Cinema a colori

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Cinema a colori

 

La faticosa affermazione del colore al cinema.

Il colore ha faticato a imporsi come elemento attivo nella rappresentazione cinematografica, è rimasto per lungo tempo ai margini della rappresentazione; il suo potere compositivo è stato spesso sottovalutato, la sua capacità formativa ignorata, da un lato per problemi tecnici (ed economici), dall’altro per ragioni puramente estetiche. Eppure sin dalle sue origini non è stato possibile per il cinema farne a meno: non è mai esistito, infatti, un cinema completamente in bianco e nero (se non forse in un breve periodo degli anni ’20, come vedremo meglio in seguito); anche quello indicato come tale è in realtà perlopiù a colori: la componente cromatica era, infatti, dipinta a mano direttamente sulla pellicola, fotogramma per fotogramma. Cercheremo di delineare il percorso di emancipazione del colore con un’attenzione particolare ad alcuni momenti nodali dal punto di vista teorico e pratico, mettendo l’accento su alcuni autori o opere particolarmente importanti, dagli inizi del cinema fino agli anni ’60, epoca in cui il colore riesce finalmente a imporsi in ogni genere cinematografico con risultati rilevanti e artisticamente pregnanti.

Considerazioni preliminari.

Ci sembrano necessarie alcune considerazioni preliminari riguardo alla presenza del colore nelle immagini cinematografiche e alle modalità della sua fruizione. L’elemento cromatico sullo schermo interagisce con spazio e tempo secondo una triplice modalità:
1) in primo luogo nella disposizione all’interno di un’inquadratura; gli oggetti del profilmico si fanno portatori del colore, se ne impossessano;
2) secondariamente con il movimento delle componenti cromatiche all’interno di una sequenza, in cui si creano legami fra corpi e cose colorate e si sviluppano rapporti di assonanza o dissonanza;
3) infine nella catena dei colori che attraversano le varie scene del film nel suo complesso, nel flusso continuo delle tinte lungo l’opera.
Il colore, se reso operativo, può assumere una funzione drammaturgica seguendo il plot del film accentuando alcuni aspetti della narrazione o porsi come testo secondario, parallelo rispetto al principale; può acuire o limitare l’impressione di realtà, può determinare la struttura e la forma interna ed esterna del film, assecondare la psicologia dei personaggi o distaccarsene per contrasto. È in particolare il movimento dell’elemento cromatico a permettergli di acquisire autonomia, a renderlo produttivo. Superando la staticità che spesso risulta inerte, la componente cromatica agisce sullo spettatore, ne guida la percezione fra gli oggetti del profilmico, lo colpisce, ne suscita le emozioni più intime, attirandolo verso lo schermo o al contrario respingendolo.
Il colore in movimento in una singola scena o sequenza è definito istantaneo da Aumont, ai cui testi faremo ampio riferimento; lo studioso francese si riferisce in particolare alle pellicole dipinte del cinema delle origini : qui il colore si espone in una successione di istanti separati poi ricongiunti dal movimento, che assume un’energica funzione derealizzante e che porta alla comparsa dell’a-forma . È quella che il giovane studioso italiano Venzi chiamerà insorgenza cromatica, in cui “il colore è un elemento autonomo che immediatamente si presenta come tale in virtù di un peculiare valore d’apparizione sostanziato da una rimarchevole pregnanza plastico-figurativa” , mostrandosi come “pura visualità sovraoggettuale”, e portando l’immagine ai confini di ciò che può essere percepito, cui spesso è legato un senso testuale che è lo stesso regista a stabilire . A questo colore nato da un’improvvisa apparizione Aumont contrappone il colore duraturo, che nel cinema degli anni ‘10 si concreterà nei viraggi; Leutrat parla a tal proposito di effetto nel tempo (opposto all’effetto nell’istante) : la componente cromatica è selezionata con cura e ripetuta con insistenza in tutto lo svolgimento del film. Venzi, rifacendosi anche ai due autori sopracitati, la chiama ricorrenza della componente cromatica: gli oggetti diventano stazioni di passaggio del colore, e quest’ultimo è percepito come “motivo interno alle cose”, in cui appare e scompare, muovendosi fra loro, facendosi movimento secondo traiettorie inaspettate nate da un estremo dinamismo. L’immagine sembra qui favorire l’apparizione e il movimento del colore, secondo “il suo più semplice e immediato potere configurante (un’evidente tendenza alla serializzazione)” .
Proprio il rapporto della componente cromatica con lo spazio e il tempo, e le successive definizioni di colore istantaneo e duraturo, ma anche e soprattutto le figure dell’insorgenza e della ricorrenza del colore, ci guideranno nell’analisi di quelle opere in cui il colore si espone come colore in sé, capace di acquisire valore operativo e formativo, autonomo nella sua apparizione sullo schermo.

Gli inizi del colore al cinema.

Per definire con maggiore chiarezza gli esordi del colore al cinema ci sembra necessario considerare preliminarmente i suoi riferimenti alle altre arti, in particolare alla pittura. Dati gli evidenti “parallelismi fra vocabolario formale del materiale pittorico (forme, colori, valori, superfici) e vocabolario da forgiare del materiale filmico” , il cinema da subito si è interessato ai codici della pittura, l’ha studiata e imitata, tenuta come punto di riferimento costante, ereditandone “anche quella passività, quella regressione del colore, quell’apertura su un altro spazio” che si mostra come sua peculiare caratteristica. La pittura è stata per lungo tempo il rifugio dell’elemento cromatico, opposto al disegno: a quest’ultimo era conferita una forma quasi divina, intellegibile, eterea, lontana dalla realtà; il colore era invece strettamente legato alla sensibilità, era umano, materiale, solido . Solo nella seconda metà dell’Ottocento si affermerà come qualità pura, con il conseguente “sdoppiamento fra il contenuto dell’avvenimento e la sua rappresentazione visiva” . Assistiamo allora a un conflitto sempre più acceso fra colore e tema, fra soggettività e oggettività, fra realtà e rappresentazione, fra riproduzione e astrazione, fra contenuto del dipinto e sua forma esteriore ; a vincere è spesso una soggettività che comporta l’abbandono dell’oggettivo, il rifiuto del tema; il colore acquista così la precisa funzione di comunicare emozioni ed evocare sentimenti. La mimesi della realtà, la sua riproduzione sono lasciate alla fotografia e al nascente cinema, che possiedono mezzi espressivi più adatti alla rappresentazione, così la pittura liberatasi di ogni riferimento oggettuale, “si potrà occupare della pura organizzazione del colore [...] (divenendo) pittura assoluta, con il proprio oggetto in se stessa, e alla base l’azione (biologica) del colore” . Può così rappresentare al meglio la società della fine del XIX sec. investita da un’esplosione di colori, legata alla crescita economica del mondo occidentale, sempre più ricco e avviato verso la società dei consumi; più forte era l’offerta ma anche la domanda di colori, dominanti ormai nel mercato delle immagini e nelle merci. I manifesti pubblicitari iniziavano a tappezzare con le loro tinte sgargianti i muri cittadini, come i passages descritti da Benjamin , in cui capita di addentrarsi in paesaggi totalmente artificiali, simili ad acquari, ed essere colpiti da colori che testimoniano appieno il sogno progressista ottocentesco, e che sembrano fungere da “comfort percettivo addizionale elargito all’immagine, “rivestimento” o fodera cromatica di una visione in cui sprofondare” .
è anche per questa richiesta di colore, un colore brillante cui sembra associata una maggiore vitalità e uno spirito più portato al progresso e alla modernità, che il cinema non ha potuto ignorare la componente cromatica e ha cercato in tutti i modi di impiegarla attivamente e di migliorarne la resa sullo schermo. Del resto già i suoi immediati predecessori, ad esempio il Kinetoscope di Edison, avevano sentito l’esigenza di inserire il colore nelle immagini, rifacendosi soprattutto al teatro da cui sovente erano ripresi i semplici sketch, nel tentativo di riprodurne gli effetti, allontanandosi dal mimetismo naturalistico cui le immagini in movimento sembravano destinate . Già la prima pellicola ortocromatica si mostra estremamente sensibile  e adatta per un’applicazione diretta della tinta, dipinta a mano. Questo metodo così simile alle fotografie colorate, acquista dimensioni imponenti fino a diventare una vera e propria industria. Agli ordini di Mademoiselle Chaumont, per citare l’esempio più importante, migliaia di operaie danno i colori ai film Pathé che acquistano un ruolo primario nel mercato non solo francese. L’artigianato delle origini è in rapida trasformazione e le opere Pathé, ben presto prodotte in serie, diventano sempre più esatte e perfezionate ma anche più fredde e convenzionali. Il film diviene merce e il colore è un valore aggiunto che, nell’avvicinarsi al realismo, vuole rassicurare lo spettatore, turbato dai movimenti di luce sullo schermo . L’effetto tuttavia è spesso contrario, almeno nei primi tempi, e le tinte Pathé risultano fortemente espressive, e il loro effetto sullo spettatore è sempre quello di una scossa, di uno shock .
In realtà è duplice il modello alla base di quest’ampio utilizzo della componente cromatica: pittorico e fotografico. I pittori affascinano i cineasti per il loro rapporto “immediato, personale e intenzionale” con le tinte, per la loro possibilità e capacità  di manipolarle, creando assonanze o dissonanze visive, per evidenziare o addolcire alcuni particolari, in senso emozionale e personale, realmente e genuinamente creativo. Il cinema, tuttavia, non tralascia il modello fotografico, legato alla  riproduzione precisa della realtà, all’immagine come traccia del reale; qui è scarso l’intervento personale dell’artista che deve limitarsi a riprendere in modo meccanico, alla ricerca della maggiore oggettività possibile. In questo caso l’elemento cromatico è quasi rifiutato, perché eccessivo, distraente; a rappresentare al meglio la realtà è il b&n con tutte le combinazioni, sfumature, tonalità fornisce uno specchio sufficiente per il mondo e la sua rappresentazione.
A prevalere in questi piccoli film delle origini è tuttavia il primo modello: il cinema dei primi anni è “espressione poetica più che comunicazione, arte della visione, strumento di conoscenza estetica” ; è un’arte non ancora cosciente delle sue capacità rappresentative, delle sue qualità visive, che si muove all’interno di “una visibilità indefinita, aperta sull’ignoto” . Si tratta di un cinema che, come dice Dubois, “descrive la mostrazione piuttosto che la narrazione, la presentazione piuttosto che la rappresentazione, la temporalità istantanea piuttosto l’organizzazione nella durata, l’interpellazione diretta dello spettatore piuttosto che il suo isolamento nel seguire la diegesi, l’esibizione accentuata dei propri mezzi figurativi piuttosto che la loro messa in secondo piano nei confronti della trasparenza dell’azione raccontata” . La funzione del colore era perciò manifesta: aumentare la spettacolarità dell’immagine, renderla più attraente e affascinante, shoccare lo spettatore attraverso una sorta di coreografia colorata, che appare sullo schermo come soprappiù delle immagini in movimento . Oltre al movimento di queste ultime, o meglio al vagare per l’immagine di attori o oggetti, visto che l’inquadratura era fissa e i movimenti di macchina nulli, si affermava il movimento del colore come spettacolo nello spettacolo, che andava oltre la banale narrazione principale. Quest’utilizzo del colore definito “percutant” dallo stesso Dubois, svolge un’azione intensa sullo spettatore, che è immerso in una rappresentazione irreale, portato a giocare con la propria irrazionalità, a confrontarsi con una dimensione estranea, sconosciuta e da scoprire. Le tinte, che mettono in evidenza soprattutto i dettagli di cose e corpi, rendono le immagini più vistose, le allontanano dalla realtà e dalla matrice fotografica; il colore, in particolare nei suoi movimenti anche disorganici sullo schermo, si presenta in insorgenze continue e diviene “spettacolo a sé” , libero di agire, attivo e formatore, spesso oltre le stesse intenzioni dei registi e dei tecnici. Quale rapporto s’instaura allora fra immagini e colori in movimento? Questa esibizione dell’elemento cromatico, che allontana dalla realtà, si afferma come una forzatura, una "effrazione visibile della natura fotografica del film” . Il colore sembra uscire dallo schermo e “percuotere” lo spettatore, sembra solidificarsi all’interno dell’immagine per poi distaccarsene, non prima di averle, per così dire, contagiato l’astrazione, di averla separata dalla concretezza , con il suo movimento dalla forte resa plastica. E l’immagine filmica che, come dice benissimo Venzi , si nutre del reale, tende perciò a opporsi strenuamente a questa azione derealizzante, reagisce e facilita l’espulsione da sé della componente cromatica, la dirige verso un altro spazio, tentando di ricomporre il proprio contenuto nella sua integrità e organicità, destinata sovente al fallimento.

