scrivere. Il limite maggiore è la sua non trasparenza che ne limita la consultazione, mentre questa stessa costituisce il grande vantaggio dei contenitori in plastica consentendone una facile consultazione. Di contro uno dei maggiori limiti delle buste in plastica è il rischio di formazione di condensa all'interno, che diventa elevato nel caso di archivi con condizioni ambientali molto variabili e instabili. Le buste di plastica inoltre tendono a caricarsi elettrostaticamente e quindi di polvere; in particolare il PET. In questi casi i materiali sono sottoposti a rischi più elevati di microabrasioni.

 

Composizione delle fotografie

Le fotografie sono composte da differenti strati, la cui applicazione è indicativa dell'evoluzione del procedimento tecnico:
1) supporto primario (di cui i principali sono: metallo, carta, vetro, pellicola)
2) legante (composti organici di provenienza animale o vegetale che trattengono in sospensione le particelle che formano l’immagine, “legando” l’immagine al supporto; i principali: albume/1885-1895 ca, collodio/1851-1880, gelatina/1871-).
3) barite (strato isolante di solfato di bario), presente nei materiali più recenti, a partire dal 1880 circa, che separa lo strato del legante ed emulsione dal supporto primario, rendendo l'immagine più brillante e ricca di dettagli.
4) strato immagine (costituito dal composto chimico fotosensibile che forma l'immagine; può essere incorporato al supporto oppure steso su un eventuale strato intermedio non fotosensibile utile per isolare l'immagine dal supporto e aumentarne così la resa qualitativa.
5) supporto secondario/montatura (astucci, cartoni, album) elemento di rinforzo meccanico e di irrigidimento del supporto primario delle stampe fotografiche, eventualmente con funzioni di finitura e confezione. In molti casi il montaggio dell'immagine aiuta a identificare la tecnica. Esempi significativi sono i dagherrotipi e gli ambrotipi in cui astucci, cornici, e passepartout in cui sono alloggiati, anche per motivi protettivi dati dalla fragilità dell'immagine, suggeriscono e caratterizzano il procedimento.

Nel caso delle carte fotografiche, le tipologie di struttura relativa alle fotografie in bianco e nero sono riconducibili alle seguenti, dalle più semplici alle più evolute:

_____________    supporto 

Riconducibile  ai primi procedimenti fotografici caratterizzanti dall'assenza di leganti. L'immagine giace direttamente sulle fibre della carta e la superficie della fotografia appare di conseguenza generalmente opaca
Es. carta salata.

_____________    legante
_____________    supporto

L'introduzione dello strato di legante in cui erano disciolti i composti sensibili alla luce permette a questi di aderire alla superficie, attenuando l'opacità derivata dalle fibre della carta e rendendo la superficie più lucida e ricca di dettagli.
Es. stampa all'albumina.

___________    emulsione
___________    barite
___________    supporto

Le carte più evolute introducono uno strato di barite che consente di coprire completamente le fibre della carta e rendere la superficie più lucida e liscia; il legante del collodio viene poi sostituito dall'emulsione alla gelatina
Es. stampa al collodio (celloidina), alla gelatina ad annerimento diretto (citrato) e alla gelatina a sviluppo.

----------------    strato protettivo
__________    emulsione
----------------    strato politenato
....................    interno carta
----------------    strato politenato
***********    strato anstistatico

Dal 1970 circa sono state commercializzate carte fotografiche dalle caratteristiche differenti dalle tradizionali carte baritate. Per accelerare i tempi di trattamento (sviluppo, fissaggio, lavaggio) lo strato di barite è stato sostituito con pigmenti politenati, in seguito sostituiti da uno strato di polietilene.

 

Formazione dell'immagine

Le immagini si formano mediante un processo fotochimico che sfrutta la sensibilità alla luce di particolari sostanze, dette appunto fotosensibili, le cui più comunemente impiegate sono gli alogenuri (sali) d'argento (bromuro, cloruro e ioduro). Durante l'esposizione alla luce il sale d'argento assorbe l'energia necessaria per scindere il legame tra l'alogenuro e il metallo. Il deposito d'argento che ne deriva è direttamente proporzionale all'intensità dell'illuminazione, dando luogo così a un'immagine negativa del soggetto.

Le distinzioni principali in base alle quali classificare le immagini fotografiche sono: annerimento diretto (immagine apparente)/ a sviluppo (immagine latente; negativo / positivo; monocromo / a colore. A questa prima distinzione fanno capo tecniche e procedimenti differenti, tra cui è bene ricordare molte procedure fotografiche che pur ricorrendo a procedimenti già esistenti si presentano storicamente e tecnicamente determinate, caratterizzando fortemente la modalità di produzione dell'immagine e rendendo la sua individuazione maggiormente difficile. Molti fotografi infatti, soprattutto tra i primi, hanno sperimentato tecniche e procedimenti fotografici diversi, spesso cambiando di poco quelli originari di partenza; in questi casi risulta molto difficile identificare il singolo procedimento.

 

Annerimento diretto / A sviluppo

Nei procedimenti ai sali d'argento l'immagine visibile si forma per annerimento diretto o per sviluppo dell'immagine latente, diversamente da altri procedimenti per i quali si rimanda alle schede specifiche.

- annerimento diretto formazione di un'immagine apparente. Dopo l'esposizione alla luce solare l'immagine subisce il trattamento di fissaggio e lavaggio, senza il bagno di sviluppo.
- sviluppo dell'immagine latente immagine che si forma anche dopo una breve esposizione e che porta alla comparsa dell'immagine visibile mediante l'utilizzo di rivelatori nel trattamento di sviluppo. A questo segue il bagno di fissaggio (o di arresto) per bloccare l'azione del bagno precedente e ad aumentare l'efficacia del fissaggio che serve per rendere stabile l'immagine fotografica sviluppata. Il lavaggio, ultimo passaggio, serve per eliminare ogni traccia di prodotto chimico utilizzato nei bagni precedenti la cui azione potrebbe arrecare problemi di conservazione.

 

Negativi / Positivi

Si definiscono negativi (in opposizione a positivi) tutti i materiali fotosensibili nei quali dopo l'esposizione e lo sviluppo le zone chiare o trasparenti rappresentano i toni scuri o neri del soggetto ripreso e viceversa le aree scure o nere ne rappresentano i toni chiari o bianchi in conseguenza del fatto che l'annerimento dell'emulsione è direttamente proporzionale all'intensità della luce ricevuta. Nei negativi a colori all'inversione tonale si aggiunge quella cromatica, per cui ad ogni colore del soggetto corrisponde il suo complementare.
Generalmente il negativo si ottiene in fase di ripresa ed è su supporto trasparente (lastra in vetro, pellicola plastica) o semitrasparente (carta).
Non sono compresi in questo raggruppamento le immagini negative su supporto opaco come i fotogrammi che pur presentando i toni invertiti sono concepite quali immagini finali e non fase intermedia di realizzazione del positivo fotografico (unicum)

Si definiscono positivi (in opposizione a negativi) tutti i materiali sensibili nei quali dopo l'esposizione e lo sviluppo le gradazioni tonali o cromatiche dell'immagine corrispondono a quelle del soggetto rappresentato.
I positivi sono ottenuti sia per stampa da un negativo (procedimento indiretto) sia immediatamente in ripresa con procedimenti e tecnologie diverse (diapositive, Polaroid).
Il positivo su supporto opaco è chiamato stampa fotografica, quando invece è su supporto trasparente o traslucido (vetro o pellicola) da osservarsi per trasparenza o per proiezione su di uno schermo viene definito diapositiva. L'immagine diapositiva può essere ottenuta direttamente in fase di ripresa utilizzando materiali invertibili oppure mediante successivo processo di stampa.
Vengono definiti positivi diretti inoltre tutte quelle immagini argentiche monocromatiche ottenute in assenza del passaggio negativo/positivo, il cui procedimento sta all'origine della fotografia come tecnica riproducibile (William Henry Fox Talbot 1839), che alla vista si presentano in toni positivi, non invertiti come quelli del negativo. Per questa ragione percettiva e funzionale vengono quindi compresi in tal gruppo i dagherrotipi, immagini negative/positive a seconda dell'angolo di riflessione sotto il quale sono osservate, gli ambrotipi e i ferrotipi nei quali l'immagine negativa è percepita positiva in virtù dell'applicazione di un fondo scuro (unicum in quanto non riproducibili secondo il procedimento negativo/positivo).

 

Monocromo / Colore

Prima ancora che in bianco e nero (stampa alla gelatina bromuro d'argento, 1874) la fotografia è monocroma (carte salate, cianotipi, albumine, carte al carbone e alla gomma bicromata, celloidine). D'altronde però fin dalla comunicazione della sua scoperta nel gennaio del 1839 alla nuova tecnica, definita «un metodo per fissare le immagini che si dipingono da sole dentro una camera oscura», veniva rimproverata la mancanza del colore, vista come un ostacolo da superare. Quando questo avvenne (con il procedimento diretto delle autocromie dei Fratelli Lumiere nel 1904) la fotografia diventava antagonista delle tecniche di stampa precedenti, dall'incisione alla litografia, aggiungendo veridicità a un'immagine considerata già riproduzione fedele della realtà.

 

Negativi fotografici

I negativi possono essere su supporto opaco (carta) o trasparente (vetro o pellicola). Il primo supporto utilizzato fu la carta, eventualmente cerata od oliata per ottenere una maggiore trasparenza (calotipo o talbotipo messo a punto da William Henry Fox Talbot nel 1841) che, naturalmente poco trasparente, non poteva essere attraversato completamente dalla luce. I limiti del supporto di carta, l'opacità delle fibre e la conseguente mancanza di definizione dell'immagine e la scarsa elasticità del supporto tra i primi, furono uno dei motivi del breve uso del procedimento presto soppiantato dai supporti in vetro (utilizzato a partire dal 1847 da Claude Félix Abel Nièpce de St. Victor per i negativi all'albumina), la cui rigidità e trasparenza ne ha fatto uno dei supporti più utilizzati in campo fotografico, unito alla sua stabilità e scarsa reattività dal punto di vista chimico. Di contro le sue proprietà fisiche, il peso e la fragilità, rappresentano grossi problemi conservativi.
Utilizzato fino agli anni Venti del secolo scorso, quando fu sostituito dalla pellicola, viene impiegato - ancora oggi - per usi particolari come applicazioni scientifiche e astronomiche, poiché considerate superiori alle pellicole per lo sviluppo di immagini nel campo della ricerca scientifica, essendo estremamente stabili e resistenti, specialmente nei formati più grandi.

 

Lastra alla gelatina bromuro d'argento (1876-)

Con l'utilizzo dell'emulsione alla gelatina, le lastre alla gelatina bromuro d'argento (presentate per la prima volta da Richard Maddox nel 1871
messe in commercio a partire dal 1880 circa)furono quelle più comuni, data la stabilità della gelatina animale impiegata o dei leganti sintetici nei materiali sensibili utilizzati prima dell'avvento del digitale.

