Cinema d' autore appunti

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Cinema d' autore appunti

1895 - 1912
Il cinema rappresentò una grande novità negli anni novanta del diciannovesimo secolo, ma la sua realizzazione fu il risultato di un insieme più vasto e vario di forme d'intrattenimento nate in epoca vittoriana. Il nuovo mezzo cinematografico si inserì facilmente in una grande vastità di divertimenti popolari.
Il 1 Marzo del 1895, i fratelli Lumière presentarono "Arroseur er arrosè" durante la loro prima proiezione; brevi scene di un ragazzo che si prendeva gioco di un giardiniere, calpestando la canna con cui stava annaffiando. Semplici scherzi di questo tipo rappresentavano il cinema delle origini. La maggior parte dei film delle origini era composta da una sola inquadratura, la macchina da presa era sempre tenuta nella stessa posizione, e l'azione si svolgeva nel tempo di un'unica ripresa. In molti casi, i registi facevano di un singolo soggetto diverse riprese, questi venivano poi trattati come una serie di film separati. I gestori delle sale potevano poi scegliere se comprare l'intera serie o proiettarne uno solo.
Solo nel 1899, i produttori cominciarono a realizzare film con diverse inquadrature. A partire dal 1896, il catalogo dei Lumière comprese centinaia di immagini di Spagna, Egitto, Italia, Giappone e molti altri, ma rimasero comunque famosi per le loro "vedute", film di finzione e brevi scene comiche. Da ricordare inoltre, che alcuni dei film girati dai loro operatori introdussero importanti innovazioni tecniche. A Eugène Promio, ad esempio, si attribuisce l'invenzione del movimento di macchina; le cineprese erano sorrette da treppiedi fissi che non permettevano alla macchina di ruotare o effettuare panoramiche. Nel 1896, Promo introdusse il movimento in una ripresa di Venezia, mettendo il treppiede su una gondola, e perfezionò questa tecnica, posizionando la macchina su navi e treni.
In generale i fratelli Lumière, trasformarono il cinema, insieme a qualche altra società, in un fenomeno internazionale. Il 4 Maggio del 1897, la loro ditta dovette registrare una battuta d'arresto; durante una proiezione al Bazar de la Charitè di Parigi, una tenda prese fuoco a causa dell'etere usato per alimentare la lampada del proiettore. L'incendio che ne scaturì, fu una delle peggiori tragedie della storia del cinema; 125 persone persero la vita.
I fratelli Lumière, continuarono a produrre film, ma nel tempo vennero esclusi dal mercato da rivali più innovativi. Nel 1905, cessò la loro produzione, ed in Francia fecero comparsa altre case di produzione; fra queste anche una piccola società avviata da George Méliès, il Mago del Cinema delle origini. Mago del cinema, dell'arte in fondo; sebbene venga ricordato principalmente per i suoi film fantastici, per i suoi fondali dipinti, Méliès girò tutti i generi in voga in quei tempi. Illusionista, era anche il proprietario del Thèàtre Robert-Houdin, dal nome del più famoso prestigiatore francese. I suoi primi film, la maggior parte dei quali è andata perduta, includevano molte "vedute"e brevi scene girate all'aperto sullo stile dei fratelli Lumière. Da lui inizia questo lungo viaggio.
Nel primo anno della sua attività, Méliès girò settantotto film, incluso il primo in cui fece uso di trucchi: "Escamotage d'une dame chez Robert-Houdin" (Sparizione di una signora al Robert-Houdin, 1896), in cui Méliès interpreta un mago che trasforma una donna in scheletro. Il trucco consisteva nel fermare la ripresa e sostituire la donna con uno scheletro. In seguito fece uso del fermo macchina e altri effetti speciali per creare scene fantastiche e di magia più complesse. Tutti i suoi trucchi erano realizzati in fase di ripresa, poiché, erano pochissime prima della metà degli anni venti, le manipolazioni che potevano essere fatte in laboratorio. Nel 1897, costruì un piccolo teatro di posa con pareti di vetro che permise di disegnare e creare scenografie su fondali di tela. In questo studio tra il 1898 e il 1899 realizzò diversi tipi di film, come per esempio "Visite sous-marine du Maine" (Visita sottomarina al Maine), e "L'affaire Dreyfus", storia di un ufficiale ebreo condannato per tradimento nel 1894 sulla base di false prove prodotte per ragioni antisemite. Questo film suscitò molte polemiche, ma resta senza dubbio una delle opere più complesse del cinema delle origini, soprattutto per le dieci inquadrature realizzate come fossero dieci film diversi. Nell'opera successiva, "Cendrillon" (Cenerentola, 1899), Méliès, cominciò ad unire inquadrature diverse e a venderle come un unico film. I suo film, in particolar modo quelli di genere fantastico, diventarono molto famosi in Francia e all'estero. Tra le sue opere più famose, ricordiamo "Le voyage dans la lune" (Viaggio nella Luna, 1902), film comico di fantascienza su un gruppo di scienziati a bordo di una navetta spaziale in orbita per la Luna, che scappano dopo essere stati fatti prigionieri da strane creature. Molti dei suoi film presentavano complicati effetti di fermo macchina: da una nuvola di fumo apparivano improvvisamente demoni, uomini che saltavano si trasformavano in demoni durante il volo.
Méliès fu anche maestro di un certo tipo di montaggio, come dimostrano recenti studi; i suoi effetti di fermo macchina furono realizzati anche dopo le riprese: tagliando la pellicola aveva la possibilità di unire il movimento dell'oggetto con la cosa con cui si stava trasformando, tagli di cui lo spettatore non si accorgeva nemmeno. I suoi film continuarono ad avere successo, fino a quando non riuscendo più a sopperire alla crescente domanda, cominciò a risentire della concorrenza da parte delle società più grandi.
Il suo ultimo capolavoro, "A la conquète du Pole" (Alla conquista del Polo, 1912), fu un clamoroso insuccesso. Nello stesso anno, sommerso di debiti, fu costretto a smettere dopo aver girato cinquecento film (solo due dei terzi sono stati salvati). Morì nel 1938.
Méliès portò nel cinema fantasia, disordine, critiche ed innovazioni grazie alla quale grandi registi riuscirono a donarci quelle immagini che ancora oggi rimangono indelebili. E' riuscito a regalarci un cinema che non ha confini; artefice di uno "scherzo" tra realtà ed immaginazione.

1896 - 1905
Se George Mèliès fu forse il più importante regista del cinema delle origini, altre due società che avrebbero dominato l'industria cinematografica nacquero poco dopo l'invenzione del cinema. Nel 1896, Charles Pathé, fondò la Pathé Frères, e si concentrò principalmente sulla produzione di film. Nel 1902 costruì un teatro di posa con le pareti di vetro e cominciò a vendere la sua cinepresa che divenne la più diffusa nel mondo fino alla fine degli anni dieci.
All'inizio la produzione di Pathé non era originale, poiché riprendeva le idee di Mèliès e di film americani e inglesi. Nel 1901 ad esempio, Fernando Zecca, regista più importante della società, girò "Ce quel'on voit de mon sixième" (Ciò che si vede dal mio appartamento al sesto piano), che comportava la visione degli oggetti attraverso telescopi e microscopi.
Nel 1904 e nel 1905, Pathé allargò la sua attività anche all'estero aprendo uffici di vendita a Londra, New York, Mosca, Berlino e San Pietroburgo. In pochi anni la Pathé Freres divenne la più grande società cinematografica nel mondo.
La sua principale rivale in Francia era una ditta più piccola fondata dall'inventore Lèon Gaumont che, come i Lumière, inizialmente si occupava di materiale fotografico. La società cominciò a produrre film nel 1897. Questi consistevano principalmente in 'attualità' riprese da Alice Guy-Blanchè, la prima donna regista.
L'impegno di Gaumont di film in questo periodo rimase limitato, dato che il suo principale interesse riguardava le innovazioni tecniche nel materiale fotografico.

1897 - 1914
Dopo le prime proiezioni del 1896, la produzione di film si diffuse rapidamente in Inghilterra. Inizialmente la maggior parte dei film veniva raggruppata insieme e veniva mostrata come numero unico all'interno del programma di uno spettacolo musc-hall (l'equivalente del varietà italiano).
A partire dal 1897, gli spettacoli di cortometraggi a basso prezzo si diffusero anche nelle fiere dove richiamavano il pubblico della classe operaia.
All'inizio la maggior parte dei film inglesi si basava su soggetti molto semplici o ricavati dall'attualità. I primi film inglesi divennero famosi per i loro spettacolari effetti speciali. Cecil Hepworth, per esempio, produsse film a partire dal 1899, concentrandosi sui temi di attualità, ma presto cominciò anche a girare film pieni di trucchi ed effetti, e finì per diventare il produttore più importante nel periodo tra il 1905 e il 1914.
Altri produttori erano sparsi in Inghilterra; i più importanti formavano il piccolo ma influente gruppo che venne poi denominato la "scuola di Brighton" dal nome della città dove lavoravano. I capiscuola erano George Albert Smith e James Williamson, tutti e due fotografi, che passarono al cinema nel 1897. Entrambi costruirono piccoli studi aperti da un lato per far entrare la luce e sperimentarono diversi modi di usare gli effetti speciali e il montaggio che influenzarono in seguito i registi di altri paesi.
"The Big Swallow" (Il grande boccone, 1900) di Williamson è un buon esempio dell'ingegnosità dei registi di Brighton: l'inquadratura iniziale ritrae un uomo su uno sfondo bianco che si arrabbia perché non vuole essere ripreso; cammina in avanti avvicinandosi alla macchina da presa e spalanca la bocca come se volesse ingoiarla. Con uno stacco impercettibile, la sua bocca viene sostituita da un fondale nero e si vedono l'operatore e la cinepresa cadere nel vuoto. Un altro stacco invisibile ci riporta alla bocca aperta e l'uomo indietreggia, ridendo e masticando in maniera trionfante.

1897 - 1910
Gli Stati Uniti rappresentavano senza dubbio il più grande mercato del mondo del cinema, avendo più sale pro capite di ogni altro paese. Per più di quindici anni ditte americane e straniere si fecero grande concorrenza.
I film americani erano venduti all'estero, ma le case di produzione si concentravano sul mercato nazionale. Tale concorrenza permise alla Francia e all'Italia di conquistare terreno rispetto agli Stati Uniti e di controllare il mercato internazionale fino alla prima metà degli anni dieci. Dopo la prima presentazione del vitascope di Edison a New York nell'aprile del 1896, le proiezioni di film si diffusero rapidamente in tutto il Paese. Il vitascope non era in vendita, ma singoli imprenditori acquistarono i diritti per usarlo in diversi Stati. Durante il 1896 e il 1897, molte piccole società misero in commercio i loro proiettori, tutti progettati per la pellicola 35mm. Negli anni tra il 1895 e il 1897 il cinema rappresentò una grossa novità.
All'inizio del 1898 la novità si era consumata, l'affluenza nei cinema diminuì e molti gestori di sale si ritirarono dal mercato. La guerra ispano-americana del 1898 rinnovò l'interesse per il cinema: il fervore patriottico spingeva il pubblico a interessarsi di qualsiasi evento riguardante il conflitto, cosicché le società, non solo negli Stati Uniti, si arricchirono mostrando o girando film di finzione.
Un altro tipo di film che contribuì a rivitalizzare il cinema furono le "Passioni": a partire dal 1897, infatti, i registi cominciarono a realizzare serie di scene sulla vita di Gesù composte da un'unica inquadratura che somigliavano a illustrazioni bibliche. Anche i film sulla boxe erano popolari, dato che potevano essere proiettati in luoghi dove gli incontri veri erano proibiti.
Verso la fine degli anni Novanta, un notevole successo premiò l'American Mutoscope Company, grazie anche alle immagini nitide della pellicola 70mm, mostrate dagli operatori che giravano per teatri di varietà.
Nel 1897 l'America Mutoscope era la più famosa società cinematografica d'America.
Nel 1899 la società cambiò il suo nome in American Mutoscope&Biograph (AM&B).
Nel 1903 cominciò a proiettare film con pellicole 35mm invece che 70mm e le vendite salirono. Nel 1908 assunse uno dei più importanti registi del cinema muto, David Wark Griffith.
Un'altra importante società che cominciò la sua attività in questi anni fu l'American Vitagraph. Fondata nel 1897 come agenzia pubblicitaria da J.Stuart Blackton e Albert E.Smith, la Vitagraph si occupò inizialmente di film sulla guerra di Cuba. Nel giro di pochi anni emerse come un'importante casa di produzione di film il più delle volte innovativi.
L'aumento della produzione della AM&B e della Vitagraph, costrinse la Edison Company a girare molti più film per fronteggiare la concorrenza. A sostenere l'impresa di Edison venne chiamato uno dei più importanti registi americani del periodo: Edwin S.Porter.
Porter era un proiezionista, ma era anche esperto nella produzione di materiale fotografico.
Alla fine del 1900 cominciò a lavorare per Edison per cui aveva grande stima e che gli assegnò il compito di perfezionare le cineprese e i proiettori della società.
All'inizio del 1901 Porter cominciò a usare una macchina da presa. In questo momento della storia del cinema l'operatore era l'effettivo regista del film.
A Porter sono state attribuite praticamente tutte le innovazioni del periodo antecedente al 1908, inclusa la realizzazione del primo film narrativo, "Life of an American Fireman" (Vita di un pompiere americano, 1903), e l'invenzione del montaggio così come la concepiamo oggi.
Porter pur basandosi su tecniche già usate da Mèliès, Smith e Williamson, sviluppò i modelli di partenza con l'aiuto della sua immaginazione ed ebbe l'indiscusso merito di introdurre alcune tecniche originali.
Life of an America Fireman, è un pregevole tentativo verso questo tipo di narrazione. Comincia con una lunga inquadratura di un pompiere che durante il sonno, sogna una donna e un bambino in pericolo in un incendio; il sogno è reso visivamente come la nuvola di un fumetto nella parte alta dello schermo. Uno stacco su un primo piano mostra una mano che tira un allarme antincendio pubblico. Diverse inquadrature, realizzate sia in studio che in esterni, mostrano il pompiere che corre in direzione dell'incendio. Il film finisce con due lunghe inquadrature della stessa azione da due punti di vista differenti. Nella prima il pompiere entra da una finestra in una stanza da letto per salvare la madre e torna per salvare il bambino; nella seconda vediamo ancora entrambi i salvataggi, ma da una cinepresa posizionata fuori dalla casa. A un pubblico moderno questa ripetizione degli eventi può sembrare strana, ma nel cinema delle origini non era raro mostrare lo stesso avvenimento da diversi punti di vista.
Un film simile intitolato"Fire!" (Fuoco!), era stato girato nel 1901 dal regista James Williamson della "scuola di Brighton".
Anche il film più importante di Porter, "The Great Train Robbery" (La grande rapina al treno o L'assalto al treno), venne realizzato nel 1903.
In undici inquadrature è narrata la storia di una banda di ladri che assale un treno. Un telegrafista, che all'inizio del film viene legato, riesce a dare l'allarme e gli uomini della contea tendono un'imboscata ai ladri che si stanno dividendo il bottino.
Porter monta in successione le inquadrature ambientate nell'ufficio del telegrafo, sul treno durante la rapina e quelle del ballo con gli abitanti del paese.
Anche se non presenti salti temporali avanti o indietro da un'inquadratura all'altra, qualche anno più tardi altri registi cominciarono ad alternare le inquadrature che presentavano ambientazioni diverse creando una tecnica chiamata montaggio alternato.
Nel film era inclusa anche una scena in cui uno dei ladri viene inquadrato mentre spara un colpo alla macchina da presa, che i gestori delle sale potevano scegliere se mettere all'inizio della proiezione o alla fine.
Probabilmente The Great Train Robbery fu il film più famoso della storia del cinema prima del 1905.
Porter lavorò con Edison per molti anni ancora, soltanto nel 1909, lasciò la Edison Company per diventare un produttore indipendente.
Dal 1902 al 1905, Porter fu uno dei tanti registi che contribuirono a concentrare l'industria sulla produzione di film di finzione, che fino al 1904, rappresentarono il principale prodotto dell'industria; il noleggio delle pellicole da parte degli esercenti crebbe considerevolmente. Questa pratica determinò la divisione fra produzione, distribuzione e gestione delle sale che avrebbe segnato l'espansione della nuova industria.
Sebbene le produzioni più importanti fossero francesi, inglesi e americane, già dai primi tempi si allestirono produzioni minori in altre parti del mondo.
In Spagna, per esempio, i primi film vennero introdotti da Eugène Promio, quando questi portò il cinematografo dei Lumière a Madrid nel 1896.
Nell'ottobre di questo anno, Eduardo Jimeno girò il primo film spagnolo, "Salida de misa major del Pilar de Zaragoza" (Uscita dalla messa grande alla cattedrale di Saragozza) .
In India Harishchandra Sakhram Bhatwadekar ordinò una cinepresa in Europa e filmò incontri di lotta, scimmie al circo ed eventi locali che a partire dal 1899 proiettò insieme al suo programma dì film importanti.
Nei primi dieci anni di sfruttamento commerciale del cinema si stabilirono le condizioni per la diffusione internazionale dell'industria. Inoltre i registi cominciarono a esplorare le possibilità del nuovo mezzo, che nel decennio successivo, si sarebbero intensificate...il cinema stava diventando una realtà.

1905 - 1912
Intorno al 1905 l'industria cinematografica assunse dimensioni più ampie e forme più stabili. Sale permanenti vennero dedicate prevalentemente alla proiezione dei film e la produzione delle pellicole si allargò per soddisfare la crescente domanda.
L'Italia e la Danimarca divennero importanti produttori e il cinema apparve in molte altre zone. Dopo il 1905 i film divennero più lunghi, cominciarono a essere composti da diverse inquadrature e raccontare storie più complesse.
I registi sperimentarono nuove tecniche per comunicare le informazioni narrative.
Forse il più importante periodo di cambiamenti formali e stilistici della storia del cinema.

Francia

L'industria cinematografica francese dominava in questo periodo il mercato internazionale e i suoi film erano i più visti nel mondo.
Le due principali società, la Pathé Frères e la Gaumont, continuavano a espandersi.
La Pathé era già una grande società, con tre diversi studi.
Fu anche una delle prime ad avere una concentrazione verticale che fondamentalmente comportava il controllo della produzione, distribuzione ed esercizio dei film da parte della casa.
La Pathé costruiva le sue macchine da presa e i suoi proiettori, produceva film e fabbricava la pellicola su cui stampare le copie da distribuire.
A partire dal 1906 comprò anche le sale. L'anno seguente cominciò a distribuire i suoi film dandoli a noleggio e non vendendoli.
Nel giro di pochi anni iniziò a distribuire anche film realizzati da altre società.
Nel 1905 la Pathé contava sei registi, sempre supervisionati da Fernando Zecca, che giravano ognuno un film alla settimana.
Il film di maggior successo della Pathé erano le serie che avevano come protagonisti comici famosi: la serie di Boireau, e soprattutto la serie di Max Linder.
Oltre a essere una società concentrata verticalmente, la Pathé usava anche la strategia della concentrazione orizzontale, ovvero l'espansione di una compagnia all'interno di uno specifico settore dell'industria cinematografica.
Anche l'espansione della principale rivale della Pathé, la Gaumont, fu rapida. Dopo aver finito di costruire un nuovo studio nel 1905, la società assunse nuovi registi.
Fu Alice Guy-Blanchè a insegnare loro il mestiere e lei stessa cominciò a realizzare film più lunghi.
Sull'esempio di Pathé altre società e singoli imprenditori aprirono nuove sale, una di queste, la Film Art, ebbe un influsso significativo. Fondata nel 1908, una delle sue prime produzioni fu "L'assassinat du duc de Guise" (L'assassino del duca di Guisa, di Charles Le Bargy e Andrè Calmettes, 1908). Il film racconta un celebre episodio della storia francese. Proiettato in molti paesi del mondo, ottenne un notevole successo. Opere simili costituirono un modello per un cinema con ambientazioni artistiche.
Ciononostante la Film Art perse molti soldi nella maggior parte delle sue produzioni e fu venduta nel 1911.

Italia

L'Italia arrivò un po' più tardi sulla scena della produzione cinematografica, che a partire dal 1905 si sviluppò rapidamente. Nel giro di pochi anni l'industria cinematografica italiana cominciò ad assomigliare a quella francese.
Alcuni film italiani erano imitazioni se non addirittura remake di film francesi.
Nel 1910, l'Italia era probabilmente seconda solo alla Francia per numero di film esportati all'estero.
I produttori italiani furono tra i primi a realizzare film di più di un rullo (quindi più lunghi di quindici minuti) .
Nel 1910 Giovanni Pastrone, uno dei maggiori registi dell'epoca, girò "La caduta di Troia", in tre rulli.
A partire dal 1909 i produttori italiani ricominciarono però ad imitare i francesi realizzando parecchie serie comiche.

Danimarca

Un piccolo Paese come la Danimarca svolse un ruolo importante nell'ambito del cinema internazionale grazie all'imprenditore Ole Olsen.
Nel 1906 fondò una casa di produzione, la Nordisk, e cominciò presto ad aprire uffici di distribuzione all'estero, raggiungendo il successo nel 1907 con "Lovejagten" (Caccia al leone), un film di finzione su un safari.
I film della Nordisk in breve tempo divennero famosi in tutto il mondo per l'eccellente recitazione e i pregi produttivi.
Si specializzò nel poliziesco, nel dramma e in melodrammi in qualche modo sensazionalistici, comprese storie di prostituzione.
La Nordisk aveva un set che riproduceva un circo e che rimaneva permanentemente installato: alcuni fra i principali film della compagnia erano infatti i melodrammi sulla vita del circo, come "De Fire Djaevle" (I quattro diavoli, di Robert Dinesen e Alfred Lind, 1911) e "Dodsspring til Hest fra Cirkus-Kuplen" (Salto mortale a cavallo sotto la tenda del circo, di Eduard Schnedler-Sorensen, 1912). In quest'ultimo, un conte perde tutta la sua fortuna per saldare i debiti di gioco di un amico.
Anche se qualche piccola casa di distribuzione tentò di avviare un'attività durante questo periodo, Olsen riuscì a comprarla o a farla uscire dal mercato.
L'industria danese fu fiorente fino allo scoppio della prima guerra mondiale che chiuse molti dei suo mercati di esportazione.

1905 - 1908
Nel 1905 i film venivano proiettati perlopiù in sale di varietà, teatri e in altri luoghi d'incontro. La principale tendenza dell'industria cinematografica americana negli anni 1905-1907 fu il grande sviluppo del numero delle sale.
Erano in genere piccoli magazzini che contenevano meno di duecento posti a sedere; l'entrata costava generalmente un nickel (da qui il termine"nickelodeon") o un dime (dieci centesimi) se il programma durava dai quindici ai sessanta minuti.
La maggior parte dei nickelodeon aveva un solo proiettore.
I nickelodeon potevano programmare i loro film in continuazione, dalla tarda mattinata a mezzanotte. Più economici dei teatri di varietà, offrivano prezzi più regolari degli spettacoli ambulanti.
Le spese erano generalmente più basse, gli spettatori si sedevano su panchine o su sedie di legno. Raramente annunci sui giornali informavano in anticipo sui programmi degli spettacoli, così gli spettatori vi si recavano regolarmente o vi capitavano per caso.
Fuori dal cinema venivano esposti i titoli dei film e a volte il compito di attirare l'attenzione dei passanti era affidata a un fonografo.
Quasi sempre c'era un accompagnamento sonoro: capitava che fosse lo stesso gestore della sala a spiegare quanto succedeva sullo schermo, ma era più frequente l'accompagnamento da parte di un pianoforte o di un fonografo.
Prima del 1905, il prezzo del biglietto era di venticinque centesimi o più, un prezzo troppo alto per i salari degli operai.
I nicklodeon permisero a un pubblico di massa, formato sostanzialmente da immigranti, di assistere agli spettacoli.
Tutti i nickelodeon erano ubicati nel quartiere degli affari o nelle zone industriali della città.
Gli operai avevano così la possibilità di andare al cinema vicino casa, mentre le segretarie e i fattorini potevano vedere uno spettacolo durante l'ora di pausa per il pranzo o dopo il lavoro. Nel 1908 i nickelodeon erano diventati la principale modalità di proiezione, e la maggior parte dei film veniva dall'estero. Pathé, Gaumont, Hepworth, Cines, Nordisk e altre società europee dominavano il programma di distribuzione settimanale.
I nickelodeon permisero ad importanti uomini d'affari d'intraprendere brillanti carriere.
I fratelli Warner cominciarono come gestori di nickelodeon. Carl Laemmle, il futuro fondatore della Universal, aprì il suo primo nickelodeon a Chicago nel 1906; Louis B.Mayer, che divenne la seconda "M" della MGM (Metro-Goldwin-Mayer), gestiva un piccolo cinema a Haverhill, nel Massachusetts. Altri dirigenti degli studios, tra cui Adolph Zuko (successivamente della Paramount), William Fox (che fondò la 20th Century-Fox), cominciarono gestendo un nickelodeon.
Questi uomini contribuirono a creare la struttura base dello studio system hollywoodiano negli anni Dieci.

1909 - 1911
La tendenza verso programmazioni più lunghe e i film di maggior prestigio artistico richiese di accrescere la lunghezza delle pellicole.
Nel 1909 alcuni produttori americani cominciarono a realizzare film di più di un rullo, ma siccome il rigido sistema della MPPC (Motion Picture Patents Company con a capo la Edison e la AM&B creata nel dicembre del 1908), che controllava tutte le altre società, permetteva di distribuire un solo rullo alla settimana, gli esercenti potevano proiettare soltanto una parte di film alla volta.
Tra la fine del 1909 e l'inizio del 1910, per esempio, la Vitagraph dovette vendere "The Life of Moses" (La vita di Mosè) in cinque rulli separati. Una volta in possesso di tutti e cinque i rulli, alcuni gestori decisero di proiettarli l'uno dopo l'altro, mentre i film più lunghi continuarono a essere proiettati in diverse parti durante la settimana.
In Europa, dove il sistema di distribuzione era più flessibile, i film composti da più rulli erano frequenti e quando furono importati negli Stati Uniti, vennero proiettati nelle sale nella loro interezza, con il prezzo del biglietto maggiorato.
Come si è visto, "La caduta di Troia", girato in tre rulli, ebbe un enorme successo nel 1911. Nel 1912 Adolph Zukor importò trionfalmente "La reine Elisabeth" (La regina Elisabetta) e "La dame aux camèlias" (La signora delle camelie).
Il successo delle importazioni obbligò le case di produzione americane a realizzare film lunghi da distribuire in un'unica soluzione.
Nel 1911, la Vitagraph fece uscire "Vanity Fair" (La fiera delle vanità), composto da tre rulli, come un unico film.
Intorno alla metà degli anni Dieci, il lungometraggio divenne la misura standard della programmazione delle sale più prestigiose provocando il declino dei cortometraggi, preferiti dai gestori di nickelodeon.

1908 - 1917
Quando il montaggio unisce una serie di sequenze, la chiarezza narrativa dipende dal fatto che lo spettatore capisca il rapporto spaziale e temporale fra una sequenza e l'altra.
Nel 1908, Alfred Capus, sceneggiatore della società francese Film Art, affermò che per mantenere viva l'attenzione del pubblico, era necessario mantenere una connessione fra un'inquadratura e quella precedente.
In questo periodo, i registi, svilupparono delle tecniche che, a partire dal 1917, avrebbero formato il principio di continuità narrativa del montaggio.
Questo sistema comprendeva tre modi fondamentali per unire le sequenze: il montaggio alternato, il montaggio analitico, e il montaggio contiguo.

Il Montaggio Alternato

Prima del 1906, nei film narrativi non ci si spostava avanti e indietro fra azioni che avvenivano in luoghi diversi; al contrario, nella maggior parte dei casi, un'azione continua formava l'intera storia.
Il genere popolare dell'inseguimento ne fornisce il migliore esempio.
Se le azioni erano diverse, il film si concentrava su ognuna di esse nella sua interezza e quindi passava alla successiva.
Uno dei primi importanti casi in cui l'azione si sposta davanti e dietro fra luoghi diversi, con almeno due sequenze in ogni luogo, è "The 100 to 1 Shot, or A Run of Luck" (Una probabilità su cento o una corsa verso la fortuna, 1906, Vitagraph).
Nel cinema delle origini il montaggio alternato veniva utilizzato anche per altri tipi di azione oltre ai salvataggi.
David Wark Griffith è il regista più spesso associato con la tecnica del montaggio alternato.
Uno dei film in cui fece un uso esteso e pieno di suspense di questa tecnica fu "The Lonely Villa" (La villa isolata, 1909).
Nel 1912 questa tecnica era ormai comunemente usata nei film americani.

Il Montaggio Analitico

Questa definizione si riferisce a quel tipo di montaggio che suddivide uno spazio unico in inquadrature diverse.
Un modo semplice per farlo era quello di inserire inquadrature ravvicinate di ciò che stava accadendo; in questo modo un campo lungo mostrava l'intero spazio e uno più stretto dava maggior rilievo agli oggetti o alle espressioni del viso.

Il Montaggio Contiguo

In alcune scene, i personaggi uscivano dallo spazio inquadrato per poi riapparire nell'inquadratura successiva.
Questi movimenti erano tipici del genere dell'inseguimento: generalmente i personaggi correvano attraverso lo spazio inquadrato e ne uscivano; nell'inquadratura successiva, si vedeva un locale adiacente dove riprendeva il movimento della loro corsa.
Non tutti i film di questo periodo mostrano i personaggi muoversi in modo coerente attraverso spazi contigui.
Verso gli anni dieci, tuttavia, molti registi compresero che se si mantiene costante la direzione del movimento si aiuta il pubblico a seguire la traccia dei rapporti tra spazi differenti.
Nel giro di pochi anni, i registi impararono a far muovere i personaggi nella stessa direzione. Verso la metà degli anni Dieci, la coerenza del movimento dei personaggi sullo schermo divenne una regola implicita del montaggio hollywoodiano.

1905 - 1912
Sebbene la maggior parte delle copie di film muti che oggi vediamo sia in bianco e nero, molte volte venivano colorate secondo la moda in vigore al momento della loro uscita.
Il colore accentuava l'aspetto realistico del film.
Dopo che la Pathé aveva introdotto il suo sistema di colorazione a pennello o a tampone, altre compagnie usarono tecniche simili.
Il colore poteva anche fornire informazioni utili alla narrazione e quindi rendere la storia più comprensibile per lo spettatore.
In questo periodo divennero frequenti due tecniche per colorare le copie da distribuire.
La "imbibizione" consisteva nell'immergere una pellicola già sviluppata nella tinta che colorava le parti più chiare delle immagini, mentre quelle più scure rimanevano nere.
Nel "viraggio", la pellicola già sviluppata veniva immersa in una soluzione chimica che saturava le zone scure del fotogramma, mentre quelle più chiare rimanevano più o meno bianche.
"Jephtah's Daughter" (La figlia di Iefte) della Vitagraph, usa la tintura per la scena del miracolo vicino al fuoco. Il colore rossastro suggerisce la luce delle fiamme.
Il blu era usato frequentemente per le scene che avvenivano di notte, il verde per le scene ambientate nella natura e così via. Per normali scene alla luce del giorno si utilizzava il color seppia o il porpora.

1906 - 1912
Sin dagli inizi della storia del cinema furono realizzati film che facevano uso di un certo tipo di animazione.
Emile Reynaud, proiettando i suoi disegni attraverso il prassinoscopio, fu un importante precursore del cinema di animazione.
In parecchi film delle origini lavorarono abili disegnatori che venivano dal teatro di varietà come James Stuart Blackton che sarà tra i fondatori della Vitagraph.
L'animazione venne usata dall'industria cinematografica a partire dal 1906 quando Blackton realizzo "Humorous Phases of Funny Faces" (Trasformazioni umoristiche di facce buffe) per la Vitagraph.
Il film consisteva principalmente in disegni di volti che si trasformavano fotogramma dopo fotogramma.
I disegni apparivano gradualmente, ma non davano l'impressione del movimento fino alla fine, quando nelle facce ruotavano gli occhi.
Quello stesso anno la Pathé produsse "Le thèàtre de petit Bob" (Il teatro del piccolo Bob), nel quale gli oggetti venivano mossi pazientemente tra le diverse esposizioni di ogni singolo fotogramma al fine di animare il contenuto della scatola dei giochi di un ragazzino.
Tale procedimento era chiamato "a fotogramma singolo" (frame-by-frame).
Al primo genere di animazione appartiene "The Haunted Hotel" (L'hotel infestato dagli spettri, 1907), di Blackton.
Emile Cohl, che lavorò soprattutto per la Gaumont dal 1908 al 1910, fu la prima persona a impegnarsi a tempo pieno nell'animazione.
Il suo primo cartone animato fu "Fantasmagorie", dove Cohl posizionò ogni disegno su un piatto di vetro illuminato da sotto, tracciò poi l'immagine sul successivo foglio di carta, facendo dei minimi cambiamenti nelle figure.
Come Mèliès, si ritirò dal cinema negli anni Dieci, vivendo in povertà fino alla sua morte, avvenuta nel 1938.
Negli Stati Uniti anche il famoso disegnatore di fumetti e artista di varietà Windsor McCay cominciò a disegnare per i film di animazione, inizialmente per proiettarli durante i suoi spettacoli. Il suo primo film fu "Little Nemo" (Il piccolo Nemo), che finì di girare nel 1911.
Il film contiene un prologo con i disegnatori che mostrano come vengono realizzati i numerosissimi disegni necessari per l'animazione.
Nel 1912 McCay fece un secondo film d'animazione, "The Story of a Mosquito" (Storia di una zanzara) e nel 1914 un terzo, "Gertie the Dinosaur" (Gertie il dinosauro).
Entrambi hanno come sfondo set abbozzati che un assistente tracciava su ogni pagina.
Nel 1910 iniziò la carriera di colui che forse è il più celebre animatore di pupazzi di tutti i tempi, Ladislav Starevicz.
Nato in Polonia, si trasferì in Russia dove realizzò alcuni brevi film di animazione in cui "recitavano" degli insetti.
Starevicz manovrava i pupazzi con giunti di metallo, cambiandone la posizione ad ogni fotogramma. Il suo film più famoso è "Mest'kinematograficeskogo operatora" (La vendetta di un cineoperatore, 1912).
Starevicz realizzò molti altri film di animazione o con personaggi reali in Russia; allo scoppiare della rivoluzione bolscevica nel 1917, scappò a Parigi dove continuò a lavorare per decenni.
Dopo il 1912 l'animazione comparve con maggiore regolarità al cinema.
Gli animatori che all'inizio lavoravano da soli crearono staff di disegnatori che collaboravano per realizzare cartoni animati.

1913-1919
Il periodo iniziale della prima guerra mondiale rappresentò un punto di svolta nella storia del cinema. Solo nel 1913 in Europa si realizzò uno straordinario numero di lungometraggi.
Sempre nel 1913 il serial emerse come una delle forme narrative dominanti e, nuove tecniche meno dispendiose vennero introdotte nei procedimenti di animazione. Alla metà degli anni Dieci, la realizzazione dei lungometraggi si livellò su standard internazionali.
In alcune nazioni, la creazione e il consolidamento dei primi grandi studi di produzione, o l'opera di singoli registi portò alla nascita di quelle cinematografie che avrebbero poi dominato la storia del cinema per decenni.
Emblematico in questo senso è il caso dell'industria hollywoodiana che, a differenza delle fiorenti industrie francesi e italiane indebolitesi con l'inizio della guerra, andava assumendo la sua forma definitiva proprio in quegli anni.
La guerra ebbe profondi effetti sul cinema di tutto il mondo, alcuni dei quali è forse possibile avvertire ancora oggi.
L'impegno bellico influì particolarmente sulla Francia e sull'Italia, permettendo alle società americane di riempire il vuoto creatosi.
Dal 1916 così, gli Stati Uniti divennero i principali fornitori di pellicole del mercato mondiale, posizione che hanno mantenuto fino a oggi, segnando per sempre la storia del cinema. Dopo la guerra, nonostante la molteplicità delle situazioni, l'obbiettivo comune fu competere con Hollywood.
In alcuni paesi, come la Gran Bretagna, ci fu un tentativo d'imitazione dei film americani, in altri, pur perseguendo in parte strategie simili, si incoraggiò anche una sperimentazione autonoma, nella speranza di poterla opporre alla produzione hollywoodiana.
Negli anni antecedenti la prima guerra mondiale il cinema era un'industria nazionale. Novità tecniche e stilistiche raggiunte in un Paese erano rapidamente viste e assimilate altrove. Con la guerra questo flusso fu interrotto.
Crebbe così in alcune nazioni come la Svezia, la Russia e la Germania la produzione locale; invece la Francia, la Danimarca e l'Italia accusarono un netto declino ma cercarono ugualmente di portare avanti la loro produzione cinematografica.

1914 - 1919

Italia

Il cinema italiano prosperò nella prima metà degli anni Dieci.
Il 1914 fu l'anno di uno dei film più acclamati di quel periodo: "Cabiria" di Giovanni Pastrone.
Ambientato a Cartagine del III secolo a.C., si sviluppa tra rapimenti e sacrifici umani, mentre l'eroe Fulvio e il suo schiavo forzuto Maciste cercano di salvare la protagonista.
Tra le scene di un palazzo distrutto da una eruzione vulcanica e templi dove i bambini vengono sacrificati nella statua infuocata di un Moloch pagano, "Cabiria" si segnala anche per un uso innovativo delle riprese realizzate con il carrello, alternate alle scene statiche.
Infatti l'abilità dimostrata nel film fu decisamente più influente, tanto che il movimento "carrello alla Cabiria" divenne un elemneto ricorrente nei film della metà degli anni Dieci.
Dopo la guerra l'Italia cercò di riguadagnare un posto nel mercato mondiale, anche tramite iniziative quali la nascita, nel 1919, dell'Unione Cinematografica Italiana; ma la concorrenza degli Stati Uniti e la formule produttive ormai superate portò al declino degli anni Venti.

1913 - 1917

Scandinavia

Il mercato danese era dominato dalla Nordisk di Ole Olsen.
Così uno storico ha sintetizzato gli elementi principali dello stile dei film della Nordisk: "Gli effetti di luce, le storie, il realismo degli interni, lo straordinario uso di esterni naturali e urbani, l'intensità di uno stile naturalistico di recitazione, l'enfasi sul fato e sulle passioni".
Tutte queste caratteristiche possiamo riscontrarle nel lavoro di August Blom, il maggiore dei registi della Nordisk all'inizio degli anni Dieci.
Il suo film più importante, "Atlantis" (1913), con i suoi otto rulli, era il più lungo girato fino a quel momento nel cinema danese. Puntava sulle splendide scenografie e su scene spettacolari come il naufragio di un transatlantico, ispirato al disastro del Titanic dell'anno precedente.
Altra opera di un altro importante autore della Nordisk, Forest Holger-Madse, fu "La vita dell'uomo del Vangelo" (Evangeliemandeus Liv, 1914).
Uno tra i più originali ed eccentrici registi dell'epoca del muto fu Benjamin Christensen.
Il suo debutto come regista avvenne con "Det hemmelighedsfulde x", in cui fu anche attore.
La particolarità del film consisteva in uno stile visivo ricco di controluce e di ombre.
Christensen non girò altri film fino agli anni Venti.
Nel 1922 girò"La stregoneria attraverso i secoli" (Hàxan).
Al termine della guerra numerosi fattori contribuirono ad un declino del cinema danese nella distribuzione internazionale.
Nel 1912 la Svezia produsse in maniera inaspettata e improvvisa alcuni film importanti e innovativi.
Il dato ancora più impressionante era che a dirigere la maggior parte di questi film erano solo tre registi: George af Klercker, Mauritz Stiller e Victor Sjòstròm.
I film di George af Klercker comprendevano numerosi generi; commedie, polizieschi, melodrammi e film di guerra.
Mauritz Stiller viene ricordato principalmente per l'umorismo dei film girati tra il 1916 e il 1920.
Un esempio di film brillante è "Il miglior film di Thomas Graal" (Thomas Graals bàsta film, 1917). E' la storia di un eccentrico sceneggiatore e attore che si innamora della giovane Bessie.
Fu apprezzato talmente dal pubblico da richiedere un seguito: "Il più bel figlio di Thomas Graal" (Thomas Graals bàsta barn, 1918), in cui la coppia si sposa e ha un bambino.
A un polo opposto rispetto ai toni della commedia si situa il film più famoso di Stiller; "Il tesoro di Arme" (Herr Arnes pengar, 1919). Ambientata nel Rinascimento svedese, tre mercenari assalgono e devastano il castello di maestro Arne, cercando di fuggire con il tesoro, bloccati dal ghiaccio sono però costretti ad attendere l'arrivo della primavera.
La produzione di Stiller continuò ad alternare commedie e drammi.
Nel 1920 diresse"Verso la felicità" (Erotikon), spesso ritenuta la prima commedia sofisticata sexy.
Victor Sjostròm fu uno dei maggiori autori dell'epoca del muto.
Nel suo primo capolavoro, "Ingeborg Holm" (1913), da ricordare sono gli intrecci dei suoi film che spesso si dipanano seguendo le tragiche conseguenze di una singola azione.
"Terje Vigen" (1916), il regista dimostra la capacità nel rendere il paesaggio un elemento espressivo dell'azione.
Un simile uso del paesaggio lo si ritrova anche in "I proscritti" (Berg-Ejvind och hans hustru, 1917).
In generale il cinema svedese fu accolto come la prima e più importante alternativa a Hollywood dopo la guerra.
Un altro film di Sjòstròm del 1920 ebbe un successo di portata anche più vasta; "Il carretto fantasma" (Kòrkarlen). L'opera fu subito considerata un classico da vedere e rivedere.
La crescente reputazione di Sjostròm e Stiller fece sì che essi venissero chiamati a lavorare a Hollywood.
Nello stesso tempo altri Paesi stavano facendo il loro ingresso nel mercato internazionale, e la piccola cinematografia svedese non era di certo in grado di competere; così, dopo il 1921, la produzione crollò rovinosamente.

