Cinema e disabilità

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Cinema e disabilità

 

IL CINEMA E LA DISABILITA’
UNA METAFORA  DELLA  CONDIZIONE UMANA
Umberto Brancia

 

Il rapporto tra cinema e disabilità  investe alcuni dei punti critici dell’immaginario contemporaneo, sia dal lato dello spettatore che da quello degli autori. La diversità, in specie nella moderna società di massa, inquieta e rende diffidenti: i modelli culturali della modernità sono uniformati a canoni di  normalità stereotipata, che la sociologia dei mass- media ha analizzato sin dagli anni cinquanta. D’altro canto, il corpo del diverso  ipnotizza e attira  il pubblico entro un  recinto, che oscilla tra voyeurismo e crudeltà.  Analizzeremo quindi questo tema cercando di vederne tutte le implicazioni sociali
Non a caso l’altra dimensione  del divo, il suo lato oscuro  è sempre stato il mostro, l’orrido. Ogni grande attore (da Gerard Philiphe a Tom Cruise)  ha deformato, ad un certo punto della carriera, la propria immagine originale, in genere di grande fascino.
Questa ambiguità, lo scambio tra opposti (normale/ anormale; bello/ brutto) accompagna tutta la storia del cinema, al punto che alcuni registi hanno spesso rotto il diaframma dell’invenzione, della recitazione professionale, e hanno fatto interpretare  le loro storie  non ad attori, ma a disabili autentici: ci riferiamo ovviamente al caso più celebre, Tod Browing e i protagonisti del suo Freaks (1932);  al contrario, nel suo Idioti  Lars von Trier affida ad   attori cosiddetti normali il ruolo di finti disabili, che usa per mettere alla prova l’ideologia  conformista della normalità. In ogni caso, il disabile (di ogni tipo)  è la  prova  cruciale delle nostre debolezze, del confine che separa pietismo e riconoscimento sincero di ogni differenza.

Dalle origini agli anni cinquanta.
Malgrado lo scandalo suscitato da Freaks,  il cinema alle sue origini non esce quasi mai  dall ’ alternativa tra commozione ipocrita e ghettizzazione del “mostro”, del diverso. Il mostruoso Quasimodo di  Notre Dame, nelle due versioni –  sia quella del 1923 interpretata da Lon Chaney che quella di Charles Laughton nel film di William Dieterle ( 1939) -  sono da questo punto di vista esemplari: la deformazione grottesca, di taglio gotico, si sposa ad una concezione romantica e punitiva, che condanna la diversità ad un destino di infelicità e di morte.
Non c’è salvezza per  ogni disabile  e la funzione  ideologica di queste opere è  fin troppo evidente: commuovere la  buona coscienza del pubblico, e farlo  uscire dalla sala più   buono (e quindi assolto).
Nel secondo dopoguerra, questa funzione di legittimazione dell’etica dominante si colora di significati politici e ideologici: nel celebre L’invasione degli ultracorpi (1956) di Don Siegel, i misteriosi baccelli arrivati dallo spazio si insinuano nella tranquilla vita di  una cittadina di provincia, simbolo di una normalità che si sente minacciata nei suoi fondamenti (il comunismo? o piuttosto i propri radicati istinti di distruzione ?). 

Ha scritto Daniele Barbieri, in un bel saggio su come la fantascienza letteraria racconta l’handicap (lo traiamo da un interessante fascicolo di Mosaico rivista del  Centro Servizi del Volontariato, di Ferrara, dedicata ad un convegno su Letteratura e diversità, Dicembre 2003). “La fantascienza parla di questo. C’è un alieno dello spazio, ma c’è anche quello sessuale, un alieno culturale e uno sociale, un alieno politico e uno che è “ diversamente abile” (p.13).
I films del realismo sociale americano accentuano questo aspetto, che Barbieri sottolinea correttamente. Un paio di titoli per capire ancora una volat che non stiamo parlando di disabili, ma di noi stessi, della nostra precarietà. In Uomini, il mio corpo ti appartiene (1950) di Fred Zinnemann, il nucleo più autentico dell’esperienza del soldato  ferito  in guerra è  raccontato attraverso le tappe della riabilitazione, e  il reinserimento nella vita civile.