La superficie dell'immagine è generalmente lucida in varie tonalità di grigio, sia osservata per trasparenza che per luce riflessa, ma possono presentarsi colorazioni diverse (dal giallo al rosa) in conseguenza di particolari trattamenti (rinforzi e sviluppi). Appare opaca nel lato emulsione e lucida lato vetro. Il legante è costituito da gelatina animale sensibilizzata con bromuro d'argento; lo strato sensibile in cui sono disciolte le particelle d'argento che formano l'immagine dopo l'esposizione e il trattamento è detto "strato immagine".
I negativi in vetro erano preparati meccanicamente, diversamente da quelli al collodio: i bordi sono netti e taglienti e non più frastagliati e irregolari come nelle lastre al collodio (1851 Frederick Scott Archer) di colorazione brunastra e aspetto vischioso; l'emulsione è di colore nero ed estesa uniformemente, diversamente dal negativo al collodio in cui lo strato sensibile, stesa manualmente, risulta irregolare specialmente agli angoli, uno dei quali ne è normalmente privo mentre quello diagonalmente opposto ha un rivestimento di spessore superiore alla media.

Fenomeni di degrado

Le alterazioni, in particolare quelle chimiche, sono più facilmente osservabili ai bordi della lastra, più fragili e dove possono penetrare più facilmente gli agenti inquinanti disciolti nell'aria.

Alterazioni fisiche
Interessano sia il supporto primario (scheggiature, incrinature, fratture che si possono ripercuotere anche sull'immagine) sia lo strato sensibile che può essere soggetto a graffi e abrasioni o a distacchi del supporto dovuti a frequenti e brusche variazioni di umidità. La gelatina infatti trattiene in condizioni normali una determinata percentuale di acqua che ne garantisce la stabilità fisica. Questa viene meno quando il grado di contenuto acquoso si modifica: un clima secco provoca il restringimento dei materiali, mentre un clima umido ne causa il rigonfiamento e l'espansione. Anche manipolazioni errate possono determinare asportazione di parti dell'emulsione, specialmente agli angoli, o indurre alterazioni chimiche in conseguenza dei depositi grassi lasciati dalle impronte digitali.

Alterazioni chimiche
Interessano quasi esclusivamente lo strato sensibile e si manifestano con ingiallimenti, screpolature e distacchi dovuti sia alla presenza di agenti inquinanti (atmosferici o prodotti di degrado dei contenitori o degli stessi fototipi) sia al cattivo trattamento in fase di sviluppo.
I principali meccanismi di deterioramento, comune a tutte le immagini argentiche, sono la solfurazione e l'ossidoriduzione.
La solfurazione è dovuta allo zolfo presente nell'aria o, più di frequente, alla decomposizione delle sostanze trattenute come residui chimici nei procedimenti di fissaggio (in cui viene utilizzato l'iposolfito). Nel primo caso si forma una sottile pellicola grigio-scura che inscurisce l'immagine, nel secondo la solfurazione causata dall'iposolfito residuo provoca lo sbiadimento e l'ingiallimento delle immagini con progressiva perdita di dettaglio
L'ossidoriduzione, alterando la forma fisica dell'argento che determina colore e intensità dell'immagine, causa sbiadimento, variazione tonale e perdita dei dettagli. In particolare, uno dei suoi effetti più comuni è la formazione del cosiddetto "velo dicroico" o "specchio d'argento", aree superficiali a riflesso metallico costituite da un sottile strato d'argento, particolarmente visibili ai bordi della lastra e nelle zone scure dell'immagine, corrispondenti alle parti più dense di argento.

Alterazioni biologiche
Interessano il legante ed eventualmente la vernice protettiva e sono più comunemente provocate da attacchi microbici (muffe) che si manifestano con macchie di vario colore o filamenti bianchi sulla superficie dell'immagine, mentre la gelatina assume un aspetto vischioso e diventa solubile in acqua, arrivando persino alla liquefazione.
I deterioramenti dovuti agli insetti invece (Lepismatidi o "pesciolini d'argento", blatte, alcune specie di coleotteri) si manifestano come erosioni superficiali che possono però portare al completo deterioramento dell'immagine.

Conservazione
Archiviazione verticale, in buste a quattro lembi. Valgono le prescrizioni generali.

 

Pellicola in nitrato di cellulosa / Nitrate
(1889-1939 ca, dopo il 1904 con strato antiarricciamento posteriore)

La plastica fu preferita al vetro come supporto per via della sua trasparenza, minore fragilità e leggerezza. Dopo le prime ricerche avviate nel 1881, nel 1884 George Eastman introdusse il primo negativo su pellicola, dando l'impulso per la sperimentazione sulle materie plastiche come supporti.
Nel 1889 sempre Eastman mette in commercio i primi negativi su pellicola in nitrato di cellulosa in pellicola piana o rullo, anche perforata, generalmente di piccolo e medio formato. L'immagine è caratterizzata da una ricca gamma di grigi, sia vista per trasparenza sia per luce riflessa, che, in buone condizioni di conservazione, la rende difficilmente distinguibile dalle successive pellicole in acetato; ma le prime sono contrassegnate dalla scritta "Nitrate", mentre le seconde, se prodotte dalla Kodak, dalla scritta "Safety Film". Le pellicole in nitrato sono facilmente deteriorabili e altamente infiammabili.

Fenomeni di degrado

Alterazioni fisiche
L'elettricità statica comune a tutti i supporti plastici attrae la polvere con possibile produzione di graffi e microabrasioni per sfregamento. La grande elasticità rende praticamente impossibili le rotture accidentali ma le brusche piegature risultano particolarmente dannose e sostanzialmente irreversibili poiché l'opacizzazione del supporto rende illeggibile l'immagine nelle aree corrispondenti.

Alterazioni chimiche
A causa della composizione chimica intrinseca il processo di degrado di questi materiali risulta irreversibile e accelerato dalle condizioni di fabbricazione (basso grado di purezza) e di conservazione (valori elevati di temperatura e umidità relativa). È quindi fondamentale l'individuazione di questi materiali che vanno separati dal resto delle raccolte che altrimenti andrebbero intaccate a causa della progressiva liberazione di sostanze fortemente acide e ossidanti, tossiche per l'uomo e in grado, combinandosi con l'acqua, di formare acido nitrico.
Diversi sono gli stadi attraversati da questi materiali nel progressivo processo di decadimento:
- Primo stadio. Progressivo ingiallimento della pellicola con la comparsa di macchie di diversa colorazione (dal grigio metallico, al bluastro, fino al rossastro) e conseguente sbiadimento dell'immagine. Leggero odore di acido nitrico.
- Secondo stadio. Deformazione della pellicola che tende a incurvarsi, soprattutto lungo i bordi, mentre l'emulsione diviene appiccicosa (in ambiente umido) o fragile (in ambiente secco). Persistente odore di acido nitrico, specialmente in ambiente umido.
- Terzo stadio. Accentuazione dei fenomeni precedenti con aumento della fragilità del supporto e comparsa di bolle che provocano il rigonfiamento e il distacco dell'emulsione. Forte odore di acido nitrico.
- Quarto stadio. I negativi possono formare una massa indistinta e appiccicosa, impossibile da separare dalle buste in carta o altro contenitore nei quali sono stati riposti. L'immagine è totalmente alterata. Forte odore di acido nitrico. A compimento del processo di composizione la massa diventa polvere bruna.

Conservazione

Le pellicole in nitrato di cellulosa vanno conservate separate dagli altri fototipi, singolarmente in buste di carta di cotone 100% a riserva alcalina, evitando invece l'impiego di buste di plastica. Le buste andranno poi conservate in contenitori metallici con sistema di ventilazione collegato all'esterno. I valori ambientali prevedono 10° max con una U.R. compresa tra 30% e 50%, ma la temperatura ottimale dovrebbe però essere inferiore a 0° mantenendo la U.R. bassa e definendo in maniera opportuna le procedure di acclimatazione temporanea in occasione della consultazione diretta.
È necessario, parallelamente al progetto di conservazione, prevedere una campagna di duplicazione dei negativi su pellicola di sicurezza.
Pellicola in acetato di cellulosa / Safety film (dal 1934)

Messe in commercio a partire dal 1934 (diacetato) dalla Kodak e a partire dai primi anni Cinquanta del Novecento (1947, triacetato), le pellicole in acetato sono state denominate di sicurezza (safety) per distinguerle dalle infiammabili in nitrato.
Pellicola piane o in rullo, anche perforata, dai piccoli ai grandi formati. L'immagine è caratterizzata da una ricca gamma di grigi, sia vista per trasparenza sia per luce riflessa, che, in buone condizioni di conservazione, la rende difficilmente distinguibile dalle precedenti pellicole in nitrato, da cui possono essere distinte per la scritta "Safety film". La differenza tra diacetati e triacetati è praticamente impossibile se non in presenza di alterazioni. Per distinguere le pellicole in acetato, lacerabili, da quelle successive in poliestere (dal 1960 ca), non lacerabili, Kodak consiglia l'osservazione per trasparenza attraverso un filtro polarizzatore: la pellicola in poliestere genera uno spettro cromatico mentre quella in acetato risulta visivamente inerme.

Fenomeni di degrado

Alterazioni fisiche
L'elettricità statica comune a tutti i supporti plastici attrae la polvere con possibile produzione di graffi e microabrasioni per sfregamento. I supporti in diacetato sono soggetti a variazioni dimensionali anche rilevanti che possono provocare bolle e grinze dello strato sensibile con caratteristica increspatura dell'immagine provocata dal restringimento del supporto. La grande elasticità rende praticamente impossibili le rotture accidentali ma le brusche piegature risultano particolarmente dannose e sostanzialmente irreversibili poiché l'opacizzazione del supporto rende illeggibile l'immagine nelle aree corrispondenti.

Alterazioni chimiche
Una sostanziale instabilità della sostanza presenta analogie col processo di decadimento dei nitrati. L'agente degradante di questi materiali è l'acido acetico autoprodotto per decadimento del supporto (modifica della struttura molecolare), riconoscibile dal caratteristico odore di aceto che si registra in maniera sempre più forte e netta anche nei contenitori, estendendosi all'archivio intero. Di conseguenza i supporti divengono più fragili e si riducono dimensionalmente sino a valori intorno al 10% con distacchi irregolari e parziali, uniti a formazioni di depositi o bolle cristallini in superficie accompagnati da alterazioni tonali (colorazione rosa o azzurra) causate dalla decomposizione dei coloranti antialo, resi normalmente incolori dal trattamento dello sviluppo.

 

Conservazione

Le pellicole in acetato di cellulosa non hanno al momento prescrizioni particolari di conservazione se non quelle riguardanti i valori del microclima da mantenere tra i 2°-7° max per la temperatura e una umidità relativa tra il 20% e il 50%.

 

Pellicola in poliestere (dal 1960 ca.)