Méliès, il colore come artificio.

Méliès è l’emblema dei tentativi compiuti dal cinema sin dalle sue origini di piegare, da un lato, la componente cromatica ad una maggiore verosimiglianza, potenziando l’aderenza delle immagini alla realtà rappresentata e dall’altro, di conferirle maggiore libertà compositiva e formativa, senza per questo renderla totalmente astratta. Il suo cinema fantastico e onirico è in realtà sin dagli inizi assai costruito e la razionalità ingegnosa del francese è sicuramente pari alla sua fantasia. Le sue opere-giocattolo divertenti per adulti e per bambini per la prima volta prevedono un accurato lavoro di preparazione delle scenografie e dei costumi, un’attenzione rara al profilmico, a tutto ciò che deve essere posto davanti alla fissità della macchina da presa . Méliès intuì l’importanza della costruzione dello spazio e degli elementi scenici per muovere l’attenzione dello spettatore su determinati particolari dell’immagine, messi in evidenza e poi collegati fra loro; così attraverso vari effetti illusionistici o psicologici si possono suscitare meraviglia o eccitazione, si può sorprendere il pubblico che richiedeva uno spettacolo sempre più sofisticato. Ma Méliès sembra preoccupato anche della verosimiglianza dei suoi colori, è conscio che un eccesso di spettacolarizzazione possa nuocere alle sue immagini, ne renda complicata la fruizione. Da un lato c’è quindi la ricerca di un colore astratto ed espressivo, dall’altra la forte esigenza di conservare il contatto con la realtà da cui le sue magnifiche costruzioni sempre hanno origine. È la medesima dialettica che anima le opere di molti pionieri della settima arte, ma anche le discussioni fra teorici e tecnici. Méliès è convinto che ogni accessorio vada dipinto in diverse tonalità di grigio perché possa assorbire meglio il colore della successiva colorazione a mano; eppure le difficoltà notevoli tecniche allontanano da una buona resa del colore sullo schermo e il regista di Parigi ne è cosciente: “(Le scenografie) vengono orribilmente male. Il blu diventa bianco, i rossi e i gialli diventano neri, così come i verdi; ne deriva una completa distruzione dell’effetto” . La strada da percorrere è lunga eppure Méliès s’impegna nella ricerca sul colore che marchi una differenza rilevante con il b&n, che possa conferire una maggiore forza attrattiva alle immagini.
Spesso le ristampe dei suoi film sono l’assemblaggio di copie diverse, stampate in luoghi e tempi differenti; sono in parte in b&n in parte a colori, con o senza viraggio, e appare subito evidente la notevole differenza fra i vari frammenti, colorati e non: la componente cromatica conferisce effettivamente un eccezionale surplus di spettacolarità all’opera, in particolare per il suo movimento che entra in un fecondo rapporto dialettico con la forzata staticità dell’inquadratura. Alcune sequenze di questi piccoli film sono pensate col colore: pensiamo ad esempio a una mirabile scena di un film del 1905, Il sogno di Rip in cui gli abitanti del villaggio del protagonista, alla sua ricerca, scendono da una ripida collina, la cui vegetazione è colorata con diverse tonalità di verde, lungo un sentiero a spirale; agitano delle lampade dalle svariate tinte, su cui emergono il rosso e il giallo. Il balletto di questi colori rende la scena spettacolare e divertente, il loro movimento s’insinua negli occhi e nella mente dello spettatore, lo sorprende e colpisce, e l’effetto sarebbe totalmente annullato se il colore fosse assente. Il regista, autore di migliaia di film, la maggior parte dei quali pensati col colore, utilizza perlopiù colori primari: il giallo caratterizza gli sfondi, gli arredi di fastosi palazzi ma anche i gioielli di dame eleganti, i filamenti degli abiti; è quindi usato come colore dello sfondo ma anche del dettaglio e raffigura in genere opulenza e sfarzo. Tuttavia, è per esempio il caso di Jeanne d'Arc (1900), puòanche rappresentare la religiosità, la luminosità del divino, la luce del bene. I rossi segnalano in genere un pericolo, appaiono in improvvise insorgenze, legati soprattutto al sole e al fuoco; spesso arrivano a occupare tutto lo schermo colorando con un effetto irrealistico il fumo dell’inferno o semplicemente di un mondo fantastico estraneo al nostro, in cui molte di queste piccole opere sono ambientate .
Se da un lato i film di Méliès appaiono ancora colorati in modo rozzo e ingenuo dall’altro non si può ignorare la presenza di una pionieristica riflessione sugli effetti del colore sulla psicologia dello spettatore, un lavoro embrionale sulle qualità delle tinte pure, sulla loro capacità di portare con sé sentimenti, emozioni. Méliès, pur non rifiutando assolutamente il realismo, tenta in modo coraggioso e soprattutto consapevole di ottenere dal colore qualcosa di nuovo, lo considera come un effetto speciale, che diviene elemento ideale per il suo cinema fantastico e ingegnoso. E la magia di queste opere rimane intatta a distanza di più di un secolo proprio, come nota con acutezza Montesanti, per questa dialettica vero-falso, per “L’equivoca precisione con cui sono disegnati allo stesso modo tanto i lineamenti «verissimi» di creature fantastiche [...] quanto le squisite falsitudini degli ambienti più quotidiani cui gli iperbolici colori davano una stravaganza in più” . Il regista francese sembra quindi privilegiare la componente cromatica come soprappiù di realtà, sostenendo la sua forza formatrice, ma a fatica si allontana dalla matrice reale, nella convinzione che il cinema non sia un’arte puramente astratta ma debba fare i conti con gli oggetti reali, ma li debba anche trasformare, deformare, rappresentare in modi nuovi.

Colore “naturale” e coesistenza con il b&n.

