I modelli atomici di Thomson e Rutherford

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I modelli atomici di Thomson e Rutherford

Introduzione
Alla fine del 1800 molte proprietà dell’Universo sembravano ormai delineate grazie ai risultati ottenuti in fisica classica: la teoria di Newton descriveva i fenomeni gravitazionali, la termodinamica permetteva la costruzione di macchine sempre più efficaci ed efficienti, la teoria elettromagnetica di Maxwell spiegava tutti i fenomeni elettrici e magnetici e chiariva la vera natura della luce. Nessuno immaginava che in pochi anni la fisica avrebbe subìto una vera e propria rivoluzione con la teoria della relatività e con lo sviluppo della fisica quantistica.
Fino ad allora si credeva che gli atomi fossero le parti più piccole e quindi indivisibili della materia. Successivamente, invece, in evidente contrasto con l’etimologia della parola, si è scoperto che gli atomi sono a loro volta costituiti da particelle ancora più elementari, gli elettroni, a loro volta formati dai quark. Se numerose evidenze sperimentali avevano permesso di trovare l’esistenza delle particelle subatomiche, le loro dimensioni infinitamente piccole non permettevano di visualizzarne la disposizione all’interno dell’atomo. Gli scienziati, pertanto, di fronte all’impossibilità di interpretare in modo semplice dei fenomeni complessi, hanno sentito l’esigenza di ideare dei modelli. Inizialmente un modello si basa su un numero limitato di fenomeni, ma quando ulteriori fenomeni non trovano in esso un riscontro valido, è necessario perfezionarlo o sostituirlo con un altro che risulti più aderente alla realtà.
Ad una brevissima ricostruzione storica del concetto di atomismo nella filosofia classica e delle prime teorie atomiche, segue una descrizione dei modelli atomici di Thomson, di Rutherford e di Bohr, in cui vengono evidenziate le caratteristiche principali e le ragioni dei loro successi e insuccessi.


Le origini dell’atomismo
Fin dall’antichità i filosofi e i naturalisti erano convinti della presenza della materia anche lì dove sembrava esserci il vuoto, ma si dividevano in due scuole di pensiero: una affermava che la materia era continua e divisibile in parti sempre più piccole fino all’infinito mentre l’altra riteneva che la materia fosse discontinua e costituita da particelle piccolissime e indivisibili. Chiaramente queste erano speculazioni filosofiche basate solo sull’osservazione dei fenomeni naturali e non certo su approfondite indagini scientifiche.
Il primo filosofo atomista fu Democrito (V sec. a.C.) che, sviluppando le teorie del suo maestro Leucippo da Mileto, affermava che la materia non era divisibile all’infinito ma poteva essere divisa in particelle piccolissime e invisibili solo fino alle dimensioni di un atomo e non oltre. Secondo Democrito queste particelle erano infinite e di forma geometrica diversa, si muovevano in tutte le direzioni spinte da una forza naturale interna ad esse, si urtavano e rimbalzavano nel vuoto, si aggregavano in maniera sempre diversa per formare nuove sostanze. I corpi materiali, dunque, venivano generati dal moto degli atomi.
Questa teoria non fu accettata da Aristotele (384-322 a.C.) che, al contrario di Democrito, riteneva che il mondo terrestre fosse corruttibile ed alterabile, immaginandolo come un miscuglio di vari elementi che si trovavano nelle sfere concentriche della Terra, dell’Acqua, dell’Aria e del Fuoco.
Epicuro da Samo (341-270 a.C.), invece, riprese l’atomismo e in un certo senso lo perfezionò riuscendo anche a dare una giustificazione al moto degli atomi. Epicuro affermava che gli atomi avevano un ‘peso’ e che nel loro moto di caduta libera, quindi parallela, subivano una deviazione casuale detta clinamen che provocava gli urti e dunque le aggregazioni che originavano i corpi.
La Chiesa riteneva pericolose le teorie atomistiche e quindi materialistiche di Democrito ed Epicuro e giudicava eretico chiunque le professasse. L’ipotesi atomica fu bandita a tal punto che gli scienziati cominciarono a prenderla di nuovo in considerazione solamente intorno al 1600.