Una  frattura della normalità
In questa fase,  il disabile - che sia l’eroe di guerra o la cieca  de La scala a chiocciola (1946) di Robert Siodmak - comincia  a divenire un protagonista con una dignità e un profilo psicologico credibile. Non è però un soggetto autonomo e non esprime tutta intera le domande della sua condizione. I cambiamenti di clima culturale, la diffusione delle categorie della psicoanalisi cominciano lentamente a creare una nuova sensibilità: favoriti dalla diffusione di nuovi bisogni di libertà  cresciuti con la società dei consumi, i confini della normalità sembrano allargarsi e dopo gli anni sessanta  si  aprono nuovi conflitti. Il disabile cerca e trova una sua visibilità, irrompendo dentro l’universo codificato della normalità.
Le differenze tra il cinema europeo e quello americano, che qui si aprono,  meritano di essere analizzate separatamente. ‘E una notazione sociologica banale, ma abbastanza veritiera. Due fattori determinano il mutamento dell’immaginario cinematografico sull’handicap, dopo gli anni sessanta: i cambiamenti del clima socio- politico e  la diffusione delle categorie della psicoanalisi, che stimolano etiche pubbliche più attente al tema della diversità.
Le aspettative da società affluente (per usare un termine di moda negli  Stati Uniti) e la richiesta di una visione più liberale dei comportamenti cominciano a creare una nuova  sensibilità, aprendo aspri conflitti, su temi come la malattia mentale, la difesa delle minoranze, ecc. 
Gran parte dei film sull’handicap, girati dopo gli anni sessanta,  saranno ispirati ad opere teatrali o a romanzi, tratti da esperienze vissute (come era tipico  della cultura anglosassone).  Si stringe cioè ancora di più quel tema dell’ immaginario con al diversità, che tocca sempre di più negli ultimi anni tutti i soggetti “ altri”,
L’industria culturale, sul  cui funzionamento  si  discuteva a lungo già dagli anni quaranta, stimola e favorisce l’osmosi tra diversi strumenti di comunicazione. Il cinema registra  i mutamenti dei valori culturali e in molti casi li favorisce e li massifica. Le opere cinematografiche sull’handicap si muoveranno d’ora in poi su due direzioni.
Per un verso, la diversità permea di sé come tema ricorrente ogni genere  cinematografico (dal western al giallo): nello stesso tempo, si amplia l’area dei film dedicati alla disabilità. Il corpo sofferente, dimezzato e ferito dalla malattia, arriva sulla scena evocando i timori e le paure della normalità. La riflessione sui limiti della normalità si colora immediatamente di significati  etici e politici.
Basti citare un dato, che  si può  definire emblematico. Lo sceneggiatore Dalton Trumbo, che era stato inserito nella liste di proscrizione del maccartismo durante gli anni cinquanta,  realizza  solo nel 1971 E Johnny prese il fucile, tratto da un suo romanzo del 1938. La trama era stata  giudicata impresentabile non solo per il suo pacifismo radicale, ma per  la natura del soggetto.
Il film è insieme una perorazione contro la guerra e una riflessione sull’uomo disabile. Il protagonista, colpito da una cannonata nell’ultimo giorno della guerra 1914-18, perde grande parte dei suoi organi . Isolato nel proprio letto, un brandello sanguinante – grumo di orrore e di tenerezza -  getta verso il pubblico un appello doloroso ad un ascolto adulto, ad una condivisione del proprio dolore.

 

Il cinema americano: tra riflessione etica e malinconia del mostro 
Trumbo fornisce un modello - estremo nella sua drammaticità -  a tutto un filone di opere, che valorizzano l’aspetto   civile o sociale del problema dell’handicap. Che sia un reduce di guerra, o  solo un essere colpito da una natura matrigna, il disabile diviene la  lente d’ingrandimento  delle ipocrisie di una società malata di  bellicismo o di crudeltà verso i più deboli.
Il periodo è quello della rinascita del nuovo cinema americano degli anni settanta e ottanta, in cui il realismo dello stile si sposa alla protesta civile.  Due titoli bastano a segnare un  periodo ed ad indicare un ‘atmosfera culturale: Tornando a casa di Hal Ashby (1978) e Nato il 4 luglio (1989) di Oliver Stone. I corpi piagati dei protagonisti non sono più  frammenti separati di uomini che invocano  pietà e  cura. Esprimono piuttosto una domanda  di  riconoscimento, una richiesta di dignità e umana pienezza. 
Questi film  hanno contribuito alla maturazione del pubblico, e  probabilmente hanno anche  fatto comprare i libri da cui erano tratti.