L’aspirazione ai “colori naturali” sin dalle origini spinge comunque la settima arte , che, non dimentichiamo, nasce come “semplice procedimento meccanico di registrazione, di conservazione e di riproduzione degli spettacoli visivi mobili” . Il desiderio di tanti cineasti ma anche e soprattutto dell’industria è quello “di portare sullo schermo i colori della vita reale” , e molti sono i tentativi dalla Kinemacolor di William R. Paul nel 1906 al Kodachrome nel 1916, fino al Technicolor, prima con un sistema bicromatico sottrattivo, in seguito, dalla seconda metà degli anni ’30, con il tricromatico . Il colore è un problema in sospeso, che non può essere ignorato. Sin dalla fine degli anni ’10 si cerca la via della codificazione del suo utilizzo, con una serie di manuali che provano a “venire incontro alle esigenze del pubblico in attesa di trovare il modo di riprodurre «naturalmente» i colori grazie a mezzi fotografici” , per una riproduzione fedele dei colori della realtà che elimini ogni arbitrarietà e abuso; eppure, al di là di qualche sporadico successo di critica e pubblico il colore naturale non riesce ad affermarsi: troppi i limiti tecnici, troppo complicata la ricezione del pubblico, del tutto o quasi assente una specifica estetica del colore che si differenziasse da quella per il b&n.
In vari modi si cerca comunque di inserire l’elemento cromatico in un film, anche se questo non è girato direttamente a colori: il pochoir , l’imbibizione, il viraggio sono usati spesso in combinazioni fantasiose che rendevano ogni copia unica, come se l’arte cinematografica si rifiutasse di eliminare l’aura benjaminianamente intesa dalle sue opere . Sono colori che, inadatti alla riproduzione esatta della realtà, conducono paradossalmente “alla stilizzazione, (con) una ricchezza di fantasia e una capacità di trasfigurazione che non sarà facile ritrovare più tardi” .
Il colore, incapace di affermarsi in modo esclusivo, convive col b&n secondo specifiche modalità che possiamo ridurre con Aumont a due fondamentali: nella prima la componente cromatica costituisce un’opera a parte rispetto al b&n, che viene quasi annullato creando così non pochi problemi alla rappresentazione, con l’immagine che cerca di espellere il colore, lo rifiuta; tipiche di questa lotta violenta sono per lo studioso francese le pellicole dipinte a mano, di cui abbiamo parlato in precedenza. Nella seconda il colore s’impregna nella massa e nel volume del film; nell’imbibizione e nel viraggio, la presenza del colore è sotterranea, si gioca fra la sua presenza e la sua assenza. Dando alla pellicola una tinta uniforme per inquadratura o sequenza, è così possibile un effetto drammatico o figurativo più accentuato, si creano atmosfere che rispecchiano gli stati d’animo dei protagonisti (con una certa convenzionalità nella corrispondenza tinta-emozione), si segue la narrazione, sottolineandone alcuni passaggi o elementi. È il Demi-melange di cui parla Dubois per il quale il gioco del b&n con i colori si sviluppa seguendo il simbolismo arcaico della luce e della chiarezza. Questo metodo ebbe il suo momento più felice negli anni ’10, in cui assieme a una grande quantità di opere poco interessanti e assai convenzionali emergono capolavori che mostrano tutte le potenzialità della componente cromatica; da Straight Shooting (John Ford, 1917) capace attraverso la mescolanza di imbibizione e viraggio di utilizzare il colore “in senso linguistico […] non per aggiungere un senso di realtà, ma per sottolineare, enfatizzare un elemento narrativo” , a Il gabinetto del Dottor Caligari (Wiene, 1920) , film simbolo dell'espressionismo, caratterizzato da una trama contorta e soprattutto da uno stile assolutamente originale: inquadrature sghembe e perlopiù fisse, presenza di forti contrasti fra luci e ombre, scenografie allucinate e spigolose, in cui minacciosi dedali di strade spesso conducono a vicoli ciechi; punte e spigoli prendono il posto di forme arrotondate o più squadrate, “le diagonali e le contro diagonali tendono a sostituire l’orizzontale e il verticale, il cono sostituisce il cerchio e la sfera” ; i personaggi presentano poi il volto truccato in modo pesante, in una rappresentazione deformata ed eccessiva. Il viraggio acquista precise funzionalità autoriali e si fa propria la strategia di Méliès: i set sono colorati per ottenere varie tonalità di grigio, che poi raggiungono proprio col viraggio multiformi sfumature cromatiche; certe tinte impregnano in modo ricorsivo la pellicola, metafora esplicita di sentimenti o emozioni; l’attenzione al profilmico è massima, il décor fortemente stilizzato si carica di significati metaforico-simbolici, fino a “superare la propria funzione strutturalmente denotativa” . È un film che in quella dialettica fra fotografia e pittura, fra realismo e espressività privilegia il secondo momento, per la “volontà di annullare gli effetti realistici della fotografia a vantaggio dell’espressività e della soggettività proprie della pittura” .

La dialettica fra modello pittorico e fotografico descrive la duplice funzione assegnata alla componente cromatica: il ricalco della realtà del colore naturale e l’astrazione del colore espressivo. Ma in entrambi i casi la componente cromatica allontana dal realismo che invece sembra possibile attraverso il b&n. È proprio la bicromia, infatti, che sembra poter avvicinare le immagini alla realtà, mentre l’elemento cromatico almeno fino agli anni ’20 è considerato volgare, difficile da controllare, superficiale. Come si può evincere anche dai lavori di parecchi estetologi, sin dagli anni ‘10 la vera essenza del cinema è considerata proprio il b&n, anche se spesso con motivazioni opposte a quelle dell’industria del cinema: il colore è rifiutato non perché allontana dalla realtà ma per la paura che conduca a un eccessivo mimetismo; il cinema è un’arte che si deve allontanare dalla mera riproduttività del reale e deve invece trasfigurarlo, trasformarlo. Come dice Hugo Münsterberg : “(per il cinema) dobbiamo lasciar perdere le persone reali e i veri paesaggi e, [...], trasformarli solo in immagini suggestive. Dobbiamo essere pienamente consapevoli della loro irrealtà di immagini. [...]. La consapevolezza dell’irrealtà verrà profondamente disturbata dalla presenza del colore” . Il colore sarebbe solo un disturbo, un inutile orpello, un ostacolo per le possibilità espressive del cinema monocromo, come, secondo la prospettiva formalista, suggerisce Tynjanov . La paura è quella di Arnheim: il cinema a colori (ma anche quello sonoro) rischia di perdere le proprie virtù formative e di diventare una registrazione meccanica in cui non sia possibile controllare e agire su ciò che si riprende e sulle stesse condizioni di ripresa .
Il colore che si libera del mimetismo, limitando la referenzialità delle immagini, è tuttavia capace di svolgere un ruolo prioritario per il cinema; ne è convinto Bela Balázs , che ne esalta il ruolo autonomo, la possibilità di determinare una “esperienza cromatica”. Per svolgere al meglio il suo ruolo deve essere un colore in movimento, necessario per evitare “la tentazione di comporre le singole immagini mirando a ottenere un effetto pittorico, puntando sull’elemento statico della composizione [...] (che) spezza la continuità del film in una serie di staccati” , tentazione che nasce proprio dall’immobilità. Il colore tramite fra le singole immagini può evidenziarne affinità e contrasti determinando “relazioni ancora più profonde delle relazioni formali [...] relazioni non solo décorative” , in virtù della sua grande forza evocativa, cui per lo studioso ungherese è associata una altrettanto potente forza simbolica, capace di entrare nel circuito mentale dello spettatore, suscitandovi “associazioni e suggestioni emotive” . Il colore può così determinare lo svolgimento della storia, influendo direttamente e liberamente sull’azione.
Il colore sarebbe quindi realmente attivo nella rappresentazione solo se autonomo nella sua azione derealizzante (colori a mano delle opere dei primi anni) o nella sua capacità di esprimere o suscitare emozioni attraverso atmosfere e suggestioni (come in molti film sottoposti a viraggio e imbibizione). Dovranno tuttavia passare molti anni perché i cineasti ne inizino a sfruttare tutte le enormi potenzialità.

Dal crollo degli anni ’20 ai film Disney.

A partire dagli anni ‘20 la componente cromatica inizia a perdere molte delle sue capacità attrattive: i film si concentrano sulla storia, sulla narrazione e il colore sembra ostacolare più che agevolare la fruizione; sono poche le eccezioni a questa subordinazione al narrativo che in genere seguono la duplice via indicata da Buscombe: colore spettacolare - sensuale che lascia al b&n la riproduzione della realtà e colore convenzionale, come celebrazione della tecnologia, sua reificazione . La crisi peggiorò con l’avvento del sonoro , che sembrò acquisire le prerogative e le funzioni associate al colore di cui abbiamo parlato: capace da un lato di soddisfare “quell’esigenza di riproduzione della realtà che veniva prima ricercata con l’aggiunta del colore” ; dall’altro di rendere “irrilevante la presenza dei colori sullo schermo” grazie alla sua spettacolarità e forza innovativa. Il sonoro riesce dove aveva fallito il colore nel soddisfare sia la voglia di realismo dello spettatore, sia, almeno all’inizio, il suo desiderio di novità e di eccezionalità . Per questo il cinema degli anni venti fu essenzialmente per la prima volta un cinema esclusivamente in b&n.
Il colore, tuttavia, già nei primi anni trenta si affermò inaspettatamente in un settore assai importante del cinema americano, il cartone animato, da sempre dominato dal b&n. Walt Disney in persona era un grande ammiratore del nuovo procedimento Technicolor e decise di investirvi denaro e risorse, producendo parecchi piccoli film a colori, tra cui ricordiamo soprattutto Flowers and Trees (1932), Three Little Pigs (1933), The Band Concert (1935). Sono opere molto divertenti e colorate, in cui tuttavia si raggiunge un insperato equilibrio cromatico, una grazia rara nell’equilibrare il realismo con la fantasia, “con un intenso uso d’atmosfera e persino simbolico del colore” . Il colore libero di muoversi sullo schermo è usato in senso naturalistico e simbolico, secondo uno schema, “stabilito chiaramente non solo per un effetto naturalistico, ma anche per promuovere il principio della caricatura” . Telotte si collega in particolare a The Band Concert (1935), primo film di Mickey Mouse in Technicolor. Il colore subordinato a questo nuovo personaggio Disney può diventare più naturale, realizzando un compromesso fra “negazione ed esposizione” della componente cromatica; sono due infatti per Telotte le principali strategie legate alla tecnologia e ai suoi sviluppi, con particolare riferimento ai media: la negazione (denial) e l’esposizione (exposure). Nella prima le novità sono represse, si arriva fino a negarne l’esistenza; nella seconda invece si mettono in primo piano, cercando così di limitarne la portata rivoluzionaria e renderle meno minacciose; nel caso di quest’opera Disney si raggiunge un perfetto equilibrio fra le due istanze, e il colore può esporsi come qualità pura, pur tra molti ovvi compromessi. Finalmente, come sostiene Jacobs, riferendosi soprattutto a Three Little Pigs, “Il colore non era qualcosa aggiunto meramente per il gusto della novità, ma trovava la sua motivazione in umorismo, sentimento, violenza e movimento … [e] il colore del film diveniva animato, cambiando tinta ad ogni sviluppo della trama” .

Becky Sharp, il colore al servizio del film.