1909 - 1914

Francia

All'inizio degli anni Dieci, l'industria Francese conosceva ancora un periodo di prosperità. La richiesta di film da parte del pubblico si manteneva alta e si costruivano nuove sale.
Nel 1913, la Pathé, decidendo di tagliare il troppo costoso settore della produzione per concentrarsi sulle più redditizie aree della distribuzione e della proiezione, prese il primo di una serie di provvedimenti che avrebbero finito per nuocere all'intero sistema produttivo nazionale.
Contemporaneamente la Pathé venne esclusa dal mercato americano a causa della crescita delle società indipendenti.
L'altra grande casa francese, la Gaumont, al contrario aumentò la produzione proprio negli anni precedenti la guerra, affidandosi ai suoi due più importanti registi, Lèonce Perret e Louis Feuillade.
Il primo giunse alla notorietà nel 1909, realizzando una serie di film interpretati da se stesso. Negli anni successivi Perret diresse alcuni lungometraggi, come "L'enfant de Paris" (Il bambino di Parigi, 1913) e "Roman d'un mousse" (Romanzo di un mozzo, 1914), melodrammatici racconti da ricordare soprattutto per l'efficace uso che fece degli esterni e a un'illuminazione in controluce non comune.
Inoltre Perret variava considerevolmente l'anglo di ripresa delle scene, scomponendole in più inquadrature di quanto si facesse normalmente nell'epoca.
Feuillade continuò a dedicarsi a generi diversi, incluse le commedie e la serie documentaria"La vie telle qu'elle est", da lui stesso definita "Quadri di vita vissuta".
I risultati più significativi li raggiunse comunque nei serial.
Nonostante la Pathé e la Gaumont dominassero il mercato della produzione francese, non tentarono mai di monopolizzare l'industria, così che piccole compagnie coesistevano pacificamente con i due colossi.

1907 - 1917

Russia

Prima della guerra, la produzione era largamente dominata dalla Pathé, che aveva aperto uno studio in Russia nel 1908, e della Gaumont, giunta nel 1909.
La prima società nazionale in grado di competere con l'invasione francese fu creata nel 1907 dal fotografo Aleksandr Osipovic Drankov, seguita l'anno successivo dalla Khanzhonkov, e col tempo da altre piccole compagnie.
Anche in Russia la credibilità dell'industria cinematografica era affidata a famosi scrittori e sceneggiatori.
Il blocco delle frontiere all'entrata in guerra della Russia, nel 1914, provocò la chiusura degli uffici di molte società di distribuzione straniere, specialmente quelle tedesche. Anche i film provenienti dall'Italia cessarono dopo la sua entrata in guerra nel 1915, contribuendo alla crescita dell'industria nazionale e alla nascita di nuove società locali, compresa la terza in ordine di importanza tra le società russe, la Yermoliev.
I due registi più importanti degli anni della guerra furono Evgenij Bauer e Yakov Protazanov, maestri del genere melodrammatico.
Bauer approdò al cinema nel 1912. Le sue messe in scena si distinguevano per una particolare attenzione alla profondità dello spazio; curate nei minimi dettagli, caratterizzati da forti contrasti luminosi, complessi movimenti di macchina, i film di Bauer soddisfavano la passione, tipica del pubblico di quel periodo, per le storie malinconiche all'estremo e centrate su malattie morbose.
La carriera di Protazanov, cominciò nel 1912, lavorando principalmente per la Yermoliev. Gran parte dei suoi film erano adattamenti di celebri opere di Puskin e Tolstoj. Ne è l'esempio l'adattamento della novella di Tolstoj "Otets Serghij" (Padre Sergio, 1917).

1912 - 1914

Germania

Fino al 1912 la produzione dell'industria cinematografica tedesca era piuttosto trascurabile.
I film realizzati non avevano una giusta diffusione nei mercati stranieri.
Inoltre, il cinema godeva di una pessima reputazione; le riviste d'arte e di teatro lo dipingevano come una forma primitiva d'intrattenimento, soprattutto perchè colpevole di allontanare il pubblico degli spettacoli teatrali.
Nel maggio del 1912 scrittori, registi e attori di teatro giunsero a concordare un boicottaggio del cinema, che però fu revocato quando i produttori cinematografici cominciarono a scritturare proprio gli artisti di teatro per l'industria cinematografica.
Inoltre i produttori cominciarono a adattare i capolavori della letteratura e ingaggiarono autori di fama per riscrivere soggetti originali.
Nel 1913 nacque così L'Autorenfilm.
In poche parole l'Autorenfilm rappresentava il tentativo, già verificatosi in altri Paesi, di innalzare il cinema a forma d'arte.
Il primo film che definì chiaramente i caratteri dell'Autorenfilm, recensito favorevolmente anche sulle riviste d'arte, fu "Der Andere" (L'altro, di Max Mack, 1913).
Un'altra opera importante e notata dalla critica, fu "Die Landstrasse"di Paul von Woringen, narra di un delitto commesso in un piccolo villaggio da un evaso. Un mendicante di passaggio è accusato dell'omicidio, ed è scagionato dalla confessione dell'ex detenuto sul letto di morte.
Osservato da una prospettiva moderna, il film si rivela insolitamente sofisticato, attento a suggerire parallelismi tra il personaggio dell'evaso e quello del mendicante.
I piani sequenza attenuano l'importanza dell'azione a vantaggio di dettagli secondari.
Il più famoso degli Autorenfilm è certamente "Lo studente di Praga" di Stellan Rye. Basato su un soggetto originale, segna l'esordio cinematografico di Paul Wegener, già attore di teatro e per decenni fra i maggiori protagonisti del cinema tedesco.
Il film è la storia di uno studente che, dopo aver venduto la propria immagine riflessa al diavolo in cambio di ricchezze, sarà perseguitato dal suo doppio fino al fatale duello finale.
Sicuramente l'Autorenfilm portò rispettabilità al cinema anche se lo scarso successo di pubblico decretò il suo declino già nel 1914.
Durante i primi anni della guerra la Germania continuò a importare film, spesso dalla Danimarca, fino a quando il contenuto anti-tedesco di alcuni di essi fu considerato nocivo per l'impegno bellico.
Così nel 1916 la Germania proibì l'importazione di film.
Tutto questo stimolò l'industria nazionale e l'aiutò ad affermarsi anche internazionalmente durante gli anni del conflitto.

1924 - 1928
Nonostante la concorrenza straniera, l'industria francese fu in grado di dare vita a una produzione varia.
Uno dei generi che, diversamente dagli altri Paesi, continuava ad avere successo in Francia era il serial.
Le grandi compagnie, come la Pathé e la Gaumont, avevano compreso che le produzioni in costume o gli adattamenti letterari potevano essere economicamente vantaggiosi solo se mostrati in differenti episodi, perchè in questo modo i frequentatori abituali delle sale cinematografiche sarebbero stati spinti a tornare per tutte le puntate.
Un genere minore fu il film fantastico, il cui maggior autore fu Renè Clair.
Il suo primo film, "Paris qui dort" (Parigi che dorme, 1924), narrava di un misterioso raggio che paralizza l'intera città.
"Le vojage imaginaire" (Il viaggio immaginario, 1926), sempre di Clair, il protagonista immagina di essere trasportato da una maga in un paese delle fate, creato con raffinati set dipinti.
Queste opere fantastiche si rifacevano alla tradizione popolare del primo cinema francese, utilizzando trucchi di ripresa e scenografie stilizzate tipiche di Velle e Mèliès.
Anche il genere comico continuò a essere popolare nella Francia del dopoguerra.
Fra le commedie importanti realizzate da Clair, "Un cappello di paglia di Firenze" (Un chapeau de paille d'Italie, 1928) gli conferì una fama internazionale che sarebbe ulteriormente cresciuta negli anni del sonoro.

1918 - 1929
Tra il 1918 e il 1923, una nuova generazione di autori cercò di esplorare le possibilità del cinema come forma d'arte.
I loro film mostravano una fascinazione per la bellezza pittorica dell'immagine e l'interesse per un'approfondita indagine psicologica.
Lo stile del cinema impressionista discende dalla convinzione dei suoi autori, che consideravano il cinema come una forma d'arte.
Gli impressionisti cercavano di creare un'esperienza emotiva per lo spettatore, suggerendo ed evocando più che affermando chiaramente.
In poche parole, il lavoro dell'arte è quello di creare emozioni transitorie, "impressioni", secondo una visione propria dell'estetica romantica e simbolista tardo ottocentesca.
Da un lato, i teorici impressionisti ritenevano il cinema una sintesi delle altre arti, in grado di creare relazioni spaziali, come l'architettura, la pittura e la sculture.
Dall'altro lato il cinema era visto come uno strumento espressivo con possibilità uniche.
Tutti i teorici del periodo erano d'accordo nel sottolineare la sua estraneità al teatro.
Nel tentativo di definire in maniera più precisa la natura dell'immagine cinematografica, alcuni teorici fecero uso del concetto di photogènie, idea riferibile a qualcosa di ben più articolato del corrente significato di "fotogenia".
Louis Delluc fu il primo a diffondere l'idea di photogènie come qualità che distingueva l'immagine filmica dell'oggetto originale: trasformato in immagine, l'oggetto acquistava una nuova espressività, rivelandosi allo spettattore in una luce totalmente nuova.
Ad esempio, Germaine Dulac realizzò nel 1923 alcune importanti opere impressioniste, come "La souriante madame Beudet" (La sorridente madame Beudet) e "Gossette" (Ragazzina).
Jacques Feyder, fu uno dei maggiori registi degli anni Venti, realizzò diversi film impressionisti tra il 1923 e il 1926.
Il primo importante film del movimento impressionista fu "La decima Sinfonia" (La dixième Symphonie, 1918) di Abel Gance.
E' la storia di un compositore che crea una sinfonia capace du suscitare una tale impressione sugli ascoltatori da essere considerata diretta discendente dalle nove di Beethoven.
Gance rimase il più popolare fra gli impressionisti, e dopo i successi con la Pathé formò la Films Abel Gance.
L'unico regista impressionista rimasto ai margini dell'industria fu il critico e teorico Louis Delluc, che diede vita a una piccola casa di produzione per i suoi film a basso costo, come "Fièvre" (Febbre, 1921).
Pochi anni dopo Jean Renoir, figlio del pittore Auguste Renoir, si arrischiò in una serie di progetti sperimentali, utilizzando capitali personali.
Un altro autore impressionista, Dmitri Kirsanov, lavorò con limitatissime risorse finanziarie, raccogliendo fondi senza l'appoggio di case di produzione e realizzando film a costo praticamente nullo, come "L'ironie du destin" (L'ironia del destino, 1924) e "Mènilmontant" (1926).
La russa Yermoliev, volendo sottrarsi alla nazionalizzazione dell'industria decisa dal governo sovietico, si stabilì a Parigi nel 1920 dove si organizzò con il nome di Films Albatros nel 1922.
Nel 1923, la Albatros produsse uno dei film più audaci del periodo, "Le brasier ardent" (Il braciere ardente), codiretto da Mosjoukine e da Aleksandr Volkov, e l'anno successivo "Kean, ou dèsordre et gènie" (Kean, ovvero genio e sregolatezza), diretto da Volkov.
La Albatros riuscì ad avere profitti, e produsse film diretti da registi francesi: Epstein a metà degli anni Venti e l'Herbier, con cui coprodusse "Le feu Mathias Pascal" (Il fu Mattia Pascal, 1925) . L'impressionismo durò dal 1918 al 1929, iniziando a declinare negli ultimi anni del decennio.
Diverse furono le ragioni del declino.
Prima tra tutte lo spostamento degli interessi di molti autori, allorchè il movimento trovò una sua stabilità, e poi gli importanti cambiamenti nell'industria francese che resero più difficile per alcuni di essi continuare a esercitare il controllo sul proprio lavoro.
Se il periodo tra il 1918 e il 1922 era stato caratterizzato principalmente da una ricerca sulla qualità pittorica delle immagini, e quello tra il 1923 e il 1925 dall'aggiunta di un senso ritmico del montaggio, l'ultimo, tra il 1926 e il 1929, vide una diffusione più capillare dell'impressionismo.
Un altro fattore di diversificazione del cinema impressionista era legato all'impatto dei film sperimentali realizzati dagli autori surrealisti.
Su questa tendenza scrisse e tenne conferenze Dulac, che nel 1928 abbandonò il cinema commerciale per realizzare un film surrealista, "La coquille et le clergyman" (La conchiglia e il sacerdote"), e in seguito si dedicò a cortometraggi astratti.
Questa diversificazione stilistica forse finì per minare la compattezza del cinema impressionista, decretandone la fine.
Inoltre, verso la fine degli anni venti, la grande distribuzione cominciò a perdere interesse per i film impressionisti.
Contemporaneamente, con la fine del cinema impressionista, scomparvero la maggior parte delle società indipendenti.

1918 - 1927
Al termine della guerra, la Germania poteva vantare una florida industria cinematografica,
Dal 1918 fino all'ascesa del nazismo nel 1933, la produzione tedesca fu seconda solo a quella di Hollywood per dimensioni, innovazioni tecniche e influenza sul mercato mondiale.
Dal 1920 al 1926 prosperò un grande movimento stilistico come l'espressionismo.
Nel febbraio del 1920, a Berlino, veniva proiettato per la prima volta "Il gabinetto del dottor Caligari" (Das Cabinet des Dr.Caligari) di Robert Wiene.
La sua originalità ne decretò l'immediato successo.
I critici sostennero che lo stile espressionista, in quel periodo già stabilmente affermatosi in molte altri arti, era arrivato anche al cinema.
L'espressionismo era apparso intorno al 1908, principalmente nel campo della pittura e del teatro; adottato in diversi paesi, raggiunse la sua più intensa manifestazione in Germania.
Molte tendenze artistiche del diciannovesimo secolo si erano fondate sul realismo e sulla percezione delle cose, ad esempio l'impressionismo francese.
Al contrario, l'espressionismo rappresentava una reazione al realismo, il tentativo di esprimere, attraverso distorsioni estreme, le emozioni più vere e profonde, nascoste al di sotto della superficie della realtà.
L'esempio del Caligari dimostrava come le ricostruzioni in studio potessero avvicinarsi alla stilizzazione della pittura espressionista, ad esso seguirono rapidamente altri film espressionisti, fino a dare vita a un vero proprio filone che sarebbe durato fino al 1927.
Verso la fine degli anni Dieci, l'espressionismo era divenuto uno stile largamente accattato.
Nel cinema classico, la figura umana è l'elemento più espressivo, e il set, i costumi e l'illuminazione, sono normalmente subordinati ad essa; sullo schermo lo spazio tridimensionale in cui si svolge l'azione è più importante delle qualità grafiche bidimensionali.
Diversamente, nel cinema espressionista l'incisività espressiva legata alla figura umana si estende a ogni elemento della messa in scena.
Nelle opere espressioniste l'azione procede a sbalzi, e la narrazione subisce delle pause o semplicemente rallenta brevemente quando gli elementi della messa in scena si dispongono in una forma tale da catturare l'attenzione dello spettatore.
Nei film espressionisti era comune il ricorso a superfici stilizzate, a forme simmetriche o distorte che spesso venivano giustapposte ad altre simili.
L'uso della stilizzazione consentiva di relazionare elementi diversi della messa in scena.
L'uso di forme simmetriche offriva diverse possibilità per combinare fra loro attori, costumi e scenografie e dare così rilievo alla composizione complessiva.
Ma forse il tratto più comune e ovvio dell'espressionismo è l'uso di forme distorte ed esagerate che trasformano gli oggetti.
Anche se gli aspetti principali dello stile espressionista riguardino la messa in scena, è possibile comunque individuare alcune costanti anche nell'uso delle altre tecniche cinematografiche.
Il montaggio in genere è semplice, e si avvale di soluzioni come il campo-controcampo o il montaggio alternato.
Inoltre questi film possedevano un ritmo più lento rispetto ad altri dello stesso periodo, in modo da permettere allo spettatore di esplorare i diversi elementi dell'inquadratura.
L'uso della macchina da presa è più funzionale che spettacolare.
Per questo motivo difficilmente si hanno movimenti di macchina o riprese particolarmente angolate, e l'obbiettivo tende a rimanere su una linea perpendicolare, più o meno all'altezza degli occhi o del petto.
Tra i più grandi film espressionisti ricordiamo: "Nosferatu il vampiro" (Nosferatu Eine Symphonie des Grauens, 1922) di Friedrich W. Murnau, "Tartufo" (Tatùff, sempre di Murnau, 1925), "Il dottor Mabuse" (Dr.Mabuse, der Spieler, 1922) di Fritz Lang.
Dal punto di vista produttivo, il periodo più proficuo dell'espressionismo si colloca tra il 1920 e il 1924.
I due soli film che vennero realizzati dopo questi anni, sono "Faust" di F.W.Murnau, e il più grande film espressionista, "Metropolis" di Fritz Lang, che in pratica segnarono la fine del movimento.
I due fattori principali del declino furono gli elevati costi delle ultime proiezioni e la partenza di diversi registi tedeschi, attirati dalle offerte provenienti da Hollywood.

1918 - 1933
L'era del cinema sovietico dopo la Rivoluzione può essere divisa in tre periodi.
Il primo durante il Comunismo di guerra (1918-1920), in cui il Paese si trovava in una situazione di guerra civile, con enormi difficoltà economiche, che ovviamente si ripercuotevano sull'industria inematografica.
Un secondo, in cui il cinema diede timidi segni di ripresa, caratterizzato dalla Nuova Politica Economica (1921-1924), progettata per portare il Paese fuori dalla crisi.
Infine, un ultimo periodo (1925-1933) caratterizzato dalla crescita e dalle esportazioni in cui produzione, distribuzione ed esercizio ricominciarono a funzionare.
La Russia affrontò due rivoluzioni nel 1917.
La prima, nel febbraio, eliminò il potere assoluto dello zar, sostituendolo con un governo provvisorio riformista.
Nell'ottobre dello stesso anno, Lenin guidò una seconda rivoluzione, culminata con la formazione dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
La rivoluzione esplosa in febbraio ebbe un impatto relativamente modesto sull'industria cinematografica, potenziatasi durante la guerra.
Nel 1918, al Narkompros (il Commissariato popolare per l'istruzione) viene affidata la regolamentazione dell'industria cinematografica.
Il 1918 fu anche l'anno che registrò i primi tentativi registici di due giovani autori destinati a divenire importanti negli anni Venti, Dziga Vertov e Lev Kulešov.
L'anno seguente venne fondata la Scuola statale di cinematografia.
Nel 1920 Kulèsov guida la Scuola statale di cinematografia e dà vita al suo laboratorio.
Nel 1922 venne creata la Goskino per il monopolio statale della distribuzione.
Sergej Michailovic Ejzenštein, uno dei maggiori registi del periodo, pubblica un saggio intitolato "Il montaggio delle attrazioni".
Fallito il tentativo con la Goskino di centralizzare la distribuzione cinematografica, il governo decise di creare allo scopo una nuova società; il primo gennaio 1925 nasceva la Sovkino.
La Sovkino grazie al nuovo movimento di giovani autori, produsse una serie di film capaci di ottenere riconoscimenti e guadagni sul mercato occidentale.
Un obbiettivo primario della Sovkino fu produrre film che incarnassero l'ideologia comunista per diffonderla anche nelle zone più remote del paese.
La Goskino rimase in vita per un certo periodo, dedicandosi a piccole produzioni; tra queste però, spicca il capolavoro del cinema sovietico, nonchè il primo film a raccogliere un grande successo all'estero, "La corazzata Potëmkin" (Bronenosec Potëmkin, 1925) di Ejzenštein.
Altri grandi successi di questo periodo furono "La madre" (Mat') e "Tempeste sull'Asia" (Potomok Cingiz-Chana) di Vsevolod Pudovkin che collaborò con Kulesov.
Lenin morì nel 1924, ma la sua fiducia nel ruolo del cinema nell'educazione del popolo continuò a far sentire i suoi effetti.
Nel marzo del 1928, ci fu la prima conferenza del partito comunista sulla questione cinematografica.
Dello stesso perido da ricordare l'opera di Ejzenštein "Ottobre" (Oktjabr').
Un altro autore di rilievo che aveva cominciato la sua carriera negli anni della Rivoluzione fu Dziga Vertov.
Alla metà degli anni Dieci, Vertov scriveva poesie e libri di fantascienza, componeva musica, e frequentava gli ambienti degli artisti futuristi.
Tra il 1916 e il 1917, Vertov compì gli studi di medicina e divenne il supervisore dei cinegiornali.
Nel 1924 cominciò a realizzare i primi documentari.
Nel 1921 i registi più giovani, non ancora ventenni, Kozincev, Trauberg e Jutkevic si unirono per formare la Fabbrica dell'Attore Eccentrico (FEKS).
Gli interessi di questo gruppo spaziavano dal circo al cinema popolare americano, fino al cabaret e ad altre forme di intrattenimento.
Nel 1922 il gruppo del FEKS si allontanò dal teatro tradizionale.
I loro allestimenti teatrali adottavano le tecniche degli spettacoli popolari, e nel 1924 si avvicinarono al cinema con il cortometraggio comico "Pochozdenija Oktjabriny" (Le avventure di Ottobrina).
Tutti e tre i fondatori del gruppo continuarono sulla strada del cinema; Jutkevic dirigendo film per proprio conto, e Kozincev e Trauberg realizzando insieme diversi film importanti di quegli anni.
Ejzenstejn, Kulesov, Pudovkin, Vertov e il gruppo dei FEKS furono i principali esponenti della scuola sovietica del montaggio.
Altri registi, in particolari quelli provenienti dalle altre republiche, raccolsero le loro concezioni stilistiche, sviluppandone e arricchendo il movimento.
Il più noto tra questi fu l'ucraino Aleksandr Dovženko, soldato dell'Armata Rossa durante la guerra civile e poi diplomatico a Berlino nei primi anni Venti.
Proprio nella capitale tedesca Dovženko studiò arte, specializzandosi come pittore e caricaturista.
Tornato in patria, nel 1926 decise di passare alla regia, e dopo una commedia e un film di spionaggio, realizzò il suo primo lungometraggio, "La montagna incantata" (Zvenigora, 1927). Negli anni successivi, Dovženko realizzò altri due importanti film ambientati in Ucraina, "Arsenale" (Arsenal, 1929) e "La terra" (Zemlja, 1930).
Tutti gli autori esprimevano una volontà di rinnovamento rispetto alle forme cinematografiche tradizionali affidata al ruolo basilare e rivoluzionario del montaggio.
Kulesov, ad esempio, fu il più conservatore tra i teorici del gruppo, legato a un'idea del montaggio funzionale alla chiarezza narrativa e all'impatto emozionale, come accadeva nei film americani.
Questa concezione influenzò Pudovkin, che identificò il montaggio con una costruzione narrativa dinamica e spesso discontinua.
Vertov fu tra i più radicali. Convinto costruttivista, per lui il montaggio interveniva non come tecnica a se stante, ma come principio di organizzazione dell'intero processo.
Ma la concezione del montaggio più articolata e complessa si trova sicuramente negli scritti di Ejzenštein.
Ejzenštein intendeva il montaggio come principio formale generale presente anche nel teatro, nella poesia o nella pittura.
In un saggio del 1929, egli parla di come il montaggio potesse essere descritto come una collisione di elementi; le varie sequenze dovevano essere poste in conflitto l'una contro l'altra, non collegate per creare una maggiore comprensibilità drammatica.
Il montaggio, sottoponendo lo spettatore al conflitto tra i vari elementi, lo spingeva a creare un concetto nuovo.
Nel 1929 Ejzenštein lasciò il Paese per poter studiare all'estero le nuove possibilità offerte dal sonoro, che nel 1927 aveva fatto il suo ingresso nel cinema.
Sonoro che inizialmente portò con se complicazioni economiche e tecnologiche, ma con la sua introduzione, gli ultimi anni del muto erano molto vicini.
Ejzenštein lavorò su progetti mai realizzati, prima a Hollywood e poi in Messico, e tornò soltanto nel 1932.
Nello stesso anno in cui lasciò l'Unione Sovietica, il controllo del cinema passava dalla Narkompros alla Commissione per il Cinema dell'Unione Sovietica, di cui Lunacarskij era solo uno dei tanti membri.
Un ulteriore passo verso la centralizzazione dell'industria fu la creazione nel 1930 della Soyuzkino.
A capo della Soyuzkino fu posto Boris Sumjatskij.
Tra il 1931 e il 1933, ricordiamo quattro principali opere; "Sola" (Odna) di Kozincev e Trauberg, "Le montagne d'oro" (Zlaty gory) di Jutkevic, "Un caso semplice" (Prostoj slucaj) e "Il disertore" (Dezertir) di Pudovkin.

1920 - 1928
Passato il breve momento di depressione del 1921, il periodo fu caratterizzato da una florida situazione economica e da un forte numero di investimenti tanto che, tra il 1922 e il 1930, la somma totale dei capitoli investiti nell'industria cinematografica balzò da 78 a 850 milioni di dollari.
La frequenza media settimanale nelle sale cinematografiche degli Stati Uniti raddoppiò, e l'esportazione dei prodotti Hollywoodiani continuò ad aumentare fino alla metà degli anni Venti.
Un fattore strategico dell'espansione dell'industria fu l'acquisto e la costruzione di sale cinematografiche da parte delle grandi case di produzione, che si assicuravano in questo modo un canale di distribuzione per i propri film.
Se negli anni Dieci si era consolidata l'industria cinematografica, nel decennio successivo essa si trasformò in un sofisticato sistema di istituzioni.
Il fattore più indicativo di questa crescita fu la tendenza dell'industria verso una concentrazione di tipo verticale.
Le società più grandi si organizzarono in modo da combinare la produzione e la distribuzione con la proprietà di catene di sale cinematografiche.
Nei primi tempi, queste catene si svilupparono essenzialmente a livello locale.
Proprio un gruppo di esercenti di sale lanciò nel 1917 la sfida al potere hollywoodiano creando una propria casa di distribuzione, la First National Exhibitor's Circuit, con sede a Philadelphia.
Un'altra importante società di quegli anni, che tentò una concentrazione di tipo verticale, fu la Loewìs Inc, il suo fondatore, Marcus Loew riuscì a formare una vera e propria catena di sale cinematografiche intorno agli anni Dieci.
Nel 1919 entrò nella produzione acquistando una società di medie dimensioni, la Metro, allora guidata da Louis B.Mayer; con la successiva acquisizione nel 1924 della Goldwyn Pictures, Loew creò quella che sarebbe divenuta, dopo la Paramount, la seconda società cinematografica di Hollywood, la Metro Goldwyn-Mayer (MGM).
Le compagnie a concentrazione verticale che controllavano la maggior parte delle catene di sale cinematografiche, la Paramount Publix, la MGM e la First National, costituirono la "Tre grandi". Subito dopo seguivano le "Piccole Cinque", ovvero la Universal, Fox, Producers Distributing Corporation, Film Booking Office e Warner Bros.
L'espansione e il consolidamento dell'industria hollywoodiana procedettero parallelamente al perfezionamento dello stile sviluppatosi negli anni Dieci.
Già negli anni Venti tutti i teatri di posa delle grandi compagnie permettevano di escludere totalmente la luce solare per poter girare intere sequenze solo con luce artificiale.
Le parti della scena situate sullo sfondo venivano illuminate con luci di riempimento, mentre le figure principali erano sottolineate con netti controluce, che illuminavano da dietro e da sopra il soggetto in ripresa.
La luce proveniva dall'alto dell'inquadratura, mentre dal lato opposto una seconda luce più debole serviva ad ammorbidire le ombre, attenuando i contrasti.
Questi tre punti d'illuminazione, principale (key light), luce di riempimento (fill light), controluce (backlighting), costituirono la base del sistema d'illuminazione del cinema hollywoodiano e delle sue immagini fascinose e omogenee.
Negli anni Venti l'uso del montaggio contiguo divenne sempre più sofisticato.
Grazie a queste tecniche d'illuminazione e di montaggio, lo stile dei film hollywoodiani riuscì a essere molto flessibile.
Durante gli anni Venti, cominciarono ad affermarsi la generazione di registi che avrebbero dominato i tre decenni successivi del cinema americano: John Ford, King Vidor e altri nomi famosi come D.W.Griffith (già autore di "Nascita di una Nazione", Eric von Stroheim, Murnau e altri ancora.
Il più grande successo di David Wark Griffith in quegli anni fu "Le due orfanelle" (Orphans of the Storm, 1922).
Griffith girò un altro film epico, "America" (1924), sulla Rivoluzione Americana.
Tentò anche l'avventura del sonoro don due pellicole di cui la più ambiziosa fu "Abraham Lincoln" (1930); poco dopo la sua carriera si interruppe definitivamente, fino alla morte avvenuta nel 1948.
Un altro grande successo fu "Femmine folli" (Foolish Wives, 1922) di Eric von Stroheim, autore, appena l'anno successivo, del suo capolavoro: "Rapacità".
Nel 1925 lo stesso regista girò "La vedova allegra" (The Merry Widow).
Nel 1928 diresse "Marcia nuziale" (The Wedding March).
L'ultima grande e non finita opera del regista fu "Queen Kelly" (La regina Kelly, 1928-1929).
La carriera del regista von Stroheim si interruppe con l'avvento del sonoro.
Nel 1925 sull'onda del successo internazionale di "L'ultima risata", dopo aver terminato il "Faust", Murnau si recò a Hollywood per girare "Aurora", che risulto poi troppo sofisticato per diventare veramente popolare, salvo godere di un enorme successo molti anni dopo.
Di conseguenza Murnau subì un rapido declino, che lo costrinse a progetti sempre meno ambiziosi: "I quattro diavoli" (Four Devils, 1929), e "Il nostro pane quotidiano" (City Girl, 1930).
Il suo ultimo lavoro fu "Tabù" (Tabu, 1931).

1926 - 1929
Tra il 1926 e il 1927 la Warner Bros aveva iniziato con successo a corredare alcuni suoi film con musica ed effetti sonori.
Nel 1927 la Warner Bros distribuì con enorme successo "Il cantante di jazz" (The Jazz Singer).
Il sonoro portava con se complicazioni economiche e tecnologiche, ma influenzò anche lo stile.
La maggior parte dei cineasti si rese presto conto che il sonoro, se usato con immaginazione, poteva offrire un'importante risorsa espressiva.
Nel 1929 il suono era ormai stato adottato da tutti gli studios americani, e le sale si stavano rapidamente attrezzando.
Sistemi di sonorizzazione furono messi allo studio in molte nazioni, e il suono venne introdotto nel mondo del cinema secondo le più diverse modalità.
In alcune nazioni, il sonoro fu di stimolo per l'industria cinematografica.
La Gran Bretagna costruì uno studio-system che imitava quello di Hollywood.
Il Giappone trovò una sua personale variante al successo del sistema hollywoodiano mantenendo il controllo sul mercato interno.
Dell'avvento l'Italia godette negli anni Trenta.
Il cinema francese si dibatteva ancora nella crisi.
Frantumata in una miriade di piccole società, l'industria non disponeva di uno studio-system organizzato.
Singoli cineasti diedero vita a uno stile lirico noto come "Realismo poetico".
Dopo l'inizio della guerra, la Germania occupò gran parte della Francia, e i cineasti francesi che non erano andati in esilio si trovarono a dover lavorare sotto i nazisti.
Il crescente potere dei regimi fascisti portò le nazioni occidentali a produrre pellicole di propaganda.

1930-1945
Tra il 1930 e il 1945 gli Stati Uniti attraversarono una durissima Depressione a cui seguì, durante la seconda Guerra mondiale, una ripresa altrettanto spettacolare. Nel 1932, mentre la Depressione infuriava, la disoccupazione raggiunse il 23,6%; una anno dopo quasi 14 milioni di persone erano senza lavoro. I potere d’acquisto del dollaro era alto, ma la maggior parte della gente aveva poco da spendere in bene non strettamente necessari.
Il mercato finanziario toccò il suo punto più basso a metà del 1932, subito prima delle elezioni presidenziali, nelle quali Franklin D. Roosevelt conquistò la prima di quattro vittorie scaricando la colpa del disastro su Herbert Hoover.
Il nuovo presidente si mosse subito a sostegno dell’economia. Lo sforzo del governo per favorire la crescita economica si manifestava anche negli investimenti in strade, costruzioni, nelle arti e in altri settori, sotto il controllo della Work Progress Administration (fondata nel 1935): la WPA rimise al lavoro oltre otto milioni e mezzi di persone, creando potere d’acquisto e aiutando le industrie a superare la crisi.
La ripresa avvenne in modo diseguale, con l’ulteriore complicazione di una nuova, anche se meno grave, recessione tra il 1937 e il 1938. Nel 1938, comunque, l’accresciuto intervento governativo stava conducendo il Paese fuori dalla Depressione. La crescita della produzione assorbì gradualmente la forza lavoro disponibile e, a guerra inoltrata si raggiunse la piena occupazione.
Nonostante alcuni prodotti scarseggiassero, la maggior parte delle industrie americane aumentò le vendite del 50% e oltre: un boom condiviso dall’industria cinematografica grazie a un’impennata dell’affluenza degli spettatori.

1930- 1935
All’epoca del muto, l’industria del cinema di Hollywood si era sviluppata in un oligopolio di società unite nello scopo di chiudere il mercato alla concorrenza; ma anche se questa struttura rimase relativamente stabile negli anni Trenta, l’avvento del sonoro e l’inizio della Depressione provocarono qualche cambiamento.
La sola grande società nata come conseguenza diretta dell’introduzione del sonoro fu la RKO, (Radio Keith Orpheum), fondata allo scopo di sfruttare il sistema della RCA, il Phonofilm.
La Fox conobbe una notevole espansione sul finire degli anni Venti, ma l’inizio della Depressione la costrinse a ridurre gli investimenti: la società dovette vendere alla Warner Bros la sua quota di controllo della First National recentemente acquisita.
Così la Warner, fino ad allora una piccola società, crebbe fino a diventare uno degli studios più grande degli anni Trenta.
Nel 1930 otto grandi società dominavano l’industria: le prime cinque, le “major”, dette anche le cinque grandi, erano la Paramount, la Loew’s (nota generalmente con il nome della sua filiale produttiva, MGM), la Fox (che divenne 20th Century-Fox nel 1935), la Warner Bros e la RKO.
Le major avevano una struttura a concentrazione verticale, disponendo ciascuna di una sua catena di sale e di un’apparato distributivo internazionale.
Le “minor” o le “tre piccole”, compagnie minori prive o povere di sale, erano la Universal, la Columbia e la United Artists.
Esistevano inoltre diversi produttori indipendenti, alcuni dei quali realizzavano film costosi, o di “serie A”, paragonabili a quelli delle major. Le società che facevano solo film più economici, o di “serie B”, erano note come “Povertà Row”.

1932 - 1940
L’introduzione del sonoro e la Depressione cambiarono in modo significativo il modo in cui le sale presentavano i film.
La Depressione diede un taglio all’epoca dei cinema di lusso. Molte sale non potevano più permettersi maschere che accompagnavano gli spettatori ai loro posti. Alla ricerca di nuove entrate, gli esercenti iniziarono a vendere caramelle, pop-corn e bevande.
Visto che molti spettatori potevano spendere poco, in aggiunta ai consueti cortometraggi si inaugurò la consuetudine dei doppi e a volte tripli spettacoli: il secondo film era di solito un serie B a basso costo, ma dava allo spettatore l’idea di “due al prezzo di uno”.
Un altro trucco degli esercenti per attrarre gli spettatori erano i premi: un’estrazione di biglietti vincenti, oppure un cuscino ricordo insieme al biglietto.
Le iniziative più efficaci erano le “dish night”, in cui ogni biglietto dava diritto a una stoviglia di porcellana, che la sala aveva acquistato all’ingrosso: per completare un intero set di terraglie le famiglie dovevano tornare ogni settimana.
Durante la seconda guerra mondiale l’incremento del pubblico fece cadere in disuso alcuni di questi incentivi: la produzione di serie B perse importanza, ma il doppio spettacolo rimase, così come il blocco dei rinfreschi.
L’espansione dell’industria negli anni Venti aveva fatto nascere molte società di servizi tecnici e moltiplicato i reparti negli studios.
La rivoluzione del sonoro era stata il primo frutto della crescita tecnologica del settore. Attraverso gli sforzi degli studios, dei tecnici e di istituzioni di coordinamento come l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, la tecnica cinematografica divenne più versatile e sofisticata.
I metodi di registrazione del suono subirono un costante miglioramento. I primi microfoni non erano direzionali e coglievano rumori non voluti prodotti da troupe e macchinari, ma gradualmente furono sviluppati modelli che si potevano puntare verso la fonte sonora prescelta.
Le prime ingombranti aste da microfono vennero presto sostituite da “giraffe” più leggere e versatili.
Sul finire del 1932 i progressi nella registrazione di più piste audio consentivano di registrare separatamente musica, voci ed effetti che sarebbero poi stati mixati insieme su un’unica pista sonora.
Nello stesso anno fu inaugurata anche la soluzione di stampare numeri identici sui margini dei negativi dell’immagine e del sonoro, permettendo un’accurata sincronizzazione di inquadrature anche brevi.
Gli effetti di questi progressi furono presto apprezzabili: gli attori non erano più costretti a muoversi a passi felpati e a pronunciare le battute lentamente, e l’incedere lugubre di molti dei primi film parlati cedette il passo a un ritmo più vivace.
Questa nuova flessibilità è evidente nelle produzioni più disparate del 1932, da “Mancia competente” (Trouble in Paradise, di Ernst Lubitsch) a “Io sono un evaso” (I Am a Fuggitive from a Chain Gang, di Mervyn LeRoy) e “Il dottor Jekyll” (Dr.Jekyll and Mr.Hyde, di Rouben Mamoulian).
Mentre il primo cinema sonoro tendeva a evitare musica d’atmosfera non diegetica, la registrazione su piste multiple favorì l’introduzione di quella che si sarebbe chiamata colonna sonora.
Fu soprattutto Steiner a fissare le consuetudini musicali degli studios: la sua enfatica partitura per “King Kong” ebbe vasta influenza come uno dei primi esempi di “stile sinfonico”.
Steiner amava citare nelle sue partiture motivi riconoscibili per sottolineare il significato di una scena; come in “Il sergente York” (Sergeant York, di Howard Hawks, 1940), in cui “Give Me That Old Time Religion” diventa un tema associato alla fede religiosa dell’eroe.

1932 - 1939
Molti dei primi film sonori ricorrevano a movimenti di macchina, anche se ciò richiedeva solitamente di girare la scena muta e aggiungere il suono in seguito, o di costruire complessi marchingegni per spostare la pesante cabina di ripresa. Un’inquadratura in movimento spiccava all’interno del film, che era spesso realizzato a cinepresa multipla, pregiudicando la fluidità della narrazione.
Si cominciarono così ad usare rivestimenti che attutissero il rumore della cinepresa, che però sollevarono un nuovo problema: erano troppo pesanti per i treppiedi tradizionali, e più difficili da muovere da un’inquadratura e l’altra.
La soluzione fu un sostegno solido ma anche facile da spostare; singoli operatori e società di servizi crearono versioni perfezionate dei dolly e delle gru già usati sul finire dell’epoca del muto.
Il 1932 fu anche in questo ambito un anno di svolta, con l’introduzione del Rotambulator di Bell & Howell. Si trattava di un dolly di oltre tre quintali che poteva sollevare la macchina da presa verticalmente da 45 cm fino a due metri di altezza, permettendo all’operatore di fare panoramiche, piegarsi in alto o in basso e spostarsi agevolmente su un carrello.
Il Panoram Dolly della Fearless Company (1936) poteva passare attraverso un’apertura di 90 cm.
Anche i movimenti con le gru divennero più comuni. “All’Ovest niente di nuovo” (All Quiet on the Western Front, di Lewis Milestone, 1930) della Universal utilizzò il gigantesco braccio di quindici metri costruito nel 1929 per Broadway.
Il famoso dolly all’interno di “Via col vento” (Gone with the Wind, di Victor Fleming, 1939) sull’enorme banchina ferroviaria piena di confederati feriti fu realizzato con una gru per costruzioni.
Nel musical fiabesco targato MGM “Il mago di Oz” (The Wizard of Oz, di Victor Fleming, 1939), la macchina da presa piomba sulla città di Munchkin e sulla strada dei Mattoni Gialli.

1932 - 1935
Senza dubbio, l’innovazione più spettacolare dell’epoca fu il colore.
Il sistema a doppia pellicola della Technicolor era stato usato di quando in quando nei film di Hollywood durante gli anni Venti e sopravvisse fino ai primi anni del sonoro, ma era costoso e produceva colori tra l’arancione rosato e il blu verdognolo.
Nei primi anni Trenta la Technicolor inaugurò una nuova macchina da presa dotata di prismi per suddividere la luce che proveniva dall’obiettivo su tre diverse pellicole in bianco e nero, una per ciascuno dei colori primari.
La tecnica fu proposta al pubblico da Disney nel cortometraggio animato “Fiori e alberi” (Flowers and Trees, 1932).
La Pioneer Picture, una piccola casa di distribuzione indipendente, produsse nel 1935 un cortometraggio musicale ripreso da vivo, “La Cucaracha”, dimostrando che il Technicolor poteva restituire colori vivaci anche in un teatro di posa.
Quello stesso anno, il lungometraggio “Becky Sharp” di Rouben Mamoulian, dimostrò che il colore poteva arricchire il fascino di un dramma storico.
Le major furono quindi liete di adottare la novità, e la società ebbe modo di monopolizzare il processo, fornendo le macchine da presa speciali, offrendo supervisori a ogni singola produzione, sviluppando e stampando la pellicola.