Teoria atomica di Dalton

Uno dei primi studiosi a proporre una teoria atomica basata sull’indagine scientifica piuttosto che sulla speculazione filosofica fu John Dalton (1766-1844). Il chimico inglese riprese l’idea della struttura atomica della materia riuscendo a costruire una teoria scientifica che spiegava i risultati dei numerosi esperimenti sulle trasformazioni delle sostanze. Attraverso i suoi studi sulle sostanze gassose e grazie alle leggi fondamentali della chimica note a quel tempo, arrivò alla conclusione che la materia era discontinua, era formata cioè da particelle che non potevano essere ulteriormente divisibili né trasformabili. Dalton propose una teoria seconda la quale gli atomi di ogni elemento erano tutti uguali, avevano massa e proprietà uguali e nelle trasformazioni chimiche, pur conservando la propria identità, si univano o si separavano secondo rapporti ben definiti, generando i composti.
Pubblicò, inoltre, un primo elenco di elementi chimici conosciuti e alcune leggi sulla combinazione dei gas e degli elementi e, dopo di lui, vennero misurate in modo indiretto alcune proprietà atomiche come il peso.

Modello atomico di Thomson
Il primo modello fisico dell’atomo si deve a Joseph John Thomson intorno al  1908. Lo studioso sosteneva che l’atomo non fosse la sferetta compatta e solida descritta da Dalton, ma un aggregato di particelle più semplici. Secondo Thomson, l’atomo era costituito da una sferetta omogenea di materia caricata positivamente, di dimensioni dell’ordine di  cm, in cui erano immerse particelle con carica negativa, distribuite in maniera uniforme e senza una disposizione spaziale particolare, disseminate come “l’uvetta nel panettone”. Le cariche positive non avevano nessun peso a differenza di quelle negative che invece determinavano il peso di tutto l’atomo. Gli elettroni rimanevano in uno stato di equilibrio all’interno dell’atomo, in quanto erano soggetti ad un sistema di forze attrattive verso il centro; quando la materia acquistava molta energia, gli atomi venivano eccitati e gli elettroni cominciavano a vibrare, oscillando intorno alle posizioni d’equilibrio ed emettendo una radiazione che ionizzava l’atomo, che creava, cioè, una disparità tra cariche positive e cariche negative. Questo comportamento dell’elettrone riusciva in qualche modo a spiegare l’esistenza delle righe spettrali tipiche dei vari elementi chimici. La radiazione, causata dalle cariche in movimento, infatti, ha una certa frequenza che determina la lunghezza d’onda e quindi produce delle particolari linee spettrali.
Thomson non riuscì a dimostrare in maniera esauriente perché i vari elementi chimici avessero tendenze differenti a ionizzarsi ma, ipotizzando che gli elettroni si distribuissero uniformemente su strati successivi, riuscì in qualche modo a spiegare la periodicità delle proprietà chimiche degli elementi legandola proprio al comportamento degli elettroni più esterni.