La Technicolor nel 1934 sperimentò un nuovo sistema tricromatico nel cortometraggio La Cucaracha, che ottenne un discreto successo e apprezzamento per il lavoro sulla componente cromatica , e riprese il discorso sul colore naturale, nel tentativo di superare le critiche sull’artificiosità distraente delle sue tinte.
È con Becky Sharp (1935), film di Robert Mamoulian che il colore si impose definitivamente decretando il trionfo del nuovo sistema Technicolor. L’opera ha un’immensa importanza storica e tecnica, la stessa per la componente cromatica che molti critici e teorici del cinema attribuiscono a The Jazz Singer (1927) per il sonoro . Il metodo è quello tricromatico: la macchina da presa ha all’interno tre pellicole dei tre colori primari, poi trattate fino a riunirle in un unico film. Essendo girato completamente in studio, il direttore della fotografia Rennahan, assistito da vari consulenti e tecnici del colore, poté gestire al meglio le luci e gli effetti cromatici: i colori del film seguono l’azione assecondandone lo svolgimento, ma riescono anche a ritagliarsi un ruolo importante e autonomo, perché esposti in tinte peculiari e selezionate che ricorrono insistentemente in tutta l’opera, strutturandola; c’è poi un’attenzione particolare al rapporto fra primo piano e sfondo: colori intensi, rossi, blu, arancioni, sono inseriti su sfondi neutri, bianchi, azzurri, che li mettono in risalto; sovente sono utilizzati vestiti a righe o a pois, con grandi contrasti di colore; gli interni delle case aristocratiche di tutta la prima parte del film sono molto curati, così come è molto precisa la disposizione degli oggetti colorati all’interno degli ambienti, dosati con precisione e grazia. Assai più varietà è nella casa popolare in cui arriva ad abitare la protagonista nell’ultima parte del film, in cui la povertà della condizione (ma anche quella interiore) è resa da un’accozzaglia disordinata di tinte, in un miscuglio in conflitto reciproco. I colori possono anche riflettere per contrasto o vicinanza lo stato d’animo di Becky, che indossa un vestito azzurro se deve fingere ingenuità, e vestiti dai colori squillanti e densi per esprimere il successo. O possono divenire quasi astratti in una famosa e citata sequenza ambientata in un palazzo aristocratico durante un ballo nella notte di Waterloo, con il sottofondo dei colpi di cannone e dei rumori tetri di un temporale: inizialmente dei soldati dal mantello azzurro entrano di corsa in scena da sinistra, attraversandola, e in seguito un gruppo di ufficiali britannici dai mantelli rossi ripresi dall’alto irrompono da destra in un’insorgenza improvvisa; queste macchie rosse non possono che attirare lo spettatore, il movimento le rende quasi astratte.
A collaborare al film furono grandi personalità, il regista Robert Mamoulian, il costume designer Robert E. Jones, ma un’importanza ancora maggiore per dargli forma ed equilibrio ha il color consultant , Natalie Kalmus, moglie del cofondatore della Technicolor, figura fondamentale per lo sviluppo e l’affermazione del colore al cinema. La donna nel 1935 scrisse Color Consciousness , una sorta di manuale che regolava l’impiego della componente cromatica, cui si dovevano riferire tutti quei registi ed operatori che si cimentavano con la nuova tecnologia. Viene qui espressa in modo molto rigoroso una nuova estetica del colore: innanzi tutto il cinema non è solo o isolato rispetto alle altre arti, ma deve servirsene (soprattutto della pittura), studiarne le leggi e farle proprie, iniziare una collaborazione fruttuosa. Dal manuale non è poi assente anche un aspetto normativo abbastanza rigido: il colore deve essere naturale, ricercando il massimo realismo possibile, deve evitare gli eccessi e seguire l’azione; è preferibile non accentuare particolari marginali, che devierebbero l’attenzione del pubblico (regola dell’enfasi). Le emozioni di quest’ultimo vanno controllate miscelando tinte calde e fredde secondo un equilibrio che costituisca il tono del film. Ogni inquadratura, ogni scena, ogni sequenza va curata scegliendo i colori da porre in primo piano e quelli da sistemare sullo sfondo, cercando la massima armonia possibile, in particolare separando quelli contigui. In definitiva la Kalmus e con lei la Technicolor credono nelle possibilità espressive del colore, tuttavia pensano che il modo migliore di esprimerle passi attraverso un suo rigido controllo e un’effettiva sottomissione al narrativo, alla storia raccontata . Il regista Mamoulian sembra pensarla allo stesso modo quando mette in evidenza in alcuni scritti il rapporto fra componente cromatica e narrazione: il colore può e deve interagire con essa, per evidenziarne o minimizzarne degli snodi; il décor ha un’importanza fondamentale: ogni mobile o soprammobile, ogni vestito, va scelto con attenzione per evitare l’effetto “bariolage”, la disordinata esposizione cromatica, controproducente e distraente per lo spettatore. A dominare devono essere il controllo e la misura delle tinte. Più radicale ci appare invece Robert Jones che mette in guardia dall’eccessivo potere dato al narrativo, che rischia di limitare la componente cromatica e la sua forza . Il colore per essere veramente attivo non deve essere imbrigliato, deve poter agire liberamente fino a “portare una nuova possibilità di significazione al film narrativo” . Ci sembra che il film, proprio per il confronto equilibrato fra queste posizioni differenti sia riuscito dove altri avevano fallito e falliranno in seguito: liberare l’elemento cromatico dalla corrispondenza univoca con il fantastico e lo spettacolare e ravvicinarlo al naturalismo ma non appiattirlo in esso; e per questo Becky Sharp è un momento assolutamente fondamentale per un uso attivo della componente cromatica.

Dialettica colore-b&n, dal Mago di Oz ai musical di Minnelli e Donen.

Con i successivi Trail of the Lonesome Pine e The Garden of Allah, entrambi del 1936, il colore entra a far parte dello spettacolo cinematografico, diviene fonte di guadagno pur rimanendo ancora tabù per alcuni generi, specialmente quelli maggiormente legati al realismo della rappresentazione. Si continuò perciò ad affiancarlo al b&n, con una maggiore consapevolezza degli effetti e delle differenti estetiche, in un rapporto dialettico sempre più fecondo; b&n e colore raffigurano due mondi differenti e inconciliabili, con il secondo a rappresentare l’altra faccia della realtà, emblema del sogno, dell’irrealtà. Questa contrapposizione è, ad esempio, alla base del Mago di Oz (Fleming, 1939), film dalle grandi difficoltà produttive e dall’enorme successo in cui si dimostra “chiaramente che il colore non aveva bisogno di essere connesso a una riproduzione realistica per risultare efficace” . Quella di Fleming è un’opera caratterizzata da nuovi e fondamentali elementi stilistici: i movimenti di macchina, la disposizione delle tinte in ogni singola scena, la musica divertente e ricorsiva, che agiscono tutti in un altro piano rispetto alla trama e al suo svolgimento: il colore in particolare acquisisce una libertà compositiva e formativa inedita; è un colore scintillante, che caratterizza personaggi e sfondi, in cui la Technicolor mostra tutta la sua forza attrattiva. Alcune tinte emergono sulle altre: il giallo della strada che percorre la protagonista durante tutto il film, il verde della città di Smeraldo, il rosso di alcuni particolari (le scarpe di Dorothy, il fiocco del Leone, le mele), ma non c’è una selezione esclusiva: soprattutto nelle scene di massa della prima parte del film, lo schermo è invaso da una miriade di colori, che si fanno solidi, materiali e rendono i corpi, gli oggetti, i loro particolari quasi tridimensionali, in rilievo. I colori sono ostentati, con un effetto sovente astratto, da cartone animato. A essere esaltato appare il lato ludico della componente cromatica, la sua capacità di colpire e divertire. Un cavallo può cambiare colore e diventare viola, rosso, giallo, con le tinte a fungere da richiamo visivo, da vero e proprio effetto speciale; il rosso può colorare un campo di papaveri per poi essere ricoperto da un sottile strato di neve bianca, con un’audace e sorprendente commistione di naturalità e irrealtà. In più c’è la relazione fra mondo e sua rappresentazione: nel passaggio da una realtà decolorata allo sfavillante regno di Oz si metaforizza il rapporto fra realtà e cinema, fra spettatore e film sullo schermo . Il cinema è il regno del fantastico, dell’incredibile, è lontano dalla realtà, ma con una base in essa: è la sua rappresentazione iperbolica, la sua deformazione ed esaltazione, mondo della felicità e i colori ne sono l’emblema, la personificazione materiale.
La stessa logica è alla base di molti dei musical di Minnelli e Donen: qui il colore trasfigura la realtà in sogno, ne determina la forma, dotato del massimo potere compositivo. In queste opere dalle tinte chiassose e sature a dominare sono le grandi scenografie, i numeri musicali incredibili condotti con leggiadria e grazia dagli interpreti, in un continuo rimando alla pittura e alla sua propensione verso il colore. Le commedie musicali degli anni '30 acquistano un “valore dimostrativo”, si pongono come “spettacolo «totale», costituito di movimento, di colore e di musica” ; ben presto proprio per questa dialettica fra realismo e stilizzazione i musical degli anni ’30 diventano “lo spettacolo hollywoodiano per eccellenza” .
Nelle opere di questi anni si possono perciò distinguere due atteggiamenti nei confronti della componente cromatica, ben espressi da Aumont: “l’accumulo dei colori, cui si fa conservare palesemente una qualità «pittorica» […] (e) […] la rarefazione del numero dei colori e l’esasperazione di certe loro qualità (luminosità, saturazione, «purezza»)” . Il colore, sempre meno “naturale”, sempre più libero e attivo, si svincola dal narrativo e può esibirsi come qualità pura, colore visibile e pensabile in sé .

Flash couleur e melodramma.

Un altro genere si afferma a partire dalla fine degli anni ’30: il melodramma, in cui si palesa un’altra contrapposizione individuata da Dubois, quella della realtà con la pittura . Nel passare a un altro mondo il colore irrompe sullo schermo come flash-couleur,, che conduce a un’epifania di qualcosa di nascosto o inaspettato, porta i protagonisti, e lo spettatore con loro, a una presa di coscienza, “di un valore superiore o di una verità interiore che trascende la sua rappresentazione visibile” . Il colore è puro apparire e viene “associato al piacere e alla soddisfazione di pulsioni” . I due mondi possono comunicare e le differenze fra loro sono rese minime, si cerca anzi spesso la loro mescolanza fino alla fusione .
Ne costituisce un esempio importante uno dei capolavori di Douglas Sirk, All that Heaven Allows (Secondo amore, 1954) in cui il colore associato al melodramma mette alla prova le convenzioni del realismo hollywoodiano . L’elemento cromatico agisce nei dettagli della messa in scena e contribuisce alla costruzione di uno spazio narrativo realistico che “rende evidente le pressioni sociali e ideologiche che contribuiscono alla definizione dei personaggi e del conflitto” . Eppure la sua funzione principale consiste nel veicolare le emozioni, nell’enfasi del registro emozionale dell’opera. Così si scosta periodicamente dal realismo per poi rientrarvi in una sorta di tira e molla continuo. Il colore complica a volte lo spazio narrativo e, se da un lato sembra fedele alle regole mimetiche del cinema hollywoodiano, dall’altro accoglie in sé un “di più” che colpisce e distrae lo spettatore. Ne è un esempio soprattutto il rosso che è spesso usato come un visual magnet, capace di farci dimenticare i personaggi e la storia deviando la nostra attenzione sui sentimenti e le emozioni che sembrano predominare nella rappresentazione. Mentre il rosso si presenta da solo, gli altri colori presenti nel film, soprattutto il blu e il giallo, costituiscono una sorta di sistema uniforme e nell’apparire spesso assieme, contribuiscono alla derealizzazione, che, come abbiamo accennato, caratterizza il film .  In definitiva nel melodramma, di cui All That Heaven Allows si può considerare l’emblema, il sistema coloristico risulta così complesso e stratificato proprio per questa duplice qualità della componente cromatica: da un lato realistica e legata a narrativo, alla storia, dall’altro distraente, emozionale, eccessiva.