1930 - 1945
Nei primi anni Trenta gran parte degli operatori usavano un’immagine “sfumata” basata sulla diffusa moda stilistica degli anni Venti.
Ora però l’effetto flou divenne meno estremo e più uniforme: il ricorso a filtri vistosi o a lastre di vetro unte e distorcenti fu sensibilmente ridotto, e i laboratori degli studios cominciarono a rendere la pellicola più grigia e sfumata nella fase di sviluppo.
Nel 1931 la Eastman Kodak introdusse la pellicola Super Sensitive Panchromatic, adatta alla luce diffusa prodotta dalle lampade a incandescenza che si erano rese necessarie in seguito all’introduzione del sonoro.
Una pratica diffusa tra i registi americani degli anni Trenta era radunare gli attori in un’area relativamente priva di profondità, per poi passare da uno all’altro alternando campi e controcampi.
Altri preferivano comporre inquadrature più profonde, magari lasciando leggermente fuori fuoco l’area in primo piano oppure mantenendo a fuoco l’intera immagine.
Il regista Orson Welles e l’operatore Gregg Toland svilupparono il concetto della profondità di fuoco e ne fecero un uso estensivo in “Quarto potere”.
Molte delle inquadrature in profondità del film sono ottenute con la stampante ottica, combinando piani nitidamente a fuoco girati separatamente; in alcuni casi certi elementi in primissimo piano sono disposti molto vicino all’’obiettivo e a distanza notevole da quelli sullo sfondo, e tutto risulta perfettamente a fuoco: l’esempio più spettacolare è la lunga scena della firma del contratto.
Welles sperimentò ancora su questa soluzione nel suo secondo film “L’orgoglio degli Amberson” (The Magnificent Ambersons, 1942), per il quale l’operatore Stanley Cortez ottenne molte inquadrature con profondità di fuoco senza ricorrere a trucchi fotografici.
L’influenza di questi film visivamente innovativi si diffuse presto in tutto il cinema e comporre inquadrature su piani distanti fra loro egualmente a fuoco divenne pratica comune.
Nel complesso, l’innovazione tecnologica tra il 1930 e il 1945 non cambiò il cinema di Hollywood in modo sostanziale: l’azione narrativa e la psicologia dei personaggi rimasero centrali e la regola della contiguità assicurò un orientamento tradizionale nello spazio del film.
Suono, colore, profondità di fuoco e altre tecniche portarono tuttavia importanti innovazioni nello stile.

1930 - 1945
Durante gli anni Trenta alcune cinematografie si trovarono sotto il controllo di dittature di destra e di sinistra, in particolare nell'URSS, in Germania e in Italia: tutte erano ben consapevoli delle potenzialità del cinema come mezzo di propaganda oltre che di intrattenimento, ed entrambe le funzioni dovettero convivere durante la guerra.
Il controllo governativo assunse forme diverse. Le cinematografie dei vari Paesi che componevano l'URSS a partire dal 1919 furono nazionalizzate dal governo sovietico che impose una gestione centralizzata che si sarebbe ulteriormente irrigidita negli anni Trenta. Il controllo statale, comunque, poteva assumere altre forme: il regime nazista che prese il potere nel 1933 in Germania credeva nel capitalismo e non volle confiscare le case di produzione private, ma ne ottenne ugualmente il controllo acquistandole pacificamente una dopo l'altra. Ancora diversa era la situazione in Italia, dove lo Stato esercitava il controllo con sostegni all'industria e commissioni di censura, senza però nazionalizzare la produzione.
Nel 1930, il primo piano quinquennale centralizzò il cinema sovietico in una società unica, la Sojuzkino allo scopo di rendere l'industria più efficiente e liberare l'URSS dall'obbligo di importare tecnologia e film. Per dominare il mercato interno, si doveva aumentare il numero di film prodotti: nel 1932 nuove fabbriche fornivano la pellicola necessaria, mentre la conversione al sonoro era ormai compiuta, e con un limitato ricorso a risorse straniere. Tuttavia i problemi legati a inefficienze di vario genere e a una produzione comunque scarsa restarono irrisolti.
Il periodo 1930-1945 vide anche irrigidirsi il controllo sui film. Bons Sumjatskij fu fin dall'inizio a capo della Sojuzkino e rispondeva direttamente a losif Stalin, che mostrava grande interesse per il cinema. Sumjatskij prediligeva film divertenti e di facile comprensione; sotto il suo regime, il movimento avanguardista del montaggio non potè che estinguersi. Nel 1935, fu proprio Sumjatskij a supervisionare l'introduzione nel cinema della dottrina del realismo socialista.
I film dei primi anni Trenta

Molti film significativi apparvero prima dell'introduzione del realismo socialista. "Diela i ludi" (Le opere e gli uomini, di Aleksandr Macheret, 1932) combinava lo stile della scuola del montaggio con un'enfasi sul concetto di produzione che rifletteva i precetti del primo piano quinquennale: un esperto americano, giunto in URSS come consulente per la costruzione di una diga, si comporta inizialmente con aria di sufficienza; poi però questo atteggiamento si incrina, e l'uomo decide di restare per aiutare il nuovo Stato sovietico. Più insolito fu un film di Aleksandr Medvedkin, che trascorse in treno i primi anni Trenta, girando film e proiettandoli nei villaggi di tutta l'Unione Sovietica; nessuno di questi cortometraggi è sopravvissuto, ma ci è rimasto il suo unico lungometraggio, "La felicità" (Scast'e, 1934): un contadino, Kymyr, resiste alle riforme della Rivoluzione e cerca la felicità nel benessere individuale mentre Anna, la sua oppressa moglie, entra a far parte di una fattoria collettiva e persuade Kymyr a unirsi a lei. Medvedkin si serve di un registro comico per descrivere l'iniziale povertà della coppia e la stupidità di soldati e preti. Largamente ignorato nel 1934, "La felicità" fu riscoperto negli anni Sessanta dalla critica, che ne riconobbe l'importanza.

1934 - 1938
II realismo socialista era un principio estetico introdotto dal Congresso degli scrittori sovietici del 1934. A. A. Zdanov, funzionario culturale membro del Politbjuro, spiegò: "II compagno Stalin ha chiamato i nostri scrittori ingegneri di anime umane. Che cosa significa? Che doveri vi sono conferiti da questo titolo? Prima di tutto, significa conoscere la vita cosi da poterla descrivere veridicamente nelle opere d'arte: non in un modo morto e scolastico, non semplicemente come 'realtà oggettiva', ma descrivere la realtà nel suo sviluppo rivoluzionario."
Agli scrittori e agli artisti di ogni genere si chiedeva di servire nelle opere gli obiettivi del Partito Comunista, propugnando una serie di vaghi dogmi ufficiali. Questa politica sarebbe rimasta in vigore, più o meno rigidamente, fin verso la metà degli anni Cinquanta, e il cinema vi si conformò rapidamente.
Ogni artista era obbligato ad aderire al realismo socialista. Stalin governava da dittatore assoluto, la politica del governo era fatta rispettare da una dura repressione e la polizia segreta era pronta a scovare il dissenso dovunque si annidasse. Dagli anni Venti in poi furono avviate le "purghe", e tutti i membri del Partito sospettati di non sostenere Stalin con la massima convezione furono periodicamente espulsi, imprigionati, esiliati o giustiziati: regno del terrore raggiunse il culmine tra il 1936 e il 1938 con "processi spettacolo" in cui i capi del Partito confessavano per iscritto di aver partecipato ad attività "controrivoluzionarie".
Gli artisti non erano immuni da simili persecuzioni: Vsevolod Mejerchol'd, l'antico mentore di Ejzenštein e il principale regista teatrale degli anni Dieci e Venti, scomparve durante le purghe del 1936-1938; scrittori di primo piano come Sergej Tret'jakov e Isaak Babel' furono giustiziati in segreto. Anche il compositore Dmitrij Sostakovic, benché in disaccordo coi precetti della nuova dottrina, dovette obbedirvi.
Il realismo socialista divenne la linea ufficiale del cinema nel gennaio 1935, alla Conferenza creativa pansindacale dei lavoratori del cinema sovietico. Ciapaiev, che era uscito appena due mesi prima, fu citato per tutta la conferenza; Ejzenštein, al contrario, fu preso di mira da tutti i presenti in palese tentativo di screditare coloro che avevano seguito le teorie del montaggio. Altri registi "formalisti" furono costretti ad ammettere passati "errori"; Lev Kulesov dichiarò: “Come altri miei colleghi i cui nomi sono legati a una intera serie di produzioni fallite, io voglio essere a ogni costo, e sarò uno straordinario artista rivoluzionario, ma lo sarò soltanto quando la mia carne e il mio sangue, il mio intero organismo e il mio essere, saranno fusi con la causa della Rivoluzione e del Partito”. Nonostante questo umiliante atto di contrizione, Kulesov pronunciò anche un'eloquente difesa di Ejzenštein.
I cineasti non potevano sperare di passare inosservati: Stalin era un appassionato di cinema e vedeva molti film nei suoi appartamenti privati; e Sumjatskij, suo diretto rappresentante, aveva l'industria in pugno. Prima di essere approvate, le sceneggiature dovevano passare ripetutamente attraverso un complesso apparato di censura, ma anche a riprese iniziate un film poteva essere sottoposto a revisione o interrotto in qualsiasi momento: un sistema burocratico ingombrante che rallentava la produzione, tanto che per tutti gli anni Trenta il numero di film completati rimase molto al di sotto del totale programmato. Per fare un film ci si doveva sottoporre a minuziosi controlli ideologici perdendo anni interi: il caso più spettacolare di questo tipo di ingerenza fu “Bezin lug” (II prato di Bezhin), il primo progetto sonoro di Ejzenštein in URSS, di cui Sumjatskij fece interrompere la lavorazione nel 1937.
Relativamente pochi cineasti subirono le punizioni più estreme, ma le vittime non mancarono: il critico e sceneggiatore Adrian Piotrovskij, che aveva sceneggiato “Cortovo koleso” (La ruota del diavolo) — un film d'avanguardia del 1926 di Kozincev e Trauberg — fu arrestato nel 1938 e morì in un campo di prigionia; anche l'operatore Vladimir Nilsen, un allievo di Ejzenštein, scomparve; a Konstantin Eggert, un regista tradizionale, fu invece impedito di fare qualsiasi film dopo il 1935. E molti altri subirono pene di vario genere.
Nella speranza di incrementare la produzione e di dar vita a un cinema popolare, Sumjatskij decise di costruire una "Hollywood sovietica" così, dopo aver passato due mesi nel 1935 in visita agli studios americani, tentò di replicare la loro sofisticata tecnica ed efficienza. Il grandioso progetto prese vita nel 1937 ma non fu mai completato, né Sumjatskij riuscì mai a portare la produzione ai livelli previsti dal piano quinquennale: a fronte di una previsione media di oltre un centinaio di film all'anno, le cifre effettive della distribuzione restarono modeste, passando dai 94 film del 1930, fino al minimo storico di 33 nel 1936; negli anni successivi, la media si assestò attorno ai 45.
Per ironia della sorte, il risultato finale della politica di Sumjatskij fu il suo arresto nel gennaio 1938: una delle motivazioni citate nell'atto che lo privava di ogni potere era lo spreco di denaro e di talento nella distruzione di “Bezin lug”. Qualche mese più tardi fu giustiziato, diventando la vittima più illustre delle purghe, e da quel momento il ruolo di Stalin nel decidere l'accettabilità ideologica di un film divenne ancora più diretto.

1930 - 1941
In seguito all'enorme successo di Ciapaiev i film sulla guerra civile divennero un genere importante del cinema del realismo socialista; nonostante le molte sofferenze da essa provocate, molti reduci la ricordavano come l'era pre-stalinista quando gli obiettivi del comunismo erano chiari e si aveva l'impressione che le cose potessero cambiare rapidamente. Perciò “Noi di Kronstadt” (My iz Kronstadta di Efim Dzigan, 1936) è di fatto un vago rifacimento di Ciapaiev, da cui si differenzia solo per la scelta di un eroe "tipico" al posto di un personaggio storico. Il film si svolge nel 1919, durante i feroci combattimenti avvenuti vicino a Kronstadt: il marinaio Balachov all'inizio è indisciplinato, abborda una donna per strada e spartisce malvolentieri le sue razioni con gli operai e i bambini della vicina Pietroburgo; a poco a poco. dopo essere sfuggito all'esecuzione da parte delle truppe Bianche e aver sopportato le privazioni della battaglia, impara però ad abbracciare senza egoismo la causa della Rivoluzione.
Ciapaiev portò anche in primo piano il genere biografico: spesso i protagonisti erano celebri figure della Rivoluzione e della guerra civile, ma anche — e in misura crescente — grandi personaggi dell'epoca prerivoluzionaria, zar inclusi. In teoria l'URSS si stava trasformando in una società senza classi; di fatto, il periodo vide affermarsi il "culto della personalità": Stalin era esaltato come l'incarnazione stessa degli ideali comunisti e gli storici gli attribuivano un ruolo esagerato nella Rivoluzione. E poiché Stalin paragonava la sua figura a quella dei grandi leader russi del passato, questi divenneri oggetto di numerose agiografie su pellicola.
Ai più importanti intellettuali della Rivoluzione furono dedicati film biografici: "Il deputato del Baltico" (Deputai Bal'tiki, di Aleksandr Zarkij, 1937), ambientato subito dopo la Rivoluzione d'ottobre, racconta in modo romanzato la storia di uno scienziato che aveva accolto con favore il regime bolscevice nonostante lo scherno dei colleghi. In realtà, molti intellettuali si erano opposti ma "Il deputato del Baltico" doveva mostrare l'unione delle classi sotto il comunismo: l'anziano professore protagonista fa amicizia con un gruppo di marinai; alla fine il suo libro è pubblicato e Lenin gli manda una lettera di congratulazioni.
Maksim Gor'kij fu considerato il massimo esponente lettarario del realismo socialista col romanzo "La madre" (pubblicato nel 1907 e ispiratore vent'anni dopo del film di Pudovkin), eletto a modello della dottrina. Dopo la sua morte, Mark Donskoij realizzò tre film basati sulle sue memorie giovanili: "L'infanzia di Gor'kij" (Detstvo Gor'kogo, 1938), "V Ijudjakh" (Tra la gente, 1939), "Moi universitety" (Le mie università, 1940). La trilogia di Gorkij sottolinea la mancanza di educazione scolastica del protagonista: di origini povere, si sposta di lavoro in lavoro osservando gli aspetti oppressivi della società zarista ma anche incontrando occasionalmente persone che vi resistono — un gentile farmacista locale arrestato per attività rivoluzionarie, un bambino zoppo che fa tesoro delle più minute gioie della vita. Verso la fine Gor'kij aiuta una contadina al lavoro in un campo e sottolinea così il senso ultimo della trilogia: la grandezza del protagonista come scrittore è il frutto dei suoi stretti legami con il popolo.
Gli storici stalinisti scelsero due zar, Ivan il Terribile e Pietro I (detto anche "il Grande"), da dipingere come sovrani progressisti autori di riforme importanti per il superamento della società feudale e il sorgere del capitalismo, preparando così la strada al comunismo.
Il film epico in due parti di Vladimir Petrov, "Pietro il grande: orizzonti di gloria" (Piotr Pervji, 1937-1938) fu il primo film dedicato agli zar e stabilì alcune importanti convenzioni: benché monarca, Pietro è anche un uomo del popolo; conduce eserciri in battaglia e si muove con astuzia nelle trame diplomatiche, ma non disdegna di far baldoria nelle taverne coi suoi uomini o adoperare con vigore gli attrezzi di un fabbro; tra gli allievi di un suo corso sulla tecnica di navigazione non esita a mandar via il pigro figlio di un nobile, promuovendo invece un servitore meritevole.
Queste convenzioni ritornano nel film che riportò Ejzenštein in una posizione di prestigio nel cinema sovietico, "Aleksandr Nevskij" (Id., 1938). Nevskij era un principe medievale che aveva condotto la difesa della Russia contro l'invasione dei cavalieri teutonici, e le analogie con la situazione contemporanea — con le minacce di guerra dalla Germania nazista — fecero del film un importante progetto patriottico. Il senso antitedesco del film era dichiarato: alla fine, Nevskij parla direttamente alla macchina da presa: "Chi viene da noi con in mano la spada, di spada perirà".
"Aleksandr Nevskij", che per Ejzenštein fu il primo film sonoro portato a termine, si inseriva perfettamente nella dottrina del realismo socialista, narrando la storia in modo semplice e glorificando le doti del popolo russo: come il giovane Gor'kij e lo zar Pietro, Nevskij si mescola ai contadini e la sua strategia finale è basata su una storiella udita attorno al fuoco. Ejzenštein. comunque, riuscì a conservare qualcosa delle sperimentazioni introdotte negli anni Venti: spesso la stessa azione è inquadrata più volte da angolazioni diverse, e molti stacchi producono salti nella continuità della narrazione. La celebre sequenza della battaglia sul lago ghiacciato è un prolungato virtuosismo di montaggio ritmico, ma la musica di Sergej Prokof'ev contribuisce a smussare le eccentricità stilistiche, e potenzia la vocazione leggendaria e smisurata dell'opera.
All'inizio del 1935, Stalin suggerì a Dovženko: "Ora devi darci un Ciapaiev ucraino". L'allusione era all'omonimo eroe ucraino della guerra civile; naturalmente Dovženko lo prese come un ordine e, sotto il controlli costante di Stalin e di funzionari minori, dedicò al progetto i tre anni successivi. "Scors" (1939) sfoggia il lirismo tipico di Dovženko, in particolare nella sorprendente scena iniziale di una battaglia che si scatena in un grande campo di girasole; ma non manca di umorismo, come si vede nell'episodio in cui uno degli ufficiali di Scors sollecita donazioni in un teatro.
Pudovkin contribuì al genere con "Suvorov" (1941), sugli ultimi anni di un generale che si era distinto contro Napoleone. La scena di apertura è tipica di questi film e anche in questo caso, nonostante le sue origini siano nobili, si vede fraternizzare il protagonista con la gente comune. Suvorov vince la battaglia malgrado l'insensata opposizione dello zar Paolo I; nella scena in cui si questi lo riceve, vediamo il generale scivolare ripetutamente sul pavimento incerato, chiaramente a disagio nell'eleganza della corte. I ritratti di personaggi storici in una versione che li facesse sembrare più vicini alla gente comune sarebbero continuati per tutta la guerra.
Assai comuni erano anche le storie di eroismo di gente comune ma "tipica": "Biancheggia una vela solitaria" (Beleet parus odinokij, di Vladimir Legosin, 1937) racconta l'avventurosa partecipazione dei bambini alla tentata rivoluzione del 1905. Ambientato a Odessa, il film contiene riferimenti a "La Corazzata Potëmkin", ma è anche un eccellente esempio degli sforzi di Sumjatskij per produrre film in stile di hollywoodiano, con una fluida continuità narrativa che ben si sposa al realismo socialista.
Il progetto abortito di Ejzenštein, "Bezin lug", avrebbe dovuto essere la storia di un ragazzo che considera la lealtà alla fattoria collettiva superiore al rapporto con il padre opprimente. Sfortunatamente, il negativo del film è andato distrutto in un bombardamento nella seconda guerra mondiale e tutto ciò che resta è una ricostruzione realizzata stampando fotogrammi e foto di scena di ogni inquadratura come immagini fisse; ma anche queste tracce del film indicano che si sarebbe trattato di uno dei capolavori dell'epoca. Ejzenštein vi sperimentò una profondità di campo estrema, che anticipava i film di Gregg Toland e Orson Welles.
"Cleri pravitel'stva" (II membro del governo, di Aleksandr Zarkij e Josif Heifits, 1940) descrive una contadina "idealizzata": benché picchiata dal marito ubriacone, geloso della sua devozione alla fattoria collettiva, la protagonista Aleksandra persiste fino a diventarne la dirigente, stimolata anche dal funzionario locale di partito che le assicura: "Hai il tuo ruolo nella storia". Alla fine viene eletta al Soviet Supremo di Mosca come deputato della regione e pronuncia un discorso davanti a una folla enorme.
Alcuni dei film più popolari dell'epoca erano commedie musicali: Grigorij Aleksandrov, già assistente di Ejzenštein, ne divenne l'autore principale con "Tutto il mondo ride" (Veselye rebjata, 1934), storia di un vivace agricoltore che ama cantare ed è scambiato per un celebre direttore di un complesso jazzistico. Quando viene indetta una festa in suo onore, il suono del flauto attira in casa gli animali, creando il caos. Il contenuto frivolo del film fu criticato, ma Aleksandrov aveva la migliore delle protezioni: Stalin adorava il film. Con Volga-Volga (1938), in cui una postina scrive una canzone di enorme successo, il regista realizzò il film favorito del dittatore.
L'altro regista importante nel genere era Ivan Pyr'ev, specializzato nel cantare le gioie della vita nelle fattorie collettive nei suoi "musical dei trattori": sia "La fidanzata ricca" (Bogotaja nevesta, 1938) che "I trattoristi" (Traktoristy, 1939) mostrano i contadini impegnati in vivaci gare per superare le quote di lavoro. Nel 1935 il minatore Aleksei Stachanov aveva infatti raggiunto un record nell'estrazione del carbone, e il governo promuoveva simili risultati tra gli operai di ogni settore; gì "stachanovisti" erano esaltati dalla stampa, ottenevano privilegi speciali e ricevevano persino lettere di ammiratori.
In "Bogotaja nevesta", il contabile di una collettività compie una sene intrighi per sposare la migliore trattorista e godere dei suoi privilegi. Riesce a guastare il legame fra lei e il miglior trattorista uomo falsificando la scheda di lavoro di quest'ultimo, ma l'imbroglio è scoperto e la coppia si riunisce. Il concetto che la migliore stachanovista dovesse sposare l'uomo migliore riappare in "Traktoristiy": Mar'jana, la protagonista, è così famosa per la frequenza con cui supera le sue quote all'aratro da essere letteralmente assediata da corteggiatori. La ragazza si finge fidanzata con Nazar, uno dei meno produttivi fra i trattoristi della fattoria, facendo inorridire il supervisore della comunità, che chiede al bravo Klim di insegnare a Nazar a lavorare meglio; Klim obbedisce, pur essendo egli stesso segretamente innamorato di Mar'jana, e con il suo aiuto Nazar migliora sensibilmente; alla fine, comunque, Mar'jana scopre l'amore di Klim nei suoi confronti e i due stachanovisti si sposano tra loro. Per tutto il film si respira un'aria di grande energia: in realtà i membri delle fattorie collettive passavano più tempo possibile al lavoro nei loro orti privati, ma i personaggi di "Traktoristy" lavorano insieme nei campi intonando allegre canzoni.

1931 - 1933
La guerra aveva portato all'URSS enormi perdite, e l'industria del cinema si trovò a dover riavviare la produzione negli studi regolari ricostruendo le struttture della Lenfìlm ridotte a rovine nell'assedio di Leningrado. Nondimeno, la vittoria consentì all'URSS di mantenere la nazionalizzazione del cinema.
Nonostante molti cineasti tedeschi fossero partiti per Hollywood negli anni Venti, diversi film di spicco vennero realizzati tra il 1930 e la presa nazista del potere nel 1933: a dirigerli furono sia i veterani del muto che alcuni importanti nuovi autori.
Il primo film sonoro di Fritz Lang, già tra le figure centrali dell'espressionismo tedesco negli anni Venti, fu uno dei suoi capolavori: "M, il mostro di Dusseldorf" (M, 1931) è la storia di un assassino di bambine i cui delitti, provocando continue retate della polizia, diventano un problema serio per tutto il mondo della malavita, al punto che i criminali catturano il mostro e lo processano in un tribunale improvvisato. Nel descrivere la doppia caccia all'uomo, Lang usa suono e immagini per creare paralleli fra la polizia e un mondo criminale altamente organizzato e sa approfittare dello spazio fuori campo per raccontare le scene più scioccanti, dimostrando con la sua inventiva stilistica l'immediata padronanza del cinema sonoro. Lang diede anche un seguito al suo "Il dottor Mabuse" del 1922, con "Il testamento del dottor Mabuse" (Das Testament des Dr. Mabuse, 1933), in cui il criminale continua a governare la sua banda da un manicomio e perfino dall'oltretomba.
Anch'egli già celebre ai tempi del muto, G.W. Pabst firmò agli albori del sonoro tre film notevoli: "Westfront 1918" (Westfront, 1930), "L'opera da tre soldi" (Die Dreigroscbenoper, 1931) e "La tragedia della miniera" (Kameradschaft, 1931). "Westfront 1918" e "La tragedia della miniera" erano opere pacifiste che invocavano la comprensione internazionale proprio mentre in Germania prendevano forza nazionalismo e militarismo: il primo film denuncia l'insensatezza della prima guerra mondiale; il secondo mostra minatori tedeschi che rischiano la vita per salvare i compagni francesi da un disastro in miniera.
II messaggio antibellico di "Westfront 1918" è affidato a un amaro simbolismo e alla descrizione realistica delle condizioni al fronte. Una scena mostra il protagonista Karl tornare a casa in licenza e trovare la moglie a letto col fattorino del macellaio, seguendone le reazioni - dapprima rabbiose poi di amara rassegnazione - con sottili variazioni nell'inquadratura; solo nello straziante finale, in un ospedale da campo pieno di soldati storpi e morenti e trovandosi egli stesso in fin di vita, Karl perdona la moglie. Il film si chiude con la scritta "Fine?!" accompagnata dal suono delle esplosioni. Durante gran parte del regime nazista, Pabst girò film in Francia, ma tornò in Germania durante la seconda guerra mondiale.
Max Ophuls, regista teatrale, esordì nel cinema all'inizio dell'epoca del sonoro. Il suo primo lavoro importante fu "La sposa venduta" (Die verkaufte Braut, 1932), un adattamento dell'operetta di Bedrih Smetana in cui si introducono molte delle soluzioni stilistiche che avrebbero caratterizzato lo stile di Ophuls: tra queste la composizione in profondità, gli articolati movimenti di macchina e i personaggi che si rivolgono direttamente al pubblico. Lo stesso stile caratteristico distingue "Amanti folli" (Liebelei, 1933), in cui l'innocente figlia di un violinista si innamora di un impetuoso tenente: durante una scena di ballo, la macchina da presa prende a seguire la coppia che inizia a girare vorticosamente intorno all'obiettivo facendo turbinare anche lo sfondo, finché l'inquadratura si ferma sulla pianola da cui proveniva la musica e li lascia uscire di campo per chiudere con una dissolvenza. A questo tipo di intenso romanticismo Ophuls dovrà gran parte della sua fama.
Uno dei debutti registici più acclamati del periodo fu "Ragazze in uniforme" (Madchen in Uniform, 1931) d Leontine Sagan, un raro tentativo di affrontare senza pregiudizi il tema del lesbismo. E' la storia di Manuela, sensibile allieva di un collegio governato da una direttrice tirannica, che prende una cotta per l'unica insegnante che le dimostri un po' di comprensione e, dopo essersi a lei dichiarata durante una festa, tenta il suicidio.
Leontine Sagan realizzò in Inghilterra un secondo film ("Men of Tomorrow", Uomini di domani, 1932) prima di andare al teatro.
Nel 1933 tutti questi registi - Lang, Pabst, Ophuls e Sagan -lavoravano ormai fuori dalla Germania, anche perchè i nazisti stavano conquistando il potere.

1933 - 1945
La nazionalizzazione del cinema fu completata nel 1942, quando tutte le case di produzione tedesche furono unificate sotto una gigantesca holding chiamata UFA-Film (ma abbreviata in UFI, per distinguerla dalla vecchia UFA). La UFI controllava tutta la catena, dalla produzione alla gestione delle sale, avendo assorbito 138 società in tutti i settori dell'industria, comprese le strutture di Austria e Cecoslovacchia, che Hitler aveva intanto conquistato.
Nonostante questo sforzo il numero dei film prodotti in Germania non fu in grado di soddisfare la domanda e l'inizio della guerra nel 1939 segnò l'inizio del declino produttivo. Quanto però al controllo sul tipo di film realizzati, si può dire che funzionò alla perfezione.
L'orrore per l'ideologia nazista ha fatto sì che gli spettatori moderni abbiano visto pochi dei film di quel periodo, con l'eccezione di quelli più dichiaratamente propagandistici - come "Il trionfo della volontà" e "Siuss l'ebreo" — studiati soprattutto come documenti storici. Tuttavia, il fine della maggior parte dei film dell'epoca era l'intrattenimento e il contenuto politico era ridotto se non addirittura nullo: dei 1907 lungometraggi realizzati tra il 1933 e il 1945, non più di un sesto fu bandito nel dopoguerra dai censori alleati a causa del contenuto di propaganda nazista. Nessuno dei film prodotti attaccava il regime, dato che tutti dovevano superare il controllo di Goebbels, ma si trattava in gran parte di innocue produzioni girate in studio, non molto diverse da quelle confezionate nello stesso periodo a Hollywood o in Inghilterra.
I primi film vigorosamente propagandistici apparvero nel 1933: "SA-Uomo Brand" (SA-Mann Brand, di Franz Seitz), "Hans Westmar" (di Franz Wenzler) e "II giovane hitleriano Quex" (Hitlerjunge Quex, di Hans Steinhoff). L'intento era di stimolare l'adesione al Partito glorificando eroi del nazismo, con trame ambientate in un'epoca precedente alla nascita del regime, descritta come teatro di lotta tra comunisti perfidi e prodi sostenitori di Hitler.
"Hans Westmar" è basato alla lontana sulla vita di Horst Wessel, uno dei primi a morire per la causa nazista e autore dell'inno di battaglia del Partito. Il film descrive la Berlino della fine degli anni Venti come una città che affonda sotto l'influenza di ebrei, comunisti e stranieri: il giovane Westmar visita con disgusto un caffè che serve solo birra inglese e in cui suona un'orchestra jazz di neri; una commedia ebraica viene rappresentata al Piscator-Bùhne (un teatro notoriamente di sinistra), mentre un cinema proietta la commedia sovietica "La ragazza con la cappelliera" (Devuska s korobkoj, di Boris Barnet, 1927). I malvagi comunisti tramano per impadronirsi della Germania sfruttando la povertà delle classi operaie e, quando Westmar si dimostra troppo abile a promuovere adepti alla causa nazista, lo fanno assassinare.
Come molti film nazisti, "II giovane hitleriano Quex" si rivolgeva agli adolescenti: il protagonista, Heini, è attratto da un gruppo della Gioventù hitleriana nonostante l'opposizione del padre, un comunista ubriacone. La scena più efficace lo mostra durante una visita a un campo per giovani comunisti i cui capi propinano vino e birra ai piccoli visitatori: allontanatesi, Heini si imbatte in un campo della Gioventù hitleriana, i cui ragazzi partecipano a salutari attività sportive; anche questa volta, quando il giovane eroe si unisce alla Gioventù hitleriana, viene assassinato dai comunisti. Benché sia in Hans Westmar che in "II giovane hitleriano Quex" nelle organizzazioni comuniste spicchino elementi ebrei assai stereotipati, l'antisemitismo è solo un elemento secondario e il bersaglio principale della propaganda è il Partito comunista tedesco.
Per il pubblico di oggi, Leni Riefenstahl è la cineasta più celebre dell'epoca nazista. Attrice di fama nel periodo del muto, Leni Riefenstahl si era diretta nel lungometraggio sonoro "La bella maledetta" (Das blaue Licht, 1932), dove interpretava una sorta di folletto di montagna; i suoi due film più importanti, "Il trionfo della volontà" (Der Triumph des Willens, 1935) e "Olympia" (1936, diviso in due parti: "Olympia - I Parte", Fest der Volker, e "Apoteosi di Olympia", Fest der Schonheit) sono di fatto i soli film di propaganda nazista che oggi siano studiati per le loro qualità artistiche.
"Il trionfo della volontà" è un documentario realizzato in occasione del congresso del Partito nazista a Norimberga nel 1934. Hitler voleva che l'evento dimostrasse in Germania e all'estero il suo controllo su un gruppo di seguaci potente e compatto; chiese a Leni Riefenstahl di dirigere il film e le mise a disposizione mezzi illimitati: la regista ebbe al suo servizio ben sedici troupe munite di macchina da presa e monumentali strutture furono appositamente progettate in vista della loro resa cinematografica.
Con uso esperto di fotografia, montaggio e musica, la Riefenstahl creò una sensazionale parata di due ore sul fervore e l'ideologia nazista e costrinse il mondo constatare nervosamente la forza militare della Germania.
Resoconto dei giochi olimpici tenutisi a Berlino nel 1936, "Olympia" non contiene la propaganda apertamente nazista di "Il trionfo della volontà", ma fu anch'esso finanziato dal governo con enorme dispendio di mezzi. L'intento era dipingere la Germania come un membro affidabile della comunità mondiale per soffocare il timore di aggressioni naziste; c'era poi la speranza che i giochi si concludessero con una pioggia di premi ai partecipanti ariani, dimostrando l'inferiorità razziale degli altri concorrenti.
Per riprendere gli eventi e cogliere le reazioni della folla, la Riefenstahl potè disporre di un numero ancora maggiore di unità di ripresa: l'immensa quantità di materiale girato richiese due anni di montaggio, e fu assemblato in un'opera in due parti, ciascuna delle quali della durata di un lungometraggio. Tra gli spettatori dei giochi era possibile riconoscere Hitler e altri ufficiali nazisti, ma Leni Riefenstahl si concentrò nello sforzo di esprimere l'amichevole competizione tra gli atleti, la statuarietà dei corpi e la tensione agonistica; il valore estetico dell'opera diviene a volte quasi astratto, come nella famosa sequenza dei tuffi. Le medaglie vinte da diversi atleti non ariani (soprattutto dal nero Jesse Owens, campione nella corsa e nel salto) contribuirono a smorzare i propositi propagandistici del film.
Il cinema nazista produceva una quantità di pellicole contro i nemici del Terzo Reich, a cominciare dalla Gran Bretagna, esempio di quella democrazia parlamentare a cui i nazisti si opponevano: "Carl Peters" (di Herbert Selpin, 1941), ad esempio, mostra agenti segreti inglesi ricorrere a mezzi discutibli per combattere il protagonista nella gara per la colonizzazione di alcune zone dell'Africa. Uno dei bersagli favoriti rimase l'URSS, poiché i nazisti intendevano schiavizzarla sterminando le popolazioni slave: in "GPU" (di Karl Ritte, 1942) il comunismo sovietico è associato all'eguaglianza delle donne, alla pace e al disarmo; e la GPU (la polizia segreta sovietica) si comporta come una banda di assassini, assecondando i piani dell'URSS per la conquista del mondo (nella realtà la GPU era stata usata principalmente per opprimere cittadini sovietici). Dopo la sconfitta subita a Stalingrado nel 1943, uno degli episodi cruciali della guerra, i nazisti non sembrarono più molto ansiosi di attirare l'attenzione sull'URSS e i film antisovietici scomparvero.
I più famigerati tra i film sui "nemici" furono i lungometraggi antisemiti ordinati da Goebbels nel 1939, poco dopo che Hitler ebbe per la prima volta evocato in pubblico l'annientamento totale come "soluzione finale" al "problema ebraico". Cinque film del genere apparvero fra il 1939 e il 1940, e "Suss l'ebreo", (JudSuss, di Veit Harlan, 1940) fu uno dei più velenosi. Epopea storica ambientata nel diciottesimo secolo, "Suss l'ebreo" era basato sullo stereotipo degli avidi strozzini ebrei: Suss presta denaro a un duca impoverito e conquista abbastanza potere da voler trasformare il ducato intero in uno stato ebraico; commette così crimini orrendi, fra l'altro violentando la protagonista e torturandone il fidanzato. "Suss l'ebreo" fu visto da molti e contribuì a fomentare la violenza antisemita.
Pur proponendosi come documentario, "L'ebreo eterno" (Der ewige Jude, di Fritz Hippler, 1940) sfruttava gli stessi pregiudizi, dipingendo gli ebrei come una razza senza patria che diffonde la corruzione vagando per le terre cristiane: immagini dei miserevoli abitanti del ghetto di Varsavia sono commentate da una voce che spiega come gli ebrei diffondano malattie; una scena di "La casa di Rotschild" (House of Rotschild) - un film Warner Bros, del 1934 che dipingeva in modo positivo la nota famiglia di banchieri ebrei — è utilizzata fuori dal contesto come "prova" di un'immaginaria cospirazione ebraica per con¬trollare la finanza internazionale. Ma "L'ebreo eterno" era così perfidamente antisemita che si rivelò impopolare; dopo il 1940 l'odio per gli ebrei fu perciò contenuto in scene isolate e non costituì più la base di un intero film - anche perché i nazisti volevano distogliere l'attenzione dallo sterminio che si compiva nei campi di concentramento.
Compito della propaganda era anche accendere l'entusiasmo per lo sforzo bellico, e alcuni film militaristi si premurarono di illustrare l'allegria cameratesca della vita in uniforme. In "Tre sottufficiali" (Drei Unteroffiziere, di Werner Hochbaum, 1939) gli eroi trascorrono il servizio militare impegnati in avventure galanti, cantando durante le marce e partecipando occasionalmente a battaglie incruente. Non mancavano però le esortazioni a una fede fanatica in "sangue e terra" che glorificavano la morte in battaglia: il progetto personale di Goebbels nel periodo bellico, "La cittadella degli eroi" (Kolberg, di Veit Harlan, 1945) si ispirava proprio a questo concetto. Vagheggiato nel 1943 come una grande epopea storica, una specie di "Via col vento" tedesco, il film non fu ultimato fino al 1945 a causa della crescente penuria di risorse; ma Goebbels era così ossessionato dal progetto che sottrasse al fronte quasi duecentomila soldati per utilizzarli come comparse. Ne risultò un film grandioso, girato con la nuova pellicola Agfacolor introdotta all'inizio della guerra.
"La cittadella degli eroi" raccontava un fatto realmente accaduto nelle guerre napoleoniche, quando i cittadini di una piccola città prussiana avevano impugnato le armi per difendersi nonostante le autorità militari locali avessero deciso di arrendersi: alla fine il popolo è sconfìtto, ma il film evidenzia la sua coraggiosa resistenza ai francesi. Goebbels sperava forse che i cittadini comuni sarebbero insorti per salvare la Germania dalla sua imminente sconfìtta, ma così non fu: quando il film uscì il 30 gennaio 1945, i bombardamenti alleati avevano cancellato la maggior parte dei cinema berlinesi e il film non fu praticamente visto da nessuno mentre la città cadeva in mano delle truppe sovietiche.
Anche se la maggior parte dei lungometraggi miravano soprattutto all'intrattenimento, il contenuto politico fungeva spesso da sottofondo del dramma: "Ingratitudine" (Der Herrscher, di Veit Harlan, 1937), ad esempio, ritrae un potente e anziano industriale che decide di sposare la sua segretaria; la sua famiglia tenta di farlo interdire, ma lui trionfa e li disereda, lasciando la fabbrica al popolo tedesco. I figli e i relativi consorti sono egoisti: c'è chi guarda l'orologio durante il funerale della madre, altri fanno ipotesi su chi erediterà i gioielli; ma il protagonista vince su tutti e la sua ultima battuta è: "Un leader nato non ha bisogno di un maestro per guidare il suo genio". Il parallelo con Hitler, che chiedeva ai cittadini tedeschi di seguirlo senza discussioni, era chiaro.
Anche questa propaganda implicita non era comunque un requisito, necessario di ogni film: Goebbels credeva anzi nell'importanza del puro intrattenimento. Il Terzo Reich vide quindi proseguire la tradizione dei musical tedeschi, iniziata fin dagli albori del sonoro. Il maggiore successo del 1935 fu "Amphitryon" di Reinhold Schiintzel, una commedia ambientata in ampi set bianchi e astratti che rappresentavano l'antica Roma, arricchita di tocchi anacronistici come un Mercurio che recapita messaggi su pattini a rotelle. Il regista danese Detlef Sierck (dopo la seconda guerra mondiale conosciuto negli Stati Uniti come Douglas Sirk) girò diversi film in Germania nei tardi anni Trenta, tra cui il popolare melodramma musicale "La prigioniera di Sydney - Verso nuovi orizzonti" (Zu neuen Ufern, 1937): una famosa cantante inglese di music hall si assume la colpa per un assegno falsificato dal sue amante, viene deportata in Australia e, dopo una serie di ulteriori disavventure, conclude finalmente un matrimonio felice.
Uno dei film più insoliti dell'era nazista fu "L'imperatore della California" (Der Kaiser von Kalifornien, 1936): il regista Luis Trenker si riservò anche il ruoli del protagonista Johann August Sutter, l'uomo che per caso aveva scatenato la corsa all'oro in California nel 1849. Gran parte del film fu girarato sul posto negli Stati Uniti, senza che nulla facesse presagire le ostilità che qualche anno dopo avrebbero condotto alla guerra tra America e Germania.
Il prolifico Veit Harlan diresse per la Tobis — appena acquisita da. governo — una quantità di film non di propaganda, fra cui "Giovinezza" (Jugend, 1938), storia di una figlia illegittima adottata dallo zio, un pastore di vedute ristrette; sedotta e abbandonata da un cugino cinico, la poverina finisce per annegarsi. Lo stile e perfino il rigido moralismo del film non sono molte diversi da ciò che ci si aspetterebbe da un film di Hollywood dello stesse periodo.
Assai attivo, per quanto poco noto, il regista Helmut Kautner diresse fra l'altro "Arrivederci Franziska" (Auf Wiedersehen, Franziska, 1941), una storia d'amore più realistica e sommessa di quelle di Ophuls, ma realizzata con movimenti di macchina analoghi. La trama racconta il matrimonio tra un inviate speciale e la sensibile Franziska: le lunghe assenze di lui, che la saluta ogni volta dal treno con la frase "Auf Wiedersehen, Franziska" incrinano il rapporto nonostante la sincerità del loro amore, e Franziska diviene sempre più lontana e scontrosa. A guastare questo agrodolce studio psicologico è solo il finale, dettato dalle autorità naziste: dopo l'invasione tedesca della Polonia, il matite torna a casa e riparte questa volta per la guerra mentre Franziska, miracolosamente guarita dai suoi malumori, lo saluta alla stazione con un ottimistico "Wiedersehen, Michael". Film del genere valgono comunque a dimostrare che il cinema del periodo nazista è più vario di quanto non si creda di solito.