Ingenui, ma non troppo...
 Molti sono stati i volti che hanno  segnato  l’immaginazione degli spettatori, con opere  spesso di  grande resa spettacolare.  Le opere di questo periodo si muovono tra due polarità opposte, che non sempre  raggiungono un  equilibrio. A volte, il racconto di una sofferenza supera la  sfera della commozione  consolatoria , divenendo apologo amaro sulla follia di un ordinamento sociale.
Penso all ’ “ ingenuo” pescatore di gamberi,  disegnato da Tom Hanks in Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis, che  attraversa con lucido candore tutti conflitti  di quel periodo; o al giardiniere  infantile, scambiato per un grande uomo d’affari, che forse arriverà alla presidenza degli  USA  in Oltre il giardino (1979) di Hal Ashby.
In altri casi, prevale l’obbiettivo di  consolare e stimolare le emozioni  del pubblico, anche se spesso con una grande  capacità di fascinazione narrativa. L’identità  del disabile  è affidata qui alle capacità del grande attore, con la sua ricchezza espressiva, ma anche con i manierismi e le ambiguità, che sono  tipiche  dei mattatori.
La vitalità di queste opere è assicurata da un  delicato e fragile intreccio: ci riferiamo all’appassionata, vitalissima  sordomuta di Figli di un dio minore (1986) di Randa Haines; o all’ autistico geniale di Rain Man (1988) di Barry Levinson, in lotta con le paure del fratello e  il conformismo degli psichiatri; e , tra gli ultimi, allo scienziato schizofrenico, riletto con precisione maniacale e angosciosa  da Ron Howard in A Beatiful Mind (2001).
Se si dovesse trarre un bilancio da questo filone, direi in sintesi che esso ha toccato ormai i suoi limiti  stilistici e di contenuto. La denuncia etica sulla diversità tende a ripetere se stessa o a divenire - nei casi peggiori-  spettacolo. Solo in  due casi il cinema americano ha toccato delle zone di vera inquietudine nel riflettere su normalità e disabilità.

Due registi anomali: Arthur Penn e Tim Burton
Uno è certamente il regista americano Arthur Penn che  raggiunse una fama internazionale realizzando il film Anna dei miracoli (1962), tratto dal dramma di William Gibson, The Miracle Worker, messo in scena per la prima volta nel 1957.
La vicenda si ispirava alla vita di un personaggio fuori dal comune: Helen  Keller, una bambina sordocieca, affidata dai genitori ad una istitutrice, Anne Sullivan, che aveva esperienza della menomazione fisica. La Sullivan soffriva di problemi alla vista.
Dal loro scontro- incontro, fatto di ribellione e  violenza, nasce una storia di riabilitazione, struggente e rigorosa. Penn usa il bianconero e le angolazioni  più audaci, con evidenti richiami al cinema europeo.
In tempi più recenti, Tim Burton ha  analizzato il tema della diversità , in opere di  rara intensità, che coniugano le forme del cinema industriale con la sensibilità dell’autore. Scrive Giacomo  Manzoli (in HP, n. 48, 1995, la bella rivista che abbiamo citato più volte), “ ..Burton un giovane autore che, fin dal suoi esordi, ha saputo sviluppare una vera e propria poetica della diversità, dell'esclusione, dell'artista come corpo estraneo, e del solitario (non per scelta) come prototipo dell'artista. Tutto questo fa sì che nei suoi film il patetico imperi, ma nell'accezione positiva (o comunque non negativa) del malinconico.