La Technicolor aveva alla fine degli anni ’30 perduto il monopolio dei film a colori naturali. Aumentavano i concorrenti che imposero un proprio modello espressivo differente dal precedente: è il caso della pellicola Agfacolor, più sensibile e ideale per girare in esterni, per la dolcezza dei contrasti fra le tinte, laddove la Technicolor con i suoi colori densi e contrastati era l’ideale per i film d’interni . Nacque una vera e propria battaglia che divenne, ci dice Aumont, ben presto ideologica, riproponendo la vecchia querelle fra colore “esatto” ma piatto e colore “inesatto” ma espressivo .
Eppure il rifiuto di un colore troppo espressivo, di tinte chiassose, il paradigma Technicolor che cerca di salvaguardare il realismo della rappresentazione e mette al primo posto la storia, il narrativo, si è ormai affermato e fino agli anni ’60 sarà assolutamente prevalente: il colore al cinema rimane perlopiù ingabbiato, sottomesso “alla storia, al tema, a un senso ad esso esteriore” e sono pochi gli artisti che decidono di conferirgli libertà e autonomia .

Ejzenŝtejn e il colore liberato.

Tra questi merita un’attenzione particolare, anche dal punto di vista teorico, S. M. Ejzenŝtejn , che cercò di fornire alla componente cromatica quell’autonomia che le era mancata, legandola alla parte emozionale della rappresentazione, in un’azione a metà  “tra il carattere astratto (comune con la musica) e la composizione plastica” . Slegato dal naturalismo e isolato, il colore è reso funzionale alla struttura del film ed entra a far parte del sistema drammaturgico; il suo compito è quello di completare il racconto, di arrivare dove recitazione e gestualità non sono in grado di arrivare, di esaltare “la risonanza interiore, la melodia interna alla scena” . La componente cromatica può quindi realizzare un sottotesto che scorre parallelamente alla narrazione principale intrecciando diverse feconde relazioni con essa .
Ejzenŝtejn applicò la sua teoria a un’unica sequenza della seconda parte di Ivan il Terribile , sequenza eccezionale, analizzata più volte dal regista per precisare le motivazioni alla base di ogni scelta stilistica, dalla selezione delle tinte alla formazione della gamma cromatica, dal movimento all’interazione delle stesse . Siamo nel finale del film, Ivan è accerchiato dai nemici interni, è sempre più solo e isolato. A cospirare è anche Eufrosina, sua zia, che assieme a vari complici, i Boiardi e il Pope, prepara un attentato, che si deve svolgere durante una festa a corte. Ivan viene a conoscenza del tradimento e riesce a sostituire a sé il figlio di Eufrosina, che nei piani della zia avrebbe dovuto prendere il suo posto sul trono. Il ragazzo, poco combattivo e acuto, vestiti i panni regali si avvia a una lunga passeggiata verso la morte. Nella sequenza dell’assassinio ritorna il b&n: Eufrosina è scoperta e suo figlio ucciso. La sequenza è molto lunga (17 minuti) e tutta la prima parte è incentrata sul ballo; inizialmente sono il rosso, l’oro e il nero a dominare i movimenti dei corpi e degli abiti. I ballerini ripresi in campo medio si alternano ai volti in primo piano, investiti da colori cangianti (soprattutto rosso e oro), ma anche ricoperti da maschere bianche e nere, nascosti e opacizzati dalle tinte, preda di esse, prima di essere esposti e rivelati. I muri sullo sfondo sono perlopiù rossi e a illuminare la scena sono spesso delle candele, le fiamme sono macchie d’oro nell’oscurità, e arrivano a prendere possesso degli indumenti, in cui domina il nero. A partire dalla vestizione del cugino di Ivan, che indossa un abito scintillante di rosso e oro, si affermano quattro tinte, che corrispondono alla gamma colorica dell’intera sequenza: il rosso, il nero, l’oro e il celeste, scelte in base a precisi riferimenti storici, ambientali, artistici (ad esempio il rosso e l’oro rivestono grande importanza nella pittura dell’epoca del protagonista).
Il colore forma le immagini, il loro procedere, è un colore astratto eppure solido, materiale; ha un ruolo prioritario, essenziale. Ejzenŝtejn è molto accurato nella rappresentazione, nel movimento delle tinte, nel loro scambio, nelle relazioni contrappuntistiche secondo un procedimento che come abbiamo accennato il regista russo teorizzò più volte e consta per Montani di tre momenti essenziali: 1) analisi ambientale e storica; 2) generalizzazione emozionale del colore, fase più importante in cui “il tema è sentito in termini di colore […] e […] l’immagine-colore è arricchita con il sentimento di una riflessione” ; 3) organizzazione della linea colorica. Grande importanza riveste l’intuizione (il “sentimento iniziale”) dell’artista riguardo alle tinte che saranno attive nell’opera, un “confuso presentimento delle conseguenze cromatiche deducibili da una lettura complessiva dei contrassegni” ; sembra nascere da mistero e caso. C’è un’apparente contraddizione: da un lato il colore sembra essere determinato da una matrice razionale, che lo lega alla propria funzione drammaturgica, dall’altro è legato dall’irrazionale, dalla creatività misteriosa dell’artista e della sua attività formatrice. Questo dualismo è in realtà espressione del desiderio di Ejzenŝtejn di un cinema capace di soddisfare sia l’intelletto sia i sensi dello spettatore, che sia posto sotto la tutela dell’intellettualità, ma contemporaneamente crei immagini plastiche, musicali, melodiose .

Anni ’60 e redenzione del colore.

L’esempio di Ejzenŝtejn è fondamentale perché il regista russo è un pioniere e un eccezionale innovatore: con lui il colore acquista un ruolo che solo un decennio dopo si affermerà nel cinema europeo e americano, anche se raramente con la medesima efficacia e potenza. Il cambiamento è, infatti, alle porte e già alla fine degli anni ‘50 il colore inizia a non essere più escluso da alcun genere o sottogenere cinematografico, perché presente massicciamente nella realtà quotidiana, nella moda, nelle auto, nelle abitazioni; il cinema che nella sua fase moderna s’impone di “riconfigurare il visibile quotidiano” non può esimersi dal riconfigurare anche il rapporto della realtà e dei suoi oggetti con  il colore. Così negli anni ’60  il colore è finalmente liberato, con le opere di Fellini, Antonioni, Godard, Demy può esprimere tutto il suo potenziale formativo, mostrandosi capace di affiancare la narrazione principale, rinforzandola o ponendosene in contrapposizione, formandosi come sottotesto che sovente diviene testo principale e autonomo, finalmente in grado di guidare la nostra percezione e di dare compiutamente forma al film .
Chiudiamo il nostro lavoro con una interessante classificazione di  Johnson, che considera quegli autori o quelle tendenze capaci di creare “un sistema coerente per il colore in un film intero”. Sono quattro e caratterizzano il cinema fino ai giorni nostri:
1. Unica tinta: a reggere il film è un’unica tinta, secondo lo schema più semplice per unificare l’opera.
2. Realismo organizzato: ogni scena è colorata naturalmente, ciò che conta è la progressione delle tinte fra le varie sequenze e l’influenza sullo svolgimento della trama del film.
3. Film caleidoscopio: colori abbondanti, artificiali, multiformi, e perlopiù frivoli; l’assemblaggio delle tinte è assai complicato ed è difficile che il film si mostri organico.
4. Naturalismo, usato in modo artificiale come in Resnais e Varda .

Attraverso queste (e tante altre) modalità, il colore finalmente libero si è definitivamente ritagliato un ruolo centrale e insostituibile nella rappresentazione cinematografica.


D’ora in avanti b&n.

Per “cinema delle origini” intendiamo il primo ventennio della produzione cinematografica, dal 1895 al 1915 circa, “zona franca di ricerche e sperimentazioni”, che si distanzia dall’universo precedente delle vedute animate, ma non è ancora giunto a quella istituzionalizzazione che caratterizzerà la seconda metà degli anni ’10; Gaudreault lo chiamerà appropriatamente della “cinematografia-attrazione”, in A. Gaudreault, Cinema delle origini o della «cinematografia-attrazione», Il Castoro, Milano 2004, pp. 25-27.

Cfr. J. Aumont, Des couleurs à la couleur, in La couleur en cinema, a cura di J. Aumont, Cinémathèque Française-Mazzotta, Paris-Milano 1995.

l. venzi, Il colore e la composizione filmica, ETS Edizioni, Pisa 2006, p. 27.

Cfr. ibid. pp. 27-32.

Cfr. J.-L. Leutrat, De la couleur-mouvement aux couleurs fantômes, in La couleur en cinema..., 1995, p. 29.

Cfr. l. venzi, Il colore ...,2006, pp. 27-28 e 67-72.

J. Aumont, L’occhio interminabile, Marsilio, Venezia 1998, p. 119, ed. or. L’œil interminable. Cinéma et peinture, Séguier,Paris 1989 (rieditato 1995).

Ibid. p. 139.

Cfr. J. aumont, Introduction à la couleur: des discours aux images, Armand Colin, Paris 1994, pp. 120-121. Più avanti  lo studioso francese individuerà quattro modalità dell’espressione pittorica connesse alla componente cromatica: idealità (legata al valore simbolico del colore), realtà (colore nella natura), soggettività (colore espressione di colui che lo manipola) e artisticità (colore che esprime formalmente la natura d’opera d’arte dell’immagine), cfr. ibid. pp. 174-177. 

S.-M. Ejzenŝtejn, Da una ricerca incompiuta sul colore, in Il colore, Marsilio, Venezia 1989, p. 28. (titolo originale “Iz neokončennogo issledovanija o cvete”, vari scritti sul colore degli anni 1946-1947, riordinati non dall’autore).

Questo conflitto è messo in evidenza, fra gli altri, da Ejzenŝtejn, che vede nell’inquadratura cinematografica una sua possibile risoluzione, in ibid. pp. 30 e sgg. Il cinema a colori, infatti “realizza una mediazione fra l’istantaneità del fuoco d’artificio e la lentezza del giorno solare che avvolge piano piano la cattedrale, dirigendo sullo spettatore tutto il pathos di una sinfonia cromatica”, S.-M. Ejzenŝtejn, La natura non indifferente, Marsilio, Venezia 2003, p. 112.