Pellicola piana o in rullo, anche perforata, non lacerabile. L'immagine è caratterizzata da una ricca gamma di grigi, sia vista per trasparenza sia per luce riflessa, che, in buone condizioni di conservazione, la rende difficilmente distinguibile dalle precedenti pellicole, a meno della presenza della scritta "Estar". Il poliestere ha un alto grado di resistenza meccanica e di durabilità, buona elasticità e un'ottima trasparenza. Le prime pellicole in poliestere, materiale plastico creato nel 1941 da alcuni chimici inglesi e sperimentato nel 1951 negli Stati Uniti, furono prodotte dalla Kodak a partire dal 1960. Per distinguere le pellicole in poliestere da quelle in acetato Kodak consiglia l'osservazione per trasparenza attraverso un filtro polarizzatore: la pellicola in poliestere genera uno spettro cromatico mentre quella in acetato risulta visivamente inerme.

Fenomeni di degrado
Data la grande stabilità chimica e dimensionale del poliestere, questi materiali evitano alcuni dei fenomeni di degrado più comuni nei materiali precedenti.

Alterazioni fisiche
L'elettricità statica comune a tutti i supporti plastici attrae la polvere con possibile produzione di graffi e microabrasioni per sfregamento. La grande elasticità rende praticamente impossibili le rotture accidentali ma le brusche piegature risultano particolarmente dannose e sostanzialmente irreversibili poiché l'opacizzazione del supporto rende illeggibile l'immagine nelle aree corrispondenti.

Conservazione
Valgono le prescrizioni generali, unite al controllo dei valori ambientali: temperatura 21° max, U.R. 20%-30%.

 

 

Positivi fotografici

I positivi sono ottenuti comunemente per stampa da un negativo (procedimento indiretto) o realizzati in fase di ripresa con procedimenti e tecnologie diverse (diapositive, Polaroid). Il supporto prevalentemente utilizzato per ottenere positivi indiretti (o diretti con sistemi Polaroid) è costituito dalla carta: in questo caso si parla quindi di stampa fotografica. Quando invece il supporto è trasparente (vetro e pellicola) si usa il termine diapositiva (immagine da osservare per trasparenza o proiezione, ottenuta per inversione o per stampa da negativo) che comprende fototipi positivi di medio/grande formato e le "slide", fototipi da proiezione montati su telaio fino al formato 7x7 cm.

Si definiscono fotografiche tutte quelle carte impregnate o rivestite di materiale sensibile alla luce. L'identificazioni delle diverse tecniche di stampa risulta operazione molto complessa per il grande numero di processi storicamente utilizzati e le numerose varianti. In questa sede ci si limiterà alla descrizione di quelle più comuni conservate negli archivi, escludendo tutti i processi fotomeccanici in cui le stampe sono ottenute tramite presse da stampa utilizzando inchiostri o pigmenti, senza impiego di alcun materiale sensibile alla luce. Una prima distinzione possibile è tra processi metallici (generalmente sali d'argento - nitrato, bromuro, cloruro e clorobromuro) e non (composti organici - gelatina, gomma - resi fotosensibili dall'unione con un bicromato alcalino, di potassio e di ammonio).

Il diverso meccanismo di formazione dell'immagine è alla base della fondamentale classificazione delle carte fotografiche, distinguibili in:
- carte ad annerimento diretto. La stampa si ottiene per esposizione a contatto della lastra: l'immagine diviene progressivamente visibile durante l'esposizione (immagine apparente), senza richiedere ulteriore sviluppo chimico ma solo fissaggio ed eventualmente lavaggio. Tutte le stampe ad annerimento diretto presentano immagini altamente definite sia per la diretta azione della luce che produce granuli d'argento molto fini (argento fotolitico) sia per l'azione di "automascheratura" che si produce durante l'esposizione e che consente di ottenere grande ricchezza di dettaglio tanto nelle alte luci quanto nelle ombre più dense. A causa però della struttura minuta delle particelle di argento fotolitico queste carte sono anche quelle più soggetto alla maggior parte delle alterazioni chimiche. In questa classificazione tra i procedimenti di stampa i più comuni rientrano: carta salata, albumina, celloidina, citrato.
- carte a sviluppo. La stampa si ottiene non solo per contatto diretto, ma anche, e prevalentemente, per ingrandimento, operazione facilitata dalla maggiore sensibilità e quindi rapidità di esposizione di questo tipo di carte. In questi procedimenti è necessario un bagno rivelatore (di sviluppo) per rendere evidente l'immagine che non risulta altrimenti visibile (immagine latente). La struttura dell'argento è filamentare con particelle più grandi e compatte di quelle dell'argento delle carte ad annerimento diretto; ciò comporta una maggiore stabilità chimica ma una minore definizione e ricchezza dei dettagli dell'immagine. Tra i procedimenti più comuni che impiegano questo tipo di carte si ricorda la stampa alla gelatina bromuro d'argento.
- carte a spogliamento. Per gli altri procedimenti metallici non argentici (ai sali di ferro) e per quelli non metallici ma basati sulla sensibilizzazione alla luce di alcuni colloidi (gelatina, gomma arabica) mediante un bicromato alcalino (di potassio, di ammonio) la formazione dell'immagine visibile avviene per eliminazione con acqua delle parti non sensibilizzate. Stampe comuni che rientrano in questa tipologia sono: carta al carbone, gomma bicromata, bromolio che non verranno però trattate in questa sede.

 

Carta salata (1835-1860 ca)

Messa a punto da William Henry Fox Talbot nel 1835 per realizzare i primi "disegni fotogenici" venne utilizzata fino al 1860 circa, quando venne sostituita dalla stampa all'albumina. Primissimo esempio di immagine positiva fotografica.

Carta ad annerimento diretto ai sali d'argento, stampa a contatto da calotipo (negativo di carta).
Carta da lettera o da disegno impregnata con una soluzione di cloruro di sodio (sale marino) e sensibilizzata con nitrato d'argento e conseguente formazione di cloruro d'argento. Si distingue tecnologicamente dai primi disegni fotogenici (immagini negative per annerimento diretto, formatisi ponendo a contatto della carta sensibilizzata oggetti) per l'impiego dell'iposolfito di sodio (le cui proprietà di arrestare l'azione della luce e l'annerimento dell'immagine con conseguente fissaggio dell'immagine e sua permanenza furono scoperte da John Herschel nel 1919) quale soluzione di fissaggio nel 1839.
La superficie della stampa si presenta opaca con l'immagine generalmente "contenuta" nelle fibre della carta e tonalità dal bruno intenso al violetto, in conseguenza di diversi fattori quali la percentuale di nitrato d'argento, la qualità della carta e i bagni di viraggio (dal 1847 le stampe venivano comunemente sottoposte a viraggio al cloruro d'oro con variazioni di tono).

Fenomeni di degrado
Stampa altamente instabile a causa della mancanza di legante colloidale dei sali d'argento e a causa dei procedimenti non perfezionati con cui erano prodotte i cui residui sono tra i maggiori responsabili del processo di decomposizione dell'immagine.

Alterazioni fisiche
Improprie o poco accurate manipolazioni e conservazioni possono determinare graffi, abrasioni e pieghe che intaccano direttamente l'immagine.

Alterazioni chimiche
Errori di trattamento quali bagno di fissaggio esaurito o insufficiente lavaggio sono responsabili dello sbiadimento dell'immagine, più evidente a partire dai bordi colpiti maggiormente da aria e umidità, e delle conseguenti alterazioni tonali (verde-bruno o giallo-bruno). Altri manifestazioni evidenti di processi di degrado sono l'ingiallimento e la perdita di dettaglio nelle alte luci, sbiadimenti e alterazioni tonali.

Conservazione
Archiviazione orizzontale, con prescrizioni di carattere generale e una maggiore attenzione però alle esposizioni prolungate, da evitare, a sorgenti luminose di forte intensità.

 

Carta all'albumina (1850-1929 ca)

Carta monocroma ad annerimento diretto ai sali d'argento, stampa a contatto da negativo su vetro al collodio (1855-1870).

È la carta di utilizzo più comune nell'Ottocento, a partire dal 1850 quando Luois Desiré Blanquart-Evrard rende pubblico il procedimento ed entrata nell'uso generale dal 1855 per diventare il materiale dominante negli anni 1860-1885 circa, in concomitanza con i negativi al collodio. A partire dagli anni Ottanta-Novanta dell'Ottocento con l'introduzione delle carte baritate alla gelatina e al collodio (celloidine) viene progressivamente soppiantata per essere ritirata definitivamente dal mercato nel 1929.
Foglio di carta estremamente sottile ricoperto da uno strato di albume d'uovo addizionato di cloruro d'ammonio o di sodio e sensibilizzato con nitrato d'argento. La superficie si presenta generalmente lucida, uniforme e compatta (grazie alle proprietà specifiche dell'albume). La tonalità, in buone condizioni di conservazione, tende al bruno o al violetto se virata al cloruro d'oro, con contemporaneamente un aumento della stabilità dell'immagine. L'attuale tonalità "seppia" con cui si presentano la maggior parte delle stampe all'albumina conservate negli archivi è invece il risultato di un processo di alterazione dell'immagine che la rende facilmente distinguibile da altri procedimenti.
Generalmente le albumine sono montate su cartoni per evitare che, data la consistenza estremamente sottile del foglio di carta, la stampa si arrotoli, impedendone la consultazione.
La carta all'albumina veniva, per la prima volta, prodotta industrialmente e non solo dal fotografo stesso nell'artigianale camera oscura; ciò permise un approccio più facile alla fotografia, incentivandone la professione e la schiera dei dilettanti come sarà, in termini esponenziali, con l'introduzione sul mercato della gelatina bromuro d'argento. Sono albumine sostanzialmente tutti i ritratti in formato carte de visite (9x6 cm, stampe fotografiche montate su cartone corrispondente a quello di un comune biglietto da visita ottocentesco e destinate prevalentemente alla realizzazione di ritratti in studio. Brevettate nel 1854 da André-Adolphe Eugène Disdéri erano realizzate utilizzando apparecchi fotografici dotati di obiettivi multipli che consentivano di ottenere sino a otto pose sulla stessa lastra al collodio. Il basso costo di produzione e di vendita ne favorì enormemente la diffusione), molti di quelli in formato gabinetto (16,6x10,8) così come molte stereoscopie (coppia di immagini negative o positive, monocrome o a colori, realizzate con una fotocamera binoculare, che mediante osservazione tramite un apposito apparecchio - stereoscopio - consentono di avere una percezione tridimensionale del soggetto rappresentato, impiegate in ambito fotografico a partire dal 1851 quando David Brewster presentò un esemplare di stereoscopio alla Grande Esposizione di Londra, decretando così il successo mondiale di questa nuova forma di fruizione della fotografia, tale da indurre la nascita di editori specializzati nella realizzazione di stereoscopie, produzione che nella seconda metà del XIX secolo ammontava a diversi milioni di esemplari).

Fenomeni di degrado

Alterazioni fisiche
Tutte le albumine presentano un ingiallimento e sbiadimento più o meno generalizzato. La conservazione in ambienti troppi secchi determinano fessurazioni delle superfici che, attaccate dalla polvere che si infiltra tra le fenditure, possono causare il distacco di piccoli frammenti. Altra alterazione comune nelle stampe non montate è la naturale tendenza a incurvarsi (tensione tra stampa e supporto secondario) fino al totale arrotolamento con lo strato immagine rivolto all'interno. Le stampe non montate sono inoltre più soggette ad alterazioni quali piegature, lacerazioni, abrasioni e strappi.