Da Beetlejuice (1988)  a Mr. Skeleton, da Batman  (1989 – 1992) al giovane Edward mani di forbice ( 1990) sino alle opere di questi ultimi anni  ( penso, tra gli altri, a Big Fish )  i suoi eroi sono gente che ha subito una mancanza, una menomazione fisica o psichica della quale portano ben visibili i segni. Una mancanza che ha, al contempo, donato loro qualcosa, una mancanza che li ha spinti ai margini della società dei normali “.
Manzoli qui individua il filone più interessante del cinema americano negli anni ottanta e novanta in cui il tema della diversità riemerge come interrogativo, coscienza di una frattura drammatica : dal mostro di Alien (1979) che alberga nel corpo degli uomini normali,  ai replicanti di Blade  Runner (1982) più umani dei loro crudeli creatori, i diversi sono condannati  alla ghettizzazione o alla morte: il mostro, il diverso ci racconta con troppo realismo le nostre paure: “… In Ed Wood questi personaggi sparsi e solitari si raccolgono in una comunità ristretta, destinata ad essere incompresa, temuta e minacciata da coloro che la vedono dall'esterno e non sanno superare il ribrezzo o la paura. Una comunità di mostri, ma una comunità umana, dove la sofferenza preliminare ha lavorato a che la regola generale non sia l'aggressività ma l'indulgenza. Homo homini licantropus. Ed Wood girava horror” (Manzoli, cit ). In autori come Penn e Burton, il cinema americano si ricollega allo spirito e alle ossessioni del cinema europeo, e a questo sarà dedicata l’ultima parte del nostro lavoro.
 

 IL CINEMA EUROPEO E GLI ENIGMI DELLA DIVERSITÀ

Il cinema europeo, dopo gli anni sessanta, si caratterizza per una maggiore attenzione al  nucleo etico e spirituale degli interrogativi  posti dalla diversità. Nel 1969, Francois Truffaut gira  Il ragazzo selvaggio: la storia autentica dello scienziato Jean Itard, che all’ inizio dell’800 rieduca un ragazzo trovato allo stato selvaggio nei boschi dell’ Aveyron aveva già destato l’ interesse degli storici e dei filosofi (1). Basti qui dire che da questa vicenda possiamo arguire come tutta la ragione classica nasce sulla dicotomia normale/ anormale, civile/ selvaggio.
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(1) Cfr.  sul ragazzo selvaggio dell’ Aveyron, A. Canevaro, A. Goussot, La diificile storia degli handicappati, Carocci, 2000,  p.48-53
Questa opposizione percorre la letteratura, il cinema e la nascita della clinica moderna: ne ha dato una analisi esauriente il  grande critico letterario americano  Leslie Fiedler, nel suo Freaks, edito in Italia da Garzanti.

Come in Anna dei miracoli, anche nel film di Truffaut il soggetto disabile , anormale,  porta integralmente, nel confronto e nel conflitto con il suo educatore, il proprio bisogno di libertà e il diritto al riconoscimento. E ne esce in qualche modo vincitore, affermando la propria identità.
Nel 1974, il regista tedesco Werner Herzog, con L’ enigma di Kaspar Hauser, rilegge un ‘altra vicenda di un ragazzo selvaggio: il  caso del misterioso Kaspar aveva interessato scrittori come Paul Verlaine, George Trakl, e Peter Handke. Il misterioso, il miserabile diverso dagli altri diviene  l’ occasione per interrogarsi sulle ragioni della nostra civiltà, e i nostri modi di comunicare. La riflessione di Herzog diviene, attraverso la rilettura dei classici della cultura europea, un lavoro critico intorno ai limiti dell’ umanesimo borghese: che idea abbiamo realmente dell’ uomo e del suo valore? Quali ipocrisie e segrete violenze nasconde?  Questi sono gli interrogativi di fondo che percorrono questi film.