L. Moholy-Nagy, Pittura, fotografia, film, Einaudi, Torino 1987, pp. 11-17, (ed. or. Malerei Fotografie Film, Florian Kupferberg Verlag, Mainz 1967). Un altro artista fondamentale per la dialettica fra colore e tema è sicuramente Malevitch: l’artista di Kiev, infatti, critica il buon senso che ha impedito fino allora di liberare tutto il potere formativo del colore, assieme alla tendenza alla riproduzione della realtà. Egli sostiene allora la necessità di liberarsi dalla schiavitù delle forme illustrative, per rendere più visibile il colore, per una nuova libertà semantica ottenuta attraverso tinte violente e fortemente contrastate, cfr. K. Malevitch, Dal cubismo e dal futurismo al Suprematismo, in Scritti, a cura di A.-B. Nakov, Feltrinelli, Roma 1977, pp. 185-186.

Cfr. W. Benjamin, I passages di Parigi, Piccola Biblioteca Einaudi, Roma 2010.   

M. Dall’Asta, G. Pescatore, Ombrecolore, in Il colore nel cinema, a cura di M. Dall’Asta, G. Pescatore, numero monografico di “Fotogenia”, a. 1, n° 1, 1994, p. 11.

Cfr. F. Montesanti, Lineamenti di una storia del cinema a colori, in “Bianco e Nero”, n° 2-3-4, 1954, pp. 12-14. In particolare lo studioso italiano si riferisce alla Serpentine Dance (1894) in cui si alternano rossi, gialli, verdi, a riprodurre le scene degli spettacoli di Loïe Fuller, pionieristica ballerina e attrice americana.

Cfr. M. Dall’Asta, G. Pescatore, Ombrecolore..., 1995, p. 13.

Aumont rimarca la differenza dei colori Pathé con le tinte della Gaumont, altra importante casa produttrice francese, più sfumate e sottili, in J. aumont, Des couleurs ..., 1995, p. 36.

Cfr. J. aumont, Introduction à la couleur...,1994, pp. 181-184.

S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Pratiche editrice, Parma 1990, p. 10.

Ibid. p. 11. Sul tema si veda anche Benjamin per il quale “la natura che parla alla cinepresa […] (è) diversa da quella che parla all’occhio […] per il fatto che al posto dello spazio elaborato dalla coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato inconsciamente”, in W. Benjamin, L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, in L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2000, p. 41.

P. Dubois, Hybridations et métissage. Les mélanges du noir-et-blanc et de la couleur, in La couleur en cinéma ..., 1995, p. 79.

Per l’azione del colore nel cinema delle origini, cfr. fra gli altri J. aumont, La trace et sa couleur, in “Cinémathèque”, n° 2, 1992, p. 7, J. Belton, Il colore: dall’eccezione alla regola, in Storia del cinema mondiale, vol. 5, Teorie, strumenti, memorie, a cura di G.-P. Brunetta Einaudi, Torino 2001,p. 806 e F. Montesanti, Lineamenti di una storia ..., 1954, p. 22.

l. venzi, Il colore ..., 2006, p. 41.

Ibid. p. 45.

Il colore per Venzi, “consegna all’immagine un immediato, radicale livello di astrazione, di stilizzazione figurativa”, in ibid. p. 48.

Cfr. ibid. pp. 31-34.

Interessante (e del tutto condivisibile) è l’opinione di Bernardi per il quale “il colore agisce sui codici anche precedentemente alla sua introduzione, dall’esterno, […], se solo si pensa a quanta considerazione avessero per i colori gli scenografi, che dovevano perfettamente conoscere l’effetto di certi abiti o di certe stanze rispetto alla gamma dei grigi offerti dalla fotografia in bianco e nero”, in S. Bernardi, Introduzione, in Svolte Tecnologiche nel cinema italiano. Sonoro e colore. Una felice relazione fra tecnica ed estetica, a cura di S. Bernardi, Carocci, Roma 2006, p. 12.

G. Méliès, Le vedute cinematografiche, cit. in A. Gaudreault, Cinema delle origini ..., 2004, p. 148.

Cfr. La Légende de Rip Van Winkle (1905).

Cfr. tra gli altri Le royaume des fées (1903), Le chaudron infernal (1903), Voyage à travers l’impossible (1905).

I film di Méliès sono “colorati con tinte ingenue, da acquerello in maniera molto rozza […] (e che) l’effetto che se ne aveva era quello di una macchia di colore che si agitasse dinanzi all’immagine in bianco e nero”, in S. Masi, La luce nel cinema, La Lanterna magica, L’Aquila 1982, pp. 121-122.

F. Montesanti, Lineamenti di una storia ..., 1954, pp. 15-16.

Cfr. fra gli altri T. Gunning, Metafore colorate: l’attrazione del colore nel cinema delle origini, Il colore nel cinema ..., 1994, p. 25, R. Richetin, Note sur le couleur en cinéma, in “Cahiers du cinéma”n°182, sett. 1966, pp. 60-67 e E. Cauda, Il cinema a colori, “Bianco & Nero”, numero monografico, Roma 1938, pp. 6-7. Quest’ultimo in particolare si riferisce alla “riproduzione dei colori naturali” aggiungendo: “Non sappiamo bene chi abbia usato per primo questa infelice locuzione; […] chi lo fece ha contribuito largamente a complicare l’idea che voleva definire, a renderla univoca e confusa”, in quanto si è cercato di “imporre alla […] cinematografia un compito ristretto e rigido che nessuno ha mai cercato di imporre ad altre arti rappresentative”.

C. Metz, Semiologia del cinema, Garzanti, Milano 1972, p. 143.

T. Gunning, Metafore colorate ...,1994, p. 36.

Per una storia dei vari procedimenti tecnici del cinema cfr. fra gli altri P. Cherchi Usai, Una passione Utet, Torino 1991, p. 11 e sgg. e G. Marpicati, Il film in colore, in L’avventura del colore, a cura di A. Petrucci, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1956, p. 82 e pp. 47-75.

G. Fossati, Quando il cinema era colorato, in aa.vv., Tutti i colori del mondo. Il colore nei mass media tra 1900 e 1930, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 1998, p. 45.

Sulla storia e sulla ricezione critica di queste opere, cfr. F.-F. Basten, The Glorious Technicolor. The Movies’ Magic Rainbow, A.S. Barnes & Co, Thomas Yoseloff, Cranbury, London 1980, pp. 20-37.

Questo sistema di colorazione meccanica fu brevettato nel 1906 dalla stessa Pathé e consentiva l’utilizzo di più di dieci differenti tinte; il suo successo fu effimero e le produzioni in pochoir non durarono che un decennio, principalmente a causa della lunghezza e dei costi del procedimento.  Cfr. P. Cherchi Usai, Una passione..., 1991, p. 12.

Come i fotografi per Benjamin, i cineasti cercano di salvaguardare l’aura delle immagini, attraverso ritocchi o espedienti tecnici, cfr. W. Benjamin, Piccola storia della fotografia, in L’opera d’arte nell’era ..., 2000, p. 68. Anche nella fotografia “il valore di esponibilità comincia a sostituire su tutta la linea il valore cultuale. Ma quest’ultimo non si ritira senza opporre resistenza. Occupa un’ultima trincea che è costituita dal volto dell’uomo”, in W. Benjamin, L’opera d’arte nell’era ..., 2000, p. 28.

F. Montesanti, Lineamenti di una storia ..., 1954, p. 12.

Cfr. j. aumont, Des couleurs ..., 1995, p. 42.

Cfr. P. Dubois, Hybridations et métissage ..., 1995, pp. 75-79. Dubois individua altre due figure che descrivono esaustivamente le modalità espressive che caratterizzano almeno i  primi trent’anni del cinema: 1) i Métissages in cui b&n e colore sono separati e si alternano in modo esclusivo sullo schermo, a contrapporre due mondi fra i quali è spesso difficile il passaggio. In questo caso l’immagine non rifiuta l’elemento cromatico che anzi consente di arricchirla simbolicamente ed aiuta il regista nella narrazione. 2) Le Ibridations, che corrispondono alla prima modalità analizzata da Aumont; in più Dubois considera tre tipi di effetti caratteristici delle colorazioni: descrittivo (ruolo ornamentale della colorazione), narrativo (colori e narrazione strettamente connessi), attrattivo (conta soprattutto l’aspetto spettacolare del colore, la sua capacità di incantare).

S. Salvetti, Effetto colore, in “Segnocinema”, a. XV, n° 73, maggio-giugno 1995, p. 74.

M. Dall’Asta, G. Pescatore, Ombrecolore..., 1995, p. 14.

In breve la trama del film: è uno dei protagonisti, Franz, a raccontare a un anziano signore che gli siede a fianco la storia: nel 1830, in un piccolo paese tedesco, Caligari si presenta alla fiera del paese con un sonnambulo, Cesare, in grado di predire il futuro. Intanto il paese è sconvolto da una serie di omicidi. Viene rapita una ragazza, Jane, di cui Franz è innamorato e l’uomo, nel tentativo di risolvere il caso, scoprirà la verità: è il dottor Caligari a ordinare al sonnambulo di uccidere. Ruba il diario del dottore in cui sono descritti tutti gli omicidi e la polizia si mette allora sulle tracce dell’assassino. Questi trova rifugio in un manicomio (di cui in realtà è il direttore) e qui verrà alla fine rinchiuso dopo aver confessato tutto. Ma la verità non è ancora stata rivelata: ritornati a presente dopo il lungo flashback, si scopre che a essere rinchiuso nel manicomio è in realtà Frank, che ha inventato tutto dando ai personaggi le sembianze dei suoi compagni e al dottor Caligari quella del suo stesso medico, il dott. Oscar.