1920 - 1943
Alla fine degli anni Venti, l'imprenditore Stefano Pittaluga cercò di rianimare l'industria cinematografica italiana creando una società a concentrazione verticale: dopo aver rilevato alcune case di produzione e di distribuzione minori e catene di sale, acquistò il vecchio studio della Cines e lo riaprì con grande clamore nel 1930. Per qualche anno, la nuova Cines dominò la produzione italiana, soprattutto perché era l'unica a possedere apparecchiature per la registrazione del suono, ma non poteva risanare da sola un'industria in crisi; le sale prosperavano ma a dettare legge erano i film stranieri, soprattutto americani, e l'avvento del sonoro accelerò il declino della produzione: nel 1930 si fecero soltanto dodici film italiani; nel 1931 appena tredici.
Quando l'economia italiana fu colpita dalla Depressione, il governo iniziò a sostenere diverse industrie e il cinema fu oggetto di una serie di leggi protezionistiche tra il 1931 e il 1933: il governo garantì sussidi sulla base degli incassi, obbligò le sale a proiettare un dato numero di film italiani, tassò i film stranieri e stabilì un fondo per conferire premi a film di alta qualità. Nel 1932 il regime di Mussolini inaugurò anche la Mostra del Cinema di Venezia, ideata come vetrina internazionale per i film italiani.
Simili sforzi incoraggiarono alcuni produttori a entrare nel mercato: dopo il 1932 al declino della Cines corrispose la nascita di Lux, Manenti, Titanus, ERA e altre case di produzione; alla fine degli anni Trenta la produzione nazionale poteva contare su circa quarantacinque film all'anno.
Nel complesso, comunque, la legislazione non migliorò le condizioni generali in quanto la maggior parte dei film non avevano successo commerciale. Quando il governo riconobbe che l'industria cinematografica era un'importante forza ideologica che non doveva deteriorarsi, creò la Direzione Generale per la Cinematografìa (1934), diretta da Luigi Freddi.
Pur essendo stato supervisore dell'ufficio propaganda del Partito fascista, Freddi si distinse nel nuovo incarico per un atteggiamento sorprendentemente liberista rispetto ai modi dell'intervento governativo: lo Stato doveva incoraggiare e premiare l'industria ma non pretendere di guidarla d'autorità. Convinto che gli spettatori italiani avrebbero rifiutato film pesantemente propagandistici, Freddi si schierò coi produttori per incrementare un cinema di "distrazione" vicino allo spirito hollywoodiano. Un viaggio a Berlino confermò le sue convinzioni: i nazisti, sosteneva, avevano danneggiato il cinema tedesco con "coercizione cieca e autoritaria", mentre Freddi credeva che un pubblico divertito sarebbe stato un pubblico tranquillo.
Questo punto di vista portò il governo a una serie di nuove scelte. Nel 1935 nacque l'ENIC (Ente Nazionale Industrie Cinematografiche), cui fu data autorità di intervenire in ogni settore del cinema. L'ENIC rilevò la società di Pittaluga, producendo alcuni film e coproducendone altri, assorbì alcune catene di sale e iniziò a distribuire film.
Quando nel 1935 gli studi Cines furono distrutti da un incendio, Freddi sovrintese alla costruzione di Cinecittà, un moderno complesso di teatri di posa statali alla periferia di Roma che ospitò presto anche dodici teatri di posa sonori. Dal 1937 — anno dell'inaugurazione — fino al 1943, più della metà dei film italiani furono girati a Cinecittà. Nel 1935 Freddi fondò anche una scuola di cinema, il Centro Sperimentale di Cinematografia; due anni dopo il
Centro lanciò la sua rivista, "Bianco e nero", che avrebbe dato importanti contributi alla teoria cinematografica e che prosegue tuttora le pubblicazioni. Dal Centro uscirono molti dei migliori registi, attori e tecnici italiani.
L'investimento del governo nella cultura alimentò il prestigio internazionale. La Biennale di Venezia, così come la Mostra del Cinema, davano dell'Italia l'immagine di un paese moderno e cosmopolita, e registi stranieri del livello di Max Ophuls, Gustav Machaty, Jean Epstein e Abel Gance vennero a girare nella penisola.
Anche la legislazione si fece più incisiva: una legge garantì finanziamenti statali per molti film ad alto budget, incoraggiando le banche a investire a loro volta nella produzione. La "Legge Alfieri" del 1938 diede ai produttori un aiuto diretto commisurato al numero di biglietti venduti, favorendo così i film popolari e le società più prolifiche; di impatto altrettanto forte fu la "Legge sul Monopolio" dello stesso anno, che diede all'ENIC il controllo su tutti i film importati (e portò quattro delle più importanti case americane a ritirare la loro produzione dall'Italia). Il risultato di queste politiche fu che la produzione del 1941 arrivò quasi a raddoppiare, toccando la cifra record di 83 lungometraggi.
Il cinema italiano non divenne mai un cinema politico statalizzato come quello delle Germania o dell'URSS: l'ENIC controllava solo una piccola frazione del mercato e produceva pochi film; come Stalin, Mussolini vedeva in anteprima ogni singolo film realizzato nel Paese, ma di rado li faceva vietare. Allo stesso tempo, nonostante l'assistenza del governo, l'industria italiana non riuscì a divenire autosufficiente e rimase in passivo per tutti gli anni Trenta. In generale, il regime si limitava a sovvenzionare un settore fragile lasciandolo in gran parte in mani private.

1932 - 1943
La relativa autonomia dell'industria non rendeva il cinema italiano immune dalla propaganda: i documentari e i cinegiornali del LUCE magnifìcavano il regime di Mussolini, e non mancarono i film esplicitamente fascisti. II decimo anniversario dalla fondazione del partito portò a due pellicole commemorative, "Camicia nera" di Giovacchino Forzano (1932) e "Vecchia guardia" di Alessandro Blasetti (1933), abbastanza simili in spirito al tedesco Hans Westmar. L'invasione dell'Etiopia nel 1935 ispirò parecchie opere propagandistiche come "Lo squadrone bianco" di Augusto Genina (1936), e lo stesso avvenne per il soste gno offerto a Franco nella guerra civile spagnola. Le politiche fasciste furono glorificate m modo più indiretto in spettacoli storico-patriottici come "1860" di Alessandro Blasetti (1934) e "Scipione l'Africano" di Carmme Gallone (1937).
Benché la maggior parte degli intellettuali fascisti odiassero il comunismo, molti condividevano l'ammirazione di Goebbels per i film sovietici e speravano che il cinema italiano potesse evolversi verso un cinema di propaganda nazionalista. Questi cosiddetti fascisti di sinistra apprezzavano in modo particolare lo spettacolo epico: le masse sarebbero scoppiate di orgoglio vedendo cammelli in marcia attraverso l'Etiopia, tumultuose battaglie in Spagna e gli elefanti di Roma lanciati contro le orde pagane. Il regime, comunque, spesso disapprovava il modo in cui il Partito era ritratto nei film; per di più, molti erano insuccessi commerciali. Fino alla seconda guerra mondiale, nessuna particolare tendenza propagandistica emerse nel cinema italiano come era avvenuto in altri Paesi e la norma fu quella di un cinema di evasione.
Il periodo vide fiorire diversi generi popolari: gli studi italiani sfornavano commedie o melodrammi romantici, in genere ambientati tra gente ricca e in ambienti moderni e scintillanti, da cui la loro definizione "film dei telefoni bianchi". Un prototipo fu "La canzone dell'amore" di Gennaro Righelli (1930), seguito fra gli altri da "La segretaria privata" di Goffredo Alessandrini (1931) e "T'amerò sempre" di Mario Camerini (1933).
Spicca sopra la media "La signora di tutti" di Max Ophuls (1934), mordace critica dell'industria del divismo: la trama mostra in flashback una ragazza innocente sedotta dal padre dell'uomo che ama; quando la loro storia finisce, lei diventa una diva del cinema ma alla fine si suicida. Praticamente ogni scena di "La signora di tutti" gronda emozioni che Ophuls riprende con grande intensità. Nei momenti clou la sua macchina da presa volteggia attraverso l'azione perdendo e ritrovando i personaggi in un abbandono vertiginoso che ricorda "Amanti folli".
Come avvenne anche in altri Paesi, il cinema sonoro diede rapidamente il via alla produzione di commedie romantiche costruite su melodie di successo e incoraggiò l'umorismo dialettale e molti comici popolari: Ettore Petrolini, Vittorio De Sica, Totò passarono dai music hall e dai teatri regionali al cinema. De Sica recitò nella commedia romantica in film Cines che lo resero celebre come "Gli uomini, che mascalzoni..." (1932) e "Il signor Max" (1937), entrambi diretti da Mario Camerini; più tardi la commedia di ambiente romanesco avrebbe procurato un successo analogo ad Aldo Fabrizi. Il neorealismo del dopoguerra dovrà molto alla commedia popolare: De Sica divenne uno dei registi più importanti e l'accoppiata Fabrizi/Anna Magnani in "Campo de' fiori" (di Mario Bonnard, 1943) anticipò "Roma città aperta".
La varietà della produzione italiana dell'epoca è esemplificata chiaramente nell'opera di Alessandro Blasetti, che passò dal successo critico di "Sole" (1929) a "Resurrectio" (1930), un melodramma romantico che combinava il montaggio rapido e i complessi movimenti di macchina dello "stile internazionale" del muto con tecniche sonore sperimentali; sia "Nerone" (1930) che "La tavola dei poveri" (1932) erano invece commedie dialettali. Contro l'opinione corrente, Blasetti sosteneva che gli artisti dovessero interpretare l'ideologia fascista in modo creativo, e tentò di mettere in pratica questa convinzione in "Vecchia guardia", una storia degli inizi del Partito che creò qualche imbarazzo ufficiale. Con l'imponente "1860", il regista portò il dialetto nel film storico e ricorse al simbolismo eroico del cinema sovietico; ma firmò anche film dei telefoni bianchi, un film di cappa e spada, drammi psicologici e una commedia importante come "Quattro passi fra le nuvole" (da un soggetto di Cesare Zavattini, 1942); il suo fiabesco "La corona di ferro" porta le formule da peplum del cinema muto italiano a estremi di eccentricità con l'aggiunta di allusioni pacifiste. Si dice che quando Goebbels lo vide il suo commento fu: "Se l'avesse realizzato un nazista, sarebbe stato messo al muro e fucilato".

1940 - 1943
Tra il 1940 e il 1942, i successi bellici dell'Italia diedero forza anche al cinema. La legislazione del 1938 aveva creato un'industria dinamica, articolata in oltre una dozzina di poli di produzione e distribuzione, ma l'accorto Freddi (che dal 1941 era presidente dell'ENIC e supervisore di Cinecittà) riportò in vita la Cines come società semigovernativa. Pur senza essere tentacolare come la tedesca UFI, fra il 1942 e il 1943 la nuova Cines produsse più film di qualsiasi altra società. L'affluenza di pubblico e la produzione crebbe a livelli senza precedenti: 89 lungometraggi nel 1941, 119 nel 1942; un'impennata che avviò la carriera di registi giovani che sarebbero diventati famosi nel dopoguerra. Anche durante la guerra, comunque, il regime non cercò di precettare l'industria: anzi, la Direzione Generale, sotto Eitel Monaco, il successore di Freddi, rese la censura più tollerante. Più in generale tra gli intellettuali più giovani, costernati dalle avventure militari del regime e dai dogmatici sistemi educativi, cominciarono a rafforzarsi sul finire degli anni Trenta tendenze antifasciste; un'atmosfera che favoriva la nascita di nuove tendenze artistiche.
Una di queste, detta "calligrafismo" per i suoi impulsi decorativi e la sua ripulsa della realtà sociale, tornava alle tradizioni teatrali del diciannovesimo secolo: esempi tipici sono "Un colpo di pistola" di Renato Castellani (1942) — tratto da uno dei "Racconti di Belchin" di Puskin — e "Via delle cinque lune" — da una novella di Matilde Serao — di Luigi Chiarini (1942) che era il direttore del Centro Sperimentale. Ma una generazione più giovane stava già discutendo i meriti dell'arte realistica: influenzati da Hemingway, Faulkner e da altri autori americani, alcuni scrittori invocavano il ritorno alla tradizione italiana del naturalismo regionale e del verismo di Giovanni Verga. Allo stesso modo, sulle pagine di "Bianco e nero", "Cinema" e altre riviste, i critici invocavano registi che filmassero i problemi di gente vera in ambienti reali. Gli aspiranti registi subivano l'influenza dei film della scuola del montaggio sovietico proiettati al Centro Sperimentale, del realismo poetico francese e dei registi populisti di Hollywood come Capra e Vidor. Nel 1939 Michelangelo Antonioni immaginò un film sul fiume Po che raccontasse una storia descrivendo la vita lungo le rive — che divenne il cortometraggio "Gente del Po" (1943/47) — e un saggio del 1941 di Giuseppe De Santis parlò dei western americani, di certe inquadrature di panorami sovietici, dei film girati da Renoir negli anni Trenta e di alcune opere di Blasetti come capiscuola di un'estetica che avrebbe unito finzione e documentario in "un cinema italiano vero e genuino".
Simili dibattitti furono rafforzati dai film che uscirono durante gli anni della guerra: molti di essi esprimono nuova fiducia nei dialetti, nelle riprese in esterni e negli attori non professionisti. "La nave bianca" di Roberto Rossellini (1941), ad esempio, racconta un dramma di guerra navale in modo quasi documentaristico. Film come "Acciaio" di Walter Ruttmann (1933) e "Porto" di Amieto Palermi (1935) possono essere considerati i precursori di questa tendenza, ma a muoversi decisamente verso di un "nuovo realismo" furono tre film dei primi anni Quaranta.
"Quattro passi fra le nuvole" di Blasetti (1942) racconta di un commesso viaggiatore frustrato da una vita noiosa che, durante un viaggio in campagna, accetta di fingersi il marito di una ragazza incinta e ripudiata dalla famiglia: l'accoglienza sgarbata della famiglia di lei gli crea inizialmente qualche imbarazzo, ma ben presto l'interludio rurale si rivela una gradita interruzione della monotonia. Commedia populista su argomenti come la maternità extramatrimoniale e la noia della vita da coniugi, "Quattro passi fra le nuvole" conferì al genere una melanconia quietamente ironica.
Innovativo fu anche il quinto film di De Sica come regista, "I bambini ci guardano" (1943). Se Blasetti tendeva melanconica la commedia sentimentale, De Sica spinge il melodramma sull'orlo della tragedia descrivendo una donna tentata dall'abbandonare marito e figlio per un amante: una situazione familiare che De Sica e lo sceneggiatore Cesare Zavattini complicano adottando il punto di vista del bambino; nell'impressionante finale, il figlio rifiuta il bacio della madre che ha condotto il padre al suicidio. Anche se la famiglia dei protagonisti è benestante, "I bambini ci guardano" evita l'eleganza dei telefoni bianchi a favore di una forte critica sociale.
La più audace manifestazione della tendenza al realismo fu però "Ossessione" di Luchino Visconti, distribuito nel 1943: tratto dal romanzo di James M. Cain "Il postino suona sempre due volte", il film segue la passione che conduce un vagabondo e la moglie di un barista ad assassinare il marito di lei. I movimenti di macchina di Visconti sono articolati come quelli di un film hollywoodiano, ma la messa in scena è sorprendentemente scabra. Il dramma è ambientato nella pianura padana — povera e battuta dal sole - rifiutando l'eleganza della produzione italiana dell'epoca; i vestiti sono infradiciati da un caldo soffocante, un ricciolo di carta moschicida penzola sul tavolo da pranzo della coppia; tornando a casa barcollante da una taverna, il marito striscia in un fosso e vomita. In più, oltre ad affrontare un tema proibito come l'adulterio, Visconti aggiunge al romanzo di Cain il tema dell'omosessualità.
Dopo alcune discusse proiezioni, "Ossessione" fu tolto dalla circolazione, ma rimase ugualmente un punto di riferimento: nel 1943 un articolo di Umberto Barbaro invocava un neorealismo analogo a quello di film francesi come "Il porto delle nebbie" e suggeriva che "Ossessione" potesse indicare la strada.
Rivisti oggi, i film di Blasetti, De Sica e Visconti non sembrano più così lontani dal cinema ufficiale: "Quattro passi fra le nuvole" nasce dalla commedia popolare, mentre gli altri devono molto al melodramma. "Ossessione" è addirittura più vicino al noir americano che al neorealismo del dopoguerra. Tutti e tre i film sfruttano i meccanismi dello star System e sfoggiano un'illuminazione da teatro di posa. Anche le riprese in esterni sono equilibrate da scenografie ricostruite in studio e da retroproiezioni per l'epoca, la novità scandalosa era la rappresentazione "realistica" di problemi sociali a lungo tenuti nascosti dal cinema leggero di Freddi.
Nel 1943 gli Alleati sbarcarono nell'Italia meridionale e il governo di Mussolini fuggì al Nord instaurando la Repubblica di Salò; gli ultimi fascisti e le truppe tedesche occuparono le regioni del nord e del centro e dovettero fronteggiare il movimento partigiano di resistenza armata. La produzione cinematografica italiana subì un precipitoso arresto e non si riprese fino al 1945, quando i ricordi della Resistenza e l'impegno di descrivere la vita quotidiana sarebbero state le fonti di ispirazione primaria del neorealismo.
Le industrie dell'URSS, della Germania e dell'Italia esemplificano tre vie attraverso cui una dittatura può controllare il suo cinema: in Unione Sovietica, la nazionalizzazione era avvenuta molto presto e in modo palese; i nazisti acquistarono senza clamori le case di produzione imponendo loro di produrre film a sostegno del regime; il governo italiano usò mezzi più indiretti. Dopo la guerra, il sistema sovietico perdurò fino alla fine degli anni Ottanta, mentre la sconfitta del nazismo lasciò l'industria tedesca a pezzi; in Italia, dove l'industria non era stata nazionalizzata, la transizione fu meno traumatica.

1930-1945
La Francia avvertì relativamente tardi gli effetti della Depressione mondiale: la crisi delle banche divenne drammatica solo alla fine del 1930 e la produzione economica cominciò a declinare soltanto nel secondo semestre del 1931. In mancanza di iniziative del governo per contrastare il problema, la crisi perdurò per tutti gli anni Trenta. L'industria del cinema ne fu duramente colpita, e il settore, già tutt'altro che compatto, subì un ulteriore frammentazione. Le cinematografie di Paesi come Inghilterra, Giappone e Italia erano di gran lunga più organizzate e prolifiche, e tuttavia il cinema francese di questo periodo ebbe un'importanza maggiore di quanto le condizioni lasciassero prevedere, forse anche perché la debolezza dello studio System consentiva flessibilità e libertà ai cineasti. Autori come René Clair e Jean Renoir diedero il meglio di sé negli anni Trenta e, in generale, la Francia ebbe sul cinema mondiale un'influenza seconda solo a quella di Hollywood.
La crisi scatenò tumulti politici in tutta Europa. Italia, Germania, Spagna e altre nazioni avevano insediato, o si apprestavano a farlo, governi fascisti e la destra spingeva la Francia nella stessa direzione: a metà degli anni Trenta vide quindi la luce il Fronte popolare, una coalizione di gruppi progressisti decisi a resistere alla svolta autoritaria, che per qualche tempo riuscirono a governare il Paese. L'esperienza fu di breve durata ma ebbe sul cinema un impatto significativo.
Il coinvolgimento della Francia nella seconda guerra mondiale nel settembre 1939 interruppe gran parte dell'attività cinematografica. Dopo la presa di Parigi da parte dei tedeschi, nel giugno 1940 un governo francese di destra fu insediato a Vichy, nel sud del paese. L'occupazione tedesca durò fino all'agosto 1944: quattro anni in cui le condizioni della produzione e distribuzione cinematografica cambiarono in modo radicale. Molti autori dovettero fuggire o nascondersi, ma quelli che restarono riuscirono a tener vivo il cinema francese con film caratterizzati da fantasia, senso di isolamento e di evasione. Molti furono i paesi la cui cinematografia fu sconvolta dalla guerra, ma in nessun luogo la frattura tra gli anni Trenta e i primi Quaranta fu marcata quanto in Francia.

1934 - 1938
La produzione cinematografica francese era crollata dopo i giorni di gloria precedenti la prima guerra mondiale, quando essa aveva dominato gli schermi di tutto il mondo. L'avvento del sonoro le diede un nuovo impulso poiché le platee richiedevano dialoghi in francese, e la prosperità di inizio decennio sfociò in un leggero incremento della produzione. Ma il cinema francese non fu risparmiato dalla Depressione.
Al contrario, Stati Uniti, Germania e Giappone producevano ciascuno centinaia di film all'anno.
Ancor più che negli anni Venti, gran parte del settore produttivo francese era composto da piccole società private che spesso realizzavano un solo film contraendo forti debiti e fallendo subito dopo: alcuni imprenditori disonesti fondavano piccole case di produzione in modo da ottenere prestiti, per poi sparire col denaro e lasciare i registi nei guai; altri progetti si interrompevano per mancanza di fondi. Negli anni Trenta, 285 piccole società produssero un solo film ciascuna e dozzine di altre ne produssero un numero comunque esiguo. Anche il colosso Pathé-Natan realizzò nell'intero decennio soltanto 64 film — più o meno tanti quanti la Paramount ne produceva in un solo anno.
La mole della società non era una garanzia contro corruzione e cattiva amministrazione: due delle case di produzione più grandi, cresciute nei più rosei anni Venti grazie a una serie di fusioni, conobbero una crisi nel decennio seguente anche perché invece di collaborare dando vita a un oligopolio, come avveniva in industrie cinematografiche più stabili, ciascuna cercava di spingere l'altra al fallimento. Fu così che nel 1934 la Gaumont-Franco-Film-Aubert sfiorò la bancarotta e solo un prestito statale potè salvarla. La Pathé-Natan ebbe problemi analoghi nel 1936 (complicati dal fatto che uno dei suoi capi, Bernard Natan, fu arrestato in quanto malversatore) e dovette essere suddivisa in società più piccole.
La situazione, comunque, non era disperata: nuove leggi e l'avvento del sonoro contribuirono ad allentare la presa americana sul mercato francese. Nel 1935, per la prima volta dalla prima guerra mondiale, i film francesi conquistarono più della metà del mercato nazionale; inoltre l'affluenza di pubblico, crollata durante la Depressione, cominciò a risalire e gli incassi aumentarono.
La struttura decentralizzata della produzione francese spiega perché in questo decennio si fecero così tanti film artisticamente riusciti: mancava infatti la complessa burocrazia che caratterizzava il cinema negli Stati Uniti, in Germania e nell'URSS. In modo analogo a ciò che avveniva nel sistema giapponese, i registi lavoravano spesso in autonomia e controllavano molte fasi della produzione; cosa che, unita al talento di attori, sceneggiatori, scenografi, operatori e musicisti, contribuì a creare alcune tendenze originali.
La propensione al fantastico e al surreale del cinema francese muto continuò a svilupparsi negli anni Trenta. René Clair, abbondantemente prima dei fasti del dopoguerra con "Il silenzio è d'oro" (Le Silence est d'or, 1946), divenne il più famoso regista francese con due musical innovativi come "Sotto i tetti di Parigi" (Sous les toits de Paris, 1930) e "A me la libertà" (A nous la liberté!, 1931). Al genere apparteneva anche l'originale "Il milione" (Le million, 1931), una lunga e divertente caccia a un biglietto della lotteria smarrito: Clair utilizzò la musica al posto degli effetti sonori e fece largo uso di movimenti di macchina. Dopo due opere minori, Clair partì per l'Inghilterra dove realizzò l'interessante commedia "Il fantasma galante" (The Gbost Goes West, 1935) e quando la guerra gli impedì di tornare in Francia si trasferì a Hollywood fino alla fine delle ostilità.
La tradizione surrealista proseguì in diversi film, nessuno dei quali poteva però eguagliare la caotica violenza di "Un chien andalou" e "L'àge d'or" di Buñuel. Nel 1932 Pierre Prévert diresse "L'affare è fatto" (L'affaire est dans le sac), su sceneggiatura di suo fratello Jacques, il celebre poeta: girato a basso costo sfruttando scenografie di altri film, è una commedia anarchica popolata, fra l'altro, di personaggi che vendono, rubano e indossano cappelli strampalati (c'è anche un uomo che cerca invano un fez fascista), mentre la figlia di un ricco industriale è corteggiata da uomini di varie classi sociali; una trama la cui stranezza è sottolineata da uno stile volutamente sopra le righe. L'insuccesso del film impedì ai fratelli Prévert di fare altri film insieme per un decennio, ma Jacques contribuì come sceneggiatore ad alcune delle opere più importanti dell'epoca.
Il surrealismo influenzò anche il più promettente regista dei primi anni Trenta, Jean Vigo. Oltre a due cortometraggi "A proposito di Nizza" (A proposos de Nice, 1929) e "Taris, ossia del nuoto" (Taris ou la natation, 1931), la sua opera comprende "Zero in condotta" (Zèro de conduite, 1933, proibito e mai proiettato pubblicamente in Francia fino al 1945) e "L'Atalante" (Id., 1934; versione restaurata distribuita nel 1990). Per il modo in cui descrive la vita in collegio dal punto di vista dei giovani alunni, il primo è il più apertamente surrealista: gran parte degli insegnanti sono ritratti come figure grottesche, con la sola eccezione di Huguet, schierato con i ragazzi. Nella scena più celebre, gli scolari sfidano gli insegnanti scatenando in dormitorio una battaglia di cuscini; nel finale vediamo quattro degli scolari dare il via alla ribellione durante una cerimonia commemorativa.
"L'Atalante" è invece la storia intensamente romantica del capitano di una chiatta che sposa la donna di un villaggio lungo il fiume. Dopo una breve luna di miele, lei inizia e desiderare qualcosa di più della routine sulla chiatta e, attratta dai souvenir esotici di pére Jules, ufficiale di seconda, e tentata da un venditore di passaggio, fugge a Parigi. Il marito rifiuta di ammettere il suo desiderio di riaverla con sé, ma alla fine pére Jules rintraccia la donna e la coppia si riunisce.
Vigo morì nel 1934, a ventinove anni. La sua morte, unita all'impossibilità per i fratelli Prévert di realizzare altri film, segnò la fine del surrealismo nel cinema francese, così come la partenza di Clair provocò di fatto l'abbandono del genere fantastico.
Molti film francesi importanti degli anni Trenta erano produzioni prestigiose di alto livello, spesso adattamenti letterari come "Delitto e castigo" (Crime et chatiment, di Pierre Chenal, 1935) da Dostoevskij: Pierre Blanchar e Harry Baur, due noti attori teatrali, vi si distinguono nei ruoli di Raskol'nikov e Porfirij, e le complesse scenografìe di interni mostrano una leggera influenza dell'espressionismo tedesco.
Jacques Feyder, che era stato influenzato dall'impressionismo negli anni Venti, tornò in Francia nel 1932 dopo una breve permanenza a Hollywood. Il suo film più noto in questo decennio è "La kermesse eroica" (La kermesse héro'i-que, 1935), commedia ambientata in una città fiamminga all'inizio del diciassettesimo secolo: alla notizia dell'imminente arrivo in città del duca d'Alba e delle sue truppe, gli uomini si nascondono in preda al panico ma le donne accolgono gli invasori nelle loro case (e nei loro letti) in una grande festa; incantando così il duca, che il giorno seguente si allontana con tutti i suoi soldati senza colpo ferire. Di origine belga egli stesso, Feyder volle riprodurre minuziosamente l'architettura e i costumi dell'epoca.
"La kermesse eroica" è stato letto come incoraggiamento al collaborazionismo nel periodo in cui si addensava la minaccia fascista: in realtà Feyder e Charles Spaak avevano scritto la sceneggiatura a metà degli anni Venti, sull'onda di una serie di film pacifisti, ma non erano riusciti a trovare un produttore. Fu così che il film finì per uscire in un momento infelice e fu accolto freddamente in Francia e Belgio; ma in Germania e in Inghilterra riscosse grande successo, vinse un premio per la miglior regia alla Mostra di Venezia e un Oscar negli Stati Uniti per il miglior film straniero.
Meno ambizioso — e più tipico del cinema francese di qualità degli anni Trenta — è "Il lago delle vergini" (Lac anx dames, di Mare Allégret, 1934). L'esile trama ha per protagonista un giovane che insegna nuoto presso un lago del Tiralo ed è assediato dalle ammiratrici; una ragazza ricca e innocente innamorata di lui lo aiuterà a riunirsi con la donna che ama, dalla quale era stato separato. Come in molti film francesi dell'epoca, l'intreccio convenzionale si accompagna a una splendida fotografia e consente agli attori di emergere: "Il lago delle vergini" segnò l'esordio sia di Jean-Pierre Aumont che di Simone Simon, riservando anche un piccolo ruolo a Michel Simon. Il cinema francese, anche se si rivolgeva a un pubblico limitato, aveva negli anni Trenta un discreto parco di divi popolari e caratteristi, e personaggi come Raimu, Michèle Morgan e Jean Gabin si rivelarono spesso di richiamo anche all'estero — un fenomeno assai raro nel decennio precedente.
In questo genere di film, a suo modo unico era Sacha Guitry, fortunato romanziere e autore di commedie sofisticate, che entrò nel cinema come attore, sceneggiatore e regista di molte delle sue stesse opere. Critici e cineasti deplorarono l'irremovibilità di Guitry nel limitarsi al "teatro filmato", ma molti condividevano la passione del pubblico per le sue commedie brillanti e ben congegnate. Tra queste spicca senz'altro "II romanzo di un baro" (Le roman d'un tricheur, 1936), tratto da un suo romanzo dedicato a un truffatore: tutto il film è narrato in modo molto originale dalla voce del protagonista, che pronuncia anche il dialogo di tutti i personaggi, uomini e donne.
Julien Duvivier, attivo in tutti i filoni del cinema francese degli anni Trenta, girò nel 1932 "Pel di carota" (Poil de carotte; nel 1925 ne aveva diretta una versione precedente in stile impressionista): protagonista è un ragazzo il cui carattere allegro si scontra con una madre tirannica e un padre indifferente che prima di dichiarargli il suo affetto indugia al punto da portarlo a un passo dal suicidio. Lo stile sofisticato di Pel di carota e le riprese in esterni della campagna contribuiscono a una storia toccante, raccontata in gran parte dal punto di vista del ragazzo.
Molti film francesi di qualità erano firmati da autori stranieri, soprattutto tedeschi: tra Berlino e Parigi v'era un continuo scambio di registi e, anche dopo l'abbandono della produzione multilingue, si continuò a lungo a girare versioni tedesche di pellicole francesi e viceversa.
G.W. Pabst passò in Francia due lunghi periodi, durante il primo dei quali diresse una versione multilingue di "Don Chisciotte" (Don Quichotte, 1933) con il leggendario divo dell'Opera Feodor Chaliapine. Dopo una deludente visita a Hollywood da cui nacque un solo film, Pabst tornò in Francia per dirigere tre melodrammi. La protagonista di uno di questi, "Il dramma di Shanghai" (Le drame de Shanghai, 1938) è Kay, una cantante di night-club che lavora da anni per una banda criminale di Shanghai ma cerca di rigare dritto quando sua figlia, una ragazza perbene che è stata a lungo lontana per studiare, viene a trovarla; per consentirle di fuggire dalla Cina durante l'invasione dei giapponesi, Kay è però obbligata a uccidere uno dei membri della banda.
Pabst usò l'ambientazione esotica per creare un efficace noir. All'inizio della guerra, il regista decise a sorpresa di tornare in Germania, dove avrebbe lavorato sotto il regime nazista.
Anche Max Ophuls lavorò regolarmente a Parigi negli anni Trenta, realizzando sette lungometraggi intensamente romantici sul genere di "Amanti folli" (Liebelei, 1932). Adattato da Goethe, "Werther" (Le roman de Werther, 1938) ha per protagonista un ufficiale di stanza in una piccola città che si innamora della fidanzata del suo superiore, Carlotta, e alla fine si toglie la vita. All'inizio della seconda guerra mondiale Ophuls fuggì negli Stati Uniti.
Anche per altri emigranti illustri la Francia costituì una tappa intermedia sulla via di Hollywood. Anatole Litvak, un ebreo russo che aveva lavorato in Germania, fuggì dai nazisti e girò in Francia "Mayerling" (ld., 1936); storia dell'amore tragico di un principe per una donna comune, il film sfoggiava uno stile indistinguibile da quello delle produzioni patinate di Hollywood e fu estremamente popolare all'estero: gli attori Charles Boyer e Danielle Darrieux divennero divi internazionali e si trasferirono a Hollywood con lo stesso Litvak. Anche Fritz Lang, abbandonata la Germania per non dover lavorare sotto il nazismo, si fermò brevemente in Francia e vi girò "La leggenda di Lilliom" (Liliom, 1934), un dramma romantico e fatalista, prima di trasferirsi per lungo tempo negli Stati Uniti. Analogamente, Billy Wilder, Robert Siodmak, Curtis Bernhardt e altri lavorarono brevemente in Francia per poi proseguire la carriera a Hollywood.
Accanto a queste produzioni in studio, il cui fascino era affidato allo stile patinato, a storie romantiche e attori popolari, vi furono anche molti film improntati al realismo quotidiano. Fra questi spicca "La scuola materna" (La maternelle, 1933), di Jean Benoit-Levy e Marie Epstein, che come "Zero in condotta" e "Pel di carota" pone al centro della storia dei bambini. Benoìt-Levy, che era principalmente un documentarista, e Marie Epstein, che aveva sceneggiato tre film per suo fratello Jean negli anni Venti, avevano già collaborato in alcuni film muti sui problemi dell'infanzia; con "La scuola materna", la loro opera più importante, affrontarono il problema dei bambini abbandonati o maltrattati: una giovane colta ma povera, Rose, viene assunta con mansioni servili in un istituto e diviene l'oggetto del represso bisogno d'amore dei bambini — specialmente di Marie, abbandonata dalla madre prostituta. Rinunciando al fascino dello studio e ad attori famosi, Benoìt-Levy e Marie Epstein girarono il film in un autentico asilo pubblico, scegliendo bambini senza esperienza di recitazione e ottennendo un'opera bene accolta dalle platee francesi ed estere. I due tornarono a collaborare con "Itto" (1934), uno dei rari film sulle colonie francesi nel nordafrica in cui la popolazione indigena è trattata con sensibilità.
Un altro autore emerso negli anni Trenta e dotato di uno stile molto personale e attento alla realtà quotidiana è Marcel Pagnol. Anche Pagnol era già celebre come commediografo e le sue commedie sentimentali avevano un tono leggero e ironico. Dopo aver visto "La canzone di Broadway", si rese conto delle possibilità offerte dal cinema sonoro: sovrintese così all'adattamento di una delle sue pièces più note, "Marius" (1931, diretto da Alexander Korda, che avrebbe presto rivoluzionato il cinema inglese dirigendo "Le sei mogli di Enrico VIII"). Nonostante l'enorme successo del film, la Paramount, che l'aveva prodotto, non volle finanziarne il seguito e Pagnol andò avanti da solo: con i guadagni ricavati da "Fanny" di Mare Allégret (1932), tratto da una sua pièce, fondò una casa di produzione personale e iniziò a sfornare un successo dopo l'altro. "Cèsar" (1936), il terzo film della trilogia cominciata con "Marius", e proseguita con "Fanny", fu diretto personalmente da Pagnol.
La trilogia copre circa vent'anni della vita dei tre personaggi centrali, ma non è certo un concentrato di azione: la scena è un quartiere costiero di Marsiglia, i cui abitanti passano il tempo a litigare e discutere. Il ritmo lento deriva in parte dalle origini teatrali dei film, ma anche dallo sforzo cosciente di Pagnol per riprodurre il divagare tipico della conversazione quotidiana.
Nel 1936, il successo permise a Pagnol di aprire a Marsiglia un proprio teatro di posa. Attori e troupe erano più o meno gli stessi da un film all'altro formarono la "famiglia Pagnol", un vero e proprio clan che viveva e lavorava a stretto contatto ovunque si decidesse di girare: Pagnol amava ripetere che "L'Universale si raggiunge restando a casa" e tra gli anni Trenta e Quaranta realizzò tutti i suoi maggiori successi in Provenza, vicino a Marsiglia, sua città natale. Rispetto ai film della trilogia, l'impianto era di norma meno teatrale ma le trame erano perlopiù semplici storie di vita in provincia: in "La moglie del fornaio" (La femme du boulanger, 1938), la fuga della moglie del fornaio con un altro uomo fa sì che il marito smetta di fare il pane, costringendo gli abitanti del villaggio a darsi tutti da fare per riportarla indietro; "La vita trionfa" (Regain, 1937) celebra la fertilità della terra raccontando di un contadino solitario e di una donna emarginata che uniscono le forze per costruire una fattoria in un villaggio deserto e formare una famiglia.

1930 - 1940
Molti dei più memorabili film francesi degli anni Trenta rientrano nel cosiddetto "realismo poetico", una tendenza generale più che un vero e proprio movimento come l'impressionismo o l'avanguardia sovietica. I protagonisti sono spesso operai disoccupati, criminali o comunque figure ai margini della società che, dopo una vita di delusioni, trovano un'occasione di riscatto in amori intensi e idealizzati che si risolvono però in un'ultima, definitiva, sconfitta. Il tono globale è di nostalgia e amarezza.
Avvisaglie del realismo poetico si erano avvertite all'inizio degli anni Trenta: si è già detto di "La petite Lise" (1930) di Jean Grémillon nel quale un uomo appena scarcerato scopre che sua figlia è stata avviata alla prostituzione e, quando lei diventa compiice involontaria nell'omicidio del gestore di un banco dei pegni, la protegge prendendosi la colpa del delitto. Un altro esempio è "Pensione mimosa" (Pension Mimosas, 1934) di Feyder, storia della proprietaria di una pensione che si innamora del figlio adottato e ne boicotta gli amori con altre donne, portandolo involontariamente al suicidio. A parte la trama tragica, l'atmosfera è affidata soprattutto alla cura delle ambienrazioni: la pensione del titolo, un casinò locale e altre scenografie di Lazare Meerson (autore anche dei set di "La kermesse eroica" e altri importanti film del decennio).
Fu però a metà degli anni Trenta che il realismo poetico si affermò perentoriamente, con autori come Julien Duvivier, Marcel Carné e Jean Renoir.
Il principale contributo di Duvivier alla nuova tendenza è "Il bandito della Casbah" (Pépe le Moko, 1936). Pépe è un gangster che si nasconde nella Casbah di Algeri, dove la polizia non osa arrestarlo; benché abbia già un'amante, egli si innamora di Gaby — una sofisticata parigina che visita la zona per il gusto dell'avventura occasionale — ma il loro amore è condannato in partenza, poiché se lui lasciasse la Casbah verrebbe catturato. Duvivier riesce a comunicare il senso della prigionia di Pépe nella Casbah nonostante la maggior parte delle inquadrature siano state girate in teatro di posa o nel sud della Francia. Alla fine del film, il protagonista tenta di lasciare Algeri con Gaby ma la polizia lo arresta proprio davanti al porto: Pépe chiede allora il permesso di guardare la barca di lei che si allontana e, quando questa è salpata, si uccide in un finale tipicamente fatalista.
Pépe è interpretato da Jean Gabin, uno degli attori più popolari dell'epoca, perfetta incarnazione dell'eroe disperato: bello abbastanza da poter interpretare sia drammi che commedie leggere, aveva tratti marcati che lo rendevano plausibile anche come esponente della classe operaia e che gli valsero ruoli da protagonista in "Il porto delle nebbie" (Quai des brumes, 1938) e "Alba tragica" (Le jour se lève, 1939), i due principali contributi al realismo poetico di Marcel Carné.
In "Il porto delle nebbie" Gabin è Jean, un disertore dalla Legione straniera che incontra la bellissima Nelly (Michèle Morgan che, con Gabin, formava la "coppia ideale" dell'epoca). Il loro amore è ostacolato dal fatto che lei è la protetta di un potente gangster: Jean riesce a ucciderlo, ma è colpito a sua volta da un membro della banda e muore tra le braccia di Nelly. La fotografia notturna dell'operatore tedesco Eugen Schiifftan e le scenografie di Alexandre Trauner, con strade di mattoni umide di pioggia, contribuiscono alla tipica atmosfera del realismo poetico.
Protagonista anche in "Alba tragica" nel ruolo dell'operaio Frangois, Gabin nella prima scena del film commette un omicidio e si barrica nel suo appartamento per sfuggire alla polizia: durante la notte, tre flashback ci rivelano le circostanze che hanno portato a questa situazione, mostrando come l'infame Valentin (la vittima del delitto) avesse sedotto la ragazza perbene di cui Francois era innamorato. Più che nell'intreccio, l'interesse del film è nella sua atmosfera cupa, cui contribuisce la scenografia di Alexandre Trauner, un quartiere operaio ricostruito in teatro di posa, perfetta sintesi di stilizzazione e realismo. La musica di Maurice Jaubert commenta le scene di apertura e di chiusura con un semplice ritmo di tamburo. L'elemento più importante resta però il ritratto che Gabin fa di Francois, eroe del realismo poetico per antonomasia che aspetta pensieroso il suo destino. "Alba tragica" uscì appena tre mesi prima dell'invasione tedesca della Polonia; durante la guerra, Carné avrebbe dedicato al tema dell'amore tragico due film popolarissimi a scapito del realismo dei precedenti.
Il più significativo tra i registi francesi degli anni Trenta fu Jean Renoir, la cui carriera si estende dagli anni Venti fino agli anni Sessanta ma tocca in questo decennio il vertice della creatività. Il suo primo film sonoro, "La purga al pupo" (On purge Bebé, 1931), era una farsa realizzata con lo scopo di ottenere finanziamenti per altri progetti; il lavoro seguente, "La cagna" (La chietine, 1931), è infatti ben diverso e può essere considerato un altro preludio al realismo poetico. Protagonista di "La cagna" è un mite contabile con l'hobby della pittura e prigioniero di un matrimonio infelice; comincia una relazione con una prostituta e si fa sfruttare dal protettore di lei che vende i suoi dipinti; alla fine il protagonista uccide la donna e si da alla macchia vivendo serenamente da mendicante. "La cagna" introduce molti elementi che caratterizzeranno lo stile di Renoir: virtuosistici movimenti di macchina, scene in profondità di campo e improvvisi cambiamenti di tono. L'omicidio dell'amante da parte del protagonista è quel tipo di soluzione tragica che diverrà la cifra del realismo poetico, anche se qui si risolve in una positiva scelta di vita. Analogamente, anche se lo stile del film è realistico, Renoir lo apre e chiude col sipario di un teatrino di marionette, quasi a suggerire che si tratta solo di una recita.
Altre opere importanti firmate da Renoir nei primi anni Trenta sono "Boudu salvato dalle acque" (Boudu sauvé des eattx, 1932) e "Toni" (Id., 1935). Boudu è la storia buffa di un vagabondo salvato dal suicidio da un libraio borghese che cerca invano di rieducarlo. Più cupo, Toni affronta il tema dell'immigrazione di operai provenienti dall'Italia e dall'Europa orientale nella Francia degli anni Venti. Prodotto da Marcel Pagnol, il film fu girato interamente in esterni nel sud della Francia con interpreti in gran parte sconosciuti che parlavano il dialetto della regione. Toni, un giramondo italiano giunto in Francia per lavorare in una cava, sposa Marie — la sua padrona di casa — ma si innamora di Josefa, che però sposa un capomastro che l'ha violentata; Marie scopre la verità, tenta il suicidio e poi ripudia il fedifrago. Quando Josefa uccide il suo brutale marito, i sospetti cadono su Toni, che alla fine è ucciso da una banda locale, mentre in città arriva un nuovo gruppo di operai stranieri. Toni anticipò in qualche modo il neorealismo italiano.
A metà degli anni Trenta Renoir realizzò alcuni film sotto l'influenza dei progressisti del Fronte popolare, di cui si dirà tra poco. Fece però anche "La scampagnata" (Une partie de campagne, 1936), un breve film non politico in delicato equilibrio tra ironia e tragedia: durante un picnic in una locanda di campagna, una famiglia parigina incontra due giovani che seducono la moglie e la figlia per la gioia della prima e la disperazione della seconda, visto che tra lei e il suo seduttore nasce un amore senza speranza. Per tutto il film Renoir esprime il piacere della vacanza e il senso di perdita che la seguirà. A causa del maltempo il film non potè essere ultimato, e fu distribuito solo nel 1946, con due didascalie per riassumere le parti mancanti.
Con "La grande illusione" (La grande illusion, 1937) Renoir assunse una posizione pacifista nel momento in cui la guerra con la Germania appariva sempre più probabile. Ambientato in un campo di prigionia tedesco durante la prima guerra mondiale, il film suggerisce che i legami di classe possano essere più importanti della fedeltà alla propria nazione: l'ufficiale francese protagonista si capisce più con l'aristocratico comandante del campo tedesco che con i suoi stessi uomini; quando egli si sacrifica per favorire la fuga di alcuni di essi, il comandante tedesco (interpretato da Erich von Stroheim) coglie l'unico fiore della prigione, alludendo all'estinzione della propria classe. La speranza sorride invece ai sottoposti Maréchal e Rosenthal, uno di origine operaia e l'altro ebreo, che riescono a fuggire.
Questo contrasto fra un'aristocrazia in declino e la classe lavoratrice riappare in forma più sardonica nel film con cui Renoir chiude il decennio, "La regola del gioco" (La règle du jeu, 1939): durante un grande ritrovo nel castello di un nobile, un celebre aviatore si innamora della moglie del padrone di casa il quale, a sua volta, sta cercando di fuggire con l'amante; la confusione amorosa trova eco nei paralleli intrighi tra i servitori, poiché un bracconiere locale si fa assumere come cameriere e tenta di sedurre la moglie del guardiacaccia. Le complicazioni galanti culminano nella lunga e virtuosistica scena del ricevimento al castello, in cui i personaggi entrano ed escono dalle stanze allacciando e sciogliendo rapporti l'uno con l'altro. Nonostante i personaggi si comportino spesso stupidamente, nessuno è tratteggiato come cattivo: "In questo mondo la cosa spaventosa è che ognuno ha le sue ragioni", commenta uno di loro con una battuta per molti versi emblematica del cinema di Renoir, per il quale di rado esistono malvagi, ma solo esseri umani fallibili che reagiscono l'uno all'altro. In "La regola del gioco", Renoir impiegò scenografie spaziose e intricate, e ampi movimenti di macchina per esprimere la continua interazione fra i personaggi. Alla fine la confusione causerà la morte di una persona, fatto che viene nascosto dal padrone di casa. Anche in questo film, il senso è la disgregazione della consunta classe aristocratica.
L'esito di "La regola del gioco" fu fallimentare: il pubblico non ne capì la mescolanza di humour e crudeltà, e lo percepì come un attacco alla classe dirigente. Uscì poco prima che la Francia entrasse nella seconda guerra mondiale e fu subito proibito.
Nonostante la debolezza del settore produttivo, il cinema francese degli armi Trenta produsse molti film importanti, grazie anche ai molti artisti di talento attivi nel settore: Lazare Meerson progettò le scenografie di "Sotto i tetti di Parigi" e "A me la libertà di Clair", e di "La kermesse eroica" di Feyder; fu anche maestro di Alexandre Trauner, che lavorò a lungo con Carné. Nel cinema furono arruolati anche importanti musicisti francesi: Georges Auric compose la musica di "A me la libertà", Arthur Honegger quella di "Delitto e castigo" e Josef Kosma fu l'autore della suggestiva colonna sonora di "Una gita in campagna". Il più importante, Maurice Jaubert, scrisse le musiche di "Zero in condotta". "L'Atalante", "L'affare è fatto", "Il porto delle nebbie", "Alba tragica" e altri film, prima di morire nel 1940, durante l'invasione tedesca. Analogamente, un piccolo gruppo di sceneggiatori firmarono molti dei film più significativi del decennio: in particolare, Charles Spaak (collaboratore di Feyder e Renoir) e Jacques Prévert (collaboratore di Renoir e Carné).