Modello atomico di Rutherford

Nel 1911 il fisico neozelandese Ernest Rutherford portò a termine una serie di esperimenti per confermare la validità del modello di Thomson ma ottenne un risultato del tutto inaspettato che lo portò a formulare una nuova ipotesi di modello atomico.
Con l’aiuto dei suoi collaboratori Geiger e Marsden, Rutherford lanciò un fascio di particelle alfa (atomi di elio completamente ionizzati cioè privi di elettroni) contro una sottilissima lamina di oro intorno alla quale furono posizionati degli schermi fluorescenti. Le particelle alfa avevano una massa quasi 10000 volte più grande di un elettrone e una velocità uguale a circa 1/10 della velocità della luce e quindi quasi tutte attraversavano la lamina come se questa fosse trasparente e rimbalzavano sugli schermi, producendo un piccolo lampo di luce visibile al microscopio che permetteva di stabilirne la traiettoria dopo il passaggio attraverso la lamina. Misurando gli angoli di deflessione delle particelle alfa, cioè, era possibile ricavare informazioni sulla struttura degli atomi d’oro. Se il modello di Thomson fosse stato valido e quindi l’atomo avesse avuto veramente una struttura omogenea, le particelle alfa si sarebbero comportate tutte nello stesso modo dal momento che ogni punto della lamina aveva le stesse caratteristiche e sarebbero state deviate solo leggermente dalla forza elettrica esistente tra le cariche dell’atomo, distribuite su un volume grande, e la carica positiva della particella alfa che gli si avvicinava o lo attraversava. Rutherford, invece, notò che le particelle si comportavano in maniera diversa: la maggior parte di esse passavano senza subire nessuna deviazione, ma altre venivano deviate secondo vari angoli e alcune venivano addirittura respinte, riflesse dalla lamina. Questo comportamento spinse Rutherford a pensare ad un atomo sostanzialmente vuoto in cui quasi tutta la massa era concentrata nel centro e con una forma simile al sistema planetario nel quale gli elettroni ruotavano su orbite circolari intorno al nucleo, come fanno i pianeti intorno al Sole. Gli elettroni si mantenevano sulle loro orbite grazie alla forza elettrica, proprio come i pianeti rimanevano nelle loro grazie alla gravità.
Modello atomico planetario
l’atomo è costituito da un nucleo positivo estremamente piccolo (con raggio dell’ordine di  m) posto al centro di una sfera molto più grande (con  raggio dell’ordine di  m) dove la carica degli elettroni è più o meno uniformemente distribuita.
Nell’esperimento, quindi, le particelle alfa che si avvicinavano al nucleo tornavano indietro perché subivano la sua forza repulsiva mentre tutte le altre venivano leggermente deflesse perché passavano lontano dal nucleo dove la forza repulsiva era minore ed era anche attenuata da quella attrattiva degli elettroni.
Secondo la teoria di Rutherford l’elettrone non poteva mai uscire dall’atomo in quanto possedeva energia orbitale negativa (l’energia cinetica risultava minore di quella potenziale) e nello stesso tempo poteva percorrere qualsiasi orbita attorno al nucleo dal momento che i valori assunti dall’energia dipendevano solo dalla sua distanza dal nucleo.
Se il modello di Thomson era fallito perché non riusciva a spiegare la deflessione delle particelle alfa, quello di Rutherford veniva messo fortemente in crisi dalle leggi dell’elettromagnetismo. Soggetto ad un’accelerazione centripeta dovuta alla forza attrattiva esercitata dal nucleo positivo e muovendosi su una qualunque orbita, l’elettrone avrebbe dovuto emettere onde elettromagnetiche, come fanno tutte le particelle cariche in moto accelerato. Negli elettroni in orbita attorno al loro nucleo, invece, non si osserva nulla di ciò e, inoltre, se questo avvenisse, l'elettrone dovrebbe perdere rapidamente energia, diminuire la sua energia cinetica e quindi la sua velocità ed alla fine cadere sul nucleo. L’elettrone, inoltre, può trovarsi su un’orbita qualsiasi e quindi può emettere tutte le frequenze mentre sperimentalmente si osserva che ogni elemento chimico è caratterizzato solo da alcune righe spettrali. Il modello di Rutherford, in conclusione, contraddiceva l’evidenza sperimentale della stabilità degli atomi e delle righe spettrali e non forniva una ‘lunghezza caratteristica’ per gli atomi.

Modello atomico di Bohr

Nel 1913 il fisico danese Niels Bohr propose una modifica concettuale al modello di Rutherford basandosi sul concetto di quantizzazione introdotto pochi anni prima da Planck, riuscendo così a spiegare alcune proprietà dell’atomo di idrogeno. Secondo Bohr non era corretto estendere le leggi classiche, valide per il mondo macroscopico, al mondo sub-atomico, di dimensioni eccezionalmente più piccole. In particolare, Bohr pensò che la causa del disaccordo tra teoria e realtà consistesse nell'aver attribuito agli elettroni una libertà infinita nel loro moto orbitale, così che essi potessero percorrere qualsiasi orbita intorno al nucleo. Egli stabilì nuove leggi e propose un nuovo modello atomico che si basava su tre ipotesi fondamentali:

  • Nell’atomo gli elettroni ruotano intorno al nucleo su orbite circolari come nel modello planetario di Rutherford ma queste orbite hanno un raggio determinato che può variare all’interno di un insieme di valori ‘permessi’.
  • Il momento angolare degli elettroni è quantizzato, può assumere cioè solo alcuni valori ben definiti ma non quelli intermedi.
  • Quando l’elettrone percorre un’orbita, a cui corrisponde una certa energia totale, non irraggia. Ciò vuol dire che l’emissione o l’assorbimento di energia sotto forma di onde elettromagnetiche avviene solo se l’elettrone ‘salta’ da un’orbita all’altra.

Non solo le cariche elettriche, dunque, ma anche le orbite degli elettroni in un atomo sono quantizzate: il raggio dell’orbita, la velocità dell’elettrone e la sua energia totale possono assumere solo un insieme di valori ben definiti. Secondo le leggi della fisica classica l’elettrone è soggetto alla forza di attrazione del nucleo che provoca il suo moto di rotazione e quindi costituisce la sua forza centripeta. Su ogni orbita l’elettrone possiede una certa quantità di energia sia cinetica (dovuta al moto) sia potenziale (per l’attrazione elettrostatica tra elettrone e nucleo). Per passare da un’orbita all’altra l’elettrone cede o assorbe energia, sotto forma di radiazioni elettromagnetiche, in quantità corrispondente alla differenza di energia tra le due orbite. Se un elettrone cade su un livello di energia inferiore viene emesso un fotone; per il principio di conservazione dell’energia, l’energia del fotone è uguale a quella persa dall’elettrone cioè alla differenza di energia tra i due livelli. Sapendo che l’energia del fotone è data dalla sua frequenza moltiplicata per la costane di Planck , la relazione matematica che lega i valori dell’energia sull’orbita di partenza  e su quella di arrivo  e la frequenza delle radiazioni emesse o assorbite  è .
L’ipotesi di Bohr spiegava, quindi, perché gli spettri di emissione degli atomi erano discontinui a righe: ogni riga corrispondeva a un ben determinato valore di energia che, a sua volta, corrispondeva alla differenza di energia tra due orbite.

La teoria moderna
Con il modello atomico di Bohr si riusciva a spiegare molto bene l’atomo di idrogeno ma non quelli più complessi. Sebbene avesse introdotto l’ipotesi di quantizzazione, Bohr aveva continuato a considerare l’elettrone come una particella classica che si muoveva su orbite ben definite, il cui raggio poteva essere calcolato considerando le forze in gioco. Con lo sviluppo della meccanica quantistica, invece, si è arrivati ad un modello atomico in cui al centro vi è un nucleo composto da protoni (cariche positive) e da neutroni attorno al quale ruotano gli elettroni (cariche negative) e il concetto di orbita è stato sostituito da quello di orbitale. Il termine orbitale non indica una traiettoria bensì una certa regione dello spazio attorno al nucleo nella quale esso si può trovare con una certa probabilità. Essi hanno varie forme e sono più o meno lontani dal nucleo in relazione a particolari parametri detti numeri quantici. Nel corso degli ultimi anni, infine, si è scoperto che le particelle che formano gli atomi sono a loro volta costituite da componenti ancora più semplici chiamate quark. Solo le ricerche future ci potranno dire se queste rappresentano effettivamente l’ultimo livello della materia.


Bibliografia
Amaldi, U., Fisica: idee ed esperimenti, dal pendolo ai quark, Zanichelli
Violino, P., Robutti, O., La fisica e i suoi modelli, Zanichelli

Sitografia
www.calion.com/cultu/atomo/modelli.htm
www.arrigoamadori.com/lezioni/Sintesi/TeoriaAtomica.htm
www.fisicachimica.it/atomo.htm
www.itchiavari.org/chimica/materiali/atomo.html
it.encarta.msn.com/encyclopedia_761567432_2/Atomo.html

 

Fonte: http://people.na.infn.it/~lizzi/corsiabilitanti/scafati.doc

Sito web da visitare: http://people.na.infn.it

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