G. Deleuze, L’immagine movimento, Ubulibri, Milano 1984, p. 69.

J.-P. Berthome, Le décor au cinéma, Cahiers du cinéma, Parigi 2003, p. 57 (traduzione nostra). Il gabinetto del Dottor Caligari è per Kessler un film esemplare dal punto di vista espressivo: riesce a mostrare “ciò che è tra le cose, la loro qualità emozionale”, in F. Kessler, La ‘métaphore picturale’: notes sur une esthétique du cinéma expressioniste, in Cinéma et peinture. Approches, a cura di R. Bellour, Presses Universitaire de France, Paris 1990, p. 92 (traduzione nostra). Per Deleuze l’espressionismo, di cui il film di Wiene è da molti considerato il capostipite, per la sua lotta costante fra luce e tenebre, per i contrasti di bianco e nero, per le variazioni chiaroscurali, fu il vero precursore del colorismo al cinema, Cfr. G. Deleuze, L’immagine ..., 1984, pp. 70-71.

A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p. 71. 

  Cfr. H. Münsterberg, Film. Il cinema muto nel 1916, Pratiche Editrice, Parma 1980, ed. or. 1916. The photoplay: A Psychological Study, Appleton & Co., New York 1916.

Ibid. p. 113.

J. Tynjanov, Le basi del cinema, in I formalisti russi al cinema, a cura di G. Kraiski, Garzanti, Milano 1971, p. 57. (titolo originale Ob osnovach kino, pubbl. in Poetica Kino, Mosca 1927). I colori così come il sonoro in questa prospettiva non sono considerati come strumenti artistici validi per il cinema, e il loro sviluppo rappresenterebbe un grosso passo indietro, rendendo di fatto impossibile “quell’operazione di consapevole deformazione del materiale che era per loro la condizione prima di ogni fare artistico”, in G. Kraiski, Introduzione, in I formalisti russi ..., 1971, p. 8. Esistono tuttavia delle deroghe a questo principio categorico: Sklovskij ad esempio analizzando la famosa sequenza della Corazzata Potemkin  (Ejzenŝtejn, 1935) con l’apparizione improvvisa di una bandiera rossa sostiene che questa tinta fosse necessaria, perché materiale della rappresentazione, “Un’opera d’arte e, in particolare un’opera cinematografica viene elaborata mediante grandezze semantiche e nel tema «Anno 1905» il rosso costituisce il materiale”, in V. Sklovskij, Cinque feuilletons su Ejzenŝtejn, in I formalisti russi ..., 1971, p. 195 (titolo originale 5 Fil’otonov ob Ejzenŝtejn, in Gremburskij scet, Leningrado 1928).

Cfr. R. Arnheim, Film come arte, Feltrinelli, Milano 1983, soprattutto le pp. 175-176; l’opera dello psicologo tedesco è del 1933.

Considerando ruolo e possibilità del colore al cinema possiamo individuare con Aumont (J. Aumont, La trace ..., 1992, p. 13) due posizioni divergenti: la prima (il cui più importante fautore è proprio Balazs) si concentra sull’aspetto meramente espressivo, e considera la ricerca della perfezione riproduttiva della componente cromatica limitante e il colore vero piatto. La seconda è la linea Rohmer-Bazin, che mostrano di credere nelle possibilità del colore di riprodurre fedelmente la realtà, vero scopo del cinema, Per Rohmer “il colore al cinema è buono solo per rendere la realtà degli oggetti ancora più precisa, più tangibile”, E. Rohmer, La lezione di un fiasco, in Il gusto della bellezza, Pratiche Editrice, Parma 1991,p. 179. Non è tuttavia escluso che un regista possa lavorare sull’aspetto espressivo del colore, come Nicholas Ray in Bigger Than Life, cfr. E. Rohmer, Nicholas Ray. Bigger than life, in Il gusto ..., 1991, p. 230. Più legato alla prima linea è fra gli altri il grande regista C.-T. Dreyer, che evidenzia come siano poche le pellicole dotate di una vera e coerente estetica del colore (Enrico V (1945), Porta dell’Inferno (1952), Moulin Rouge (1953) e Giulietta e Romeo (1954), e qualche effetto divertente nei musical); il cinema, infatti, è ancora legato a una “solida ma noiosa (firm but boring)” base naturalistica, mentre i colori di un film non sono in grado di riprodurre quelli della natura e anzi se ne devono discostare “per poter dare un’esperienza estetica allo spettatore”, attraverso il lavoro del regista sul movimento, sul ritmo, sul contrasto delle tinte e delle forme, cfr. C.-T. Dreyer, Color and Color film, in “Film and Review”, Aprile 1955, p. 197. Più connessa alla posizione Rohmer-Bazin ci sembra invece la posizione di Kracauer che rifiuta il colore, incapace di un effetto realistico e perciò assolutamente inessenziale al film, cfr. S. Kracauer, Teoria del film, Il Saggiatore, Milano 1995, (ed. or. Theory of film: the Redemption of Physical Reality, Oxford University Press, New York 1960).

Cfr. B. Balázs, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Einaudi, Torino 1987, pp. 281-282. (ed. or. Der Film. Werden und Wesen einer neuen Kunst, Globus Verlag, Wien, 1952). Anche Venzi si riferisce al rapporto cinema pittura mettendo in primo piano l’elemento cromatico: Il cinema nel tentare di “conferire al colore uno statuto estetico definito” si è riferito più che ai colori del mondo a “qualcosa di cui la pittura, [...], sembra custodire l’essenza” ed ha perciò “molto spesso, troppo spesso, imitato la pittura”, in L. Venzi, Il colore ..., 2006, p. 13.

B. Balázs, Estetica del film, (trad. it. a cura di Umberto Barbaro), Editori Riuniti, Roma 1975, p. 134 (ed. or. Der Geist des Films, Kapp Verlag, Halle 1930).

Ibid.

E. Buscombe, Sound and Color, in Movies and Methods. Vol. 2. An Anthology, a cura di B. Nichols, University of California Press, London-Berkeley 1985, pp. 90-91.

Anche per ragioni eminentemente tecniche; ad esempio per l’imbibizione la colonna sonora era incompatibile con le giunte che servivano a indicare nella pellicola il passaggio da un colore all’altro.

G. Fossati, Quando il cinema ..., 1998, p. 43

Ibid.

Anche per il sonoro era presente il rischio di appiattirsi su un paradigma naturalistico che “riportasse il cinema sotto la tutela del teatro, [...], essendo la scelta naturalistica non solo la linea di «minor resistenza» ma anche quella capace di incontrare il sicuro gradimento dello spettatore”, P. Montani, L’immaginazione narrativa, Guerini e Associati, Milano 1999, p. 29. Anche per il suono era quindi necessario allontanarsi dal naturalismo e dalle sue regole...

J.-P. Telotte, Minor hazards Disney and the color adventure, in Color: the Film Reader, a cura di A. Dalle Vacche, B. Price, Routledge, London-New York, 2006, p. 34 (traduzione nostra).

Ibid. p. 35. Cfr. anche F.-F. Basten, The Glorious Technicolor ..., 1980, pp. 47-50.

L. Jacobs, The Movies as Medium, Strauss & Giroux, New York 1970, p. 189 (traduzione nostra).

F.-F. Basten, The Glorious Technicolor ..., 1980,p. 51.

Basato sul romanzo di Thackeray, La fiera della vanità, segue le peripezie, gli amori e le aspirazioni di Becky, una popolana che viene accettata in un collegio per nobili facoltose. Grazie alla sua ambizione e alla sua spudoratezza riesce a divenire amica della compagna Amelia, e a farsi ospitare a casa sua. Ma l’interesse eccessivo nei suoi confronti di Joseph, fratello di Amelia, la fa cacciare e la conduce a servizio presso una ricca famiglia. Qui Becky incontra il giovane Rawdon, che segretamente la sposa. Il loro matrimonio tuttavia naufraga ben presto: il ragazzo dilapida al gioco tutti i soldi di famiglia, la donna è costretta a prostituirsi per mantenere il suo alto tenore di vita e per pagare i debiti; lui scoperti i suoi traffici, la lascia. Becky è in grande difficoltà, vive di espedienti, ma non cede allo sconforto: dopo aver incontrato Joseph, un suo vecchio amore, abbandona tutto e scappa con lui.

Anche se per Montesanti è più esatto e preciso il parallelo con Hallelujah (King Vidor, 1929) in cui il nuovo elemento è utilizzato coscientemente secondo una coerente strategia espressiva, cfr. F. Montesanti, Lineamenti di una storia ..., 1954, p. 33.  

Una nuova figura introdotta dalla Technicolor che doveva occuparsi della componente cromatica e sorvegliare il suo utilizzo secondo i canoni dell’azienda produttrice dei film. 

Cfr. N. Kalmus, Color Consciousness, in Color ..., 2006, pp. 24-29.

Per Pierotti è proprio il narrativo a risolvere la contraddizione fra realismo ed espressività, tramite il “tentativo di ottenere uno stile visuale riconoscibile, ma non invasivo”, facilitando lo spettatore nella visione del film: “Prima di essere adottato da un sistema a codificazione forte quale quello del cinema classico, il colore deve essere ricondotto sotto la tutela del discorsivo, attraverso un processo di contenimento di ogni fuga verso la polisemia e l’apertura di senso; le qualità puramente sensoriali, attrazionali e metaforiche del colore, […], sono contenute entro il perimetro delle convenzioni già acquisite”, in F. Pierotti, Dalle invenzioni ai film. Il cinema italiano alla prova del colore (1930-1959),in Svolte tecnologiche nel cinema ...,2006, pp. 120-121.

Cfr. R. Mamoulian, Quelques problèmes liés à la réalisation de films en couleurs, in “Positif”n° 307, 1986, pp. 53-55 e R. Mamoulian., Color and light in film, in “Film Culture”, n° 21, 1960, pp. 68-79.

Robert E. Jones, cit. in J.-P. Telotte, Minor hazards Disney ..., 2006, p. 30.

Ibid.

La piccola Dorothy vive in una fattoria del Kansas assieme agli zii e a un cagnolino, Toto, sempre nei guai. All’ennesimo problema con la scorbutica vicina Gulch e col suo gatto, che mette a repentaglio la vita di Toto, Dorothy decide di fuggire con l’animale. Proprio quando, convinta dall’eccentrico professor Meraviglia, sta tornando a casa dagli zii preoccupati, la colpisce un uragano che la trasporta in un mondo fantastico, Oz. Qui incontra tanti incredibili personaggi: Glinda, la buona strega del Nord; la sua rivale, la cattiva strega dell’Ovest; uno spaventapasseri senza cervello; un boscaiolo di latta senza cuore; un leone aggressivo ma pauroso; lo spaventoso mago di Oz, che in realtà non è che un semplice uomo senza poteri. Dopo varie peripezie può finalmente tornare a casa dove ritrova tutti i suoi cari, ma anche i contadini e lo stesso professor Meraviglia in cui riconosce i protagonisti della sua avventura.