1931 - 1941
In aggiunta ai registi affermati che già lavoravano a Hollywood, l’introduzione del sonoro e la difficile situazione politica nel vecchio continente portarono agli studios molti nuovi registi di formazione teatrale o di origine europea.
Charles Chaplin fun uno dei più strenui avversari del cinema parlato.
Come produttore di se stesso e star di popolarità eccezionale, fu in grado di continuare a fare film “muti” più a lungo di chiunque altro a Hollywood.
La sua produzione, comunque, rallentò in modo considerevole e si limitò due lungometraggi senza dialoghi, “Luci della città” (City Lights, 1931) e “Tempi moderni” (Modern Times, 1936).
Nonostante l’argomento, quest’ultimo era molto divertente così come il primo film parlato di Chaplin “Il grande dittatore” (The Great Dictator, 1940), una imprevedibile commedia sulla germania nazista.
Josef von Sternberg aveva diretto in Germania “L’angelo azzurro”, il suo secondo film sonoro.
Tornato a Hollywood con la star del film, Marlene Dietrich, vi realizzò altri sei film, tutti con la sua attrice, tra cui “Marocco” (Morocco, 1930) e “Venere bionda” (Blonde Venus, 1932).
Nello stesso periodo Sternberg diresse anche film senza di lei, tra cui due cupi adattamenti letterari come “Una tragedia americana” (An American Tragedy, 1931) e “Ho ucciso!” (Crime and Punishment, 1935).
Ernst Lubitsch si adeguò rapidamente al sonoro con “Il principe consorte” e proseguì realizzando molti musical e popolari commedie. Fra queste va ricordata senza dubbio “Mancia competente”.
Lubitsch diresse anche Greta Garbo nel suo penultimo film, “Ninotchka” (1939), e assieme a “Il grande dittatore” il suo “Vogliamo vivere!” (To Be or Not to Be, 1942) fu una delle rare commedie sul nazismo.
John Ford continuò a essere notevolmente prolifico firmando ventisei film negli anni Trenta e molti altri nel decennio seguente, prima di arruolarsi in marina. Attivo soprattutto presso la 20th Century-Fox, diresse alcune delle star più popolari dello studio; realizzò una trilogia con Will Rogers (“Dr.Bull” (1933), “Il giudice” (1934), “Il battello pazzo” (1935)) e “Alle frontiere dell’India” (1937), un film in costume con Shirley Temple.
Nonostante la sua propensione per il western, ne girò uno solo durante questo periodo: ma si trattava di “Ombre rosse” (Stagecoach, 1939), che divenne un classico del genere.
Ford usò qui per la prima volta le irreali formazioni rocciose della Monument Valley, una scenografia naturale che sarebbe divenuta il suo marchio di fabbrica nei western successivi.
Quello stesso anno Ford diresse “Alba di gloria” e “Com’era verde la mia valle” (1941). Ford fu in grado di creare situazioni profondamente commoventi utilizzando il campo lungo o indugiando quietamente su una scena silenziosa mentre i personaggi riflettono su quanto è accaduto.
Howard Hawks, che aveva cominciato la sua carriera a metà degli anni Venti, solo ora potè affermarsi veramente. Come Ford, si cimentò in generi diversi, specializzandosi in un cinema asciutto nel racconto e nella recitazione e rivelandosi maestro del ritmo veloce e del montaggio contiguo.
Se “Ombre rosse” di Ford è il western per antonomasia, “La signora del venerdì” di Hawks è il modello cella commedia sonora.
William Wyler aveva esordito come regista di western a basso costo sul finire del periodo muto, ma la sua occasione arrivò nel 1936 quando iniziò a lavorare con il produttore indipendente Samuel Goldwyn. Dopo “La calunnia” (1936), Wyler diresse altri film degni di nota: tra questi “Figlia del vento” (1938), “La voce nella tempesta” e “Piccole volpi” (1941).
Il veterano Frank Borzage continuò a dirigere melodrammi sentimentali. “Addio alle armi” (1932) era l’adattamento del romanzo di Hemingway.
Al contrario, King Vidor continuò a frequentare una varietà di generi, dal western al melodramma. Il suo “Amore sublime” (Stella Dallas, 1937), remake di “Stella Dallas” di Henry King (1925), è un classico melò.
Anche Raoul Walsh lavorò in svariati generi e realizzò parecchi importanti film d’azione a cavallo tra gli anni Trenta e i Quaranta. “I ruggenti anni Venti” (1939) è un film di gangster che mette a confronto le vite di tre reduci della prima guerra mondiale. Il film “Una pallottola per Roy” (1940) segnò una svolta nella carriera di Humphrey Bogart.

1936 - 1945
L’introduzione del sonoro portò a Hollywood diversi registi teatrali di New York.
Tra questi c’era Gorge Cukor, che si specializzò in prestigiosi adattamenti letterari fra cui “Margherita Gautier” (1936) con Greta Garbo, e “David Copperfield” (1935), con W.C.Fields.
Durante questo periodo, Cukor lavorò soprattutto alla MGM.
Da Broadway veniva anche Rouben Mamoulian, che attirò l’attenzione con i fluidi movimenti di macchina del suo “Applauso” (1929).
Un altro regista venuto da Broadway fu Vincente Minnelli, che divenne specialista di musical.
Nel 1940 entrò nella divisione musical della MGM che, sotto il produttore Arthur Freed, avrebbe presto radunato alcuni dei migliori talenti musicali di Hollywood, da July Garland a Gene Kelly e Fred Astaire.
Il suo film più celebrato del periodo bellico fu “Meet Me in St.Louis” con Judy Garland.
Negli anni ‘30 Preston Sturges scriveva sceneggiature, ma passò alla regia con “Il grande McGinty” (1940) e “Il miracolo del villaggio” (1944).
Un altro sceneggiatore passato alla regia era John Huston. Huston passò gran parte della guerra sotto le armi e girò alcuni importanti documentari bellici prima del suo ritorno a Hollywood dopo il 1945.
Tra i registi emersi fra il 1930 e il 1945 colui che avrebbe avuto più influenza fu Orson Welles, che aveva già raggiunto il successo in numerosi altri campi.

1937 - 1945
I cineasti stranieri continuarono ad affluire a Hollywood. Se alcuni erano attratti dai salari più alti o dalla possibilità di lavorare negli studios meglio attrezzati del mondo, il diffondersi del fascismo in Europa e l’inizio della seconda guerra mondiale, aumentarono il numero di coloro che cercavano rifugio negli Stati Uniti.
Insoddisfatto della sua scarsa autorità in Inghilterra e affascinato dalle possibilità tecniche offerte da Hollywood, Alfred Hitchcock firmò un contratto con David O.Selznick: il suo primo film americano “Rebecca la prima moglie”, era un prestigioso adattamento letterario e vinse l’Oscar come miglior film, ma non rientrava pienamente nel genere suspense per cui il regista era famoso.
Tra i numerosi film da lui realizzati durante la guerra c’è “L’ombra del dubbio” (Shadow of a Doubt, 1943).
L’esordio tedesco a Hollywood iniziato nell’era del muto crebbe quando i nazisti presero il potere nel 1933.
Fritz Lang arrivò nel 1934, ma di rado ebbe il pieno controllo sui suoi progetti e non raggiunse mai il prestigio che aveva avuto in Germania. Lavorò in molti generi, realizzando western, film di spionaggio, melodrammi e film di suspense tra cui “Sono innocente” (You Only Live Once, 1937).
Altri due nuovi arrivati furono Billy Wilder e Otto Preminger.
Wilder era stato sceneggiatore in Germania e proseguì la carriera a Hollywood, lavorando in coppia con Charles Brackett su molte sceneggiature.
La sua prima regia fu “Frutto proibito” (1942); tre anni più tardi il suo cupo studio sull’alcolismo, “Giorni perduti” (1945) ottenne l’Oscar come miglior film.
Preminger, pur essendo ebreo, si trovò ad interpretare negli Stati Uniti il ruolo di perfidi nazisti. Riuscì comunque conquistare la sedia da regista nei primi anni Quaranta.

1932 - 1944
Molti generi dell’era del muto continuarono a vivere nel periodo sonoro. Tuttavia, i mutamenti tecnici del settore e più generalmente le trasformazioni sociali, provocarono il sorgere di nuovi generi e l’introduzione nei vecchi di alcune varianti.
L'introduzione del sonoro promosse il musical a un ruolo di primo piano. Alcuni dei primi musical "rivista" si limitavano a cucire insieme diversi numeri musicali; altri, come "La canzone di Broadway", raccontavano storie dietro le quinte di uno spettacolo, giustificando ciascun numero come esibizione dei personaggi. Esistevano anche musical-operetta, un esempio è "II principe consorte", che ambientavano le storie e i numeri musicali in luoghi di fantasia. Nei musical "integrati", canti e balli si svolgevano in ambienti comuni (spesso i musical "dietro le quinte" alternavano numeri integrati a quelli che si tenevano sul palcoscenico). Presto il musical "rivista" morì, ma tutti gli altri tipi rimasero in auge.
Un delizioso esempio del sottogenere "operetta" fu "Amami stanotte" (Lave Me Tonight, 1932) di Rouben Mamoulian. Il film inizia con una scena dove si sente l'influenza dei primi film sonori di René Clair: una strada parigina prende vita sul far del mattino e ogni rumore contribuisce a formare un ritmo che sfocia in un numero musicale. In una sequenza celebre, una canzone passa da persona a persona in una serie di scene legate da dissolvenze: il protagonista, un sarto, canta "Isn't It Romantic?", che è raccolta da un compositore il quale, a sua volta, la canta a soldati su un treno; quando costoro la cantano attorno al fuoco da campo, una zingara la sente e la suona per i suoi amici, finché il motivo raggiunge le labbra della protagonista, una principessa sul balcone del suo castello in provincia.
Il musical "dietro le quinte" fu reso ripico da una serie di film della Warner Bros, coreografati da Busby Berkeley. "Quarantaduesima strada" (42nd Street, di Lloyd Bacon, 1933) fissò molte convenzioni del genere: una ingenua corista diventa improvvisamente una star quando la solista si infortuna alla vigilia della prima di un grande spettacolo a Broadway. Il regista la incoraggia: "Non puoi sbagliare, non puoi perché da questo dipende il tuo futuro e il mio, e tutto ciò che noi tutti possediamo è puntato su di te. Adesso io ho finito, ma tu tieni i piedi per terra, e la testa sulle spalle e, Sawyer, tu esci di qui come una ragazzina, ma devi tornare come una star!". Naturalmente la ragazza diventa davvero una star e lo spettacolo sul palcoscenico include alcune delle complesse coreografie di Berkeley, realizzate montando la cinepresa su una piattaforma sospesa in cima a un braccio mecccanico.
I musical con Fred Astaire e Ginger Rogers, coreografati da Kermes Fan, erano tra i più popolari. In "Follie d'inverno" (Swing Time, di George Stevens, 1936), Astaire è un ballerino di vaudeville che corteggia Ginger Rogers, istruttrice di danza. Che avessero trame "dietro le quinte" o "integrate", i musical Astaire-Rogers erano sempre storie d'amore, e molti dei numeri di danza erano parte del corteggiamento della coppia: nonostante le iniziali incomprensioni e gli antagonismi, l'elegante armonia dei loro movimenti mostra che sono fatti l'uno per l'altra.
Nella stessa epoca anche la MGM diede al genere musicale il suo contributo. Mickey Rooney e Judy Garland fecero coppia in diversi film centrati su adolescenti impegnati a "montare" uno spettacolo, come "Musica indiavolata". Judy Garland divenne una star nella sfarzosa fantasia in Technicolor "Il mago di Oz", e uno dei suoi film migliori fu "Meet Me in St.Louis" di Minnelli. Un'altra star MGM la cui carriera iniziò in questo periodo fu Gene Kelly, il cui stile di danza era spesso chiassoso e atletico come nel numero Make Way fot Tomorrow in "Fascino" (Cover Girl, di Charles Vidor, 1944), per il quale Kelly fu "prestato" alla Columbia.

1934 - 1952
Nella screwball comedy, al centro della trama sono sempre romantiche coppie di eccentrici, ritratti spesso con toni da slapstick: anche per questo, i protagonisti sono di solito gente agiata, che può permettersi di comportarsi in modo bizzarro nonostante le avversità della Depressione. La coppia può all'inizio essere antagonistica, come in "Scandalo a Filadelfia" (The Philadelphia Story, 1940) di George Cukor, ma non sono rari gli amori che valicano le divisioni di classe: e i genitori ricchi vanno convertiti, come in "L'eterna illusione" (You Can't Take It Away with You, 1938) di Capra, o contrastati come in "Incantesimo" di Cukor.
La screwball comedy fu inaugurata nel 1934 da due film molto diversi. "Ventesimo secolo" (Twentieth Century) di Hawks tratta i suoi due protagonisti, Carole Lombard e John Barrymore, con assoluto cinismo: un impresario teatrale un po' gigione trasforma una bellissima commessa in una star e poi la seduce; ma presto lei adotta nella vita di tutti i giorni gli stessi atteggiamenti teatrali di lui, e la seconda metà del film, tutta ambientata su un treno, è una rassegna di liti e capricci. L'altra screwball comedy del 1934, "Accadde una notte", di Capra, è più sentimentale. La protagonista viziata che cerca di sfuggire a suo padre per sposare un superficiale playboy rese popolare il personaggio della "ereditiera testa matta": un reporter molto più concreto l'aiuta sperando in uno scoop, e i due si innamorano. L'immagine della donna ricca e viziata sarebbe stata portata agli estremi in "Susanna!" (Bringing Up Baby, 1938) di Hawks.
Il genere si sviluppò rapidamente, e Capra restò uno dei suoi esponenti migliori: nel suo "E' arrivata la felicità" (Mr. Deeds Goes to Town, 1936) un uomo di provincia diventa un idolo nazionale quando usa la sua inattesa eredità per aiutare contadini espropriati delle loro fattorie; avidi avvocati cercano di farlo dichiarare pazzo anche se, come Capra dimostra fin dall'inizio, egli è solo un eccentrico.
I primi film del genere parlavano della Depressione: in "Accadde una notte", il reporter vuole scrivere un articolo sull'ereditiera fuggitiva per riguadagnarsi il lavoro; il protagonista di "L'impareggiabile Godfrey" (My Man Godfrey, di Gregory La Cava,1936) si fa assumere come maggiordomo da una famiglia ricca ed eccentrica perché non ha una casa, e i personaggi del film citano spesso "i dimenticati", termine invalso durante la Depressione per indicare i disoccupati, molti dei quali erano reduci della prima guerra mondiale. Più in là nel decennio, comunque, le trame di molte screwball comedies abbandonarono i problemi sociali dell'epoca, specialmente quello della disoccupazione: in "Incantesimo" il protagonista sogna di lasciare il suo lavoro redditizio per trovare il vero scopo della sua vita; tutti i personaggi positivi del film apprezzano l'individualismo, disprezzando snobismo e ricchezza. "L'eterna illusione", un inno all'eccentricità, descrive una grande famiglia che accoglie in casa persone che abbandonano lavori squallidi per seguire i propri interessi personali.
Anche la commedia sulla guerra dei sessi continuò senza dare segni di stanchezza: in "Lady Èva" (The Lady Ève, 1941) di Preston Sturges, una truffatrice decide di ripulire giocando a carte il ricco erede di una famiglia che produce birra; invece i due si innamorano, ma quando lui scopre i trascorsi di lei e la rifiuta, lei giura vendetta. Analogamente, in "Colpo di fulmine" una cantante di night-club in fuga dalla legge inganna una congrega di professori ingenui e si innamora di uno di loro.
La screwball comedy fiorì tra il 1934 e il 1945. Sturges vi contribuì anche con il tardo e più amaro "Infedelmente tua" (Unfaithfully Yours, 1948), in cui un direttore d'orchestra si convince che sua moglie ha un amante e durante un concerto fantastica di ucciderla in tre modi diversi, ognuno legato a un brano musicale appropriato. Anche Hawks realizzò due screwball postbelliche: in "Ero uno sposo di guerra" (I Was a Male War Bride, 1948) un ufficiale francese patisce una serie di umiliazioni quando deve vestirsi da donna per accompagnare la sua fidanzata negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale; "Il magnifico scherzo" (Monkey Business, 1952) mostra invece i deliranti effetti di un siero della giovinezza su persone apparentemente rispettabili.

1932 - 1943
Nell'epoca del sonoro l'horror divenne un genere di primo piano. Alcuni film dell'orrore erano stati prodotti negli anni Venti, perlopiù dalla Universal, e solitamente con Lon Chaney. Lo schema di molti film futuri fu fissato nel 1927 dal popolare “Il castello degli spettri” (The Cat and the Canary, di Paul Leni), in cui un gruppo di persone si trova in un castello isolato per assistere alla lettura di un testamento.
La Universal rinnovò questi primi successi nel suo filone horror, a cominciare da “Dracula” di Tod Browning: anche se tradiva la sua provenienza dalla versione teatrale del romanzo originale di Bram Stoker del 1897, e pur soffrendo di alcune delle lentezze dei primi film sonori, il film fu un successo dovuto in gran parte all'interpretazione di Bela Lugosi nel ruolo principale. Poco dopo, “Frankenstein” di James Whale trasformò Boris Karloff in una star, grazie all'interpretazione del mostro con l'aiuto di un pesante trucco. Il ciclo horror della Universal raggiunse il clou fra il 1932 e il 1935: Whale diresse “La vecchia casa oscura” (The Old Dark House, 1932), che bilanciava suspense e commedia intrappolando un gruppo di eccentrici in una isolata casa di campagna nella proverbiale notte buia e tempestosa; e firmò anche “L'uomo invisibile” e “La moglie di Frankenstein” (The Bride of Frankenstein, 1935).
Uno dei più efficaci ed eleganti tra questi film fu “La mummia” (The Mummy), diretto nel 1932 da Karl Freund (l'operatore tedesco di "L'ultima risata" e di molte altre importanti opere del muto): la mummia di un antico sacerdote egiziano torna in vita ai giorni nostri e cerca di uccidere una donna che ritiene essere la reincarnazione della sua defunta amata. Negli anni seguenti, gli horror della Universal si appiattirono nella reiterazione delle formule.
Una seconda serie significativa di horror fu realizzata nei primi anni Quaranta dal reparto "B" della RKO per iniziativa del produttore Val Lewton, che ne divenne responsabile nel 1942. Sotto Lewton lavorava un manipolo di registi, Jacques Tourneur, Mark Robson e Robert Wise, ma il Traduttore riuscì a dare ai film un tono e uno stile uniforme: volgendo a loro vantaggio i limiti del budget ridotto, i film di Lewton evitavano l'ostentazione visiva di mostri e violenza, concentrandosi invece sulla minaccia di orrori invisibili. In “Il bacio della pantera” (Cat People, 1942), la protagonista è ossessionata da una pantera allo zoo e sembra avere il potere soprannaturale di trasformarsi in una belva assassina. Il film fu diretto da Tourneur, che firmò anche un'altra delle più efficaci produzioni del reparto di lewton, “Ho camminato con uno zombi” (I Walked with a Zombie, 1943).
Questi titoli erano scelti dallo studio e assegnati a Lewton, che con i suoi collaboratori riusciva a trarne film straordinariamente poetici e terrificanti.

1934 - 1947
La Depressione risvegliò l'interesse per i problemi sociali e molti film degli anni Trenta se ne occuparono, spesso adottando uno stile realistico ben lontano dai generi d'evasione che spesso si associano a questo periodo. Nel 1934, ad esempio, King Vidor girò “Nostro pane quotidiano” (Our Daily Bread), ritraendo un gruppo di disoccupati che organizzavano una cooperativa agricola. Nonostante vari problemi, fra cui quello della siccità, l'impresa si rivelava alla fine un successo. La scena del gruppo impegnato a scavare un lungo canale e a irrigare la terra usa montaggio e angolazioni di ripresa per creare un'esaltante immagine di trionfo collettivo che ricorda i film sovietici della stessa epoca.
La Warner Bros, era particolarmente impegnata nel cinema sociale. In “Io sono un evaso” un reduce della prima guerra mondiale è ingiustamente accusar di furto: durante la fuga cerca di impegnare la sua decorazione di guerra, ma gli vengono mostrate tutte le medaglie impegnate da reduci disoccupati. Alla fine del film scompare nella notte, spiegando con un'ultima battuta come vive ora: "Rubo", un'ironica allusione al fatto che il sistema legale l'ha spinto alla criminalità. “Wild Boys of the Road” (Ragazzi di strada, di William Wellman, 1933) mostrava invece le condizioni di bambini, orfani, abbandonati o senza tetto.
Fritz Lang fece uno dei migliori film di argomento sociale, “Furia” (Fury, 1936), sul tema del linciaggio: mentre è in viaggio per recarsi dalla sua fidanzata, il protagonista viene arrestato in una piccola città e accusati ingiustamente di omicidio; i cittadini danno fuoco alla prigione e lui viene dato per morto. In realtà è salvo, ma è amareggiato al punto da permettere quasi che i suoi aggressori vengano condannati per la sua morte, prima che la protagonista lo persuada a farsi avanti. Il film ci mostra operatori di cine-giornale che riprendono il tentato linciaggio: al processo, il materiale è usate come prova, obbligando gli imputati a riflettere sul peso delle loro azioni.
John Ford contribuì al cinema sociale con “Furore” (The Grapes of Wrath,1940), un adattamento del romanzo di John Steinbeck sui contadini dell'Oklahoma rovinati dalla Depressione: la famiglia Joad deve lasciare le proprie terre a causa della grande siccità che ha "ridotto in polvere" il terreno degli stati delle pianure. Mentre si dirigono in California in cerca di lavoro, i componenti della famiglia sono sfruttati come operai emigranti, prima di trovare una temporanea sistemazione in un campo governativo che evoca i benefici dell'amministrazione Roosevelt; ma verso la fine il protagonista se ne va per unirsi alla lotta per i diritti dei lavoratori, dicendo a sua madre: "Dovunque infuri una lotta perché la gente affamata possa mangiare, io sarò là".
Dopo l'entrata in guerra degli Stati Uniti, l'incremento dell'occupazione e la ritrovata prosperità ridussero la produzione di film sociali: il genere sarebbe resuscitato nel dopoguerra con film come “Barriera invisibile” (Gentleman's Agreement, di Elia Kazan, 1947) e “Odio implacabile” (Crossfire, di Edward Dmytryk, 1947).

1930 - 1938
II genere gangster era legato in qualche modo al cinema sociale. Anche se all'epoca del muto il cinema si era occupato sporadicamente delle bande di strada, il primo film importante imperniato su un gangster fu “Le notti di Chicago” di von Sternberg. Il genere guadagnò prestigio nei primi anni Trenta con “Piccolo Cesare” (Little Caesar, di Mervyn LeRoy, 1930), “Nemico pubblico” (The Public Enemy, di William Wellman, 1931) e “Scarface” di Howard Hawks, 1932: si trattava di film d'attualità, che traevano ispirazione dal crimine organizzato cresciuto durante il Proibizionismo (1920-1933), e che pian piano assimileranno i film polizieschi o di investigatori (un esempio, dello stesso Hawks, è "Il grande sonno" (The big sleep, 1946, a metà strada tra il giallo ed il noir).
I film di gangster erano centrati sull'ascesa al potere di criminali senza scrupoli, una progressione scandita da vestiti sempre più costosi e automobili potenti. “Nemico pubblico”, come altri film, fu molto criticato per la presunta glorificazione della violenza. Il Codice Hays proibiva di raffigurare in maniera positiva i criminali, ma i produttori si difendevano sostenendo di limitarsi a esaminare un problema sociale: il film inizia con un cartello che annuncia di voler "rappresentare onestamente un ambiente che esiste oggi in un certo strato della vita americana, e non glorificare teppisti o criminali".
Una soluzione narrativa ricorrente, e a cui fa ricorso anche “Nemico pubblico”, è quella del raffronto tra due uomini (amici o fratelli), uno dei quali si trova un lavoro onesto, mentre l'altro si da al delitto. Inoltre, tutti i protagonisti di questi film muoiono violentemente nel finale, così che gli studios potessero sostenere di aver dimostrato che il delitto non paga. Tom, in “Nemico pubblico”, è abbattuto da una banda rivale e il suo corpo è scaricato come un rifiuto davanti alla sua casa; analogamente, il protagonista di “Scarface” è ucciso durante una violenta sparatoria con la polizia. Tuttavia, i gruppi di opinione insistevano sul fatto che questi finali non fossero sufficienti a cancellare la raffigurazione del crimine come uno stile di vita movimentato ed eccitante: per queste ragioni l'uscita di “Scarface” fu ritardata e i produttori furono obbligati a inserire scene, non girate da Hawks, con poliziotti e politici che denigravano la forza e la violenza delle bande.
Gli studios si sforzarono di evitare la censura senza dover rinunciare all'eccitazione che il genere poteva garantire: ad attori strettamente identificati con ruoli criminali, come James Cagney e Edward G. Robinson, venivano affidati anche ruoli di poliziotti duri e violenti, come accade a Cagney in “La pattuglia dei senza paura” (G-Men, di William Keighley, 1935); la figura del gangster inoltre poteva divenire meno centrale e l'attenzione spostarsi su altri personaggi, come in “Strada sbarrata” (Dead End, di William Wyler, 1938) e “Angeli con la faccia sporca” (Angels with Dirty Faces, di Michael Curtiz, 1938). In quest'ultimo, due amici crescono diventando l'uno un gangster e l'altro un prete: nel finale, poiché alcuni ragazzi idolatrano il gangster, il prete lo persuade a fingersi terrorizzato prima essere giustiziato, in modo che essi restino delusi e non lo eleggano a modello di vita.

1940 - 1945
In qualche misura la narrazione cinica e violenta del film di gangster fu raccolta dal film noir. Nel 1946 questo termine fu assegnato dai critici francesi a un gruppo di film americani girati durante la guerra e distribuiti all'estero in rapida successione dopo il 1945: "noir" significa "nero" o "scuro" ma può anche voler dire "tenebroso". Per convenzione si ritiene che il noir, più simile a uno stile e a una tendenza narrativa che a un genere vero e proprio, nasca nel 1941 con “Il mistero del falco” di Huston o, ancor prima, col B-movie “Lo sconosciuto del terzo piano” (Stranger on the Third Floor, di Boris Ingster, 1940). La maggioranza dei noir raccontano delitti, ma la tendenza scavalca i generi e comprende opere di impegno sociale come “Giorni perduti” di Wilder e spy stories come “II prigioniero del terrore” (Ministry of Fear, 1944) di Lang.
Il noir deriva dal romanzo poliziesco hard-boiled americano, le cui origini risalgono agli anni Venti. In romanzi scabri e sensazionalistici come "Piombo e sangue" (Red Harvest, 1929) Dashiell Hammett si era contrapposto ai classici gialli inglesi e alle loro atmosfere posate, ambientate tra personaggi di classe elevata e in eleganti dimore di campagna; altri importanti autori hard-boiled erano Raymond Chandler, James M. Cain e Cornell Woolrich. Molti loro romanzi e racconti furono portati sullo schermo, a cominciare da “II falcone maltese” di Hammett, spesso con uno stile in cui si sentiva l'influenza dell'espressionismo tedesco, del realismo poetico francese e delle innovazioni stilistiche di “Quarto potere”.
Così come i loro modelli letterari, i noir si rivolgevano soprattutto a un pubblico maschile: gli eroi sono quasi sempre uomini, di solito investigatori o criminali, caratterizzati da pessimismo, insicurezza o da una visione del mondo fredda e distaccata. Le donne sono seducenti ma traditrici, spingono i protagonisti nel pericolo o li usano a fini egoistici. L'ambientazione classica è la grande città, specialmente in scene notturne: marciapiedi lucenti e bagnati di pioggia, vicoli oscuri e bar equivoci sono i luoghi tipici. Lo stile abbonda di angolazioni dall'alto o dal basso, luci soffuse, forti grandangoli e riprese in esterni, anche se capita che alcuni film noir contengano pochi di questi elementi.
“Il mistero del falco” fissò molte delle convenzioni del noir. Humphrey Bogart divenne una star di prima grandezza nel ruolo di Sam Spade, un investigatore privato che deve decidere se denunciare o meno l'infida donna fatale che lo ha assunto e che lui (forse) ama: in una lunga inquadratura lui le spiega amaramente perché deve mandarla in prigione e promette di aspettarla durante gli anni che dovrà scontare; la donna viene portata via dalla polizia in ascensore, mentre sul suo viso si disegna un'ombra che la marchia come il prototipo della dark lady.
Il debito del noir nei confronti del cinema tedesco degli anni Venti può essere in parte spiegato dal fatto che quattro registi europei furono tra i principali esponenti del genere. “Il dottor Mabuse” di Lang aveva anticipato il noir, e la sua carriera americana sviluppò questa tendenza: in “Il prigioniero del terrore”, ad esempio, il protagonista è rilasciato da un manicomio dove era stato rinchiuso per avere pietosamente ucciso la moglie malata; mentre aspetta il suo treno, si ritrova in una fiera di beneficenza e viene casualmente coinvolto in un intrigo di spie naziste. L'associazione tra Lang e il produttore Walter Wanger portò ad altri due notevoli noir del periodo bellico: “La donna del ritratto” (Woman in the Window, 1944) e “La strada scarlatta” (Scarlet Street, 1945). Robert Siodmak cominciò a fare film di serie B a Hollywood nel 1941, facendosi una reputazione nel noir nel 1944 con “La donna fantasma” (Phantom Lady) e “Quinto: non ammazzare” (The Suspect, 1945): dopo la guerra sarebbe stato l'esponente principale di questa tendenza con film come “I gangsters” (The Killers, 1946).
Un altro immigrato tedesco, Otto Preminger, raggiunse la fama con un importante noir: “Vertigine” (Laura, 1944) racconta di un poliziotto frustrato che indaga sull'omicidio di una sofisticata dirigente pubblicitaria e si innamora di lei attraverso il suo diario e il suo ritratto. I flashback, le vivide scene oniriche, i colpi di scena, furono un caso estremo di narrazione noir.
L'esempio forse migliore del noir di epoca bellica venne da un altro immigrato. La sceneggiatura di “La fiamma del peccato” (Double Indemnity, di Billy Wilder, 1944) nacque da una irripetibile combinazione di autori hard-boiled, con Raymond Chandler impegnato ad adattare un romanzo di James M. Cain: una donna seduce un assicuratore per fargli uccidere il marito, ma il piano porta al sospetto e al tradimento reciproco. Il film si dipana in una serie di flashback, mentre l'assicuratore, in punto di morte, parla in un dittafono confessando tutto a un suo amico, un investigatore della società assicurativa che è ormai sulle sue tracce. Molti tratti tipici del noir vi sono ben presenti: la venalità di entrambi i personaggi, la narrazione in voce over da parte dell'assicuratore, la cupa ambientazione urbana e una storia d'amore destinata a finire tragicamente. I noir erano l'unico genere di Hollywood che consentisse finali non lieti, anche se a volte si aggiungeva un lieto fine improvviso, e spesso poco convincente. “La fiamma del peccato” rispettò le convenzioni anche nelle luci, con le immagini spesso solcate da ombre di veneziane e di altri elementi della scenografia.

1930 - 1945
Tra il 1930 e il 1945 i film di guerra subirono grandi cambiamenti. La disillusione seguita alla prima guerra mondiale era sfociata in un pacifismo che dominò i film di tutti gli anni Trenta, e fino a Pearl Harbour la maggioranza dei cittadini americani si oppose all'entrata in guerra. “All'ovest niente di nuovo”, di Lewis Milestone, fu uno dei film più decisamente pacifisti, con un protagonista tedesco descritto con simpatia e destinato a morire tragicamente. Per tutto il decennio, la guerra fu dipinta come una insensata tragedia: la Warner Bros, fece due versioni di “La squadriglia dell'aurora” (The Dawn Patrol, di Howard Hawks, 1930; The Dawn Patrol, di Edmund Goulding, 1938, inedito in Italia), storia di un comandante che si tormenta per il fatto di dover spedire i suoi piloti a farsi uccidere. Anche il musical “La danza delle luci” (Gold Diggers of 1933, di Mervin LeRoy, 1933) contiene un numero, “Remember My Forgotten Man”, sui reduci della prima guerra mondiale impoveriti dalla Depressione.
Dopo Pearl Harbour, comunque, il cinema sostenne la causa bellica fino in fondo. I film di guerra erano vivaci e spesso mostravano americani di varie origini etniche uniti nel combattere l'Asse: in “Arcipelago in fiamme” (Air Force, di Howard Hawks, 1943), uomini provenienti dall'Europa orientale, dall'Irlanda, ebrei e altri, sono membri dell'equipaggio dello stesso bombardiere.
Molti film di guerra sui nazisti si limitavano a rappresentarli come assassini a sangue freddo; la propaganda contro i giapponesi, però, spesso aveva toni più razzisti, e sfruttava immagini stereotipate: in “Obiettivo Burma!” (Objective Burma, di Raoul Walsh, 1945), ad esempio, il protagonista conduce una squadra di paracadutisti a liberare una parte della Birmania dai giapponesi, i quali a un certo punto vengono definiti "scimmie" (un epiteto piuttosto comune durante la seconda guerra mondiale). In una scena si trovano alcuni cadaveri di soldati americani torturati e uccisi dai giapponesi, e un giornalista che fa parte del gruppo ricorda i molti orrori che ha visto nella sua carriera: "Ma questo, questo è diverso. Tutto ciò è stato fatto a sangue freddo da persone che... che pretendono di essere civilizzate. Civilizzati e degenerati idioti morali!... Spazzateli via! Spazzateli via dalla faccia della terra!".
Uno dei pochi film di guerra a mostrare meno entusiasmo fu “I sacrificati di Bataan" (The Were Expendable, di John Ford, 1945), storia dell'equipaggio di un torpediniere che combatte valorosamente ma viene sconfitto nelle Filippine: alcuni soldati vengono tratti in salvo ma altri, incluso uno dei protagonisti, devono restare indietro ed affrontare la cattura o la morte. Ford, che era stato in Marina ed era stato ferito mentre riprendeva materiale per il suo documentario “The Battle of Midway” (La battaglia delle Midway, 1942), realizzò per “I sacrificati di Bataan” molte scene realistiche di combattimento. Quanto al film, il regista avrebbe in seguito dichiarato: "Disprezzo quei finali ottimistici, con bacio conclusivo, non li ho mai fatti. Naturalmente quegli uomini si coprirono di gloria anche nella sconfitta nelle Filippine: continuarono a combattere". E di fatto “I sacrificati di Bataan” presentava un'immmagine senza fronzoli dell'eroismo.

1946 - 1967
Gli Stati Uniti uscirono dalla seconda guerra mondiale in condizioni di prosperità: l'industria bellica aveva consentito a chi vi lavorava stipendi discreti, ma le occasioni di spendere erano state poche. Al loro ritorno molti militari si sposarono o ritrovarono le loro mogli, preparandosi a fare figli e acquistare beni di consumo. Il tasso di natalità, già cresciuto durante la guerra, ebbe un'impennata, tanto che la nuova generazione sarebbe stata ricordata come quella del "baby boom".
I Paesi europei — vincitori e vinti — dovevano affrontare la ricostruzione; tutte le infrastrutture del Giappone erano ridotte a macerie. Gli Stati Uniti assunsero così il ruolo di superpotenza mondiale, aiutando i propri alleati e gli ex nemici. L'Unione Sovietica intanto affermava la propria autorità: nel 1946, mentre Stalin cominciava a muoversi per mantenere il controllo sui Paesi dell'Est europeo conquistati durante la guerra, Winston Churchill dichiarò che una "cortina di ferro" divideva l'Est dall'Ovest. Nel 1949 il volto della Cina fu cambiato dalla rivoluzione di Mao Tse-tung e i sovietici effettuarono il loro primo esperimento con armi atomiche. Sembrava che stesse iniziando una nuova era di imperialismo russo.
Il presidente Truman adottò una politica di "contenimento", contrastando in tutto il mondo l'influenza sovietica: dal 1950 al 1952 gli Stati Uniti lottarono a fianco delle truppe sudcoreane contro il Nord comunista in una incerta guerra civile. Unione Sovietica e Stati Uniti si sarebbero contesi con ogni mezzo l'influenza sulle nazioni non allineate, in una guerra fredda destinata a durare quasi cinquant'anni.
Il timore dell'espansione del controllo comunista sul mondo portò negli Stati Uniti un clima di sospetto politico: sul finire degli anni Quaranta i servizi segreti avviarono indagini su individui sospettati di essere spie o sovversivi e una commissione del Congresso si dedicò a ricerche sulle infiltrazioni comuniste nel governo e nel mondo degli affari. Sotto la presidenza di Dwight Eisenhower (1953-1961) la politica fu dominata dalla guerra fredda.
Tuttavia, anche se il governo USA cercava di creare un fronte unico contro il comunismo, la società americana parve frammentarsi in distinti segmenti demografici. Un gruppo importante era ad esempio quello dei teen-ager, che avevano denaro per acquistare automobili, dischi, vestiti e biglietti del cinema: l'aumentare della criminalità minorile fece emergere anche l'immagine del giovane delinquente. Anche il movimento per i diritti civili accelerò il passo, soprattutto sotto la guida pacifista di Martin Luther King jr. Nel 1954 la Corte Suprema mise fine alla discriminazione legale negli istituti scolastici.
Gli effetti di questa lotta emersero negli anni Sessanta sotto la presidenza prima di John F. Kennedy e poi di Lyndon B. Johnson: entrambi operarono scelte più liberali di politica interna (Johnson ne parlava come della "Great Society"), tra cui l'approvazione nel 1964 della legge sui diritti civili. La "lotta contro la povertà" di Johnson portò all'istituzione di programmi di lavoro-studio nei college e alla creazione dei Corpi di Lavoro. Naturalmente non si trascurava l'impegno nel contenimento del comunismo: negli anni Cinquanta gli Stati Uniti iniziarono a sostenere la lotta francese contro le forze comuniste di Ho Chi Minh in Vietnam, e nel 1963 entrarono direttamente nel conflitto. Nei successivi nove anni gli Stati Uniti avrebbero inviato centinaia di migliala di soldati in una guerra sempre più impopolare.