 

Alterazioni chimiche
Come tutte le carte ad annerimento diretto le stampe all'albumina sono soggette a un attacco maggiore da parte degli agenti deterioranti che si manifesta con un ingiallimento della superficie progressivo, specialmente nelle alte luci, e un successivo sbiadimento generalizzato dovuto all'esposizione eccessiva, per durata e intensità, a fonti luminose con conseguenti alterazioni fotochimiche. Altri agenti degradanti sono i residui delle sostanze chimiche utilizzate per il bagno di fissaggio (tiosolfato di sodio) o ai vari composti dello zolfo derivati da alcuni processi di viraggio o all'inquinamento atmosferico, assorbito specialmente dai supporti secondari in cartone di pasta meccanica con elevato contenuto di lignina. Causa, allo stesso tempo, di alterazioni dell'immagine intaccata da acidi organici che determinano un abbassamento del pH e un grave danno alle fibre della carta che diviene fragile fino a sbriciolarsi. Ulteriore causa di degrado è stata individuata nei collanti utilizzati per fissare le carte ai supporti secondari.

Alterazioni biologiche
L'utilizzo di cartoni di qualità scadente e di colle all'amido per il montaggio delle stampe sui supporti secondari è causa anche di alterazioni microbiche (specialmente fungine) che si manifestano sotto forma di macchie brunastre denominate foxing, che possono essere presenti sull'immagine come sul supporto secondario.

Conservazione
I valori ambientali previsti sono di U.R. compresa tra il 30% e il 40% con una temperatura massima di 18°. Le stampe non montate andrebbero conservate in passe-partout di cartone neutro che ne evitino l'incurvamento.

 

Celloidina (1865-1930 ca)

Carta ad annerimento diretto al collodio-cloruro d'argento.
Le celloidine vennero messe a punto da G. Wharton Simpson nel 1865 e la sua ricetta utilizzata per la prima produzione industriale introdotta in Germania nel 1868 ma commercializzata solo a partire dal 1890. Queste carte erano reperibili sul mercato ma anche prodotte artigianalmente, come quelle producibili in casa sulla base delle indicazioni fornite da Rodolfo Namias nel suo Manuale pratico e ricettario di fotografia del 1902.

La carta alla celloidina, e quella alla gelatina ad annerimento diretto (citrato, 1882, W. Abney) era sostanzialmente differente dalle precedenti per l'introduzione dello strato di barite (solfato di bario) fra la carta e l'emulsione con la funzione di isolare il rivestimento dalle possibili impurità presenti nella carta e aumentare la brillantezza e il contrasto dell'immagine. Questo permetteva di ottenere immagini decisamente più nitide e ricche di dettagli e con un'ottima qualità dei chiaroscuri. Generalmente presentano una superficie lucida (anche se furono prodotte anche con superficie opaca - matt - a partire dal 1890 secondo il gusto del tempo) e un'ampia gamma di tonalità calde, dal bruno intenso al seppia tenue, ottenute tramite i diversi viraggi, quello all'oro il più praticato, che rendevano l'immagine anche più stabile oltre a colorarla con toni differenti da quelli originari della stampa che durante il fissaggio si alterava producendo un tono giallastro poco gradevole. La rapidità delle emulsioni, e quindi la maggiore facilità di utilizzo, le rendeva molto diffuse anche tra i dilettanti. Benché più spesse delle albumine venivano generalmente montate su cartoni. La loro identificazione risulta non sempre semplice; alla sola osservazione visuale risulta difficile distinguerle da quelle alla gelatina ad annerimento diretto (citrati) che possono però essere identificate tramite la presenza di velo dicroico, di norma assente nelle celloidine, meno permeabili e quindi più resistenti agli attacchi degli agenti inquinanti. A causa della loro somiglianza, anche per via dell'impiego comune di viraggi all'oro e al platino, si generò in passato anche confusione sulla terminologia da adottare, per cui vennero entrambe chiamate aristotipi.

Fenomeni di degrado

Alterazioni fisiche
Generalmente le celloidine sono molto stabili, sebbene il legante di collodio sia particolarmente sensibile alle abrasioni. Variazioni frequenti dei parametri ambientali e di conservazione possono determinare la comparsa di screpolature, innescando a loro volta meccanismi di degrado meccanico dello strato immagine.

Alterazioni chimiche
Le carte alla celloidina lucide virate all'oro possono presentare per ossido-riduzione perdita di dettaglio nelle alte luci, sbiadimento generalizzato e alterazione cromatica dal porpora a un più caldo tono bruno rossastro, mentre i processi di solforazione oltre alla perdita di dettaglio nelle alte luci determinano un progressivo incupimento della colorazione seguito da un'alterazione tonale tendente al giallastro o al bruno verdastro. In generale però, in conseguenza delle specifiche caratteristiche del collodio e dello strato di barite, queste immagini sono meno soggette a ingiallimenti e meno sensibili agli attacchi di carte e cartoni acidi contenenti lignina.

Conservazione
Negli ambienti di conservazione le carte alla celloidina devono essere tenute separate da quelle all'albumina poiché il collodio (nitrato di cellulosa), legante dello strato sensibile, è notoriamente instabile e rilascia ossidi di azoto che intervengono sia sulla catena cellulosica sia sull'argento dello strato immagine. Per prevenire screpolature è bene dotare le stampe alla celloidina di un supporto rigido per evitare la flessione del foglio durante la manipolazione.

 

Citrato (1882-1930 ca)

Carta ad annerimento diretto alla gelatina cloruro che si differenzia dalla celloidina per l'uso della gelatina come legante dell'emulsione, mentre rimangono invariate le sostanze fotosensibili: cloruro e citrato d'argento (da cui il nome); come la celloidina si tratta di una carta baritata, con superficie generalmente lucida ma che può essere anche opaca. Difficilmente distinguibili da quelle alla celloidina, posso a volte essere identificate per la presenza di velo dicroico, assente nelle stampe alla celloidina e dovuto alla maggiore sensibilità della gelatina a valori elevati di umidità relativa, e la colorazione più acida, spesso verdastra in stati di conservazione alterati. Anche se come le celloidine e tutte le carte ad annerimento diretto necessitavano di viraggio con preferenza per quello all'oro che consentiva di ottenere neri profondi tendenti al viola, seguito da quello al platino e poi uranio.

Le prime carte (dette anche aristotipiche) vennero introdotte in Germania nel 1886 su ricetta di Abney (1882) ma conobbero un'ampia diffusione solo a partire dal 1890 con la produzione industriale. Come le celloidine anche queste carte potevano essere prodotte artigianalmente; tra le varie ricette ricordiamo quella di Namias nel suo Manuale pratico e ricettario di fotografia del 1902.

Fenomeni di degrado

Alterazioni fisiche
Graffi e abrasioni possono mettere a nudo lo strato di intermedio di barite che è utile, in caso di incertezza, per distinguerle dalle albumine. Le stampe non montate sono soggette a incurvamento, comune a tutte le carte con supporto di gelatina.

Alterazioni chimiche
La presenza di vapore acqueo e di ossidanti determina una alterazione tonale dell'immagine con passaggio a tonalità bruno rossastre o giallastre, accompagnato da perdita di dettaglio nelle alte luci e, talvolta, specchio d'argento in corrispondenza delle parti scure dell'immagine. La solforazione, innescata da un lavaggio insufficiente, genere un rapido sbiadimento dell'immagine con tendenza verso toni gialli o verdognoli, mentre quella causata da un bagno di fissaggio esaurito genera macchie nelle aree prive di immagine pur conservando maggior dettaglio nelle alte luci.

Conservazione
Valgono le prescrizioni generali.

 

Gelatina alla bromuro e cloro-bromuro d'argento (1874-2005)

Carte a sviluppo alla gelatina bromuro d'argento, stampa a contatto e ingrandimento rivestite da uno strato di emulsione in cui il legante è costituito dalla gelatina e la materia sensibile da bromuro d'argento o cloro-bromuro, con uno strato intermedio di barite.
La superficie può essere lucida, semiopaca e opaca. La tonalità è fredda, tendente al grigio-verde nelle carte al bromuro, calda, tendente al bruno nelle carte al cloro-bromuro; dagli anni Novanta del Novecento si diffusero i viraggi colorati che conobbero un grande successo internazionale.

Le carte alla gelatina a sviluppo, le più diffuse fino all'avvento del digitale, furono messe a punto da P. Mawdsley nel 1873 e immesse sul mercato all'inizio degli anni Ottanta dell'Ottocento. Il successo commerciale venne però solo a partire dal primo decennio del Novecento, quando la maggiore sensibilità divenne indispensabile per ottenere ingrandimenti dai negativi realizzati con gli apparecchi di piccolo formato. Il successo delle carte a sviluppo ai sali d'argento è dovuto alle loro caratteristiche specifiche e alle potenzialità di trattamento: la loro elevata sensibilità consente tempi di esposizione molto rapidi con qualsiasi luce artificiale (istantanee) e sono molto stabili e poco soggette alla formazione di macchie. Dal 1970 furono immesse sul mercato dalla Kodak carte plastificate (o politenate) costituite da un foglio di carta laminato tra due fogli di polietilene, in cui per accelerare i tempi di trattamento lo strato di barite veniva sostituito con uno in polietilene. L'identificazione delle carte politenate, a livello visivo e tattile, presenta uno strato superficiale plastificato su cui è difficile apporre note a matita o a penna al retro del supporto perché lo strato di polietilene non trattiene la grafite o l'inchiostro.

Fenomeni di degrado

Alterazioni fisiche
Le stampe non montate sono soggette, come tutte le carte con supporto di gelatina, a incurvamento; mentre graffi e abrasioni possono mettere a nudo lo strato intermedio di barite.

Alterazioni chimiche
Macchie brune o giallastre sulla superficie sono determinate da una ossidazione del rivelatore o da un improprio trattamento di sviluppo o di arresto. Il trattamento di fissaggio eseguito con bagno esaurito determina la formazione di macchie e colorazione gialla delle alte luci, anche al verso della stampa. Un lavaggio insufficiente invece favorisce l'ingiallimento e quindi uno sbiadimento generalizzato.
I segni dell'ossidoriduzione, dovuta al contatto con l'aria e con materiali dannosi sono la presenza quasi costante di specchio d'argento nelle parti scure con tipico effetto riflettente, sbiadimento generalizzato, perdita di dettagli nelle alte luci, ingiallimento delle aree più chiare che si accompagna, nei casi più gravi di alterazione generalizzata, ha variazione tonale verso il bruno giallastro.