J.-P. Telotte, Minor hazards Disney ..., 2006, p. 39.

Cfr. P. Dubois, Hybridations et métissage..., 1995, pp. 80-83. Di questa contrapposizione colore-b&n come sogno-realtà, diventato subito cliché, non mancano le parodie: ci basti ricordare A matter of Life and Death (1946) di Powell e Pressburger, in cui è la realtà ad essere colorata, con un dominio di rosso e verde, mentre l’aldilà è rappresentato in un b&n pallido che mette in evidenza ancora di più la bellezza colorata del mondo. Cfr. ibid. p. 82. Sui film di Powell cfr. anche J. Finler, De Becky Sharp à Lola Montès. Comment la couleur vint au cinéma entre 1935 et 1955, in Dossier. La couleur en cinéma, a cura di Y. Tobin, “Positif”, n° 375-376, maggio 1992, p. 130 e N. Ghelli, Funzione estetica del colore nel film, in “Bianco e Nero” ..., 1954, p. 110.

Y. Tobin, «You Gotta Have Glorious Technicolor…». Les couleurs du musical, in Dossier. La couleur ..., 1992, pp. 145-146.

Ibid. Nel decennio successivo invece inizia a prevalere un uso superficiale e grossolano delle tinte e a sostituire i musical nell’immaginario degli spettatori è il noir.

J. Aumont, Introduction à la couleur ..., 1994,pp. 184-185.

Cfr. L. Venzi, Il colore ..., 2006, pp. 11-15.

Dubois distingue fra passaggio dalla realtà al sogno, cui abbiamo accennato in precedenza in relazione ai musical, e passaggio dalla realtà alla pittura, caratteristico appunto dei melodrammi, cfr. P. Dubois, Hybridations et métissage..., 1995, pp. 79-84.

Ibid. p. 83.

Ibid. p. 85.

Per Dubois non si tratta ancora un colore-cinema, in quanto spesso il pittorico è contrapposto, in un altro rapporto dialettico, al cinematografico (che è legato al fotografico), secondo quella relazione fra pittura e fotografia nei loro rapporti con il reale e con la componente cromatica, cui abbiamo accennato in precedenza, in ibid. pp. 86-87.

Cary Scott (Jane Wyman) è una vedova della periferia del New England, assai influente e rispettata dalla comunità. Ha due figli che studiano lontano, ma che vede durante i fine settimana, e molti pretendenti dell’alta società. La donna tuttavia s’interessa a Ron Kirby (Rock Hudson) maggiordomo di famiglia, uomo giovane, vitale, lontano da qualsiasi obbligo sociale. I due s’innamorano e quando lui le chiede di sposarla lei accetta con entusiasmo; subito però si rende conto che la sua scelta non viene accettata dalla rigida società di cui fa parte. Gli amici iniziano a trattarla con sufficienza, persino i figli minacciano di abbandonarla definitivamente e la donna vinta e debole abbandona i suoi propositi. Ma Cary, sempre più triste e sola, ben presto realizza che per trovare la felicità non le resti che rompere le regole sociali.

Cfr. M.-B. Haralovich, All that Heaven Allows. Color, Narrative Space and Melodrama, in Color ..., 2006, pp. 145-153.

Ibid. p. 147.

Cfr. ibid. p. 150.

Cfr. D. Andrew, The post-war struggle for color, in Color ..., 2006, pp. 44-45.

Cfr. J. Aumont, La trace ..., 1992, p. 14.

Ibid. p. 18.

Ci sembra interessante la scelta di Oudart che si riferisce a due opere particolari: Shin heike monogatari del 1955 di Kenji Mizoguchi e Der Tiger von Eschnapur del 1959 di Fritz Lang, in cui è presente un’idea nuova del colore, “non più supporto di un ineffabile senso opaco, ma la base, la griglia di tutto un testo di cui diventa sia indicatore di paradigmi sia agente sintagmatico, tracciando delle opposizioni, suggerendo delle proposizioni, producendo delle figure secondo le proprietà del suo codice, […] nel quadro di un testo in cui non è più figura dei limiti del senso, ma in cui ne produrrà”, in J.-P. Oudart, La couleur comme système, in “Cahiers du cinéma”,n° 217, novembre 1969, p. 41 (traduzione nostra). Altri si riferiscono all’Enrico V di L. Olivier e a Black Narcissus di Powell e Pressburger, (cfr. F. Montesanti, Lineamenti di una storia ..., 1954, pp. 39 e segg.) o a alcuni film di Nicholas Ray, ad esempio Party Girl, ( cfr. F. Hoveyda, La Réponse de Nicholas Ray, in “Cahiers du cinéma”, n° 107, maggio 1960, pp. 14-16). In generale tutti sembrano concordi con Ejzenŝtejn quando si lamenta dei film a colori prodotti fino allora, siano incapaci di sfruttare il potenziale del colore alla ricerca di una riproduzione esatta ma sterile della realtà secondo la concezione per cui “è buono quel film a colori in cui il colore non si fa notare”. Cfr. S.-M. Ejzenŝtejn, Il cinema a colori, in Il colore ..., 1989, p. 77.

Per le teorie sul colore cfr. la raccolta di scritti del regista russo, S.-M. Ejzenŝtejn, Il colore ..., 1989. Ejzenŝtejn individua un procedimento che consta essenzialmente di tre fasi, ben descritte da Montani: 1) “la dissociazione dell’elemento-colore dall’oggetto con cui empiricamente convive”; 2) “il libero gioco dell’elemento-colore con la forma e con lo spazio”; 3) “la conversione dell’elemento-colore in una nuova oggettualità”. È quest’ultima fase la più importante: sono messe in gioco varie istanze interpretative e vari codici e sono assegnati ai colori significati ambivalenti ed ambigui; la relatività dei valori d’immagine si riflette sulle tinte e le possibili combinazioni dei temi divengono molteplici consentendo così un allontanamento dalla convenzionalità e dal simbolismo troppo rigido. La componente cromatica dà inizio a un riassemblaggio degli elementi naturali secondo un nuovo ordine e una nuova armonia di tinte. Il regista ricostruisce il mondo attraverso la formazione di una gamma cromatica, un insieme scelto di colori che saranno attivi durante tutta l’opera, cfr. P. Montani, Introduzione, in S.-M. Ejzenŝtejn, Il colore ..., 1989, pp. XIII-XV. Il valore rivoluzionario della dottrina ejzenstejniana non è stato riconosciuto da tutti gli studiosi del regista russo: Deleuze, ad esempio, sostiene che il suo colorismo condusse più a un’immagine colorata, che a una vera e propria immagine-colore, cfr. G. Deleuze, L’immagine ...,1984, p. 141. Anche Aumont nota come la libertà del colore sia relativa, e a dominare sia piuttosto la «grande» forma filmica cui ogni elemento si sottomette per darsi forza reciproca cfr. J. Aumont, Introduction à la couleur ..., 1994,p. 211. Con Aumont è d’accordo Dubois che vede l’autonomia della componente cromatica opaca, in realtà al servizio di una vaga istanza superiore (l’unità organica superiore dell’opera d’arte) da cui è diretta coscientemente nella propria espressività, in P. Dubois, Hybridations et métissage..., 1995, p. 89.

Cfr. P. Montani, Introduzione ..., 1989.                                                 

S.-M. Ejzenŝtejn, Il cinema ..., 1989, p. 84.“Alla modulazione luminosa del flusso cromatico [...] è affidato il compito di narrazione emotivamente generalizzata e di espressione di un contenuto interno che incide direttamente sul piano tematico”.

Per Montani, n Ejzenŝtejn “La drammaturgia del colore è pensata in termini di sdoppiamento del testo”, P. Montani, Introduzione ..., 1989, p. XVII.

In italiano La congiura dei boiardi, mentre il titolo originale è Ivan Groznyi; il film, benché terminato nel 1946, uscì solo nel 1958, prima per problemi con la censura staliniana, poi per la sopravvenuta morte del regista. La sequenza nell’edizione in DVD del film va dal minuto 56 al 73, con un’appendice nei momenti finali dell’opera, al min 83.

In una di queste analisi Ejzenŝtejn individua nel processo di formazione della gamma cromatica otto fasi: 1) considerazione dei problemi del soggetto e dei vari oggetti, dai costumi agli arredi; 2) inventario dei colori dell’ambiente, in modo da ottenere una gamma cromatica iniziale; 3) inserimento dei motivi temativo-narrativi legati alla gamma cromatica e alla gerarchia delle immagini-colore (oro-rosso-nero); 4) messa a punto definitiva della gamma cromatica con l’aggiunta del celeste; 5) definizione dei motivi cromatici: i movimenti delle immagini-colore, nei vari oggetti, divengono dettagli significanti; 6) precisazione dei toni maggiori e minori e degli accordi di colore; 7) determinazione dei tratti del movimento generale dei colori e della struttura del contrappunto colorico; 8) precisazione dei dettagli dell’orchestrazione dei colori e dei vari movimenti dei motivi del colore. Cfr. in particolare S.-M. Ejzenŝtejn, Da una ricerca ..., 1989, pp. 30-44.

Cfr. P. Montani, Introduzione ..., 1989, pp. XVI e segg.

Ibid. p. XVII.

S.-M. Ejzenŝtejn, Da una ricerca ..., 1989, p. 40.

“Ejzenŝtejn ama la composizione, che non è mai geometrizzazione, ma mira sempre all’articolazione di senso”, in J. Aumont, Introduzione, in S.-M. Ejzenŝtejn, La natura ..., 1992, pp. XXV. E altrove: “La riflessione sul colore (di Ejzenŝtejn) è basata su una questione che molto lo preoccupava: come può l’immagine filmica essere nel contempo da vedere e da comprendere, [...], trasmettere un senso, [...], e una sensorialità”, in  J. Aumont, L’occhio ..., 1998, p. 134.

F. Pierotti, Dalle invenzioni ai film ...,  2006, p. 102.

Cfr. Venzi, Il colore ..., 2006, p. 22.

In W. Johnson, Coming in terms with color, in Color ...,2006, p. 234.

Fonte: http://www1.unipa.it/tecla/contenuti/pdf/rivista6_montaggio/testi_n_6/4R_Lai/Vecchie%20versioni/La%20faticosa%20affermazione%20del%20colore%20al%20cinema.doc

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