1946 - 1957
L'industria del cinema doveva affrontare anche problemi economici. Nell'immediato dopoguerra le prospettive sembravano eccellenti: i reduci dal fronte e i lavoratori ben pagati cominciarono a spendere a ritmi mai visti prima acquistando i beni di consumo che le catene di montaggio avevano ricominciato a sfornare e affollando in massa le sale cinematografiche. Gli incassi del 1946 furono i più alti nella storia del cinema americano e, se aggiornati all'inflazione, restano probabilmente i più alti di tutti i tempi.
Anche il mercato internazionale di Hollywood si stava allargando. Verso la fine della guerra gli studios trasformarono la divisione estera della MPPDA in una nuova organizzazione commerciale, la Motion Picture Export Association of America (MPEAA). La MPEAA era responsabile del coordinamento delle esportazioni americane: negoziava i prezzi e assicurava che Hollywood si presentasse sui mercati internazionali come un fronte unico. Il governo, considerando il cinema come la migliore propaganda per la democrazia americana, assisteva l'esportazione di film tramite iniziative del Ministero del commercio e pressioni diplomatiche.
Molti Paesi approvarono leggi protezionistiche che fissavano quote, sussidi alla produzione e restrizioni all'esportazione di valuta, con esiti alterni. Nel 1947 la Gran Bretagna impose una tassa addizionale sui film importati e la MPEAA rispose annunciando che le major non avrebbero più offerto al Paese nuovi film: un boicottaggio che vinse la resistenza in otto mesi, costringendo il governo inglese a revocare il provvedimento e a permettere l'esportazione di percentuali maggiori di incasso negli Stati Uniti. Altrove, i tentativi protezionistici si risolvevano spesso nel rafforzamento del dominio americano: le società USA esportavano i guadagni in modo indiretto, investendo in film stranieri e importandoli negli Stati Uniti. In altri casi Hollywood spendeva fondi "congelati" girando film nei Paesi che impedivano l'esportazione di valuta, evitando fra l'altro l'alto costo del lavoro negli Stati Uniti.
Mentre alcuni Paesi si sforzavano di ricostruire l'industria interna, Hollywood potenziava l'esportazione: prima della guerra, circa un terzo degli incassi del cinema americano proveniva dall'estero, ma a metà degli anni Sessanta la percentuale raggiunse il 50%, proporzione che da allora è rimasta costante.
Dopo il 1946, però, le fortune di Hollywood sul mercato interno subirono una battuta d'arresto: i 98 milioni di spettatori settimanali del 1946 calarono inesorabilmente ai 47 milioni del 1957, costringendo alla chiusura circa quattromila sale. La produzione e i profìtti crollarono e una delle "cinque grandi" — la RKO — passò di mano diverse volte (fu controllata, fra l'altro, da Howard Hughes) prima di cessare l'attività nel 1957. Che cosa aveva provocato la fine dell'età aurea degli studios, iniziata sotto ottimi auspici negli anni Dieci?
Dopo la guerra, l'industria cinematografica dovette affrontare due sfide che ne avrebbero radicalmente trasformato la struttura: la prima fu un processo giudiziario che alterò per sempre il modo di fare affari a Hollywood; la seconda fu il profondo cambiamento nelle abitudini degli spettatori americani.

1950 - 1954
L'immagine televisiva dei primi anni Cinquanta era piccola, opaca e in bianco e nero e i produttori — nel tentativo di strappare gli spettatori ai loro salotti e riportarli al cinema — puntarono sull'aspetto e sul suono dei loro film.
Il colore era il modo più ovvio per differenziare i film dalla televisione: nei primi anni Cinquanta la quantità di film a colori a Hollywood balzò dal 20 al 50%. Molti utilizzavano il Technicolor, il complesso sistema a ttipla pellicola perfezionato negli anni Trenta, ma il monopolio della Technicolor portò i produttori indipendenti a protestare per l'accesso privilegiato che la società riservava agli studios: nel 1950 una sentenza obbligò la Technicolor a rendere i suoi servizi accessibili a tutti. Quello stesso anno però, la Eastman introdusse una pellicola a colori monostriscia (monopack): l'Eastman Color poteva essere utilizzata con qualsiasi cinepresa ed era facile da sviluppare. La Technicolor smise di produrre pellicola nel 1955, ma continuò a preparare le copie per la distribuzione col suo procedimento di imbibizione fino al 1975.
La semplicità dell'emulsione monopack della Eastman contribuì ad aumentare il numero di film girati a colori, che raggiunsero praticamente la totalità nel 1967: la diffusione del Tv-color fu decisiva in questo senso, poiché gli studios dipendevano sempre più dalla vendita dei diritti d'antenna e i network televisivi preferivano trasmettere film a colori.
All'Eastman Color mancavano la ricchezza satura dei colori, le ombre trasparenti e il nitore dei dettagli Technicolor, ma molti operatori erano convinti che la pellicola monopack avesse una resa migliore sul formato panoramico in voga in quel periodo. Sfortunatamente i colori dell'Eastman Color tendevano a sbiadire — soprattutto se il girato era stato sviluppato frettolosamente: già nei primi anni Settanta molte copie e negativi avevano assunto ormai un colore rosa creta o un rossastro.
All'epoca, comunque, i film a colori offrivano qualcosa di molto diverso dalla televisione. Lo stesso valeva per le immagini più grandi: fra il 1952 e il 1955 apparvero - o meglio riapparvero, visto che erano stati già tutti sperimentati all'inizio dell'epoca del sonoro — numerosi formati panoramici.
Il Cinerama, un sistema a tre proiettori che creava un'immagine su più pannelli, apparve nel 1952: "This Is Cinerama" era un documentario che accompagnava il pubblico in una corsa sull'ottovolante, in un volo attraverso il Grand Canyon e in altre scene da brivido. Proiettato per oltre due anni in un unico cinema di New York con un biglietto d'ingresso particolarmente costoso, il film incassò quasi 5 milioni di dollari.
Meno complesso era il Cinemascope, introdotto dalla 20th Century-Fox e usato per la prima volta in "La tunica" (The Robe, di Henry Koster, 1953) che divenne uno dei formati panoramici più popolari perché utilizzava una normale pellicola 35mm e ottiche piuttosto semplici. Fu adottato praticamente da tutti: solo la Paramount insistette con il proprio sistema, il Vistavision, introdotto in "Bianco Natale" (White Christmas, di Michael Curtiz, 1954). Più avanti sarebbero arrivati sistemi basati su pellicola 70mm.
Dopo il 1954 praticamente tutti i film hollywoodiani erano concepiti per essere proiettati in un formato superiore all'1,37:1. Hollywood continuò a girare molti film con il rapporto Academy, ma i proiezionisti dovevano utilizzare un mascherino davanti al proiettore per creare sullo schermo un'immagine panoramica. Per competere con l'America, le principali cinematografie straniere svilupparono i loro propri sistemi panoramici con lenti anamorfiche, tra cui il Sovscope (in URSS), il Dyaliscope (Francia), il Techniscope (la Technicolor italiana), lo Shawscope (Hong Kong) e il Tohoscope (Giappone).
Simili immagini richiedevano schermi più larghi, una proiezione più luminosa e modifiche nella progettazione stessa delle sale. I produttori esigevano anche suono stereofonico su base magnetica. Durante i primi anni Cinquanta, gli studi di Hollywood si convertirono gradualmente dalla registrazione ottica del suono - introdotta sul finire degli anni Venti - a quella su pista magnetica, con nastri da un quarto di pollice o banda magnetica 35mm. Queste innovazioni permisero ai tecnici di esaltare le proiezioni in formato panoramico con un suono su più piste. Il Cinerama utilizzava sei piste, mentre il Cinemascope ne usava quattro. Ma la spesa aggiuntiva e la convinzione che il pubblico prestasse più attenzione all'immagine che al suono scoraggiarono molti esercenti dall'installare proiettori con suono magnetico e sistemi stereo a più piste: anche se musiche, dialoghi ed effetti sonori dei fim erano registrati su nastro magnetico durante le riprese, la maggior parte delle copie distribuite utilizzavano la traccia ottica.
Altre innovazioni del periodo furono mode passeggere. I film stereoscopici — o 3-D — erano un'idea con cui ci si era baloccati fin dalle origini del cmema, e riapparvero durante la crisi del dopoguerra. "Bwana Devil" (di Arch Oboler, 1952) utilizzava il Natural Vision, un sistema che richiedeva due pellicole proiettate una sopra l'altra: lo spettatore indossava occhiali polarizzati che univano le due immagini in una sensazione di profondità. Il film attrasse molto pubblico trascinando tutti gli studios a lanciare progetti 3-D, più importanti dei quali furono "La maschera di cera" (House of Wax, di Andre de Toth) e "Baciami, Kate!" (Kiss Me Kate, di George Sidney), entrambi del 1953, e "Il delitto perfetto" (Dial M for Murder, di Alfred Hitchcock) del 1954. Comunque, la moda si era già esaurita. Ancor meno durò il tentativo di arricchire i film con gli odori: nel 1958 apparvero l'AromoRama e lo Smell-O-Vision, ma l'accoglienza fu decisamente sfavorevole. Sia i metodi stereoscopici che olfattivi sono stati ripresi sporadicamente in seguito, sempre come occasionale novità.

1954 - 1959
Con la riduzione del numero di film prodotti dai grandi studios di Hollywood, la produzione indipendente acquistò uno spazio maggiore. Gli indipendenti assumevano il personale necessario alla realizzazione di un film volta per volta, creando un "pacchetto" con il quale ottenere i finanziamenti; una volta realizzato, il film era perlopiù distribuito da una delle "cinque grandi" o delle "tre piccole". Anche le grandi società avevano scoperto che riducendo il numero di attori e di registi tenuti sotto contratto era possibile ridurre le spese, e sempre più spesso i loro listini furono rimpolpati dall'acquisto di film indipendenti: nel 1954 la MGM era rimasta l'unica a produrre tutti i suoi film. All'inizio del 1959, circa il 70% della produzione era costituita da film indipendenti; negli anni Sessanta la percentuale raggiunse la quasi totalità dei film, mentre gli studios si dedicavano soprattutto a serie televisive.
L'esplosione della produzione indipendente era frutto di una strategia più ampia dei produtori, che rispondevano alla fuga del pubblico concentrandosi su settori specifici della popolazione. Prima degli anni Cinquanta, la maggioranza delle produzioni degli studios erano pensate per un pubblico familiare: ora cominciavano ad apparire con sempre maggiore frequenza film destinati agli adulti, ai ragazzi o agli adolescenti.
Puntando su queste ultime due categorie, la Disney avviò la produzione di film con personaggi reali proponendo classici d'avventura (L'isola del tesoro, Treasure Island, di Byron Haskin, 1950), riduzioni di romanzi per ragazzi (Zanna Gialla, Old Yeller, di Robert Stevenson, 1957) e commedie fantastiche (Un professore fra le nuvole, The Absent-Minded Professor, di Robert Stevenson, 1961). Relativamente a basso costo, questi film figuravano regolarmente ai vertici delle classifiche d'incasso.
A metà degli anni Cinquanta, quando gli spettatoti nati durante la seconda guerra mondiale iniziarono a far sentire il loro peso ai botteghini, il mercato dei film per gli adolescenti esplose; i musical rock, le storie di delinquenza giovanile, la fantascienza e l'orrore attiravano i più giovani, e case di produzione come la AIP erano pronte a condurre le danze. Gli studios risposero con commedie giovanilistiche "pulite" come le storie d'amore con Pat Boone. La fiorente cultura giovanile americana - centrata su seratine romantiche, musica pop, auto truccate e fast tood - cominciò a essere esportata in tutto il mondo influenzando il cinema degli altri Paesi. Dagli anni Sessanta in poi il mercato giovanile divenne il target principiile per la maggior parte dei film di Hollywood, e ben pochi film riuscirono a sfondare senza farvi appello.
La tattica del target individuato su base demografica fece nascere anche nuovi tipi di fruizione. Anche se fin dagli anni Venti esistevano piccole sale specializzate in film stranieri, il pubblico d'essai divenne una realtà considerevole dopo la guerra. Un particolare decreto (C.I. Bill) facilitò per migliala di reduci l'accesso all'università, creando un pubblico più maturo e istruito — che spesso aveva conosciuto l'Europa durante la guerra — per il quale i film artistici avevano una certa attrattiva.
L'industria del cinema aveva ottimi motivi finanziari ptr aumentare le importazioni di film: il cinema americano aveva invaso nazioni con cinematografie debilitate e molti governi ponevano limiti alla quantità di denaro che era consentito esportare. Le società americane dovevano dunque reinvestire i profitti nello stesso Paese o acquistare sul posto beni di consumo e l'importazione di film si rivelò un buon metodo per trasferire i profitti legalmente.
Inoltre, col declino della produzione americana, l'importazione di film offriva alle sale meno importanti abbondanza di materiale a basso costo: alcune sale indipendenti alle prese col calo degli spettatori scoprirono un nuovo pubblico proiettando film d'essai e facendo appello al gusto dell'elite locale. Fra l'altro, i film stranieri non venivano trasmessi alla televisione, e si trattava dunque di una nicchia di mercato priva di concorrenza.
Ancora nel 1950 non esistevano più di 100 cinema d'essai in tutti gli USA, ma a metà degli anni Sessanta si contavano oltre 600 sale, concentrate perlopiù nelle grandi città o nelle cittadine universitarie. Si trattava di solito di piccoli locali decorati con uno stile moderno che faceva appello a un pubblico istruito. Spesso le vetrine esponevano oggetti d'arte e il banchetto dei rinfreschi offriva più facilmente caffè e torta che analcolici e pop-corn.
"Ombre, The Coll World" e simili produzioni indipendenti americane trovarono una distribuzione nei cinema d'essai, che però prediligevano il cinema europeo. Il flusso delle importazioni iniziò subito dopo la guerra, sulla scia degli alti incassi di "Roma città aperta" di Roberto Rossellini, distribuito nel 1946. "Dies Irae" (Vredens Dag, di Carl T. Dreyer, 1940), "Amanti perduti" (Les enfants du paradis, di Marcel Carné, 1945) e "Ladri di biciclette" (di Vittorio De Sica, 1948) furono tra i molti film che abituarono gli spettatori americani ai sottotitoli. Le importazioni erano dominate in gran parte dal cinema inglese: "Scarpette rosse" (The Red Shoes, di Michael Powell e Emeric Pressburger, 1948) uscì dal circuito d'essai per diventare uno dei maggiori successi del 1948. Negli anni Cinquanta alcuni film stranieri provenienti da Paesi in cui le maglie della censura erano meno strette fecero del sesso un'attrazione per i cinema d'essai: "Piace a troppi" (...Et Dieu crea la femme, di Roger Vadim, 1956) rese Brigitte Bardot famosissima negli Stati Uniti. Molto spesso il tono "sofiticato" dei film importati era dovuto più a un soggetto audace che a una forma complessa o alla profondità dei temi.
Un'altra interessante alternativa per gli esercenti in crisi erano i drive-in: il proprietario non aveva bisogno di un costoso edificio ma soltanto di uno schermo, di un altoparlante da due soldi per ogni posto macchina, di un banchetto per le bevande e della biglietteria. Il terreno agricolo costava relativamente poco e il fatto che di solito il drive-in sorgesse subito fuori città lo rendeva accessibile alla popolazione della periferia. Ora la gente che frequentava di rado le grandi sale del centro poteva vedere un film senza tanti problemi. Fra l'altro, il biglietto era a buon mercato, dato che i film erano spesso seconde e terze visioni.
Il primo drive-in era nato nel 1933, ma nel 1945 ne esistevano appena due dozzine in tutto il Paese. Nel 1956 ne funzionavano più di 4000, una cifra che grosso modo coincide col numero di sale che avevano chiuso nel dopoguerra. Nei primi anni Cinquanta, circa un quarto degli incassi totali proveniva dai drive-in.
La visione offerta dai drive-in era tutt'altro che ottimale: gli altoparlanti nelle auto emettevano un suono atroce, spesso la pioggia offuscava l'immagine e il clima rigido costringeva gli esercenti a chiudere durante l'inverno o a fornire (deboli) stufette. Ma l'idea incontrò il favore del pubblico giovane: nonostante il costo ridotto del biglietto, molti gestori proiettavano due o anche tre film; i genitori potevano portare con sé i bambini e risparmiare il costo di una babysitter. Inoltre, il fatto che fosse possibile alzarsi durante il rilm senza inciampare nei vicini incrementava in misura notevole i guadagni del banchetto dei pop-corn. Alcuni drive-in si specializzarono in film per giovani e la prospettiva di condividere un sedile anteriore, al buio, per alcune ore attirava molte coppie di adolescenti.

1947 - 1967
Anche se la base industriale di Hollywood cominciava a sgretolarsi, lo stile classico rimaneva il principale modello di racconto. Anche e soprattutto dopo alcune importanti innovazioni nel dopoguerra.
La trama di "Quarto potere" (Citizen Kane, di Orson Welles, 1941) aveva una complessità rara nel cinema sonoro di Hollywood e creò la moda della tecnica narrativa soggettiva. La tendenza si intensificò nel decennio del dopoguerra: tutta la prima parte di "La fuga" (Dark Passage, di Delmer Daves, 1947) è visualizzata esclusivamente attraverso gli occhi del protagonista; in "Nelle tenebre della metropoli" (Hangover Square, di John Brahm, 1945) una musica distorta suggerisce l'immaginazione delirante di un musicista soggetto a raptus che lo spingono a strangolare donne, mentre "Anime in delirio" (Possessed, di Curtis Bernhardt, 1947) esprime la discesa nella follia di una donna attraverso rumori esagerati. "Una donna nel lago" (The Lady in the Lake, di Robert Montgomery, 1946) è girato interamente in "soggettiva" del detective Philip Marlowe: i personaggi baciano o prendono a pugni la macchina da presa e durante tutta la sua inchiesta Marlowe è visibile a noi spettatori quando ne cogliamo l'immagine in uno specchio. Film di questo tipo si basano su tecniche di ripresa e di regia esplorate dall'impressionismo francese e dall'espressionismo tedesco.
Analogamente, la costruzione narrativa divenne più intricata: la struttura "investigativa" di "Quarto potere", interrotta da flashback di persone che rievocano gli avvenimenti del passato, divenne un modello. Alcuni film introdussero sperimentazioni nell'uso del flashback: "Odio implacabile" (Crossfire, di Edward Dmytryk, 1947) e "Paura in palcoscenico" (Stage Fright, di Alfred Hitchcock, 1950), ad esempio, includono flashback che lo spettatore scopre in seguito essere bugie; il melodramma "Il segreto del medaglione" (The Locket, di John Brahm, 1946), in cui un marito cerca di scoprire il passato di sua moglie, contiene un flashback nel flashback nel flashback.
Nessuna di queste innovazioni minò le basi della narrazione cinematografica classica — una catena di cause ed effetti centrata su un protagonista, un percorso "lineare" verso la coerenza e la conclusione. Per la verità, il fatto che gran parte di questi esperimenti sul tempo narrativo avessero a che fare con delitti da spiegare o misteri da sciogliere suggerisce di cercare nelle convenzioni del genere i motivi della predilezione per strutture complesse. Le acrobazie temporali divennero ancora più estreme durante gli anni Sessanta nei film influenzati dal cinema d'autore europeo, come in "L'uomo del banco dei pegni" di Sidney Lumet.
Mentre alcuni registi esploravano strategie narrative complesse, altri
abbracciavano un nuovo realismo nell'ambientazione, nelle luci e nella narrazione stessa. La tendenza alle riprese in location — iniziata durante la guerra quando il governo aveva imposto un limite di spesa alla costruzione dei set — continuò ad esempio nel semidocumentario, di solito un giallo d'investigazione o d'azione che ambientava un racconto di fantasia in luoghi reali ed era spesso ripreso con le apparecchiature leggere perfezionate durante la guerra: "Il 13 non risponde" (13 rue Madeleine, di Henry Hathaway, 1947) e "La città nuda" (The Naked City, di Jules Dassin, 1948) furono girati faretti portatili per illuminare le stanze in cui era ambientala l'azione; "La spia" (The Thief, di Russel Rouse, 1952) fu girato a Washington e a New York spesso nascondendo la macchina da presa: un'inquadratura, realizzata con la cinepresa su un carretto, durava per cinque isolati. Questi film, basati su fatti realmente accaduti, erano spesso commentati da una tonante voce fuori campo che evocava i documentati bellici e e le radiocronache.
Una complessa narrazione a flashback e il sapore semidocumentario talvolta convivevano nello stesso film: "Viale del tramonto" (Sunset Boulevard, di Billy Wilder, 1950), la cui trama è raccontata fuori campo da un uomo morto, utilizza le vere scenografie di Hollywood. Uno degli esempi più articolati di artificio nel semidocumentario è "Rapina a mano armata" (The Killing, 1956) di Stanley Kubrick, nel quale un gruppo di uomini compie in un ippodromo una rapina organizzata su un minuzioso calcolo dei tempi. Kubrick ci offre di fatto immagini da cinegiornale della pista e delle corse, con un'asciutta voce "divina" fuori campo che indica il giorno e l'ora di molte scene, ma manipola il tempo in modo assai complesso: il film ci mostra una parte della rapina, poi fa un passo indietro per mostrare gli eventi che hanno portato a quella fase; e, poiché segue l'azione da diversi punti di vista, il film mostra gli stessi eventi più volte.
"Quarto potere" aveva rafforzato l'uso di inquadrature lunghe e immagini composte in profondità: queste tecniche, già accolte durante la guerra, divennero ancor più importanti sul finire degli anno Quaranta e nei primi Cinquanta. Ora si potevano girare scene in un'unica inquadratura (il cosiddetto piano sequenza) con fluidi movimenti di macchina facilitati dai nuovi dolly "crab" che consentivano di muoversi liberamente in qualsiasi dirczione. Fu inoltre largamente imitata la vivida profondità di fuoco che era stata un marchio di fabbrica di Welles e Toland.
Molte di queste innovazioni erano associate al noir, lo stile "dark" che continuò a imperare fino alla fine degli anni Cinquanta. I direttori della fotografia più audaci spinsero l'illuminazione in chiaroscuro all'estremo. I Noir divennero sempre più sfacciatamente barocchi, con inquadrature inclinate e più livelli di quinte visive. Questi sviluppi stilistici furono talmente al centro dell'attenzione da diventare oggetto di parodia: "Susanna ha dormito qui" (Susan Slept Here, di Frank Tashlin, 1954) si burla del racconto per flashback facendo narrare il film dalla statuetta dell'Oscar; il balletto "Girl Hunt" nel musical "Spettacolo di varietà" (The Band Wagon, di Vincente Minnelli, 1953) e "Sherlocko..investigatore sciocco" (It's Only Money, di Frank Tashlin,1962) prendono invece in giro gli eccessi dei film noir.
Nei film drammatici in bianco e nero, l'illuminazione cupa continuò anche negli anni Sessanta, ma i film di altri generi preferivano un look più chiaro e luminoso: la maggior parte dei melodrammi, dei musical e delle commedie degli anni Cinquanta evitavano il chiaroscuro. La fotografia con profondità di fuoco continuò a essere utilizzata negli anni Sessanta nei film in bianco e nero, ma quelli a colori di solito sceglievano immagini più piatte; comunque, per qualche tempo, la stupefacente profondità di fuoco di Welles si rivelò impossibile da ottenere con le lenti anamorfiche del Cinemascope.
A metà degli anni Sessanta, sotto l'influenza di movimenti come il cinema diretto e la Nouvelle Vague, i direttori della fotografia iniziarono a usare lenti a focale lunga per appiattire lo spazio dell'immagine e per sfumare e ammorbidire i contorni. Il teleobiettivo divenne così più comune del grandangolo: nel 1962 Arthur Penn sceglieva in "Anna dei miracoli" (The Miracle Worker) immagini nitidissime e un'illuminazione tagliente, ma cinque anni dopo utilizzava le focali lunghe per le immagini più appiattite a colori del suo "Gangster Story" (Bonnie and Clyde).
Nello stesso periodo, in contrasto con la tendenza al piano sequenza degli anni dell'immediato dopoguerra, i registi cominciarono a usare un montaggio più spettacolare e veloce: "Tutti per uno" (A Hard Day's Night, 1964) e "Aiuto!" (Help!, 1965) di Richard Lester frantumavano i numeri musicali dei Beatles in dozzine di inquadrature senza continuità. La bizzarra tecnica di Lester derivava più dalla pubblicità televisiva e dalla commedia eccentrica inglese che dal montaggio sovietico o dalla Nouvelle Vague francese. Il montaggio veloce divenne ancora più popolare con "Dolci vizi al foro" (A Funny Thing Happened on the Way to thè Forum, Richard Lester, 1966), "Il laureato" (The Graduate, di Mike Nichols, 1967) e "Gangster Story".
I film di Lester crearono la moda di scene non parlate, spesso composte da un montaggio di varie scenette, legate da canzoni pop. L'esempio più famoso è forse il modo in cui le parole di Simon & Garfunkel nella colonn sonora di "Il laureato" commentano lo straniamento del protagonista. L'integrazione di intere canzoni nelle scene d'azione di praticamente tutti generi divenne una caratteristica del cinema americano degli anni Sessanta: gli studi cinematografici si legarono alle etichette musicali, scoprirono potenzialità della propaganda reciproca tra film e dischi e fecero delle colonne sonore una nuova fonte di profitti. Questa tendenza sarebbe proseguii fino agli anni Novanta, quando ptaticamente ogni film avrebbe obbligatoriamente incluso musica rock, quanto meno nei titoli di coda.

1955 - 1967
Con l'accresciuta competizione su ogni dollaro speso in divertimenti, le principali case di produzione diedero a quasi tutti i generi una mano di vernice, anche perché alla riduzione del numero di film prodotti corrispondeva lo sforzo di offrire sempre qualcosa in più che consentisse di spiccare sulla concorrenza. I capi degli studios potenziarono la spettacolarità con le star più famose, con scenografie e costumi sfarzosi, con il colore e con lo schermo panoramico e anche i generi minori beneficiarono degli sforzi per trasformare sceneggiature di serie B in film di serie A.
Il western del dopoguerra fu incanalato sui binari del "filmone" da David O. Selznick con "Duello al sole" (Duel in the Sun, di King Vidor, 1945). Molti registi furono licenziati durante le riprese di questa torrida saga di passioni in Technicolor, prima che King Vidor la portasse a termine: il film ottenne ottimi incassi e fissò lo standard per i successivi "Il fiume rosso" (Red River, di Howard Hawks, 1948), "Il cavaliere della valle solitaria" (Shane, di George Stevens, 1953), "Il grande paese" (The Big Country, di William Wyler, 1958) e altri western monumentali.
Anche alcuni western più modesti si avvalsero di mezzi sfarzosi, della maturità e varietà di registi e interpreti, di un nuovo modo di raccontare e di temi complessi. Il genere aiutò John Wayne e James Stewart a consolidare la loro popolarità nel dopoguerra: Stewart accumulò una fortuna con la parteciazione agli utili di un ciclo di film di Anthony Mann, iniziato con "Winchester '73" (ld., 1950). La fotografia a colori rafforzò i maestosi scenari di "Lo sperone nudo" (The Naked Spur, 1953) di Mann e la ricchezza dei costumi in "Un dollaro d'onore" (Rio Bravo, 1959) di Hawks. Allo stesso tempo le trame incorporavano tensioni psicologiche e sociali: un western poteva avere un'amima liberale ("L'amante indiana", Broken Arrow, di Delmer Daves, 1950), patriarcale ("Il fiume rosso"; "Romantico avventuriero", The Gunfighter, di Henry King, 1950), giovanilista ("Furia selvaggia", The Left-Handed Gun, di Arthur Penn, 1958), o psicopatica (il ciclo di "Ranown" diretto da Budd Boetticher; "La morte cavalca a Rio Bravo", The Deadly Companions, di Sam Peckinpah, 1962).
La nuova ricerca di spettacolarità raggiunse anche il melodramma. Alla Universal, il produttore Ross Hunter si specializzò in film al femminile e la figura centrale del rinnovamento del genere fu Douglas Sirk, un immigrato che negli anni Quaranta aveva diretto film antinazisti e noir. Lavorando con il direttore della fotografia Russell Metty, illuminò gli eleganti set della Universal con luci basse, malinconiche e quasi sinistre, mettendo in scena uomini psicologicamente impotenti e donne che soffrono coraggiosamente ("Una magnifica ossessione", The Magnificent Obsession, 1954; "Secondo amore", All That Heaven Allows, 1955; "Come le foglie al vento", Written on the Wind, 1956; "Lo specchio della vita", Imitation of Life, 1959) e che rivelano i loro drammi in espressionistiche chiazze di colore, davanti a specchi crudeli e rivelatori. I critici dei decenni successivi tributarono alla regia di Sirk la capacità di trascendere i traumi da psicologia spicciola e i finali forzatamente lieti delle sceneggiature. Ma Hunter era specializzato anche nella produzione delle commedie romantiche con Doris Day, da "Il letto racconta..." (Pillow Talk, di Michael Gordon, 1959) in poi: un vero e proprio fragoroso controcanto ai melodrammi di Sirk.
Nessun genere più del musical, forse il più longevo tra i prodetti hollywoodiani, godette dei benefici di questa generale riqualificazione. Benché frequentato da tutti gli studios, nel dopoguetra il musical fu appannaggio soprattutto della MGM: le tre unità produttive dello studio confezionavano di tutto, dalle biografie operistiche alle stravaganze acquatiche di Esther Williams. Musical "dietro le quinte" come "I Barkleys di Broadway" (The Barkleys of Broadway, di Charles Walters, con Fred Astaire e Ginger Rogers, 1949) erano bilanciati da produzioni "folk" come "La canzone di magnolia" (Show Boat, di James Whale, 1951); adattamenti di successi di Broadway (ad esempio "Baciami Kate!") si affiancavano a sceneggiature originali (come "Sette spose per sette fratelli", Sevein Brides for Seven Brothers, di Stanley Donen, 1954). Un film poteva essere costruito su una raccolta di successi di un'unica coppia paroliere/musicista: "Spettacolo di varietà", si basava sulle canzoni di Howard Dietz e Arthur Schwartz.
Il reparto musical più celebrato della MGM era quello controllato da Arthur Freed, produttore di primo piano fin dai tempi di "Il mago di Oz" (The Wizard of Oz, di Victor Fleming, 1939): Freed poteva vantare i talenti migliori - Judy Garland, Fred Astaire, Vera-Ellen, Ann Miller — e, sopra tutti, Gene Kelly, instancabile e sorridente ballerino che introdusse alla MGM una coreografia atletica moderna: "Un giorno a New York" (On the Town, codiretto da Kelly e Stanley Donen, 1949), storia frenetica di tre marinai con una giornata di libera uscita a Manhattan, non era il primo film ad ambientare i suoi numeri in luoghi autentici, ma la coreografia e il montaggio gli diedero un'energia febbrile urbana; in "Brigadoon" (Id., di Vincente Minnelli, 1954) e "E' sempre bel tempo" (It's Always Fair Weather, di Kelly e Donen, 1955) Kelly seppe fare del musical il veicolo di un aspro commento sulle frustrazioni maschili nell'America del dopoguerra.
Più leggero era il tono di "Cantando sotto la pioggia" (Singin' in the Rain, di Kelly e Donen, 1952), considerato all'unanimità il miglior musical del periodo. Ambientato durante la transizione al sonoro, il film si fa beffe dell'arroganza di Hollywood, parodiando lo stile dei primi musical e proponendo gag utilizzando il sonoro fuori sincrono. I pezzi da antologia includono il convulso "Make 'Em Laugh" di Donald O'Connor, il numero eponimo di Gene Kelly — che unisce dolly vertiginosi a una coreografia agile fra pozzanghere e ombrelli — e "Broadway Melody", un omaggio esuberante ai musical MGM delle origini del sonoro.
Pur continuando a produrre musical d'impatto anche dopo la metà degl anni Cinquanta, la MGM dovette da allora subire la concorrenza. "Bulli e pupe" (Guys and Dolls, di Joseph L. Mankiewicz, 1955) di Goldwyn, "Cenerentola a Parigi" (Funny Face, di Stanley Donen, 1956) della Paramount, "West Side Story" (U., di Robert Wise e Jerome Robbins, 1961) della United Artists, "Ciao ciao Birdie" (Bye Bye Birdie, di George Sidney, 1963) della Columbia e i cartoni animati Disney contribuirono a fare del grande musical una delle colonne del box-office. La 20th Century-Fox basò molti musical su successi di Broadway — "Il Re ed io" (The King and I, di Walter Lang, 1956), "Carousel" (ld., di Henry King, 1956) e "South Pacific" (ld., di Joshua Logan, 1958) — seguiti qualche anno più tardi dal successo più grande di tutti, "Tutti insieme appassionatamente" (The Sound of Music, di Robert Wise, 1965). La Warner diede il suo contributo al genere con "E' nata una stella" (A Star Is Born, di George Cukor, 1954) e con film scritti per Doris Day come "II gioco del pigiama" (The Pajama Game, Stanley Donen, 1957), per poi dominare gli anni Sessanta con "The Music Man" (di Morton DaCosta, 1962), "My Fair Lady" (ld., di George Cukor) e "Camelot" (ld., di Joshua Logan, 1967).
Il rock and roll portò al musical del dopoguerra un nuovo dinamismo.
"Senza tregua il rock and roll" (Rock Around thè Clock, di Fred F. Sears, 1956) spianò la strada e ben presto sia le major che gli indipendenti si lanciarono all'inseguimento dei giovani compratori di dischi. Dopo un esordio più confidenziale che scatenato in "Fratelli rivali" (Love Me Tender, di Robert D. Webb, 1956), Elvis Presley propose nei dodici anni successivi una serie di trenta musical in una versione del rock and roll piuttosto edulcorata. Il genere fu preso in giro da "Gangster cerca moglie" (The Girl Can't Help It, di Frank Tashlin, 1956) che tuttavia includeva numeri "normali" di complessi celebri.
Western, melodrammi e musical erano stati i generi principali per
diversi decenni, ma l'inflazione dei valori spettacolari e la scommessa sui kolossal portò alla ribalta un altro genere. Lo spettacolo biblico si era rivelato proficuo nelle mani di Cecil B. DeMille negli anni Venti e Trenta, poi nessuno se ne era più interessato finché non fu lo stesso DeMille a riesumarlo in "Sansone e Dalila (Samson and Delilah), il maggiore incasso del 1949. Quando anche "Quo Vadis?" (ld., di Mervyn LeRoy) e "Davide e Betsabea" (David and Bathsheba, di Henry King), entrambi del 1951, riportarono a casa enormi profitti, cominciò un ciclo di grandi cavalcate storiche. Le folle oceaniche, le battaglie colossali e i set grandiosi richiesti dal genere ne facevano l'occasione ideali per lo schermo panoramico e così "La tunica", "Ben-Hur", "Spartacus" e "La caduta dell'impero romano" (The Fall of thè Roman Empire, di Anthony Mann), sfoggiarono tutti nuove tecnologie visive.
"Coloro che vedranno questo film prodotto e diretto da Cecil B. DeMille faranno un pellegrinaggio nei luoghi autentici calpestati da Mosè più di 3000 anni fa". È questo l'incipit di "I dieci comandamenti" (The Ten Commandments, 1956), l'epopea biblica dal successo più duraturo. Il film utilizzò 25.000 comparse e costò più di 13 milioni di dollari, una cifra stratosferica per l'epoca; ma nonostante effetti speciali ambiziosi, come l'apertura del Mar Rosso, la regia di DeMille riproponeva perlopiù la messa in scena dei suoi film degli anni Trenta.
Ben presto il cinema epico giunse a esplorare praticamente ogni periodo storico: sullo schermo si alternavano epopee egiziane ("La regina delle piramidi", Land of thè Pharaohs, di Hawks, 1955; "Cleopatra", ld., di Mankiewicz, 1963 avventure cavalleresche ("Ivanhoe", ld., di Richard Thorpe,1952; "El Cid", di Mann, 1961) e saghe rivoluzionarie del ventesimo secolo ("Lawrence d'Arabia", Lawrence of Arabia, 1962 e "Il dottor Zivago", Doctor Zhivago, 1965, entrambi di David Lean). Gran parte di questi film attraevano il pubblico, ma a causa degli sforamenti di budget alcuni si rivelarono economicamente poco convenienti.
Un altro genere resuscitato dalla nuova attenzione ai film kolossal fu la fantascienza, che nel dopoguerra aveva goduto di notevole espansione in campi letterario: fu il produttore George Pal a dimostrare con "Uomini sulla luna" (Destination Moon, di Irving Pichel, 1955) che l'era atomica offriva un ottimi mercato per il cinema fantastico. La fortuna del film diede a Pal accesso ai budget della Paramount per "Quando i mondi si scontrano" (When Worlds Collide, di Rudolph Mate, 1951) e per due prestigiose produzioni tratte da opere di H.G Wells, "La guerra dei mondi" (War of the Worlds, di Byron Haskin, 1953) e "L'uomo che visse nel futuro" (The Time Machine, di George Pal, I960). Usando il colore e sofisticati effetti speciali, i film di Pal aiutarono la fantascienza ad acquistare rispettabilità, ma lo sforzo più riconoscibile in questo senso fu "Il pianeta proibito" (Forbidden Planet, di Fred M. Wilcox, 1956), che esibiva musica elettronica, un "mostro dell'inconscio" e una trama basata su "La tempesta" di Shakespeare. Alla rinascita del cinema fantastico contribuirono anche "20.000 leghe sotto i mari" (20.000 Leagues Under thè Sea, di Richard Fleischer, 1954) della Disney e le minuziose animazioni a passo uno di Ray Harryhausen, come in "Il settimo viaggio di Sinbad" (The Seventh Voyage of Sinbad, di Nathan Juran, 1959).
Film di fantascienza e horror più economici affrontarono il tema della lotta della tecnologia contro una natura sconosciuta: in "La cosa da un altro mondo" (The Thing, di Christian Nyby, 1951) un gruppo di scienziati e di militari scopre un mostro famelico nell'Artico desolato; "L'invasione degli ultracorpi" (Invasion of thè Body Snatchers, di Don Siegel, 1955) racconta di una piccola città invasa da baccelli che donano i cittadini e li rimpiazzano con copie prive di sentimenti. All'opposto di queste fantasie paranoiche vi erano quelle animate da ideali "pacifisti", ben esemplificate da "Ultimatum alla terra" (The Day the Earth Stood Still, di Robert Wise, 1951) in cui un alieno ordina ai terrestri di rinunciare alla guerra. Gli effetti speciali dominavano i film su esperimenti scientifici strampalati o mal riusciti, come "L'esperimento del Dottor K" (The Fly, di Kurt Neumann, 1958) e "Radiazioni BX: distruzione uomo" (Tb. Incredible Shrinking Man, di Jack Arnold, 1957). Questi film furono spesso interpretati, alla luce delle caratteristiche di quegli anni, come metafore della guerra fredda o degli effetti spaventosi delle radiazioni.
L'effetto dell'amplificazione dei film di serie B era forse ancor più visibile nella crescita del cinema di spionaggio ad alto budget. L'elegante "Intrigo internazionale" (North by Northwest, 1959) di Alfred Hitchcock aveva per protagonista un innocente coinvolto in un intrigo di spie; ma il catalizzatore per la promozione in serie A del genere fu il personaggio dell'agente britannico James Bond creato da lan Fleming: dopo i primi due film tratti dai suoi romanzi, 007 divenne un'inesauribile miniera d'oro con lo strepitoso successo di "Agente 007, Missione Goldfinger" (Goldfinger, di Guy Hamilton, 1964). Gli intrighi dei film di Bond erano pieni di erotismo, inseguimenti e duelli al limite del comico, armi e gadget surreali, umorismo ironico e sensazionali scenografie. I produttori Harry Saltzman e Albert Broccoli proseguiranno la serie per decenni cambiando più volte registi e protagonisti, facendone la saga forse di maggior successo della storia del cinema e scatenando negli anni Sessanta e Settanta una quantità di imitazioni e parodie.
Per poter competere con i nuovi standard spettacolari, i film a budget
ridotto erano costretti a trovare altrove i loro appigli commerciali: i gialli d'azione, ad esempio, divennero più violenti. Noir minacciosi come "Le catene della colpa" (Out of the Past, di Jacques Tourneur, 1947) impallidiscono a paragone del sadismo esasperato di "Un bacio e una pistola" di Aldrich, della brutalità con cui un criminale investe una bambina in "La vendetta del gangster" (Underworld USA, di Samuel Fuller, 1961) e dell'inizio di "Contratto per uccidere" (The Killers, di Don Siegel, 2964), in cui alcuni sicari terrorizzano una scuola per ciechi.
All'inizio degli anni Sessanta, un film di genere poteva essere un lussuoso blockbuster o un duro e sordido esercizio. Quando il celebrato Hitchcock girò un thriller in bianco e nero intitolato "Psyco" (Psycho, I960) senza star di prima grandezza e con un budget da serie B, lanciò un filone (ad esempio "Che fine ha fatto Baby Jane?", What Ever Happened to Baby Jane?, di Aldrich, 1962) che sarebbe proseguito per decenni. Il prestigioso "A sangue freddo" (In Cold Blood, di Richard Brooks, 1967), girato in un anacronistico bianco e nero, era la riduzione di un best-seller ma cercava un look da noir a basso budget soprattutto perché lo stile accentuava la brutale amoralità dei due giovani assassini protagonisti. Dopo aver passato quindici anni a riverniciare le formule dei generi, i registi più importanti procedevano ora a dar loro una mano di sporco.