Alterazioni biologiche
L'attacco microbico alla gelatina ne può provocare la trasformazione vischiosa sino alla liquefazione, unita alla comparsa di macchie di diverso aspetto, colore e intensità, accompagnate da formazioni polverulente o lanuginose costituite da elevate concentrazioni di ife e spore fungine. Insetti come i lepismatidi ("pesciolini d'argento") e le blatte producono erosioni superficiali a contorno irregolare sia sull'immagine sia sul supporto cartaceo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Positivi fotografici per trasparenza o proiezione (Diapositive)

Per i positivi su vetro o pellicola visibili per trasparenza o proiezione valgono le stesse indicazioni fornite nelle schede specifiche dei negativi suddivisi secondo supporti e procedimenti diversi.
Le prime immagini positive furono prodotte da Niépce de Saint-Victor nel 1847 con l'introduzione del supporto in vetro e il procedimento all'albumina; migliorato nel 1855 dal chimico francese Taupenot che realizzò le prime diapositive al collodio albuminato. Entrambe erano realizzate per essere viste tramite proiezione con una "lanterna" illuminata a olio, poi a gas e infine elettricamente. Fu nel 1889, durante il I Congresso di fotografia (Parigi) che le immagini positive su supporto di vetro furono chiamate diapositive.
L'immagine in diapositiva era generalmente protetta da un altro vetro e sigillata con un nastro di carta gommata.
Le diapositive alla gelatina bromuro d'argento erano ottenute direttamente a contatto da negativo a negativo, da cui si otteneva un'immagine positiva delle stesse dimensioni dell'originale.

Fenomeni di degrado
Si rimanda alle indicazioni già fornite per nelle schede specifiche dei negativi, in base al supporto (vetro o pellicola) e al procedimento.

Conservazione
Si rimanda alle indicazioni già fornite per nelle schede specifiche dei negativi, in base al supporto (vetro o pellicola) e al procedimento.

 

 

 

 

 

 

 

Colore

La mancanza di colore nelle riproduzioni fotografiche è stata percepita come un ostacolo fin dall'inizio dell'invenzione della tecnica fotografica, ma i progressi maggiori nelle sperimentazioni si sono avuti a cavallo tra i due secoli (XIX-XX) con l'applicazione delle due principali teorie sul colore: il sistema additivo e quello sottrattivo. In generale i procedimenti si possono dividere in indiretti e diretti.  Tralasciando quelli indiretti (come tricromia e fotocromia) meno comuni negli archivi fotografici, trattiamo brevemente quelli diretti, di cui il più noto è l'autocromia dei fratelli Lumière brevettato nel 1904 e messo in commercio dal 1907. Le autocromie furono il primo prodotto a larga diffusione per la realizzazione di fotografie a colori. Il metodo consisteva nell'utilizzazione di una lastra alla gelatina bromuro d'argento pancromatica rivestita da un filtro a mosaico a struttura casuale costituito da granelli di fecola, colorati nei colori primari blu, verde, rosso. La lastra, dopo sviluppo e inversione (procedimento chiamato comunemente "di sbianca"), poteva essere osservata per trasparenza o per proiezione. Il procedimento fu utilizzato fino agli anni Trenta del Novecento quando furono introdotti altri procedimenti su pellicola che divennero presto più popolari dell'autocromia per la maggiore rapidità nei tempi di esposizione e nella miglior resa dei colori.
A seguito delle sperimentazioni condotte, furono presto messi a punto procedimenti, denominati a colori cromogeni, per la stampa positiva a colori tramite sviluppo chimico, da pellicole negative e invertibili (diapositive), in cui il colore si forma per reazione del bagno di sviluppo con una sostanza già presente negli strati del materiale sensibile, detta copulante, mentre l'argento viene sbiancato e fissato.
Come tutti gli altri materiali a colori per sintesi sottrattiva fu messo a punto a partire dalle ricerche, condotte nella prima metà degli anni Trenta del Novecento, finalizzate alla produzione di pellicola cinematografica a colori, ma la sua massima diffusione prese avvio dal 1960 circa.
Nel 1935 Kodak produsse la Kodachrome (Leopold Mannes e Leopold Godowsky), la prima pellicola invertibile a colori di successo nel mercato di massa a usare il metodo sottrattivo, mentre il primo negativo a colori fu introdotto da Agfa nel 1939.
Le carte fotografiche a colori contemporanee rientrano invece sostanzialmente in due differenti tipologie: a emulsione a sviluppo cromogeno e a distruzione del colore; quest'ultime permettono di ottenere stampe positive direttamente da diapositive, senza l'ulteriore passaggio dell'internegativo (da diapositiva a negativo a positivo). Carte di questo tipo sono le popolari Cibachrome, introdotte sul mercato dalla Ilford nel 1958.

 

Fenomeni di degrado

Alterazioni chimiche
I materiali a colori tendono ad alterarsi più rapidamente di quelle in bianco e nero, data l'instabilità del colore legata alla natura delle sostanze coloranti. In particolare i coloranti presentano un decadimento del livello di saturazione che porta a un progressivo e irreversibile processo di sbiadimento e affievolimento dell'immagine, causato dalla luce e/o da valori termoigrometrici troppo alti. Sintomatico di questo processo di deterioramento è la perdita di densità dell'immagine e di contrasto, soprattutto nelle alte luci, a cui si aggiunge e da cui deriva la comparsa di una dominante prodotta dal degrado del colorante che produce il suo tono complementare. Un esempio classico è la dominante rossa che non significa un'alterazione del colorante rosso ma, anzi, del suo complementare ciano, più debole molecolarmente e componente più instabile nei materiali degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. In questo caso il colorante rosso è più resistente dei colorati ciano e giallo che hanno perso la capacità di riflettere il loro colore a vantaggio del rosso che, non essendosi alterato, appare più intenso.

Conservazione

I materiali a colori devono essere conservati a temperature più basse di quelle a cui sono archiviati i fototipi monocromi e b/n. Tra le stampe, i negativi e le diapositive a colori inoltre ci sono alcuni materiali particolarmente instabili per i quali è consigliata l'archiviazione a basse temperature.

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Inventari, catalogazione e digitalizzazione

 

Catalogazione

Nel 1999 è stata pubblicata dall’Istituto per il Catalogo e la Documentazione (ICCD) del Ministero per i Beni e le Attività Culturali la “Scheda F”, finalizzata alla catalogazione dei materiali fotografici. Questa scheda è stata elaborata da un gruppo di lavoro composito che si è attenuto, in linea di massima, fatte salvo modifiche e adeguamenti necessari per la descrizione dei beni fotografici, al "modello informatico e all’organizzazione delle informazioni già definiti per la descrizione degli altri beni, riproponendo, per analogia, paragrafi, campi e sottocampi già esistenti con lo stesso contenuto in altri modelli di scheda e conservando, per essi, anche la stessa denominazione, lo stesso acronimo e, per quanto possibile, la stessa struttura normativa". La scheda risulta quindi suddivisa in paragrafi che comprendono campi semplici e/o campi strutturati in sottocampi, secondo lo schema già adottato dall’ICCD per il rilevamento dei dati
nella catalogazione degli altri beni storico artistici (schede OA-D-N, S-MI, etc.).
La scheda, assai complessa, consente una catalogazione assai approfondita e dettagliata di qualunque tipo di materiale fotografico. L’adozione per molti campi del tracciato catalogafico del formato di scambio UNIMARC consente l’integrazione tra i due diversi sistemi catalografici del settore bibliotecario e di quello storico artistico. La scheda consente di catalogare oggetti singoli o complessi (come album, strisce di negativi...) singolarmente o come serie, a tre differenti livelli di approfondimento: da quello inventariale a quello di catalogazione. Il primo livello di ricerca e di descrizione, che si limita, in linea di massima, alla compilazione dei campi e/o sottocampi indicati come obbligatori, costituisce l'insieme minimo di informazioni ritenute indispensabile per la validità di una scheda. Tale livello (corrispondente al livello inventariale) prevede, in generale, la registrazione di tutti i dati desumibili direttamente da un esame attento e analitico degli oggetti di catalogazione, con la possibilità, in un secondo momento, di implementare i dati. Infatti come per le altre schede ICCD, sono previsti tre livelli di ricerca. I dati richiesti al primo livello (inventariale) costituiscono la soglia minima di informazioni ritenute necessarie per una descrizione oggettiva del bene schedato oltre che per la sua individuazione all’interno del sistema informativo dell’ICCD. Il terzo livello (catalogazione) presuppone invece la compilazione di tutti i campi disponibili, qualora sia possibile rilevare – con apposite e approfondite ricerche – i diversi dati previsti dalla scheda F. Un livello intermedio di ricerca è previsto tra questi due, tenendo conto delle esigenze delle istituzioni o delle diverse campagne di schedatura e decidendo quali campi non obbligatori compilare.

La scheda è costituita di 79 campi, dei quali 23 semplici e 56 strutturati in 246 sottocampi. Le voci previste per la compilazione sarebbero perciò in tutto 269. Di seguito ci soffermiamo brevemente sui paragrafi e i campi principali, ritenuti necessari alla corretta e precisa descrizione dell'oggetto fotografico e riportati secondo l'ordine di comparizione nel tracciato della scheda.

Paragrafo OG - OGGETTO
"Il paragrafo contiene le informazioni che consentono la definizione e l’identificazione dell’oggetto descritto nella scheda, in relazione alla sua tipologia e al contesto in cui verrà ad essere considerato dal punto di vista catalografico". Tra i campi compresi nel catalogo:
- OGTD / Definizione dell'oggetto
Da compilare con l'indicazione della connotazione funzionale del bene: negativo, positivo, unicum (per procedimenti fotografici che danno origine a prodotti unici quali dagherrotipi, ferrotipi, polaroid ecc. che non derivano da negativi né possono a loro volta essere utilizzati come matrici), diapositiva, fotografia virtuale, vario (per oggetti complessi e/o compositi costituiti da elementi appartenenti a categorie diverse).
- OGTB / Natura biblioteconomica dell’oggetto
Il campo indica se l’opera catalogata è costituita da un oggetto semplice o composito o anche complesso che, per il suo carattere di unitarietà, possa essere trattato a livello bibliografico monograficamente. Per oggetti singoli si indicano singoli oggetti che costituiscono in sé un’opera compiuta; oppure per opere costituite di diverse parti o elementi che, seppure con caratteristiche fisiche e/o contenuti iconici differenti, sono assemblati o riuniti in corpi non separabili, fisicamente o concettualmente, se non con una perdita della loro stessa integrità e/o leggibilità.
Gli oggetti complessi sono invece costituiti da insiemi di opere fotografiche distinte ed in se stesse compiute, che presentano però, per motivi storico-anagrafici, archivistici o biblioteconomici, un carattere unitario (serie editoriale o raccolta fattizia). In particolare, per “serie editoriale” si intende un insieme di immagini
ideate o pubblicate come un’unica entità, esplicitamente legate tra di loro da
un titolo o da una numerazione progressiva, o comunque da altri elementi che
ne individuino inequivocabilmente l’unitarietà in senso biblioteconomico.
Sono considerati invece “raccolte fattizie" quegli insiemi di immagini che – pur non costituendo delle vere e proprie “serie” in senso biblioteconomico – presentano comunque, dal punto di vista archivistico-museografico, evidenti caratteri di unitarietà, individuabili in una univoca volontà progettuale-esecutiva o collezionistica (ad es., reportages, servizi, campagne di rilevamento, raccolte
non editoriali, CD, cassette, etc.). Nei casi di catalogazione per serie o di oggetti diversi catalogati come uguali, è previsto il paragrafo RV – GERARCHIA che serve a stabilire i legami tra schede di oggetti appartenenti ad un unico “complesso” (schede madri - schede figlie) o tra schede di oggetti tra loro “aggregati”

Semplicemente a livello indicativo si fa presenta che una criticità che emerge nella scheda è quella della presenza campo AUT / ALTRO AUTORE (e tutti quelli ad esso collegati) che andrebbe compilato "Nei casi in cui la fotografia in esame raffiguri un’opera (pittura, scultura, disegno, monumento, etc.) di altro autore (cosiddetto “inventore”), il campo registrerà i dati relativi a quest’ultimo". Catalogando una fotografia questo campo è concettualmente sbagliato: l'autore dell'opera d'arte riprodotta nella fotografia dovrebbe essere trascritto nel campo soggetti e non risultare come "Altro autore", visto che rispetto all'oggetto che si sta catalogando non interviene nella realizzazione dell'opera.