L’urlo dell’ uomo- elefante
Ma l’opera più innovativa è sicuramente  The elephant man  (1980) di  David Lynch. Con un rigore assoluto, il regista illustra il  dramma del mostruoso John Merrick, realmente esistito, che nella società vittoriana è  respinto dal conformismo sociale, e solo tardivamente accettato. Rimarrà a lungo, nella  memoria dello spettatore, il grido di dolore dell’ uomo elefante, che rivendica la propria dignità di uomo: è un ‘emozione lucida quella di Lynch, che vuole indurre ad una riflessione non mistificante. 
 Nelle pieghe del cinema europeo di questi anni, occorre  quindi andare a cercare un soffio più autentico di  verità. Si tratta spesso  di opere  rimaste  marginali o addirittura sconosciute  al grande pubblico. Ma sono comunque segnali, che esiste un filo sotterraneo e resistente di  attenzione  emotiva, che riesce  comunque a trovare un proprio pubblico.
Qualche esempio, per finire. Nel paese dei sordi di Nicholas Philibert  esplora quel mondo misterioso, che è rappresentato dal linguaggio dei sordi,  dalla loro gestualità. “ ..Con la sua espressività emotiva e visiva .. è un ritorno alle sorgenti del cinema, alla sua grammatica primitiva. Insegna a vedere, a cuore aperto” ( 2).
 In Italia , il regista Luca Vendruscolo ha raccontato in Piovono mucche ( 2003)  l’esperienza concreta e quotidiana di una comunità per disabili, nella Roma di oggi, con  delicati tratti di autenticità, che non rinunciano  ad un  vitale umorismo.’
E interessante notare in questo film che la narrazione si muove dentro il mondo del volontariato e dei luoghi che oggi lavorano con i disabili. ‘E un tentativo  felice di entrare con la macchina da presa nella realtà sociale: una cosa che il cinema non è abituato a fare spesso.

Testimoniare il dolore
Ma da ultimo occorre almeno ricordare  due opere  documentarie, prodotto fuori dai circuiti commerciali. La prima è stata realizzata da un  regista  tra i più stimati dalla critica come Daniele Segre, da anni attento a leggere le  zone più riposte della società. 
Sto lavorando ? (1988)  insegue , con quella visione a cuore aperto di cui parla Morandini, la breve esperienza di lavoro, di Matteo presso la sala ristorante della "Cittadella" di Assisi. Il ragazzo  ha un handicap psichico grave, e porta nel rapporto quotidiano con i suoi colleghi di lavoro le movenze e i manierismi della sua personalità, ma nelle piccole vicende quotidiane instaura una rete di relazioni con i “ normali” così ricche e vere da modificare la consapevolezza  degli altri e da fargli modificare qualcuno dei suoi comportamenti costrittivi.
Segre osserva con la macchina a mano i suoi protagonisti, nei gesti quotidiani del lavoro, e ne registra  l’ intensità delle emozioni. Poche volte è stato descritto e narrato con altrettanta asciuttezza ciò che il disabile chiede al mondo normale: rispetto ed amore (3)
 Sulla loro esperienza familiare, Stefano Rulli e Clara Sereni hanno realizzato recentemente il  documentario “Un silenzio particolare”, di   ulteriore impatto emotivo e direttamente  politico. Qui la macchina da presa viene messa al servizio di un racconto doloroso: la quotidiana battaglia che il disabile e la sua famiglia affrontano nella propria vita quotidiana diviene materia di una riflessione implacabile sulle responsabilità della società.
Stefano Rulli, insieme a Sandro Petraglia e Marco Bellocchiio, aveva aperto  negli anni settanta, con il celebre Matti da slegare,  una grande stagione  di discussione pubblica sul ruolo della follia e degli ospedali psichiatrici nella nostra società.
A quasi trent’anni di distanza, il cinema ci aiuta ancora a leggere nelle nostre paure ed ipocrisie più radicate: si tratti di  disabili, immigrati o sofferenti mentali
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(2) Cfr. Il Morandini – Dizionario dei film 2004, a cura di Laura, Luisa e Morando Morandini, Bologna, Zanichelli, 2004.
(3 ) Il film è stato coprodotto dalla Fondazione La città del sole, cfr. http://www.la-citta-del-sole.com/stolavorando.htm

 

(Umberto Brancia, recentemente scomparso, ha lavorato per molti anni al Ministero dei beni culturali, occupandosi della redazione della rivista “Libri e riviste d'Italia” dove, ripetutamente, ha affrontato i temi della documentazione, della informazione e del cinema connessi alla disabilità.
Il presente contributo è tratto dal suo intervento al corso “Doc..Doc..bussare alle porte della documentazione sociale” organizzato da VOLABO Centro servizi volontariato di Bologna, nel 2010)

Fonte: http://informa.comune.bologna.it/iperbole/media/files/la_diversita_e_il_cinema_brancia_csvbologna2009.doc

Sito web da visitare: http://informa.comune.bologna.it/

Autore del testo: indicato nel documento di origine

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