1946 - 1967
Alcuni autori di primo piano si ritirarono o rallentarono l'attività poco dopo la guerra. Ernst Lubitsch morì nel 1947. Josef von Sternberg, che aveva lasciato la Paramount a metà degli anni Trenta e aveva lavorato sporadicamente negli anni Quaranta, concluse la sua carriera con due film per Howard Hughes e con "L'isola della donna contesa" (The Saga of Anatahan, 1953), una coproduzione Stati Uniti-Giappone permeata dell'atmosfera nebbiosa delle sue opere di prima della guerra. Frank Capra diresse il popolarissimo "La vita è meravigliosa" (It's a Wonderful Life, 1946), una mistura di commedia domestica e di melodramma spieiato, ma i suoi pochi film successivi non ebbero grande eco.
"Il grande dittatore" aveva segnato l'addio del vagabondo di Charlie Chaplin e i suoi nuovi personaggi, uniti alle controversie sulle sue idee politiche e la sua vita privata, ne fecero diminuire la popolarità: "Monsieur Verdoux" (Id., 1947) narrava di un tranquillo gentiluomo che uccide le sue mogli; "Luci della ribalta" (Limelight, 1952) era un omaggio postumo al teatro comico. Minacciato di persecuzioni politiche negli Stati Uniti, Chaplin si stabilì in Svizzera. Il suo "Un re a New York" (A King in New York, 1957) ironizzava sulla politica americana, mentre "La contessa di Hong Kong" (A Countess from Hong Kong, 1967) era ben lontana dalla commedia gentile di "Una donna di Parigi" (A Woman of Paris, 1923).
Nel complesso, comunque, un certo numero di registi veterani mantennero nel dopoguerra una posizione importante. Cecil B. DeMille, Frank Borzage, Henry King, George Marshall e altri che avevano iniziato la carriera durante la prima guerra mondiale rimasero sorprendentemente attivi negli anni Cinquanta e perfino nei Sessanta. Raoul Walsh, ad esempio, continuava a sfornare virili film d'azione: sia "Gli amanti della città sepolta" (Colorado Territory, 1949) che "La furia umana" (White Heat, 1949) restano a tutt'oggi modelli dell'efficienza del classicismo hollywoodiano.
John Ford, che produceva i suoi film in proprio con la Argosy, era il regista più in vista della vecchia generazione e con la commedia irlandese "Un uomo tranquillo" (The Quiet Man, 1952) diede alla Republic — che lo aveva finanziato — una credibilità ben superiore al suo status di produzione di serie B: la brillante fotografia in ambienti reali, l'alternanza di ardente romanticismo e di commedia fracassona e l'epilogo allegro in cui gli attori salutano il pubblico hanno fatto di Un uomo tranquillo uno dei film di Ford più a lungo imati dal pubblico, un utopistico soddisfacimento della nostalgia di casa che già permeava "Com'era verde la mia valle" (How Green Was My Valley, 1941).
Quasi tutta l'opera di Ford nel dopoguerra fu nel genere western. "Sfida infernale" (My Darling Clementine, 1946) è un'ode alla vita di frontiera girata con la profondità e i chiaroscuri che Ford aveva già sperimentato, dieci anni rama. La sua "trilogia della Cavalleria" ("Il massacro di Fort Apache", Fort Apache, 1948; "I cavalieri del Nord-Ovest", She Wore a Yellow Ribbon, 1949; "Rio Bravo", Rio Grande, 1950) rende omaggio alla coesione del corpo militare; "I dannati e gli eroi" (Sergeant Rutledge, I960) e "Cavalcarono insieme" (Two Rode Together, 1961) sollevano problemi quali lo stupro e l'incrocio delle razze nello stile dei "western liberali" e ciascuno di essi tenta nuove strade: il primo con una narrazione a flashback, il secondo con una lunga inquadratura immobile. "L'uomo che uccise Liberty Valance" (The Man Who Shot Liberty Valance, 1962), ampiamente riconosciuto come l'elegia fordiana del mito della frontiera, ha la semplicità di una favola: il lato eroico del west muore nella corruzione portata dalla ferrovia e dalla politica di Washington.
Il protagonista di "Sentieri selvaggi" (The Searchers, 1956), inconfutabilmente il più complesso dei western di Ford, si chiama Ethan Edwards e da la caccia ai Comanche che hanno sterminato la famiglia di suo fratello e rapito sua nipote Debbie: ma il suo compagno d'avventura Martin Pawley si rende gradualmente conto che Ethan non ha intenzione di salvare Debbie, bensì di
ucciderla, colpevole di essere diventata una sposa indiana. Di rado il western aveva mostrato un protagonista così complesso, nel quale devozione e orgoglio si scontrano con razzismo e gelosia sessuale. Nella scena clou del film, quando Ethan sta per uccidere Debbie, i comuni ricordi dell'infanzia di lei ristabiliscono il legame reciproco purificando Ethan del suo istinto omicida.
La coerenza stilistica di Ford è evidente in "Sentieri selvaggi". La struttura cromatica del film riflette il cambio delle stagioni nella Monument Valley e la profondità di campo fordiana spicca nell'evocatico ricorrere di figure in controluce riprese da interni; anche il gesto finale con cui John Wayne si stringe l'avambraccio è modellato su un gesto di Harry Carey in "Centro!" (Straight Shooting, 1917). Per molti critici e giovani autori degli anni Settanta, "Sentieri selvaggi" divenne l'esempio della ricchezza emozionale della tradizione hollywoodiana.
Altri veterani continuarono a esercitare il mestiere nonosrante il declino degli studios. William Wyler diresse drammi prestigiosi e film in studio fino agli anni Sessanta, ottenendo alti incassi con "I migliori anni della nostra vita" (The Best Years of Our Lives, 1946) e "Ben-Hur" (1959). Già nel primo, la profondità di fuoco e il grandangolo erano utilizzati con meno enfasi: Wyler parve soddisfatto di lasciarli a registi dediti a generi più orientati alla suspense o all'azione. Howard Hawks realizzò commedie e film d'azione e avventura fino al 1970. King Vidor passò al grande spettacolo ("Guerra e pace", id., 1956) dopo aver diretto melodrammi eccessivi e magniloquenti come "La fonte meravigliosa" (The Fountainhead, 1949). George Stevens diresse alcuni dei maggiori successi dell'epoca, in particolare "II cavaliere della valle solitària" (1953) e "II gigante" (Giant, 1956).
Tra i registi specializzati in melodrammi, commedie e musical, Vincente Minnelli e George Cukor spiccano per un uso accorto delle inquadrature lunghe. La macchina da presa di Cukor è un'osservatrice discreta che permette agli interpreti di dispiegare al meglio le loro performance. Le inquadrature più distanti di Minnelli enfatizzano l'interazione dei personaggi con l'ambiente. In "È nata una stella" (A Star Is Born, 1954) Cukor utilizza con audacia gli estremi dell'inquadratura in Cinemascope, mentre i melodrammi di Minnelli contrappongono i personaggi ad arredi simbolici.
Alcuni registi immigrati, come Jean Renoir e Max Ophuls, tornarono in Europa poco dopo l'Armistizio, ma altri prosperarono a Hollywood. Il successo maggiore arrise ad Alfred Hitchcock. Fritz Lang continuò a realizzare sobri e cupi film di genere che emanavano un malessere al limite della paranoia, come "Rancho Notorius" (Id., 1952), e "Il grande caldo" (The Big Heat, 1953). Billy Wilder divenne un regista di primo piano soprattutto per i suoi drammi carichi di ironia ("Viale del tramonto", "L'asso nella manica", Ace in the Hole, 1951; "Testimone d'accusa", Witness for the Prosecution, 1958) e per il cinismo delle sue commedie erotiche ("Quando la moglie è in vacanza", The Seven Year Itch, 1955; "L'appartamento", The Apartment, 1961; "Irma la dolce", Irma la Douce, 1963). Con "A qualcuno piace caldo" (Some Like It Hot, 1959), con Marilyn Monroe e due fantastici Tony Curtis e Jack Lemmon, Wilder, pur meno mordace del solito, deliziò le platee con le sue gag sul travestimento.
Un altro immigrato, Otto Preminger, si coltivò un'immagine personale sia come attore (in "Stalag 17", Id., di Wilder, 1953) che come regista. Il suo carattere dispotico fu a volte accostato a quello di Erich von Stroheim, ma al contrario di questi Preminger era tutto meno che uno spendaccione: produttore di se stesso, contava ogni penny. Fu anche per la riduzione del tempo delle riprese, spingendo la tecnica del piano sequenza ancor più all'estremo di Cukor e Minnelli: la durata media di un'inquadratura di "Un angelo è caduto" (Fallen Angel, 1945) è di circa mezzo minuto, e lo stesso vale per quelle Cinemascope di "Carmen Jones" (ld., 1954).
Benché Preminger componesse in modo ingegnoso le sue inquadrature in Cinemascope, la maggior parte dei suoi piani sequenza rifuggono da effetti espressivi: i movimenti di macchina complessi e i virtuosismi sono rari e la macchina da presa si limita a osservare personaggi impassibili, gran parte dei quali impegnati a mentire l'un l'altro. Questa imperturbabilità dona ai noir e agli adattamenti di best seller di Preminger una suggestiva opacità.
La strategia estetica di Orson Welles era all'esatto opposto. Licenziato RKO dopo "L'orgoglio degli Amberson" (The Magnificent Ambersons, 1942), Welles divenne un regista errante: girò film per la Columbia, la Republic e la Universal ma produsse gran parte delle sue opere con pochi spiccioli, fondi racimolati tramite finanziatori europei e proventi delle sue apparizioni come attore (ad esempio nel wellesiano "Il terzo uomo", The Third Man, di Carol Reed, 1949).
Come regista e interprete Welles realizzò riduzioni di classici come "Macbeth" (Id., 1948), "Otello" (Othello, 1952) e "Il processo" (The Trial, 1962), ma anche film di spionaggio ("Rapporto confidenziale", Mr. Arkadin, 1955) e gialli "La signora di Shanghai", The Lady from Sbanghai, 1948; "L'infernale Quinlan", Touch of Evil, 1958), portando in tutti la tecnica spettacolare che aveva introdotto in "Quarto potere": uso gotico del chiaroscuro, profondità di fuoco, colonne sonore di devastante potenza, dissolvenze riflessive, improvvisi stacchi, accavallarsi e interrompersi del dialogo, labirintici movimenti di macchina.
La scena cruciale di "La signora dì Shanghai", una sparatoria in un labirinto di specchi, punta palesemente più a un virtuosistico sfoggio di immagini spiazzanti che a una soluzione plausibile del dramma; "L'infernale Quinlan", che si apre con uno dei piani sequenza più barocchi della storia di Hollywood, portò il noir a livelli mai raggiunti prima. In "Falstaff" (Campanadas de medianoche, 1967), tratto dalle opere di Shakespeare su Enrico IV, Welles mise in scena la sequenza di battaglia più cinetica e impressionante dell'epoca. Welles continuò ad assediare gli studios negli anni Settanta e Ottanta nella vana speranza di completare alcuni suoi progetti di vecchia data ("Don Quixote", "The Other Side of the Wind").
Orson Welles proveniva dagli ambienti del teatro di sinistra di New York, così come parecchi altri registi che come lui approdarono a Hollywood. Così iniziò Jules Dassin, prima che si facesse conoscere per una serie di duri film di crimine (ad esempio "Forza bruta", Brute Force, 1947 o "La città nuda"). Joseph Losey aveva lavorato nel progetto del Federai Theatre e diretto il "Galileo" di Brecht (1947) prima di passare al cinema con "Il ragazzo dai capelli verdi" (The Boy with Green Hair, 1948). Le udienze della HUAC costrinsero però Dassin e Losey all'esilio.
Durante gli anni Trenta il Group Theatre trapiantò in America il "metodo" naturalistico di recitazione insegnato da Stanislavskij al Teatro d'arte di Mosca. Il principale allievo del Group era Elia Kazan, che si impose a Hollywood pur continuando a dirigere a Broadway le prime rappresentazioni di "Morte di un commesso viaggiatore", "Un tram che si chiama desiderio" e "La gatta sul tetto che scotta". Dopo essersi specializzato in film di spirito liberale sui problemi sociali, Kazan passò rapidamente a prestigiosi adattamenti cinematografici di opere di Tennessee Williams, "Un tram che si chiama Desiderio" (A Streetcar Named Desire, 1951) e "Baby Doll" (ld., 1956), oltre a film di critica sociale come "Un volto nella folla" (A Face in the Crowd, 1957), che denuncia gli abusi dell'uso della televisione a fini politici.
Dopo la guerra Kazan e due colleghi di New York fondarono l'Actors Studio, nella convinzione che il "metodo" di Stanislavskij richiedesse all'attore di radicare la sua performance in esperienze personali: l'improvvisazione era una strada verso una recitazione naturale, anche se a volte dolorosa e non priva di rischi. La concezione di Kazan trovò in Marlon Brando il suo principale esponente: una classica applicazione del "metodo" avviene in "Fronte del porto" (On thè Waterfront, 1954) dello stesso Kazan, quando Terry raccoglie il guanto caduto a Edie e inizia a giocare con esso. Trattenere il guanto diventa un pretesto per costringerla a restare vicino a lui, ma il fatto di raddrizzarne le dita, di piluccarne peluzzi e perfino di provare a indossarlo diventano indizi che esprimono la sua attrazione per lei e offrono un'eco delle burle dell'infanzia che lui ricorda. Il "metodo" avrebbe avuto un'enorme influenza su Hollywood attraverso Kazan, Brando, James Dean, Karl Malden e altri membri dell'Actors Studio.
Nicholas Ray lavorò col Group Theatre prima di fare da aiuto regista a Kazan per "Un albero cresce a Brooklyn" (A Tree Grows in Brooklyn, 1945). Esordì nella regia con la dolorosa storia di una coppia in fuga costretta a una vita da fuorilegge, "La donna del bandito" (They Live by Night, 1948). Eternamente ai margini, Ray si specializzò in film dedicati a uomini la cui durezza nasconde una pulsione autodistruttiva: "Diritto di uccidere" (In a Lonely Place, 1950) coinvolge uno sceneggiatore di Hollywood in un omicidio e ne rivela la narcisistica abitudine di sfruttare gli altri; nell'insolito western "Johnny Guitar" (ld., 1954) il pistolero stanco è dominato dalla durissima signora di un saloon e il momento cruciale del film è un duello alla pistola tra due donne; in "Gioventù bruciata" (Rebel Without a Cause, 1954) James Dean è un altro eroe tormentato, infantilmente passivo e privo di certezze: il film dimostra anche l'uso possente che Ray fa dell'inquadratura in Cinemascope. Dopo diversi altri "melodrammi virili", Ray concluse la sua carriera a Hollywood con due Kcolossal storici, "Il re dei re" (King of Kings, 1961) e "55 giorni a Pechino" (55 Days in Peking, 1963).
Un altro gruppo di registi del dopoguerra emerse dalla sceneggiatura: Richard Brooks ("Il seme della violenza", The Blackboard Jungle, 1955; "Il figlio di Giuda", Elmer Gantry, I960) Joseph Mankiewicz ("Eva contro Eva, All About Eve, 1950); "La contessa scalza", The Barefoot Contessa, 1954) e Robert Rossen ("A sangue freddo", Johnny O'Clock, 1947; "Lo spaccone", The Hustler, 1961).
Il talento con la personalità più forte era però quello di Samuel Fuller, che era stato sceneggiatore per un decennio prima di dirigere "Ho ucciso Jesse il bandito" (I Shot Jesse James, 1948). Ex reporter per i tabloid di New York, Fuller portò in tutti i suoi progetti una sensibilità da B-movie: il suo stile faceva ricorso a intensi primi piani, inquadrature fuori centro e un montaggio shock per sottolineare storie di tradimento nel sottobosco criminale o di uomini che affrontano la morte in battaglia.
Fuller punta dritto allo stomaco: durante una scazzottata in "Mano pericolosa" (Pickup on South Street, 1953), un uomo è trascinato giù per una scala, sbattendo il mento su ogni scalino; nel duello di "Quaranta pistole" (Forty Guns, 1957) un cow-boy si fa scudo di sua sorella, ma lo sceriffo le spara senza esitare e, mentre lei cade a terra, seguita a sparare diversi colpi sul giovane sbigottito; in "La porta della Cina" (China Gate, 1957) un soldato che si nasconde da una pattuglia nemica mette il piede su una trappola irta di punte e Fuller stacca da inquadrature del suo volto sudato a primissimi piani delle punte che gli hanno trapassato lo stivale. Fuller ama orchestrare scene di lotta che assalgono lo spettatore: l'inizio di "Il bacio perverso" (The Naked Kiss, 1963) rivolge la sua furia contro il pubblico, con una donna che colpisce direttamente la macchina da presa.
Altri registi avevano un'aggressività analoga, seppur meno cruda. Robert Aldrich costruì "Un bacio e una pistola" e "Prima linea" (Attack!, 1956) sui dialoghi vuoti e il sadismo esasperato della narrativa pulp. I polizieschi di Don Siegel, insieme a "L'invasione degli ultracorpi", mostrano nel ritmo veloce la sua esperienza di montatore alla Warner. Anthony Mann, fortemente influenzato da Welles (come del resto Fuller e Aldrich), orchestrò molte scene di lotta in profondità, lanciando i combattenti verso il pubblico. "Nei film di questi registi energici — scrisse il critico Manny Farber — si può trovare l'eco nascosto dell'esperienza fisica".
Alcuni nuovi registi si specializzarono nella commedia grottesca. Frank Tashlin, ex animatore e illustratore di libri per l'infanzia, mostrò la sua inventiva nella satira della cultura degli anni Cinquanta ("Gangster cerca moglie"; "La bionda esplosiva", Will Success Spoil Rock Hunter?, 1957) oltre che nel dirigere Jerry Lewis quando questi si divise dal suo partner Dean Martin.
Martin e Lewis avevano avuto enorme successo in molti varietà della Paramount. Dopo aver lavorato con Tashlin, Lewis ottenne dalla Paramount di dirigersi da solo e, prima che il mutare dei gusti segnasse la fine della sua carriera, diresse nove commedie assolutamente personali. Alcune erano semplici antologie di scenette in un ambiente prestabilito: "Il ragazzo tuttofare" (The Bellboy, I960), ad esempio, mostra gag da cartone animato in un hotel di Miami. Però in altri film Lewis diede al suo personaggio di sempliciotto una frenesia demoniaca: il suo carattere schizofrenico si divise ancor più quando in "Le folli notti del dottor Jerryll" (The Nutty Professor, 1963) interpretò "se stesso" e un soave sciupafemmine modellato su Dean Martin. Lewis rivelò anche un certo talento visivo: "L'idolo delle donne" (The Ladies' Mail, 1961) mostra una pensione per donne vista come un colossale set in sezione.
Tra i cineasti ancora attivi negli anni 1945-1965, i più anziani avevano cominciato nel cinema muto o nei primi parlati; le nuove leve del dopoguerra, invece, provenivano di norma dal teatro o dallo studio System. La generazione più giovane, che iniziò a fare film a metà degli anni Cinquanta, aveva spesso cominciato dalla televisione. John Frankenheimer, Sidney Lumet, Martin Ritt e Arthur Penn arrivarono al cinema dopo aver fatto la regia di sceneggiati trasmessi in diretta e portarono sul grande schermo un'estetica "televisiva" di grandi primi piani, set claustrofobici, profondità di fuoco e sceneggiature molto parlate: "Colpevole innocente" (The Young Stranger, di Frankenheimer, 1956), "La parola ai giurati" (Twelve Angry Men, di Lumet, 1957). "Nel fango della periferia" (Edge of the City, di Ritt, 1957) e "Anna dei miracoli" esemplificano di questa tendenza. Tutti divennero figure importanti nella Hollywood dei primi anni Sessanta e furono tra i primi a trarre ispirazione dal cinema d'autore europeo e dalla Nouvelle Vague in "Mickey One" (Id,, di Penn, 1965), "L'uomo del banco dei pegni" di Lumet e "Operazione diabolica" (Seconds di Frankenheimer, 1966). Nonostante le difficoltà dell'industria, registi di generazioni diverse e di diversa esperienza fecero del cinema hollywoodiano del dopoguerra una forza centrale nella cinematografia mondiale. Il sistema aveva perduto la sua stabilità economica, ma i generi e gli stili del periodo classico offrivano una cornice all'interno della quale i registi potevano creare film personali e potentii. Così, anche i giovani e ambiziosi cineasti che vennero alla ribalta nell'Europa dei primi anni Sessanta trassero spesso ispirazione dalla Hollywood del dopoguerra.
Nonostante lo stabilizzarsi della quantità di spettatori a metà degli anni Sessanta, gli studi di Hollywood tardarono a rendersi conto che i grossi film non erano più una sicurezza: la gigantesca crescita del budget di "Cleopatra" rendeva impossibile recuperare l'investimento, ma successi travolgenti come quello di "Tutti insieme appassionatamente" inducevano a credere che il cinema per famiglie potesse ancora dominare il mercato. I fiaschi di "Il favoloso Dottor Dolittle" (Doctor Dolittle, di Richard Fleischer, 1967), "Millie" (Thoroughly Modern Millie, di George Roy Hill, 1967) e "Un giorno di prima mattina" (Star!, di Robert Wise, 1968) polverizzarono questa speranza. Film di successo come "Chi ha paura di Virginia Woolf?", "Gangster Story" e "Il laureato" erano destinati soprattutto a giovani adulti che non si lasciavano scioccare dalla volgarità, dall'adulterio e dalla violenza. "Hollywood è ormai governata da Wall Street e da Madison Avenue, che richiedono sesso e violenza — scrisse Ford dopo aver completato il suo ultimo film "Missione in Manciuria"(Seven Women, 1965) —. Ciò va contro la mia coscienza e la mia religione."
Ancora una volta Hollywood stava cambiando e prima di riprendersi avrebbe dovuto attraversare una fase di profonda crisi e recessione.

1945 - 1960
Nel 1945 gran parte dell'Europa era in rovina. Trentacinque milioni di persone, oltre la metà delle quali civili, erano morte, e milioni di sopravvissuti non avevano più una casa. Molte fabbriche erano state rase al suolo o danneggiate, altre risultavano ormai obsolete. Grandi città come Rotterdam, Colonia e Dresda erano ridotte a cataste di macerie. Tutte le nazioni europee sprofondavano nei debiti: la Gran Bretagna aveva perso un quarto della sua ricchezza prebellica, mentre l'economia della Danimarca era regredita ai livelli del 1930. Nel complesso, questo conflitto era stato il più devastante della Storia.
La guerra aveva drasticamente diminuito la circolazione di film americani nella maggior parte dei Paesi europei, aprendo spazi alle cinematografie e ai talenti locali. Dopo la guerra, però, le società americane si impegnarono a reintrodurre la loro produzione nel lucroso mercato europeo. Gli aiuti USA prepararono la strada al ritorno in Europa del cinema americano. La strategia di Hollywood mirava a rendere l'industria interna di ogni nazione abbastanza forte da sostenere la distribuzione e la proiezione di film americani su larga scala. Nel 1953 praticamente in ogni nazione i film statunitensi occupavano la metà degli schermi. L'Europa sarebbe rimasta per Hollywood la principale fonte estera di incassi.
A prima vista anche l'industria tedesca sembrava altrettanto in salute: la produzione crebbe dai 5 film del 1946 ai 103 del 1953, e negli anni Cinquanta si mantenne sempre al di sopra delle cento unità. L'affluenza nelle sale aumentò e vi fu un fiorire di coproduzioni; Hildegard Knef, Curdd Jurgens e altre star tedesche conquistarono ampia popolarità.
Tuttavia l'industria non riuscì a far crescere un cinema competitivo sul mercato nazionale. Poco dopo il 1945, le società cinematografiche americane avevano convinto il governo statunitense a cooperare per fare del mercato tedesco un avamposto di Hollywood. Fino a due terzi degli schermi tedeschi arrivarono in seguito a essere occupati da film americani.
Come in altri Paesi, il grosso della produzione inclinava al divertimento popolare, con molti adattamenti letterari e remake di classici. Il genere più popolare era l'Heimat film ("film della piccola patria"), incentrato su storie d'amore di provincia, che rappresentava il 20% del prodotto interno. Gran parte della produzione di qualità dell'epoca consisteva in film di guerra o film biografici.
Un certo cinema del dopoguerra descrisse con impegno il conflitto bellico e i suoi effetti. "Der Verlorene" (L'uomo perduto, di Peter Lorre, 1951) fa uso di flashback per presentare un dottore ossessionato dai delitti commessi durante la guerra. Il film, come molti dell'epoca, ricorre a macabri giochi di specchi e di ombre, ma Lorre arricchisce la sua performance con tocchi vagamente espressionistici. Inoltre i primi anni del dopoguerra videro sorgere il Trummerfilm ("film di rovine"), che affrontava il tema della problematica ricostruzione della Germania.
Solo alla fine degli anni Cinquanta qualche cineasta osò occuparsi delle perduranti tracce del nazismo. "Rosen fur den Staatsanwalt" (Rose per il procuratore generale, 1959) e "Storia di un disertore" (Kirmes, I960), entrambi di Wolfang Staudte, mostrano ex membri delle SS che prosperano nel miracolo economico tedesco. Più obliquo nel suo modo di affrontare il passato è il thriller di Fritz Lang "Il diabolico dottor Mabuse" (Die Tausend Augen des Dr. Mabuse, 1960), in cui un dottore criminale usa telecamere nascoste per spiare gli ospiti dell'Hotel Luxor: evocando la figura di Mabuse (considerato nel dopoguerra un'allusione a Hitler), suggerendo che molti personaggi condividono il suo voyeurismo, e stabilendo che il Luxor era stato costruito dai nazisti per fini di spionaggio, il "Dottor Mabuse" allude alla sopravvivenza nel presente dell'ideologia fascista.
Questa accusa avrebbe potuto essere rivolta anche all'industria cinematografica in generale. Anche se ad alcuni autori nazisti (come Leni Riefenstahl) fu proibito di lavorare, nel dopoguerra molti furono riabilitati.
Alcuni sostenitori del nazismo ottennero posti prestigiosi, e Veit Harlan diresse ben 8 film. Questa continuità con l'era fascista, e con la cultura cinematografica stupidamente compiacente che ne scaturì, sarebbe stata attaccata negli anni Sessanta da quei giovani registi che chiedevano la fine del "Papas Kino", del "Cinema di papà".

1945 - 1951
La tendenza cinematografica più importante dell'epoca apparve in Italia negli anni 1945-1951: il neorealismo. Esso non fu un movimento così originale o compatto come si è a lungo pensato, ma senza dubbio creò un diverso approccio al cinema di finzione ed ebbe enorme influenza sul cinema di altri Paesi.
Con la caduta di Mussolini, l'industria cinematografica italiana perse il suo centro organizzativo. Come in Germania, anche in Italia le forze militari alleate cooperarono con le società americane per cercare di assicurare agli Stati Uniti il dominio del mercato e molte case di produzione dovettero ridimensionarsi. Mentre le società interne lottavano faticosamente per sopravvivere, il cinema neorealista si impose come una forza di rinnovamento culturale e sociale.
Durante il declino del regime fascista, nella letteratura e nel cinema era affiorato un impulso realista: "Quattro passi tra le nuvole" (di Alessandro Blasetti, 1942), "I bambini ci guardano" (di Vittorio De Sica, 1943), "Ossessione" (di Luchino Visconti, 1942) e altri film portarono alcuni autori a concepire un cinema nuovo. "Siamo convinti — scrissero Giuseppe De Santis e Mario Alicata nel 1941 — che un giorno creeremo il nostro film più bello seguendo il passo lento e stanco dell'operaio che torba casa". Dopo la liberazione, nella primavera del 1945, la gente di ogni classe divenne ansiosa di rompere con il passato. I partiti formarono un governo di coalizione, mirando a fondare la rinascita sulla base di idee liberali e socialiste, e i registi furono pronti a farsi testimoni di quella che fu chiamata "primavera italiana". Il "nuovo realismo" vagheggiato durante guerra era arrivato.
Da dove nasceva il realismo di questi film? In parte, senza dubbio, dal contrasto con molti dei film che li avevano preceduti: il cinema italiano era rinomato in tutta Europa per le sue meravigliose scenografie in studio, ma gli studi statali di Cinecittà avevano subito pesanti danni durante la guerra e non erano in grado di ospitare grandi produzioni, per cui i cineasti si spostarano nelle strade e nelle campagne. Poiché dopo anni di doppiaggio italiano di film stranieri l'Italia aveva ormai perfezionato l'arte della sincronizzazione del sonoro, le troupe potevano girare in esterni e registrare il dialogo in seguito.
Un'altra novità era l'esame critico della storia recente. I film neoreasti proponevano storie contemporanee con una prospettiva da "fronte popolare": la trama di "Roma città aperta" (di Roberto Rossellini, 1945) era ad esempio ispirata a eventi reali avvenuti nell'inverno 1943-1944. I protagonisti sono coinvolti nella lotta contro le truppe tedesche che occupano Roma; la fiducia e il sacrificio personale legano strettamente il sabotatore Manfredi, il suo amico Francesco, la donna di questi, Pina, e il sacerdote Don Pietro. Il film ritrae la Resistenza come l'alleanza tra comunisti e cattolici a fianco della popolazione.
Analogamente, "Paisà" (1946), sempre di Rossellini, offre una visione caleidoscopica dell'entrata degli Alleati in Italia: i sei episodi del film seguono il movimento delle forze americane dalla Sicilia fino alla pianura padana.
Più frammentario e documentaristico di "Roma città aperta", "Paisà" mette a fuoco non solo la lotta tra i partigiani e le forze occupanti ma anche le tensioni, le incomprensioni e le occasionali affinità che sorgevano tra la popolazione e le truppe americane. Il tema della differenza tra lingue e culture ha in "Paisà" la stessa importanza degli eventi storici da esso raccontati.
Ben presto i cineasti passarono dall'eroismo partigiano a problemi sociali contemporanei, come la divisione della società in fazioni contrapposte, l'inflazione e la disoccupazione crescente. Poche opere neorealiste rappresentano il dopoguerra in modo più vivido di "Ladri di biciclette" (di Vittorio De Sica, 1948): storia di un operaio la cui sussistenza dipende dalla sua bicicletta. Il film mosrra la brutale rapacità della vita nel dopoguerra. Il protagonista, Ricci, si rivolge a ogni istituzione - polizia, Chiesa, sindacati - ma nessuno è in grado di recuperare la bicicletta rubata e molti sono indifferenti alla sua tragedia: con il figlio Bruno è costretto a vagare per la città in un'inutile ricerca.
Nel film, a questa critica sociale fa da contrappunto la disintegrazione della fiducia tra padre e figlio: il momento cruciale si ha quando, in preda alla disperazione, Ricci cerca di rubare a sua volta una bicicletta e Bruno lo guarda in preda allo shock di chi vede crollare tutte le illusioni sul proprio padre. A Ricci è risparmiato l'arresto e Bruno, che ora accetta dolorosamente la fragilità del padre, riafferma il suo amore prendendolo per mano. Lo sceneggitore del film, Cesare Zavattini, aveva espresso più volte il desiderio di fare un film che si limitasse a seguire un uomo per novanta minuti della sua vita: "Ladri di biciclette" non è questo, ma all'epoca fu visto come un passo verso l'idea di Alicata e De Santis di seguire il "passo lento e stanco" dell'operaio.
Alcuni film esplorarono i problemi della vita rurale. "Riso amaro" descrive, a tratti con una certa enfasi, lo sfruttamento di giovani donne impegna in lavori agricoli — la monda del riso — durissimi e mal pagati e ammassate in dormitori che sembrano campi di prigionia. Tra queste opere di ambientazione regionale, la più nota è "La terra trema" di Visconti — libero adattamento di "I Malavoglia" di Giovanni Verga —, che ritrae la sfortunata ribellione un gruppo di pescatori siciliani contro i grossisti di pesce che li sfruttano. Come altri film dell'epoca, anche questo esprime l'indebolirsi della speranza di profondi cambiamenti sociali.
Nel 1948, la "primavera italiana" si concluse con la sconfitta alle elezioni dei partiti liberali e di sinistra. Il Paese, intanto, era impegnato nella ricostruzione, il reddito nazionale stava superando i livelli di prima della guerra e l'Italia si spostava rapidamente verso un'economia europea di tipo moderno. L'industria del cinema scoprì di poter esportare film perfino negli Stati Uniti.
Se, dopo aver visto "Ossessione" di Visconti, Vittorio Mussolini, direttore di "Cinema" e figlio del Duce, era uscito furente dalla sala urlando "Questa non è l'Italia!", gran parte dei film neorealisti suscitarono da parte dei funzionari del dopoguerra una reazione simile: il ritratto di un Paese desolato e colpito dalla povertà faceva infuriare politici ansiosi di dimostrare che l'Italia era sulla via della democrazia e della prosperità. La chiesa cattolica condannò molti film per il loro anticlericalismo e per il modo in cui descrivevano la vita e le abitudini sessuali della classe operaia, mentre la sinistra ne attaccava il pessimismo e la mancanza di un'esplicita dichiarazione di fede politica.
Poche opere neorealiste furono popolari presso il pubblico: gli spettatori si lasciavano attrarre più volentieri dai numerosissimi film americani in circolazione. Il sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti trovò modo di rallentare l'avanzata dei film americani frenando allo stesso tempo gli imbarazzanti eccessi del neorealismo: emanata nel 1949, la "legge Andreotti" fissò limiti alle importazioni e quote sugli schermi, ma pose anche le basi per fornire prestiti alle case di produzione. Per concedere un prestito. tuttavia, una commissione statale doveva approvare la sceneggiatura, e i film privi di un punto di vista politico erano premiati con somme maggiori. Ancora peggio, a un film poteva essere negata lalicenza di esportazione se "diffamava l'Italia". La legge Andreotti aveva insomma creato una censura preventiva.
La mossa coincise con un generale abbandono del neorealismo più "puro", quello del periodo tra il 1944 e il 1948. Alcuni autori cercarono e trovarono un'ambientazione neorealista girando melodrammi e storie d'amore tradizionali in regioni che offrissero un colore locale pittoresco; altri esplorarono una vena di fantasia allegorica (come in "Miracolo a Milano", di De Sica, 1950 e "La macchina ammazzacattivi", di Rossellini, 1948) o di spettacolo storico ("Senso", di Visconti, 1954). Emerse anche il "neorealismo rosa", un cinema che inseriva personaggi della classe operaia negli schemi della commedia populista in stile anni Trenta. In questo scenario, l' "Umberto D" di De Sica e Zavattini (1951) — che descriveva la vita solitaria di un pensionato — non poteva non colpire i funzionari come una pericolosa regressione: il film inizia con una scena in cui la polizia disperde una dimostrazione di vecchi pensionati e si chiude col fallimento del suicidio di Umberto. In una lettera aperta a De Sica, Andreotti lo rimproverò per il suo "pessimo servizio alla Patria, che è anche la Patria di... una legislazione sociale progressista".

1947 - 1953
Agli inizi degli anni Cinquanta l'impulso neorealista era ormai esaurito e nel 1953, al congresso di Parma sul neorealismo, giornalisti e cineasti iniziarono a discutere sull'essenza del movimento: di esso non era mai esistito un manifesto o un programma, ma solo appelli a un maggiore realismo e a un'enfasi sui soggetti contemporanei e sulla vita della classe operaia. Presto, comunque, emersero molte posizioni critiche.
Una corrente vedeva nel neorealismo un'informazione impegnata, che chiedeva riforme in nome dell'unità politica brevemente raggiunta durante la resistenza e l'immediato dopoguerra. Un'altra posizione metteva invece l'accento sulla dimensione morale dei film, suggerendo che l'importanza del movimento fosse nella sua abilità a conferire un senso universale ai problemi individuali dei personaggi.
Una teoria più astratta, sostenuta dai critici francesi Andre Bazin e Amédée Ayfre, si concentrò su come l'approccio documentaristico del neorealismo rendesse lo spettatore consapevole della bellezza della vita di ogni giorno.
In questo senso, Bazin e Ayfre riprendevano le idee di Cesare Zavattini, lo sceneggiatore di De Sica e il più instancabile difensore di una precisa estetica neorealista: Zavattini voleva un cinema che presentasse il dramma nascosto negli eventi quotidiani, come l'acquisto di un paio di scarpe o la ricerca di un appartamento.
Un produttore americano disse a Zavattini che un film di Hollywood avrebbe mostrato un aereo che passava nel cielo, poi una mitragliatrice che fa fuoco, quindi l'aereo che cadeva, mentre un film neorealista avrebbe mostrato l'aereo che passava una volta, poi un'altra volta e poi ancora un'altra volta.
Zavattini replicò: "Non basta farlo passare tre volte; deve passare venti volte". Questo ideale fu di rado realizzato dal neorealismo, ma la provocazione di Zavattini permetteva ai cineasti e ai teorici di vagheggiare il cinema radicalmente "de-drammatizzato" che sarebbe stato esplorato negli anni Sessanta.
Gran parte degli storici del cinema ritiene il neorealismo un momento importante non solo per le sue posizioni politiche e la sua visione del mondo ma anche per le innovazioni nella forma cinematografica. Molte di questi avevano dei precedenti, ma il prestigio internazionale del movimento neorealista le fece emergere come mai era avvenuto prima.
Si ritiene di solito che il tipico film neorealista sia girato in esterni, con attori non professionisti e inquadrature grezze, improvvisate, ma in realtà film con queste caratteristiche sono ben pochi: la maggior parte delle scene in interni è girata in set ricostruiti in studio e illuminati con cura e il dialogo è quasi sempre doppiato, permettendo un controllo anche a riprese ultimate; la voce del protagonista di "Ladri di biciclette" ad esempio era di un altro attore. Anche se alcuni interpreti sono effettivamente non professionisti, più comunemente si ha quella che Bazin chiama la "tecnica dell'amalgama", in cui attori non professionisti sono mescolati a divi come Anna Magnani e Aldo Fabrizi. Nel complesso, il neorealismo ricorre all'artificio tanto quanto altri stili cinematografici.
Inoltre, molti film sono montati rispettando le norme dello stile classico hollywoodiano. Anche se poche immagini neorealiste hanno il rigore compositivo di "La terra trema", quasi sempre esse presentano un accurato equilibrio tra i vari elementi che vi appaiono. Anche quando sono riprese in esterni, le scene contengono fluidi movimenti di macchina, un nitore impeccabile e un'azione scandita su più piani. È tipico del cinema neorealista l'uso di maestose colonne sonore che ricordano l'opera lirica nel modo in cui sottolineano lo sviluppo emotivo di una scena.
Le maggiori innovazioni del neorealismo risiedono nell'articolazione del racconto: un motivo ricorrente è quello della coincidenza, come quando in "Ladri di biciclette" Ricci e Bruno incontrano per caso il ladro vicino alla casa della santona che sono andati a trovare. Questi sviluppi narrativi, che rinnegano il logico incatenarsi degli eventi tipico del cinema classico, sembrano più obiettivamente realistici e riflettono la casualità degli incontri nella vita quotidiana.
A questa tendenza va aggiunto l'uso massiccio dell'ellissi: i film neorealisti spesso trascurano le cause degli eventi a cui assistiamo. Come ha notato Bazin, il massacro di una famiglia di contadini da parte dei tedeschi in "Paisà" è rivelato all'improvviso e in maniera scioccante quando i partigiani, appostati in un campo in attesa di un aereo, trovano un neonato che piange accanto ai corpi senza vita dei genitori.
L'allentarsi della linearità della trama è forse più evidente nei finali volutamente irrisolti: a metà di "Roma città aperta", Francesco sfugge ai fascisti, ma poi non se ne sa più nulla; in "Ladri di biciclette", Ricci e Bruno si perdono tra la folla senza aver ritrovato la bicicletta: come tireranno avanti, il film non lo dice.
Anche per raccordare le scene i neorealisti utilizzano un'interpunzione di tipo hollywoodiano, il risultato sembra sempre una mera sequenza di eventi: la scena B segue alla scena A semplicemente per il fatto di essere avvenuta dopo, non perché la scena A ne sia la causa. Gran parte di "Ladri di biciclette" ruota attorno alla ricerca della bicicletta rubata, dal mattino al tardo pomeriggio, seguendo la cronologia della giornata.
Anche le sequenze finali di "Germania anno zero" (1947), il terzo film di Rossellini nel dopoguerra, sono caratterizzate da questo andamento episodico: il piccolo Edmund - che riassume in sé la confusione morale della Germania sconfitta - abbandona la famiglia e vaga per le strade di Berlino; gli ultimi quattordici minuti del film lo seguono attraverso un'unica notte fino al mattino successivo, concentrandosi su avvenimenti casuali. Edmund guarda una prostituta che lascai un suo cliente, gioca a "campana" nelle strade vuote, vagabonda tra le rovine degli edifici, tenta di unirsi ad altri ragazzi in una partita a pallone, fino a quando si uccide buttandosi dalla cima di un edificio semidistrutto dopo aver visto portare via la bara di suo padre. Benché il suicidio sia una conclusione narrativa tradizionale, Rossellini ci conduce ad esso attraverso un film fatto di avvenimenti quotidiani, colti quasi per caso.
Davanti a una trama che consiste di fatti privi di un reciproco nesso causale non sa più distinguere tra "scene madri" e momenti di passaggio: il racconto neorealista tende ad "appiattire" tutti gli eventi allo stesso livello, attenuando le scene più intense e privilegiando situazioni e comportamenti ordinari. Bazin fu eloquente nel dire che l'esplorazione di Roma in "Ladri di biciclette" permette allo spettatore di notare la differenza tra l'andatura di Bruno e quella di Ricci. In "Umberto D", una scena è dedicata al risveglio della cameriera che inizia il suo lavoro quotidiano in cucina: Bazin elogiò l'indugiare della macchina da presa su "micro-azioni" insignificanti che il cinema non mostra mai. Questo approccio non ortodosso alla narrativa consentiva ai neorealisti di attrarre l'attenzione dello spettatore sui dettagli "irrilevanti" di cui è fatta la vita quotidiana.
Il neorealismo si sforzava di descrivere la vita comune in tutte le sue sfumature.
In "Paisà" scene vagamente comiche o patetiche si alternano a esplosioni di violenza. Probabilmente l'esempio più famoso di commistione di toni in un film dell'epoca è la scena della morte di Pina in "Roma città aperta", che rivela come uno stile di cinema piuttosto tradizionale possa veicolare brusche variazioni di timbro emozionale.
Rossellini inizia la scena con una forte suspense quando i soldati tedeschi circondano un blocco di edifici e iniziano a cercare partigiani nascosti.
Don Pietro e il piccolo Marcello fingono di visitare un anziano inquilino e intanto nascondono le munizioni dei partigiani nel letto del vecchio — uno stratagemma che innesca risvolti farseschi quando costui rifiuta di fingersi in punto di morte.
Il tono cambia di nuovo quando Pina vede che i tedeschi hanno catturato Francesco, il suo uomo, e lo stanno portando via con un camion. Si libera dalle guardie e corre dietro al camion. Don Pietro, orripilato, nasconde contro di sé il viso di Marcello, figlio di Pina. Francesco grida "Tenetela!". Improvvisamente si sente una raffica di mitragliatrice. Nell'inquadratura seguente, vista dagli occhi di Francesco, Pina è colpita e cade. Inizia una musica cupa. Le ultime quattro inquadrature della sequenza, tute riprese con il teleobiettivo come in un cinegiornale, mostrano Marcello e Don Pietro correre verso la donna morta e inginocchiarsi accanto a lei.
La limpidezza dello stile permette a Rossellini di cogliere alcune inquietanti sfumature narrative. In un film più classico, Francesco avrebbe visto l'assassino di Pina e avrebbe passato il resto del film a cercare la vendetta. Ma qui Pina è abbattuta da una raffica anonima e l'identità dell'assassino non è mai rivelata. Per giunta, il tono emotivo passa brutalmente dalla suspense alla commedia, di nuovo alla suspense e infine allo shock e al dolore. Inoltre Pina è stata presentata come la protagonista del film e la sua morte improvvisa costituisce una sorpresa alla quale nel 1945 ben pochi spettatori erano preparati. Come la morte di André Jurieu in "La regola del gioco" (La règle du jeu, 1939) di Renoir, l'assassinio di Pina suggerisce che nella vita reale — a differenza che nei film — i buoni possono morire in qualsiasi momento e senza un perché.
Le soluzioni narrative e stilistiche del neorealismo ebbero grande influenza sul cinema moderno internazionale che sarebbe sorto di lì a poco. Le riprese in esterni con doppiaggio in studio, l'amalgama fra attori professionisti e non, le trame fondate sulla casualità, le ellissi, i finali aperti, le micro-azioni e l'alternanza esasperata di toni sono tutte strategie che sarebbero state sviluppate nei quarant'anni successivi da autori di tutto il mondo.