Paragrafo MT - DATI TECNICI
Il paragrafo riguarderà tutte le informazioni relative alla tecnica di esecuzione, alla materia dei supporti primari, alle misure, alle caratteristiche dei supporti e dei formati di memorizzazione elettronici, ai formati storici, alle filigrane. La compilazione di questo campo richiede la conoscenza delle tecniche trattate nel primo punto delle dispense.
- MTX / Indicazione di colore
Il campo richiede di indicare il colore o meno del fototipo Il campo indicherà se trattasi di fotografia in bianco/nero o a colori. Nella scheda madre di un oggetto complesso/composito costituito eventualmente di fotografie sia in bianco/nero, sia a colori, si userà la sigla “V” (per “varie”).
Il vocabolario è chiuso e prevede i seguenti termini:
BN [per fotografie in bianco/nero]
C [per fotografie a colori]
V [per oggetti complessi con fotografie sia in bianco/nero sia a colori]
CM [per fotografie colorate a mano]
Si fa notare che il vocabolario è incompleto perché non si è considerato che la maggior parte delle tecniche ottocentesche non sono tecniche in bianco e nero ma monocrome (albumina, celloidina, citrato ecc.).
- MTC / Materia e tecnica
Questo campo è da compilarsi con l'indicazione del procedimento utilizzato per l’esecuzione dell’opera in esame e, "dopo il segno “/” seguito da uno spazio, della materia del “supporto primario” (ossia del supporto dell’emulsione fotosensibile o, comunque, dello strato immagine). La materia del supporto primario potrà essere omessa soltanto in quei particolari casi in cui il procedimento fotografico implichi l’uso esclusivo di una specifica materia di supporto (es.: calotipo, carta salata, dagherrotipo, ferrotipo, etc.). Nei casi di negativi su pellicola, si potrà indicare in parentesi se trattasi di acetato, di nitrato o di poliestere".
Es. albumina/ carta
ambrotipo
aristotipo
autocromia
calotipo
carbone/ carta
carta salata
collodio/ vetro
dagherrotipo
fax/ carta (termica)
fotocopia/ acetato
gelatina bromuro d’argento/ carta
gelatina bromuro d’argento/ vetro
gelatina bromuro d’argento/ pellicola (acetato)
gelatina cloruro d’argento/ carta
gelatina ai sali d’argento/ carta
gomma bicromatata/carta
platinotipia/ carta
stampa ai pigmenti/ carta

Il campo dedicato all'indicazione delle misure (in mm, prese altezza per base) tendenzialmente viene compilato partendo dall'indicazione del supporto primario (ossia, per i positivi, le misure della carta emulsionata e, per i negativi, le misure della base dell’emulsione)., seguito da quello secondario (cartoni es.). Nei casi in cui non sia possibile rilevare esattamente le misure del supporto primario (ad esempio per dagherrotipi, ambrotipi o altre fotografie montate in passepartout o cornici che non si possono rimuovere), il campo sarà compilato con le misure dell’immagine visibile (o del vetro nel caso di dagherrotipi) e, quindi, con le misure delle custodie, etc. Così come le misure delle stereoscopie sono indicate dando le misure di una delle immagini che le costituiscono, essendo le immagini stereoscopiche costituite da due immagini uguali.
"Nelle schede madri di serie o di altri insiemi costituiti da fotografie di dimensioni differenti, il campo sarà compilato almeno due volte, con le misure della fotografia di formato maggiore e con quelle della fotografia di formato minore; in caso di album, cartelle, etc., queste saranno riportate dopo aver compilato il campo, ovviamente, con le misure complessive dell’oggetto che si sta catalogando".

Paragrafo CO - CONSERVAZIONE
Il paragrafo indicherà lo stato di conservazione dell'opera espressa inizialmente in maniera sintetica e generica (campo STCC) tramite 4 livelli di giudizio: buono, discreto, mediocre, cattivo. Nel sottocampo successivo, a testo libero (campo STCS), sarà possibile indicare tutte le alterazioni (fisiche, chimiche e/o biologiche) riscontrate che hanno apportato modifiche alla condizione originaria e compresso in parte o totalmente l'aspetto e la leggibilità dell'opera.
Es. abrasioni / foxing
sollevamenti
strappi
lacune
rotture
sbiadimento
specchio d’argento / macchie
impronte digitali
craquelures
muffa
attacchi batterici...

Paragrafo DA - DATI ANALITICI
Il paragrafo riguarda la descrizione dettagliata di alcuni elementi specifici presenti sull’oggetto catalogato (iscrizioni, timbri, marchi, stemmi etc.), di cui si indica la classe di appartenenza (didascalica, documentaria, dedicatoria, commerciale...), tecnica di scrittura (a matita, a inchiostro, fotografica), posizione sull'opera, trascrizione.

Un campo utile nel caso di catalogazioni inventariali o adattate alle proprie esigenze interne è il campo DSO (Indicazioni sull’oggetto). Il campo, a testo libero, può essere utilizzato per la descrizione di alcuni aspetti ed elementi specifici dell’oggetto catalogato, che non siano rilevabili attraverso gli altri campi previsti dalla scheda. Ad esempio, nel caso di album fotografici, o di montaggi particolari delle fotografie, si potranno descrivere sinteticamente in questo campo le caratteristiche della legatura, della custodia, del particolare cartone di supporto, ecc. Possono essere segnalati e riportati qui anche i dati essenziali relativi al materiale eventualmente allegato all’oggetto (fogli manoscritti o a stampa, disegni, buste con iscrizioni varie, etc.).

Paragrafo DO - FONTI E DOCUMENTI DI RIFERIMENTO
Il paragrafo è riservato a tutti i dati relativi alla documentazione dell’opera catalogata, da quella fotografica a quella archivistica e bibliografica. Indicazioni bibliografiche, di esposizioni, di altri fototipi utilizzati per confronto per la compilazione dei campi della scheda dell'opera in esame.

Collegati al tracciato della scheda F vi sono poi le schede di authority file che riguardano entità (come gli autori, la bibliografia) in relazione con i beni culturali. "Gli authority file sono utili come supporto per la standardizzazione dei dati catalografici e costituiscono delle banche-dati autoconsistenti (banca-dati degli autori, della bibliografia, ecc.), parallele e interrelate con quella principale che riguarda il patrimonio culturale".

Nel 2004 sul tema della catalogazione, operazione preliminare alla digitalizzazione, e degli standard utilizzati per la fotografia si evidenziava "una mancanza di uniformità negli standard"; criticità tuttora non risolta se non ricorrendo agli standard di riferimento nelle biblioteche: ISBD(NBM) per la parte descrittiva e le RICA per la scelta e la forma di intestazione. Per la costruzione della stringa di soggetto, l’ordine di citazione delle voci all’interno della stringa e la forma delle voci da utilizzare, si farà riferimento in generale al Nuovo Soggettario, a cura della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.

L'ICCD dagli anni Ottanta ha iniziato a lavorare con i primi software che permettevano di trasferire le informazioni catalografiche tradizionali su nuovi standard informatizzati. Il SIGEC, Sistema Informativo Generale del Catalogo, realizzato a partire dal 2000 con l’obiettivo di unificare e ottimizzare i processi connessi alla catalogazione del patrimonio culturale, assicurando, grazie al controllo delle procedure applicate, la qualità dei dati prodotti e la loro rispondenza agli standard nazionali; l’omogeneità delle informazioni è, infatti, il presupposto indispensabile per la loro immediata disponibilità, il corretto utilizzo e la condivisione.

Il nuovo sistema web è il risultato dell’esperienza dell’ICCD in ambito di gestione dei dati informatici. Il SIGECweb è il frutto di un progetto nato nel 2004 che prevedeva la reingegnerizzazione del precedente sistema per adattarlo tanto alle nuova organizzazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali quanto alle esigenze tecniche di miglioramento delle funzionalità,  ottimizzazione delle prestazioni e di aggiornamento tecnologico. Il SIGECweb ha pertanto recepito l’evoluzione della struttura amministrativa del MiBAC e l’estensione dei soggetti coinvolti nell’attività di catalogazione, applicando soluzioni tecniche in linea con l’evoluzione tecnologica ICT che permettono di operare ed interoperare nella “rete” geografica.

Diverse sono invece le differenti esperienze regionali, in alcune casi fallimentari, che a livello di software e di tracciato di scheda F (adozione di alcuni campi specifici e di schede collegate - es. scheda fondo, scheda contenitore, scheda serie) hanno messo a punto software come Guarini della Regione Piemonte e SIRBeC, Sistema Informativo dei Beni Culturali della Regione Lombardia.
Dato l'esito fallimentare di alcuni di questi progetti, come Guarini nato già a metà degli anni Novanta, molte istituzioni hanno deciso di rivolgersi a software commerciali (Clavis NG, Artview, Xdams) open access o meno per risolvere singolarmente la catalogazione del proprio patrimonio, con conseguente difficoltà di interazione tra i vari enti, spreco di risorse e difficoltà gestionali. Se l'obiettivo è la creazione di un catalogo unico delle fotografie conservate dai vari enti, l'adozione a livello nazionale di standard utilizzati effettivamente dai vari enti conservatori e lo scambio delle informazioni, la strada sembra essere decisamente ancora molto lunga quindi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Digitalizzazione: linee di indirizzo

La normativa per l'acquisizione digitale delle immagini fotografiche stilata dall'ICCD risale al 1998, a partire da sperimentazioni successive che risalgono al 1993. Sulla base della normativa del 1998, nel 2004 un Gruppo di lavoro per conto dell'ICCU (Istituto Centrale per il Catalogo Unico) ha messo a punto un documento con le linee guida di lavoro sulla digitalizzazione del materiale fotografico. Sono stati presi in considerazione le normative redatte dall'IFLA nel 2002, indirizzate soprattutto a biblioteche e archivi, che identificano i compiti principali di un progetto di digitalizzazione con raccomandazioni di buone pratiche e l'esperienza di progetti precedenti.

L'acquisizione digitale del materiale fotografico conservato in un archivio è azione indispensabile per l'accessibilità e fruizione dello stesso, ma anche per la sua stessa conservazione. Un progetto di digitalizzazione comprende però diverse fasi di lavoro che devono essere concatenate tra loro al fine della buona riuscita del progetto. Per renderlo efficiente è necessario stabilire un flusso di lavoro e delle modalità in relazione alle risorse disponibili (finanziarie, tecnologiche e di personale).
Inoltre, come tutte le varie fasi di lavoro che interessano un archivio, deve seguire le normative e gli standard definiti a livello nazionale (o ancora meglio a livello internazionale) non dimenticando però le esigenze specifiche dell'archivio che le mette in atto e dell'istituzione di cui quell'archivio è parte. Se il rispetto degli standard facilita la scelta delle modalità operative e dà un'assicurazione sulla loro buona riuscita, permettendo inoltre di interfacciarsi e di dialogare con altri archivi e istituzioni, dall'altra determina, in maniera differente a seconda dei casi, un innalzamento dei costi da sostenere che dipendono sostanzialmente dall'aumento del tempo di lavoro previsto e dalla strumentazione tecnologica necessaria, oltre alla formazione necessaria del personale addetto alla scansione e al controllo di qualità.
Si ricorda inoltre che ogni progetto di digitalizzazione non può prescindere da un'attività di catalogazione, di cui non può essere un sostituto ma da cui deve invece essere preceduto. Solo catalogando, cioè studiando gli esemplari conservati in un archivio, è possibile stabilire cosa digitalizzare.
A livello conservativo la digitalizzazione del materiale fotografico consente di documentarne lo stato di conservazione in quel determinato momento, utile per effettuare scelte successive su eventuali modifiche nelle modalità di conservazione e/o progetti di restauro e, soprattutto, di consultare l'archivio limitando la movimentazione e la manipolazione diretta degli originali, influendo positivamente sulla conservazione degli stessi. La digitalizzazione consente anche il cosiddetto restauro digitale, cioè il recupero dell’informazione contenuta nell’immagine attraverso la manipolazione di una copia del file.
Va ricordato inoltre che, una volta digitalizzata, "ogni fotografia rivive nella sua interessa, ma anche in un suo doppio virtuale" e che l'oggetto digitalizzato richiede altrettante cure di manutenzione e corrette politiche di gestione/conservazione al pari di quelle messe in atto per il corrispettivo originale.

Scopo primario di un progetto di digitalizzazione è quindi consentire la consultazione digitale degli originali, permettendo il salvataggio del contenuto informativo del fototipo (nel file master, effettuato nel rispetto dei più alti livelli qualitativi di acquisizione, di modo che sia sempre possibile avere uno o più cloni identici senza perdita di informazione e degrado qualitativo, nello stato in cui si trova al momento della sua acquisizione, creando cioè una copia fedele dell'originale, da cui ricavare una copia ulteriore e con correzione tonale e di esposizione da utilizzare per consultazione e fini editoriali) e la parallela possibilità di limitare la manipolazione diretta degli originali. Importante è quindi la realizzazione di un file digitale che traduca fedelmente le caratteristiche dell’originale.
Finalità altrettanto importante è l'accessibilità del contenuto informativo di ogni immagine e la rapidità di tale operazione, da cui deriva un valido strumento sia per uso interno sia per fini esterni, come nel caso di pubblicazioni, ricerche e studi ecc.

Sono da considerarsi fondamentali nella definizione del progetto di digitalizzazione i seguenti elementi, la cui variabilità in termini di procedura e operatività è in parte condizionata dalle risorse finanziarie stanziate per il progetto:
1. criteri di acquisizione delle immagini
2. acquisizioni dei metadati
3. riproduzione del patrimonio fotografico
4. conservazione dei supporti digitali

Si riportano di seguito alcune delle fasi principali di lavoro che andrebbero eseguite, tenendo presente però che alcune di queste necessitano di tempi e costi di lavoro maggiori e che, a seconda dell'archivio e delle sue esigenze e possibilità, non presentano lo stesso grado di rilevanza:

- individuazione delle fotografie da digitalizzare e, se necessario, ordinamento del materiale (numero di inventario, collocazione, ecc…);
- esame dell’originale (stato di conservazione, formato, eventuali interventi di pulizia o restauro);
- operazioni preliminari all'acquisizione digitale;
- scansione dell’originale secondo i criteri di digitalizzazione indicati dalla normativa e le specifiche esigenze dell'archivio;
- ricollocazione del fototipo;
- postproduzione, controllo qualità, salvataggio del file master, nomina del file source;
- eventuale acquisizione dei metadati comprendenti tutte le informazioni tecniche necessarie (livello di compressione, dimensione dei file, numero di pixel, formato, ecc.) e loro gestione;
- archiviazione del file master (copia di sicurezza sul server e su supporti magnetici);
- conversione e creazione di file compressi corrispondenti ai diversi livelli qualitativi: immagini ad alta risoluzione per la consultazione in locale, a bassa risoluzione per la consultazione web e thumbnail;
- eventuale apposizione di filigrana digitale (watermark);
- eventuale collegamento dell’immagine alla scheda catalografica o al record inventariale qualora presente.

Nei criteri di acquisizione delle immagini si sottolinea di fare particolarmente attenzione ai seguenti aspetti:
- Rispettare l'accuratezza geometrica.
- Non apportare nessun taglio;
- Generalmente si considera la fotografia come oggetto e non solo come immagine. Da ciò ne consegue che la digitalizzazione dell'oggetto deve comprendere anche eventuali supporti e, qualora ritenuto necessario a fini conoscitivi, il retro con informazioni testuali (anche se per essere ricercate devono essere naturalmente riportate nei campi deputati della scheda catalografica). Nell'acquisizione si scansiona anche il bordo, lasciando un leggero margine che indica i limiti del fototipo. Inoltre nella sua acquisizione devono essere conservati tutti gli elementi che servono a qualificare il soggetto quali: le scale di misura inserite allo scopo di fornire indicazioni sulle dimensioni di massima, i dati alfanumerici inseriti per permetterne l’identificazione, le scale cromatiche per rapportare i colori rappresentati nell’immagine con l’originale, ecc.
- I parametri di risoluzione dell'acquisizione dell'immagine (dpi) sono in correlazione con il formato dell'originale. Ne consegue che a formato minore corrisponde una definizione maggiore, per ottenere immagini finali di pari qualità: per immagini di media risoluzione spaziale, finalizzate alla normale consultazione e a corredo delle schede (il livello B di cui poco sotto) i fototipi 35mm (24x36mm) vanno acquisiti a 903 dpi, mentre i formati 20x25 cm richiedono una riproduzione a 130 dpi. Entrambi al formato di base di 1024x1024 pixel, valido per il livello B.
- Il file source è da archiviare in formato TIFF così come per l'operazione di acquisizione. Dal file sorgente sarà possibile, anche in automatico, ottenere dei file formati che possono essere utilizzati su Internet o allegati alla scheda catalografica. Il formato di compressione consigliato è il JPEG.
- I negativi non devono essere riconvertiti in positivo se non per la consultazione.
- Nel caso in cui si conservino sia i negativi che i positivi, non potendo acquisire entrambi, si suggerisce di acquisire il positivo, risultato finale del lavoro del fotografo. Se si possiedono i provini a contatto dei negativi dell'autore con l'indicazione dei tagli dell'immagine si suggerisce di scansionarli nella loro interezza.

Prima di iniziare la digitalizzazione dovrà essere individuato il sistema (hardware e software: pc, scanner, camera digitale, sistema di salvataggio) più adatto per l'acquisizione, ricordando che il patrimonio fotografico è sensibile ai lux, ai raggi UV e al calore emessi dagli scanner durante la fase di riproduzione. È bene quindi riprodurre ogni immagine una sola volta e valutare lo stato di conservazione dell'originale. Si consiglia, inoltre, l'uso di un software di calibrazione del colore e l'acquisizione delle immagini sempre a colori (modalità 24 o 36 bit), permettendo così che siano evidenziati eventuali ritocchi o qualsiasi altra informazione che verrebbe persa nella riproduzione in b/n.

Nel documento dell'ICCU 2004 sono stati individuati 3 livelli di entità oggetto della digitalizzazione nei progetti di acquisizione digitale:
- oggetti semplici costituiti da singoli documenti fotografici intesi come unità documentarie in cui i dati descrittivi sono validi per l’oggetto e non sono collegabili ad altri oggetti;
- raccolta di documenti fotografici sottoforma di oggetto complesso (serie editoriali, raccolte fattizie, reportage, servizi, cartelle, portfolio etc.), oggetto composito (panorama), oggetto aggregato (esemplari tratti da un unico negativo);
- il fondo fotografico costituito da documenti fotografici di diversa tipologia corredati da documentazione di archivio facente parte integrante del fondo stesso.

Tutti i livelli documentari hanno una serie di legami, interni alla fotografia (positivo/negativo, copia, duplicato contraffazione etc.) ed esterni ad essa con altre tipologie di beni (librari, grafici, artistici archivistici). È di fondamentale importanza l’esplicitazione di tali reti di collegamenti, per descrivere e assemblare fotografie appartenenti alla stessa serie o tratte dagli stessi negativi, e nel caso di oggetti compositi i legami con gli altri materiali documentari che si trovano in relazione con il fondo fotografico che si sta descrivendo. Quindi un punto critico è l'individuazione dei metadati descrittivi per poter documentare le relazione (interne ed esterne) a cui si è appena fatto riferimento.

Ricordando che nello specifico l'operazione di acquisizione digitale va effettuata tramite scanner piano (o camera digitale), in riferimento alla normativa ICCD del 1998, le immagini digitali, a corredo delle schede catalografiche o meno, devono assoggettarsi essenzialmente ai tre livelli qualitativi da cui dipendono standard di acquisizione differenti (risoluzione dimensionale - espressa in termini di pixel per pollice; risoluzione cromatica - espressa in termini di bit per pixel, formato di memorizzazione - TIFF, JPEG etc., a seconda del programma utilizzato per il trattamento dell'immagine, dello spazio a disposizione per la memorizzazione, della necessità di scambio dei file e dell'uscita finale dell'immagine):
A
“Immagini ad altissima risoluzione spaziale, da utilizzare essenzialmente per la stampa di grandi dimensioni e come riferimento digitale di alta qualità dell’originale fotografico”.
B
“Immagini di media risoluzione spaziale, destinate essenzialmente a corredo di tutte le tipologie di schede e alla normale consultazione”.
C
“Immagini 'francobollo', da utilizzare per la rappresentazione schematica su schermo;
questo livello viene ricavato riducendo via software le immagini dei livelli precedenti”.

La scelta del parametro da seguire dipende dalle esigenze dell'Archivio e dalle finalità specifiche del progetto di acquisizione; allo stesso tempo determina risultati qualitativi differenti in rapporto alla risoluzione spaziale, da cui dipendono tempi di lavoro, e di conseguenza di costi, diversi. In particolare, come già accennato prima, a un maggior livello qualitativo (A) corrisponde una maggiore definizione dell'immagine quantificabile in risoluzione spaziale, da cui dipende il tempo di acquisizione digitale dell'originale e lo spazio di memoria occupato.

Una volta definiti i parametri di acquisizione delle immagini e le diverse fasi operative della procedura si dovrà, parallelamente, considerare il lavoro, costante e da aggiornare progressivamente, di salvataggio e conservazione dei file digitali. In relazione a quest'ultimo punto, ma non solo, in senso più ampio rispetto all'intero processo di digitalizzazione di un archivio o di una sua parte, va ricordato che ogni oggetto digitale merita altrettante cure e buone pratiche di conservazione del suo relativo analogico: pertanto corrette politiche di gestione/conservazione e manutenzione dovrebbero essere messe in atto relativamente all'archivio digitale che si andrà a costituire in seguito, determinando, parallelamente, un cambiamento anche nei flussi operativi, potendo coinvolgere professionalità differenti, influenzando politiche e sviluppo delle raccolte e scelte dell'erogazione del servizio di consultazione.
Si ricorda che ogni progetto di digitalizzazione dovrebbe quindi prevedere una fase cosiddetta di refreshing: operazione che serve a trasferire le informazioni digitalizzate da un supporto a rischio di obsolescenza a un supporto più nuovo e sicuro, in particolare sarebbe consigliabile:
1. archiviare i file su supporti diversi (CD, DVD, Hard Disk e Server);
2. copiare i dati archiviati su nuovi supporti (CD, DVD, Hard Disk esterno e Server) ogni cinque/dieci anni.

Da quanto detto fino a ora emerge quindi la complessità di un serio progetto di digitalizzazione che, a secondo delle risorse economiche disponibili, incluso il personale, comporta fasi operative più o meno complesse, a partire, naturalmente, dalla strumentazione tecnologica da impiegare.
Requisiti a livello hardware e software indispensabili, ma con caratteristiche tecniche variabili a seconda delle finalità per cui sono impiegati e dei costi sostenibili dall'ente, e in quantità differenti a seconda della quantità di persone impiegate nel progetto, sono:

1. Computer con processore adeguato a supportare il programma informatico per l'acquisizione e la post-produzione, qualora necessaria per ottimizzare l'immagine salvata nei formati di compressione per la consultazione e l'eventuale collegamento al database (dal file master TIFF si dovrebbero derivare in modo batch in automatico i file compressi JPEG da collegare al database e da visualizzare sul web. I controlli e gli aggiustamenti sull’immagine sono quindi da fare in questa fase).
2. Scanner.
3. Programma di acquisizione e gestione immagini.
4. Supporti diversi (CD, DVD, Hard Disk esterno e Server) per il salvataggio e la  conservazione dei file digitali.
5. Visore A4 per la consultazione dei trasparenti (diapositive e negativi su vetro o pellicola).

A seconda delle risorse disponibili, umane e di strumentazione, si possono prevedere più ipotesi di digitalizzazione che, tenendo conto della consistenza del materiale da digitalizzare solo in un secondo momento, dipendono in parte dalla strumentazione tecnica impiegata da cui necessariamente consegue la qualità del risultato finale, così come i tempi e i costi di realizzazione.
Di conseguenza, relativamente alla strumentazione necessaria (hardware e software) si può considerare di:

1. impostare la procedura operativa utilizzando il solo scanner uso ufficio qualora già in dotazione dell'ente: questa soluzione se da una parte non comporta ulteriori costi dall'altra non consente di ottenere risultati ottimali in termini di qualità delle scansioni e di ottimizzazione dei tempi di lavoro.
Si deve inoltre considerare che per il lavoro di acquisizione digitale e successive fasi di postproduzione, salvataggio dei file ecc. è fondamentale avere a disposizione postazioni con computer e scanner da impiegare esclusivamente a tal fine.
2. Acquistare uno scanner professionale anche per diapositive e negativi di piccolo e medio formato: questa soluzione consente di acquisire diapositive e negativi di formati diversi (per alcuni dei quali si devono acquistare a parte i caricatori) con ottimizzazione dei risultati e dei tempi vista la possibilità di caricare più fototipi, in alcuni casi lotti, ma è da tenere presente che non tutte le grandi aziende producono questo tipo di prodotti, economicamente non accessibili per il largo pubblico e di scarso commercio vista il loro impiego limitato; inoltre bisogna considerare che le prestazioni, ma anche i costi, cambiano molto a seconda che il caricatore sia manuale o automatico (quest'ultimo consente di caricare lotti e acquisirli in tempi veloci diversamente da quello manuale con cui è possibile caricare, tendenzialmente, un numero di fototipi da 4 a 6).
3. Acquistare uno scanner piano A3 con una risoluzione ottica di 600 dpi o maggiore e lettore per trasparenti (diapositive e negativi su vetro o pellicola), con profondità colore di almeno 36 bit.
Questa soluzione, più costosa, permette però di avere uno scanner professionale che consente di scansire qualsiasi tipo di documento fino al formato A3. Non essendo dedicato come uno scanner professionale per diapositive e negativi consente una velocità di scansione minore e un minor numero di funzionalità specifiche per diapositive e negativi ma, proprio per questo, un impiego maggiore con una piccola perdita di qualità e velocità.

Programmi per l'acquisizione e gestione immagini sono software come Adobe Photoshop CS che consentono tutte le operazioni effettuate sul file digitale, dall’acquisizione tramite scanner alle successive elaborazioni fino al salvataggio del file TIFF source.

Per lo storage dell'archivio digitale i sistemi di salvataggio sono sostanzialmente riconducibili a due differenti tipologie di memorizzazione:
1. su supporti ottici (CD e DVD);
2. supporti magnetici (hard-disk esterni, server).
Per quel che riguarda i vantaggi e le criticità di questi sistemi, nel caso degli hard disk il vantaggio sta sicuramente nella loro velocità, nei tempi di accesso piuttosto ridotti, nella possibilità di sovrascrivere i file e nella facilità di creazione di grandi banche dati che permettono di individuare facilmente il file desiderato.
Dall’altra parte, sono considerevolmente più costosi rispetto ai CD o ai DVD e sono anche molto più fragili: basta una vibrazione decisa, un urto, uno sbalzo di tensione o una forte sollecitazione magnetica per mettere a rischio i dati salvati al suo interno.
Supporti ottici come CD e DVD invece hanno il vantaggio di essere economicamente molto accessibili e molto duraturi, nonostante siano sensibili ai graffi, ma hanno una capacità di immagazzinamento ridotta e potrebbero portare a incompatibilità: soprattutto nel caso dei modelli con maggiore densità, potrebbe capitare che non siano letti facilmente da tutti i lettori.
Queste due tipologie di memorizzazione per quanto simili nelle finalità sono di fatto molto diverse l'una dall'altra: il diverso valore economico è in conseguenza delle differenti prestazioni dei due supporti quindi e in qualche modo non paragonabile. I CD/DVD, economicamente molto accessibili, non hanno la possibilità di immagazzinare una grande quantità di dati in un'unica banca dati, né di accedere ai file con la stessa velocità consentita dagli hard-disk esterni che costituiscono un unico punto di accesso a una quantità di informazioni enorme.
Come già indicato in precedenza, qualora le risorse economiche lo permettessero, sarebbe utile, anche per fini conservativi, salvare i dati su più supporti come hard-disk esterni e dvd, utilizzando l'hard-disk esterno come fonte di accesso alle informazioni, più facilmente e velocemente reperibili, per uso corrente nell'ambito delle consuete attività dell'ente e i dvd come copia di salvataggio.

 

 

 

 

 

Breve bibliografia

Si ricorda che la seguente bibliografia, così come le dispense di cui questa fa parte, entrambi ad esclusivo uso interno, non è esaustiva né completa, ma semplice riferimento indicativo degli argomenti trattati in questa sede. Per scelta sono stati inoltre inseriti solo titoli in lingua italiana, tralasciando la ricca bibliografia in lingua inglese e francese a disposizione.

AIB,AIB-WEB. Il mondo delle biblioteche in rete.
Per una buona bibliografia suddivisa per temi si consiglia di consultare l'indirizzo http://www.aib.it/aib/lis/lpi13ef.htm, il cui contenuto è stato pubblicato anche in formato cartaceo a cura di L. Gasparini e C. Iommi con il titolo Fotografia in Biblioteca in occasione dei Seminari organizzati all'interno del Festival di Reggio Emilia, Fotografia Europea, IV edizione, 30-04/03-05 2009.
Nella stessa occasione sono stati pubblicati dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Istituto Centrale per il Catalogo Unico, Linee di indirizzo per i progetti di digitalizzazione del materiale fotografico, Fotografia Europea, IV edizione, 30-04/03-05 2009, scaricabile in formato pdf  all'indirizzo www.iccu.sbn.it/upload/documenti/Linee_guida_fotografie.pdf‎.

Archivio Fotografico Toscano (a cura di), "AFT Rivista di Storia e Fotografia".
Per notizie storico-critiche, tecniche (come la conservazione e il restauro delle fotografie) e bibliografiche può essere molto utile la consultazione della rivista a cura dell'Archivio Fotografico Toscano, interamente digitalizzata, e accessibile tramite ricerca libera o per titoli e/o autori all'indirizzo http://rivista.aft.it/aftriv/controller.jsp?action=search_baseedit

Benassati G., La fotografia. Manuale di catalogazione, Bologna, Grafis, 1990.

Berselli S., Gasparini L., L'archivio fotografico. Manuale per la conservazione e la gestione della fotografia antica e moderna, Bologna, Zanichelli, 2004.
Il manuale contiene anche una bibliografia approfondita per ogni argomento trattato.

Corti L., Gioffredi Superbi F., Fotografia e fotografie negli archivi e nelle fototeche, Firenze, Regione Toscana-Giunta Regionale, Ricerche e documenti per il Catalogo dei beni culturali, 1, 1995.

Guadagnini W. (a cura di), La fotografia, Milano, Skira.
Manuale storico-critico con schede descrittive delle principali tecniche fotografiche e sintetiche cronologie pubblicato in collana a partire dal 2011 (nel 2013 è stato pubblicato il terzo volume).

ICCD - Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione.
Per normative di catalogazione e altri documenti affini consultare il sito http://www.iccd.beniculturali.it/.
In particolare per gli standard catalografici e la scheda F: Fotografia si rimanda all'indirizzo http://www.iccd.beniculturali.it/index.php?it/387/beni-fotografici.

Masetti Bitelli L., Vlahov R., (a cura di), La fotografia, Tecniche di conservazione e problemi di restauro, Bologna, Analisi editrice, 1987.

Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Istituto Centrale per il Catalogo Unico, Normativa per l'acquisizione digitale delle immagini fotografiche, Roma, ICCD, 1998.
Scaricabile in formato pdf all'indirizzo: www.iccd.beniculturali.it/getFile.php?id=291‎
Scaramella L., Fotografia. Storia e riconoscimento dei procedimenti fotografici, Roma, De Luca, 1999.

Zagra G., (a cura di), Conservare il Novecento: la fotografia specchio del secolo: convegno nazionale, Roma, Associazione italiana biblioteche, 2004.

 

 

 

Fonte: http://www.bibliocai.it/Archiviodoc/Documenti/FOTOGRAFIA%20e%20FOTOGRAFIE.doc

Sito web da visitare: http://www.bibliocai.it

Autore del testo: V. Lisino, Seminario BiblioCai. I fondi fotografici Biblioteca Nazionale CAI,

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