1948 - 1954
A parte opere come "Umberto D", il neorealismo rosa fu la forma dominante del movimento nei primi anni Cinquanta: l'enorme successo di "Pane, amore e fantasia" di Luigi Comencini aprì la strada a un filone di imitazioni che proseguì fino agli anni Sessanta. Il neorealismo rosa conservava in parte la scelta di ambientazioni autentiche, l'uso di attori non professionisti e occasionalmente sfiorava questioni sociali, ma riconduceva il neorealismo nella più forte tradizione della commedia italiana. Mentre la ripresa economica continuava a spingere l'Italia verso una crescente prosperità, gli spettatori divennero sempre più insofferenti all'attenzione neorealista verso povertà e sofferenza.
Nello stesso periodo, l'industria interna cominciava a prestare più attenzione al mercato internazionale. Anche se centinaia di film americani erano distribuiti con successo nell'Italia degli anni Quaranta, il governo italiano congelava i profitti all'interno del Paese. Questo incoraggiò Hollywood a reinvestire il denaro nella produzione, distribuzione e programmazione di film italiani. L'Italia sosteneva anche produzioni americane sul proprio territorio, mettendo a disposizione attori e tecnici.
Molti generi tradizionali si rivelarono esportabili: il fortunatissimo "Fabiola" (1948) di Blasetti ridiede vita al kolossal storico e le platee in Europa e in America scoprirono il gusto del "peplum", parate di forzuti come "Ulisse" (di Mario Camerini, 1954) e "La rivolta dei gladiatori" (di Vittorio Gettata 1958). Altrettanto successo arrise alla commedia all'italiana in cui, ai collaudati Vittorio De Sica e Totò, si affiancavano scoperte del dopoguerra come Sophia Loren, Vittorio Gassman, Alberto Sordi e Marcello Mastroianni: i titoli di maggior successo furono "I soliti ignoti" (di Mario Monicelli, 1958) e "Divorzio all'italiana" (di Pietro Germi, 1962). Carlo Ponti e Dino de Laurentis erano l punte di diamante di una nuova generazione di produttori che guardava al di là della frontiera italiana e trasformarono gli studi di Cinecittà, finalmente rimessi in funzione, in una vera fabbrica di film.
Altri cineasti si indirizzarono verso il ritratto psicologico. L'attenzione era incentrata sull'importanza delle circostanze sociali nei rapporti fra gli individui.
L'interesse per gli effetti della guerra e della ricostruzione segna nei primi anni cinquanta sia l'opera di Antonioni che di Rossellini. Entrambi rivelano come la vita dell'individuo sia alternata dalla confusione del dopoguerra.
Dopo la trilogia della guerra - "Roma città aperta", "Paisà" e "Germania anno zero" - il cinema di Rossellini si concentra sul tentativo di ridare umanità a quella che vede come una società in disfacimento: "Viviamo - dichiarò il regista - in un mondo che ben poco ha di umano, nella paura e nell'angoscia. L'umanità beve whisky per eccitarsi e poi prende i tranquillanti per trovare la pace". Nel condurre il pubblico verso la consapevolezza delle necessità della verità spirituale, della conoscenza di se stessi e dell'impegno verso il prossimo, Rossellini vedeva la continuazione del progetto neorealista: i suoi film divennero altamente didascalici, tesi a mostrare come l'opinione comune tenda a scambiare le persone sensibili per sempliciotti, eretici o folli. Ne "Il miracolo" (episodio "L'amore", 1948; l'altro episodio è "La voce umana") ci racconta di una guardiana di capre ritardata, convinta di essere incinta del figlio di Dio, scacciata dagli abitanti del suo villaggio e costretta a rifugiarsi sulla montagna per partorire da sola. In "Francesco, giullare di Dio" (1950), Francesco d'Assisi e i suoi sgambettanti, infantili discepoli diventano modelli di gentilezza e carità in un mondo corrotto.
Nei film con Ingrid Bergman, Rossellini descrive la graduale scoperta della consapevolezza morale da parte di un personaggio femminile: una profuga egoista e calcolatrice finisce per accettare l'amore del marito dopo un'esperienza mistica sulle pendici di un vulcano ("Stromboli terra di Dio", 1949); una madre distrutta dal suicidio del figlio dedica la sua vita ad alleviare le sofferenze degli altri: la sua carità non può che essere scambiata per follia e lei finisce imprigionata in un manicomio ("Europa '51", 1951); infine, una compassata donna inglese scopre in Italia un Paese spaventosamente vivo, perfino nelle catacombe: solo dopo il passaggio casuale di una processione religiosa, forse, lei e il marito ricominciano ad amarsi ("Viaggio in Italia", 1953).
Rossellini si concentra sulla straordinarietà di chi sa riscoprire valori fondamentali nel mondo del dopoguerra. Al contrario, i film di Antonioni sono incentrati sul modo in cui l'ambizione e i cambiamenti di classe spingono gli indivisui a perdere il loro senso morale. In "Cronaca di un amore" ( 1950), ad esempio, il protagonista e la protagonista, anni prima, hanno accidentalmente provocato la morte di un'amica; ora la donna è sposata con un facoltoso industriale mentre l'uomo fa il venditore di automobili. La curiosità del marito di lei per il passato della moglie lo porta ad assumere un investigatore, le cui ricerche finiscono per riaccendere la passione fra i due amanti, inducendoli a progettare l'omicidio dell'industriale.
La narrazione di molti film d'autore italiani dei primi anni Cinquanta si fonda sulle convenzioni neorealiste come l'ellissi e il finale aperto: in particolare, l'attenzione agli stati psicologici degli individui condusse Rossellini e Antonioni verso uno stile anti-drammatico derivato dalla particolare attenzione del neorealismo agli eventi meno significativi. La trama di un film poteva alternare scene di conversazione banale ad altre in cui si vedono i personaggi interagire con l'ambiente o semplicemente muoversi attraverso un paesaggio.
Un esempio canonico di racconto de-drammatizzato è "Viaggio in Italia" di Rossellini, in cui le liti fra Katherine e il marito si alternano con scene delle escursioni di lei in luoghi turistici di Napoli e dintorni: queste gite suggeriscono gli aneliti romantici delle donna, la sua incertezza sul concetto di piacere fisico, il suo desiderio di maternità e la conducono a riconoscere la sterilità del rapporto con il marito. "Viaggio in Italia" punta a un cinema basato su trame non complesse, dall'andamento episodico, in cui incidenti casuali, anti-drammatici, rivelano i mutamenti di stato d'animo dei personaggi e suggeriscono problemi a malapena articolati. La scena nel museo di "Viaggio in Italia" è notevole per i suoi lunghi movimenti di macchina e in questo senso è tipica dello sviluppo stilistico dei film italiani a partire dagli anni Cinquanta. Sempre più spesso i registi utilizzavano lente carrellate per esplorare le relazioni tra i personaggi e un ambiente concreto. I film di Antonioni di quel periodo spinsero questa tendenza all'estremo affidandosi a lunghi piani sequenza; alcune scene consistono di appena due o tre inquadrature, ciascuna di insolita durata: mediamente trenta secondi in "Cronaca di un amore"; quasi un minuto in "La signora senza camelie". Una scena poteva anche essere risolta in un'unica inquadratura, come nel piano sequenza di "Cronaca di un amore".
Dopo i primi anni Cinquanta i cineasti misero in scena personaggi delle classi medie e alte, nell'intento di analizzare gli aspetti psicologici della vita contemporanea. In alternativa, Federico Fellini descriveva le classi medie e basse in modo più poetico in una serie di film che inizia con "Luci del varietà" (1950, co-diretto con Lattuada). Le sue opere negli anni Cinquanta trattano in modo lirico, quasi mistico, soggetti di stampo neorealista. In "La strada" (1954), per esempio, la descrizione dell'innocenza maltrattata ha la semplicità di una parabola: i saltimbanchi Zampano e Gelsomina vivono in una triste campagna che di tanto in tanto assume toni e atmosfere più misteriosi. I critici marxisti attaccarono Fellini per essersi allontanato dal neorealismo, ma lui ribattè di essere rimasto fedele allo spirito di "sincerità" del movimento. In ogni caso l'opera di: Fellini — non meno di quella di Rossellini o Antonioni — spostò l'asse del cinema italiano verso una maggiore immaginazione e ambiguità.

1939 - 1957
La Spagna offre un illuminante esempio dell'influenza del neorealismo italiano. A prima vista nessun Paese avrebbe potuto sembrare meno ricettivo agli impulsi del movimento: nel 1939 Franco aveva vinto la guerra civile e instaurato una dittatura fascista. Dopo la seconda guerra mondiale la Spagna rientrò gradualmente nella comunità mondiale, ma rimase una Nazione a regime autoritario fino a metà degli anni '70.
L'industria cinematografica era controllata da un ministero statale che censurava sceneggiature prima delle riprese, imponeva il doppiaggio di tutti i film nella lingua "ufficiale" castigliana e aveva creato un monopolio statale su cinegiornali e documentati. Il regime esigeva film devoti e sciovinisti, e il risultato fu una serie di drammi sulla guerra civile (cine cruzada), saghe storiche, film religiosi e adattamenti letterari — fra cui un "Don Quixote de la Mancha" (di Rafael Gil, 1947) che paragonava l'eroe idealista di Cervantes a Franco. A un livello meno prestigioso, l'industria sfornava musical popolari, commedie e film sulle corride. La cinematografia interna disponeva anche di strutture per ospitare coproduzioni o produzioni straniere. Nei primi anni '50, però, le difficoltà cominciarono a essere palesi. La CIFESA, la maggiore casa di produzione del precedente decennio, investì troppo denaro in produzioni ambiziose e fallì: la reazione al fallimento delle superproduzioni fu l'apparizione di film a basso costo — ad esempio "Surcos" (Solchi, di José Antonio Nieves Conde, 1951) — che affrontavano problemi sociali, spesso servendosi alla maniera neorealista di riprese in luoghi reali e di attori non professionisti. Alla scuola di cinema IIEC (fondata nel 1947) gli studenti avevano la possibilità di vedere film stranieri proibiti al grande pubblico: nel 1951, in una settimana dedicata al cinema italiano, alla IIEC si proiettarono "Ladri di biciclette", "Miracolo a Milano", "Roma città aperta", "Paisà" e "Cronaca di un amore"; subito dopo, acluni diplomati della scuola fondarono una rivista, «Objectivo», dedicata alla discussione delle idee neorealiste.
L'impatto immediato del neorealismo è evidente in particolar modo nell'opera dei due registi spagnoli più noti degli anni '50, Luis Garcia Berlanga e Juan Antonio Bardem. Noti come "B & B", i due facevano parte della prima classe laureata all'IIEC e nei primi anni del decennio collaborono a diversi progetti. "Benvenuto Mr.Marshall!" (Bienvenido, Mr. Marshall, 1951), scritto da Bardem e diretto da Berlanga, è una favola comica - che ricorda il "Miracolo a Milano" di De Sica - in cui una piccola città si trasforma in un pittoresco stereotipo per beneficiare del Piano Marshall.
Di enorme successo in Spagna, "Benvenuto Mr.Marshall!" era una satira del crescente strapotere americano, lanciava stoccate ai film di Hollywood e al folklore spagnolo, e si appellava benevolmente all'unità popolare. Il tono fu confermato in successivi film di Berlanga come "Calabuig" (Id., 1956), una parodia della corsa agli armamenti, e promulgò di fatto ciò che sarebbe stata definita "estètica franquista", un trattamento ironico o beffardo di soggetti apparentemente innocui. "Benvenuto Mr.Marshall!" fu scelto a rappresentare ufficialmente la Spagna al Festival di Cannes e a dispetto delle controversie sulla sua posizione anti-americana ottenne una menzione speciale. Il film lanciò anche la carriera di Bardem, la cui statura fu presto riaffermata sulla scena internazionale da "Gli egoisti" (Muerte de un ciclista, 1955), premiato a Cannes come miglior film, e da "Calle Mayor" (Id., 1956), che vinse il premio della Critica alla Mostra del Cinema di Venezia.
Berlanga miscelava gli impulsi neorealisti verso il realismo regionale con una tendenza alla commedia sardonica. Bardem invece preferiva un'analisi psicologica più cupa, che doveva molto agli sviluppi italiani degli anni Cinquanta: "Calle Mayor", feroce accusa alla ristrettezza e all'egotismo masshile di provincia, ricorda "I vitelloni", ma è privo dell'umorismo indulgente di Fellini. Analogamente, "Gli egoisti" deve qualcosa a "Cronaca di un amore", perfino la protagonista, Lucia Bosé, è la stessa del film di Antonioni. La trama del film di Bardem mostra come la relazione tra la moglie di un uomo ricco e un professore universitario sia sconvolta quando i due investono un ciclista con la loro macchina: nel tentativo di nascondere il crimine, il legame della coppia si spezza. Il film si chiude con la moglie che, forse deliberatamente, travolge il suo amante sul luogo dell'incidente. Il montaggio di Bardem crea un commento narrativo alla vicenda e la profondità di fuoco delle inquadrature isola i protagonisti in immagini che ricordano Antonioni.
Mentre le opere di Berlanga, di Bardem e altri si guadagnavano l'attenzione internazionale, in Spagna cominciava a muovere i primi stentati passi una cultura cinematografica alternativa. Il diffondersi dei cineclub nelle università portò nel 1955 a una conferenza a Salamanca dove cineasti, critici e studenti avviarono una discussione sul futuro del cinema nazionale e Bardem denunciò il cinema spagnolo come «politicamente inutile, socialmente falso, intellettualmente inferiore, esteticamente inesistente e industrialmente malato». La presa di posizione gli costò l'arresto sul set di "Calle Mayor": il regista fu liberato solo dopo le proteste internazionali.
Gli incontri di Salamanca non influenzarono l'industria ma incoraggiarono i cineasti a sfidare i limiti della politica statale. Questa resistenza fu favorita dalla casa di produzione UNINCI, fondata nel 1951 e responsabile di "Benvenuto Mr.Marshall!". Nel 1957, Bardem si unì al gruppo di registi dell'UNINCI e persuase Luis Buñuel a tornare in Spagna per fare un film: il regista ebbe il benvenuto del governo e la sua sceneggiatura fu approvata con un'unica modifica (che Buñuel stesso giudicò un miglioramento). "Viridiana" (1961) vinse la Palma d'Oro al Festival di Cannes, ma poi alcuni alti prelati lo dichiararono blasfemo e il governo spagnolo proibì quello che era il più celebre film nazionale del dopoguerra. L'UNINCI si sciolse. La ribellione dei giovani registi e critici era andata troppo oltre e gli esperimenti di neorealismo spagnolo erano finiti.

1945 - 1955
Modello imprescindibile di realismo sociale e ambiguità psicologica, il neorealismo non fu però l'unica tendenza ad affermarsi nell'Europa postbellica: la Francia si impose per il prestigio del suo cinema d'arte, con il ritorno di molti importanti autori d'anteguerra e l'emergere di giovani sperimentatori; il cinema scandinavo balzò alla ribalta grazie a cineasti provenienti dall'esperienza teatrale che contribuirono a dar forma al nascente cinema d'autore; gli inglesi, nel complesso meno inclini alla sperimentazione, incontrarono una nuova popolarità nei Paesi anglofoni. Coproduzioni, esportazione e festival contribuirono a offrire ai film una platea internazionale.
Il primo decennio del cinema francese post-bellico fu dominato da ciò che un critico definì nel 1953 il "cinema di qualità", un termine all'inizio piuttosto ampio, ma che ben presto fu identificato con determinati registi e sceneggiatori.
La tradizione di qualità mirava a una produzione "di prestigio" ed era costituita in massima parte da adattamenti di classici letterari, tanto che il ruolo creativo dello sceneggiatore era spesso considerato pari, se non superiore, a quello del regista. Gli interpreti erano scelti fra le stelle di prima grandezza - o nei teatri più celebri - e spesso i film erano impregnati di quel romanticismo reso famoso dal realismo poetico d'anteguerra: gli amanti si trovano sempre in ambienti freddi o minacciosi, il più delle volte il finale è tragico e la donna è regolarmente idealizzata, descritta come misteriosa e inafferrabile. Stilisticamente, gran parte dei film appartenenti alla tradizione di qualità somiglia ai drammi romantici di serie A prodotti a Hollywood e in Gran Bretagna — come "Arco di trionfo" (Arch of Triumph, di Lewis Milestone, 1948) o "Breve incontro" (Brief Encounter, di David Lean, 1945). Fra scenografie spettacolari, effetti speciali, illuminazione accurata e costumi stravaganti, nessuna risorsa degli studios veniva trascurata per amplificare l'impatto dì queste raffinate storie di passione e malinconia.
Per certi versi il cinema di qualità portava avanti abitudini sviluppatesi sotto l'Occupazione: i francesi avevano perfezionato un romanticismo letterario da teatro di posa culminato nella collaborazione fra Marcel Carné e Jacques Prévert in "Amanti perduti" e non c'è da stupirsi quindi se tra i più famosi film di qualità si trova "Mentre Parigi dorme" sempre di Carné.
In questa allegoria della vita del dopoguerra, una giovane coppia cerca di sfuggire al borsanerista di cui lei è stata l'amante; nel corso della notte incontrano Destino, un vagabondo che li ammonisce continuamente sul loro fato.
Costosissimo, per via delle colossali scenografie che ricostruiscono intere strade e perfino una banchina portuale, "Mentre Parigi dorme" fu un disastro finanziario: Carné e Prévert non lavorarono più insieme, anche se il regista continuò a puntare su un cinema simbolico, soprattutto con "Juliette, o la chiave dei sogni" (Juliette, ou la clef des songes, 1951).
Maggior fortuna arrise al duo di sceneggiatori Jean Aurenche e Pierre Bost che, già attivi sotto l'Occupazione, divennero celebri nel dopoguerra con adattamenti di classici di Feydeau, Colette, Stendhal e Zola, e furono eletti a simbolo della tradizione di qualità. La loro "Sinfonia pastorale" — riduzione di un manzo di André Gide — racconta l'attrazione fatale di un padre e un figlio per la stessa ragazza cieca. In "Il diavolo in corpo" Aurenche e Bost si servono del flashback per un'altra triste storia di amore adolescenziale: mentre la gente festeggia la fine della prima guerra mondiale, il giovane François ricorda il suo amore per Marthe, fidanzata con un soldato; quando questi torna dalla guerra, Marthe muore dando alla luce il figlio di François. "Il diavolo in corpo" consolidò la reputazione del protagonista Gérard Philipe e offrì al regista Claude Autant-Lara, con cui Aurenche e Bost avrebbero ancora lavorato spesso, il primo successo del dopoguerra. Gran parte del pubblico anglofono conobbe Aurenche e Bost attraverso "Giochi proibiti" (Jeux interdits, 1952), diretto da René Clément. La coppia romantica è qui composta da due bambini - una profuga orfana accolta in una famiglia di campagna e il figlio minore della famiglia stessa - che raccolgono animaletti morti per dar loro elaborate sepolture. Il film ha un tocco alla Buñuel nel modo in cui i morbosi riti dei bambini ironizzano con innocenza sulle ossessioni funebri della Chiesa, ma nel complesso Aurenche e Bost scelgono la via del lirismo, opponendo alla comica rivalità tra le famiglie dei contadini la devozione che i bambini dimostrano l'uno per l'altro e, insieme, per la bellezza della morte.
Fra le altre coppie celebri della tradizione di qualità, una delle più notevoli è quella composta dallo sceneggiatore Charles Spaak, autore di molti dei film più noti degli anni Trenta, e da André Cayatte, un avvocato che negli anni Cinquanta iniziò a dirigere film sui problemi sociali: anche le loro pellicole — come "Giustizia è fatta" (Justice est faite, 1950) e "Siamo tutti assassini" (Nous sommes tous des assassins, 1952) — sono progetti patinati da teatro di posa ma nell'aspra critica al sistema giudiziario francese rappresentano un'alternativa al solito romanticismo, a favore di un atteggiamento didattico e talora persino pedante.
La maggior parte dei registi della tradizione di qualità erano giovani che avevano avviato la loro carriera dopo l'avvento del sonoro, di solito sotto l'Occupazione. Un discorso in parte diverso merita però il contemporaneo Henri-Georges Clouzot, giunto alla notorietà con "Il corvo": Clouzot ottenne fama internazionale specializzandosi in film di forte suspense, come "Legittima difesa" (Quai des orfevres, 1957), "Vite vendute" (Le salaire de la peur, 1953) e "I diabolici" (Les diaboliques, 1955) e portò avanti la tradizione con fatalistiche storie d'amore con sceneggiature di ferro e con thriller affini al cinema francese degli anni Trenta e Quaranta.

1940 - 1962
Danimarca e Svezia dimostrarono di avere le cinematografie più vitali della Scandinavia. Così come per il neorealismo italiano e il cinema francese del dopoguerra, i primi contributi di questi paesi al cinema artistico degli anni Quaranta apparvero durante il conflitto mondiale.
L'industria cinematografica danese era stata forte negli anni Dieci, ma durante la prima guerra mondiale aveva perso terreno sulla scena internazionale. Sul finire degli anni Trenta riguadagnò posizioni, grazie anche a una generosa ploitica del governo che istituì tasse sui biglietti per creare un fondo destinato al cinema artistico e documentario.
I tedeschi invasero la Danimarca nel 1940 e, come in altre nazioni, il bando nazista sulle importazioni dai paesi alleati fu di sprone alla produzione interna. Sotto l'Occupazione si continuarono a fare documentari e film didattici, ma la pellicola più importante, girata per la società grande del Paese (la Palladium), fu il "Dies Irae" (Vredens Dag, 1940) di Carl Theodor Dreyer. Questo cupo studio della stregoneria e del dogma religioso in un villaggio del Seicento segnò il ritorno di Dreyer al lungometraggio di produzione danese dopo quasi un ventennio. Il film divenne un caso e fu considerato da molti un'allegoria antinazista. Quando, dopo la guerra, fu possibile vederlo all'estero, esso suscitò reazioni non meno controverse, ma più per il suo incedere solenne, il rigore tecnico e le provocanti ambiguità. "Dies Irae" restituì Dreyer alla scena del cinema internazionale.
Da quando Victor Sjostrom e Mauritz Stiller, verso la metà degli anni Venti, si erano lasciati tentare da Hollywood, il cinema svedese era progressivamente caduto nell'ombra. Ma la Svezia non fu invasa dai nazisti e la sua scelta di neutralità, che impediva l'accesso a qualsiasi film straniero considerato propagandistico, garantì una mancanza di competizione che stimolò l'industria interna. Nel 1942 l'importante studio Svensk Filmindustri assunse Carl Anders Dymling come direttore; questi prese Sjostrom come supervisore artistico alla produzione, gesto che fu considerato un ritorno alla grande tradizione cinematografica nazionale.
Finita la guerra, le cinematografie danese e svedese beneficiarono della rapida ripresa della Scandinavia. La produzione annuale media era di 15-20 film in Danimarca e di circa il doppio in Svezia - cifre minori rispetto ai picchi del periodo bellico, ma comunque notevoli per nazioni così piccole. Qui il cinema di qualità costava relativamente poco: la produzione era dominata da grandi società che perseveravano nella politica dei budget ridotti e delle riprese contenute in periodi brevi. La Danimarca impose una tassa sull'intrattenimento per poter offrire sussidi a film "artistici" e nel 1951, in seguito alla pressione dei cineasti, anche la Svezia avviò una politica analoga.
A parte Dreyer, i cineasti scandinavi più famosi del dopoguerra erano svedesi. Nella seconda metà dell'Ottocento, il norvegese Henrik Ibsen e lo svedese August Strindberg avevano reso celebre in tutto il mondo la drammaturgia scandinava: entrambi prediligevano i toni fantastici ed espressionisti e loro opere spesso ricorrevano a simbologie complesse per suggerire gli stati d'animo dei personaggi. Strindberg aveva anche sviluppato un genere di dramma psicologico interiore definito Kammerspiel, o "dramma da camera": un tipico Kammerspiel si svolgeva in un'unica stanza e veniva rappresentato in piccoli teatri nei quali il pubblico poteva stare molto vicino agli attori. Tra i cineasti segnati da queste tendenze moderniste, i più importanti furono Alf Sjòberg e Ingmar Bergman.
Dopo aver girato un film nel 1929, Sjòberg era diventato il regista principale del Regio Teatro Drammatico di Stoccolma. Tornò al cinema nel 1939 e durante la guerra portò a termine diversi film. Uno dei più originali fu "Strada di ferro" (Himlaspelet, 1942), che fondeva il dramma simbolico con le tradizioni del paesaggio naturalistico del cinema muto per creare una fantasia allegorica di redenzione protestante.
Maggiore influenza al di fuori della Svezia ebbe il suo "Spasimo" (Hets, 1943) seneggiato da Bergman, in cui un liceale tormentato dal suo insegnante di latino — soprannominato Caligola — scopre che questi è un libertino filonazista e assassino. La simpatia di "Spasimo" per la ribellione giovanile emerge non tanto dalla sua alquanto schematica trama quanto da uno stile visivo derivato dall'espressionismo tedesco: l'architettura incombente e le lunghe ombre nettamente stagliate trasformano l'intera città in una prigione; il tozzo Caligola, con i suoi occhiali tondi e le maniere affettate, diventa un Caligari del dopoguerra, e la sua ombra minaccia gli amanti con un gesto che riecheggia il vampiro di Murnau in "Nosferatu".
Dopo la guerra, Sjoberg continuò ad alternarsi tra teatro e cinema. Nel 1950, dopo aver messo in scena la pièce naturalista "Miss Julie" - scritta da Strindberg nel 1888 - la portò sullo schermo in "La notte del piacere" (Froken Julie, 1951). Il film è incentrato sulle interpretazioni degli attori, specialmente su quella di Anita Bjork che da vita a una frivola Julia, ma costituisce anche un'espansione del Kammerspiel originale: nel testo di Strindberg i personaggi raccontano i loro ricordi attraverso monologhi, mentre Sjoberg drammatizza le scene con flashback che combinano passato e presente nella stessa inquadratura. Alcune convenzioni di ciò che diverrà cinema d'arte possono essere trovate già nel Kammerspiel originale di Strindberg, ma Sjoberg vi aggiunge di suo un'ambiguità modernista che nasce dalla manipolazione filmica dello spazio e del tempo.
Come Sjoberg, anche Ingmar Bergman veniva dal teatro. Dopo un primo incarico come sceneggiatore, quest'uomo dall'energia prodigiosa iniziò a dirigere nel 1945: non ancora quarantenne aveva già completato 19 film e messo in scena oltre 60 commedie.
I film di Bergman nel dopoguerra gli guadagnarono la reputazione artista in grado di padroneggiare più generi. Le sue prime pellicole erano drammi domestici, spesso incentrati su giovani coppie alienate, alla ricerca della felicità attraverso l'arte o la natura ("Un'estate d'amore", Sommarlek, 1950; "Monica e il desiderio", Sommaren med Monika, 1952). Ben presto, con un cast di abili interpreti a disposizione, l'attenzione del regista si fecalizzò sui fallimenti dell'amore coniugale, a volte trattato in modo comico, come in "Lezione d'amore" (En lektìon i karlek, 1954), altre in dolorosi profondi psicodrammi. come "Una vampata d'amore" (Gycklarnas afton, 1953). Passò quindi a opere più consapevolmente artistiche: l'eleganza mozartiana di "Sorrisi di una notte d'estate" (Sommarnattens leende, 1955), l'allegorico "Il settimo sigillo" (Det sjunde inseglet, 1956), l'alchimia di espressionismo onirico, ambienti naturali e complessi flashback di "Il posto delle fragole" (Smultronstället, 1957). Per molti spettatori e critici, il culmine della carriera di Bergman fu una portentosa trilogià di film Kammerspiel: "Come in uno specchio" (Såsom i en spegel, 1961), "Luci d'inverno" (Nattvardsgästerna, 1962) e "Il silenzio" (Tystnaden, 1962).
"Alle soglie della vita" (Nara livet, 1958) mostra l'adozione da parte di Bergman di tecniche teatrali, favorite anche da una trama incentrata su tre donne chiuse in una sala maternità per un periodo di quarantott'ore. Il tono Kammerspiel è affermato fin dalla prima inquadratura, in cui si vede la porta della sala aprirsi per fare entrare Cecilia, incinta. Il film finisce con la donna più giovane, Hjòrdis, che esce con decisione dalla stanza avviandosi verso un futuro incerto. Il passato delle tre protagoniste è rivelato solo dal loro dialogare e a ogni attrice è riservata una scena iperdrammatica: la prima, forse la più impressionante, è quella della reazione di Cecilia alla morte del suo bambino appena nato. Tipicamente, Bergman indugia su questa esplosione di vergogna, angoscia e dolore fisico: in una sorta di trance prodotta dai tranquillanti, cullata come una bimba da un'infermiera, Cecilia ricorda le sue preoccupazioni sul parto, e si accusa di essere un fallimento come moglie e come madre, in un'alternanza di singhiozzi, grida di dolore e isterici scoppi di risa.
Il monologo dura oltre quattro minuti ed è ripreso con inquadrature molto lunghe e crudi primi piani frontali. Qui Bergman utilizza il primo piano a scopi squisitamente teatrali, intensificando l'attenzione dello spettatore sull'interpretazione di Ingrid Thulin.
Sul finire degli anni Cinquanta, Bergman aveva ormai raggiunto il successo internazionale. "Sorrisi di una notte d'estate" , "Il settimo sigillo", "Il posto delle fragole", "Alle soglie della vita" vinsero premi nei maggiori festival; "La fontana della vergine" (Jungfrukallan, 1960) e "Come in uno specchio" ottennero l'Oscar e Bergman divenne il regista europeo più universalmente noto del dopoguerra.

1945 - 1960
Durante la guerra la produzione inglese declinò: gli studi cinematografici furono convertiti a usi militari e i tecnici arruolati. Tuttavia, l'alta affluenza nelle sale ben presto diede all'industria nuovo impulso. Le società maggiori, la Rank Organization, capeggiata da Arthur J. Rank, e la Associated British Picture Corporation estesero il loro dominio.
I produttori inglesi continuarono a discutere se fosse meglio produrre film ad alto budget destinati all'esportazione o film meno costosi indirizzati al mercato interno. Come sempre, molte pellicole erano adattamenti letterari interpretate da attori famosi: Laurence Olivier diede un seguito al suo "Enrico V" (Henry V, 1945) dirigendo e interpretando "Amleto" (Hamlet, 1948) e "Riccardo III" (Richard III, 1953); Gabriel Pascal proseguì con i drammi di George Bernard Shaw realizzando uno smagliante "Cesare e Cleopatra" (Caesar and Cleopatra, 1946), con Vivien Leigh e Claude Rains. Questa linea artistica è paragonabile a quella della tradizione di qualità francese. In quel periodo, inoltre, due importanti registi inglesi raggiunsero fama internazionale. David Lean aveva esordito durante la guerra dirigendo insieme a Noèl Coward "Eroi del mare" (In Which We Serve, 1942). Al termine del conflitto, la sua carriera iniziò con "Breve incontro", storia d'amore fra un uomo e una donna di mezza età che, intrappolati in matrimoni ormai spenti, si incontrano più volte ma resistono al desiderio di avere una relazione sessuale: un saggio di controllato romanticismo che deve molto all'interpretazione della protagonistia, Clelia Johnson.
Lean proseguì con due fortunati adattamenti di romanzi di Dickens,
"Grandi speranze" (Great Expectations, 1946) e "Oliver Twist" (ld., 1948): in entrambi appariva Alec Guinness, che in pochi anni sarebbe divenuto l'attore più popolare dei film inglesi da esportazione. "Oliver Twist" ha lo stile tipico della produzione postbellica di Lean, con scenografie ampie e oscure,
profondità di fuoco e illuminazione da noir. Lean realizzò anche commedie come "Hobson il tiranno" (Hobson's Choice, 1953), in cui una protagonista volitiva sconfigge il suo tirannico padre. In seguito sarebbe divenuto celebre per kolossal in costume quali "Lawrence d'Arabia" (1962) e "Il dottor Zivago" (1965).
L'altro regista di rilievo negli anni del dopoguerra era Carol Reed, Reed aveva iniziato a dirigere film sul finire degli anni Trenta ma la sua reputazione internazionale si deve a "Il fuggiasco" (Odd Man Out, 1947), "Idolo infranto" (Fallen Idol, 1948), "Il terzo uomo" (The Third Man, 1949), "L'avventuriero della Malesia" (An Outcast of the islands, 1951) e "Accadde a Berlino" (The Man Between, 1953).
Come Lean, Reed era incline a un'illuminazione drammatica, i cui
effetti erano spesso intensificati da un uso spettacolare della macchina da presa: "Il terzo uomo" (forse anche a causa dell'influenza di Orson Welles, che vi interpreta il ruolo del cattivo) è pieno di inquadrature inclinate e la sua celeberrima colonna sonora usa uno strumento inconsueto come la cetra tirolese.
La consapevolezza da parte di Reed delle regole dell'emergente cinema d'arte è evidente in "Il fuggiasco", una delle sue opere più importanti: un commando dell'IRA intende rubare il denaro degli stipendi per finanziare le proprie attività trerroristiche. Durante la rapina, il protagonista (James Mason) viene ferito; nel corso della sua fuga incontrerà una serie di personaggi intenzionati a salvarlo o a sfruttarlo. Anche se Reed girò alcune scene negli autentici quartieri poveri della periferia irlandese, molti passaggi sono distinti da un realismo più soggettivo
Meno famosi di Lean e Reed, Michael Powell e Emeric Pressburger furono senza dubbio gli autori inglesi più insoliti del periodo. Nel 1943 avevano fondato una loro società, la "The Archers".
Lavorando a quattro mani in regia, produzione e sceneggiatura, i due realizzavano sia piccoli drammi in bianco e nero che complesse produzioni in Technicolor.
Tipico della loro filosofia non convenzionale è "So dove vado" (I Know Where I'm Going!, 1945). La giovane e volitiva fidanzata di un ricco industriale tenta di raggiungerlo su un'isola della Scozia e, mentre aspetta che il tempo si metta al bello, cerca di non innamorarsi di un simpatico ma povero proprietario terriero scozzese.
Un altro dramma intimista è "The Small Back Rom" (La piccola stanza di servizio, 1948) che ha per protagonista un alcolizzato il cui lavoro è disinnescare bombe inesplose rimaste in Inghilterra dopo la guerra.
Powell e Pressburger diressero anche alcuni dei più sfarzosi film a colori mai realizzati: la loro opera più popolare, "Scarpette rosse" (The Red Shoes, 1948) e il suo seguito, "I racconti di Hoffmann" (The Tales of Hoffmann, 1951), usano il balletto come pretesto per giustificare scenografìe e riprese deliranti; "Scala al paradiso" (A Matter of Life and Death, 1946) racconta di un pilota inglese, Peter Carter, che, per un errore dell'angelo della morte, sopravvive alla cadura suo aereo. Condotto in un tribunale celeste che deve decidere cosa fare di lui, e che forse esiste solo nei suoi sogni, Peter sostiene di voler continuare a vivere per ritrovare la donna che ama. Le immagini a colori delle scene sulla terra contrastano con un Paradiso in bianco e nero.
Uno dei capolavori a colori di Powell e Pressburger è "Narciso nero" (Black Narcissus, 1947), la storia di un gruppo di suore che tentano di gestire un dispensario-scuola in un palazzo tibetano già usato come harem: la frustazione sessuale, l'incomprensione dei costumi locali e l'atmosfera generale del luogo generano crescenti difficoltà all'interno del gruppo, fino a spingere delle suore verso la follia e il tentato omicidio. Sconfitta, la madre superiora deciderà di abbandonare la missione. I registi riuscirono a ricreare un vivido. paesaggio himalayano pur girando tutto il film in teatro di posa. La gamma di colori accesi delle smaglianti scenografie contrasta con il bianco austero degli abiti delle suore.
Le opere più stravaganti di Powell e Pressburger contrastano fortemente con la produzione "modesta" degli Ealing Studios di Michael Balcon veterano dell'industria degli anni Venti che divenne capo della Ealing nel 1938. Uno dei più fortunati film Ealing fu un dramma realistico sulla vita della polizia, "I giovani uccidono" (The Blue Lamp, di Basii Dearden, 1950). Come in altri film Ealing, molte scene sono girate dal vero in aree povere o bombardate di Londra.
La fama della Ealing per le commedie nacque da tre pellicole uscite nel 1949, "Passaporto per Pimlico" (Passport to Pimlico, di Henry Cornelius), "Whisky a volontà" (Whisky Galore!", noto anche come Tight Little Island, di Alexander Mackendrick) e "Sangue Blu" (Kind Hearts and Coronets, di Robert Hamer).
Un'altra tipica commedia Ealing è "L'incredibile avventura di Mr. Holland" (The Lavender Hill Mob, 1951) di Charles Crichton. Crichton tornerà alla ribalta decenni dopo con "Un pesce di nome Wanda" (A Fish Called Wanda, 1989).
A metà degli anni Cinquanta, la maggior parte delle figure più creative del dopoguerra perse mordente. Powell e Pressburger chiusero la Archers nel 1956; la carriera di Powell fu quasi stroncata dallo scandalo sollevato da "L'occhio che uccide" (Peeping Tom, 1960). Alcuni dei registi di maggior successo dell'epoca, come David Lean e Carol Reed, passarono a progetti ad alto budget con capitali americani. Questi sviluppi aprirono la strada a una generazione di cineasti che si sarebbero rivoltati contro il cinema raffinato dell'immediato dopoguerra.

1945 - 1961
Dalla seconda guerra mondiale il Giappone era uscito in ginocchio: le città principali erano state distrutte dai bombardamenti americani e le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki avevano provocato morte e sofferenze senza precedenti. Quando il Giappone si arrese, il 15 agosto 1945, le sue perdite contavano almeno 8 milioni di soldati e oltre 600.000 civili. Le forze americane avevano occupato il Paese, orientandolo sulla fedeltà dell'Occidente.
Durante la guerra, l'industria del cinema si era assestata in tre società principali: Shochiku, Toho e Daiei. Sotto l'occupazione crebbe in modo considerevole la produzione indipendente, ma le tre società a concentrazione verticale controllavano distribuzione ed esercizio.
Nel 1950, scese in campo anche la Toei ("Società Cinematografica Orientale") che sarebbe divenuta nel 1956 la società più redditizia dell'industria, ponendo al centro della sua strategia la costruzione delle sale nel centro del traffico urbano e il controllo del segmento del doppio spettacolo a basso costo.
Il dopoguerra vide la rapida ripresa ed espansione dell'industria: a metà degli anni Cinquanta poteva contare su 19 milioni di spettatori settimanali, circa la metà di quelli degli Stati Uniti e cinque volte quelli della Francia. Nel complesso il decennio vide una prosperità senza precedenti, portando la produzione a sfiorare i 500 film nel I960. Questo successo consentì all'industria di investire nel procedimento Fujicolor (apparso per la prima volta in "Carmen viene a casa", Karumen Kokyo ni Kaeru, di Keisuke Kinoshita, 1951) e nella tecnologia rdello schermo panoramico, che divenne presto lo standard.
Il cinema giapponese iniziò a farsi notare anche sulla scena internazionale e Masaichi Nagata - capo della Daiei - iniziò a concentrarsi sui mercati esteri.
La svolta avvenne con "Rashomon" (ld., di Akira Kurosawa, 1950) che vinse il Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 1951 e l'Oscar per per il miglior film straniero.
Nagata iniziò a produrre film di qualità e adatti alle esportazioni: film Daiei come "I racconti della luna pallida d'agosto" (Ugetsu monogatari, di Kenji Mizoguchi, 1953), "L'intendente Sansho" (Sansho dayu, di Kenji Mizoguchi, 1954 e "La porta dell'inferno" (Jigokumon, di Teinosuke Kinugasa, 1954) vinsero premi ai festival e aumentarono l'interesse del pubblico occidentale per il cinema giapponese.
Proibiti durante l'occupazione, i film storici (jidai-geki) riapparvero subito dopo la partenza degli americani nel 1952: il cappa e spada (chambara) rimase il filone principale, mentre il genere si rinnovava con jidai-geki più prestigiosi come "I sette samurai" (Shichinin no samurai, di Akira Kurosawa, 1954).
I registi che si erano imposti negli anni Venti e Trenta mantennero nel dopoguerra un ruolo centrale: Kinugasa ad esempio continuò a essere per i suoi jidai-geki di qualità. Particolarmente tipico della sua produzione non è tanto il suo primo film nel dopoguerra —"Jo-You" (L'attrice, 1947), basato sulla vita di una pioniera del teatro giapponese moderno — quanto il vistoso "La porta dell'inferno": girato su pellicola Eastman Color, il film ricorre dichiaratamente alla tecnica giapponese della pittura su rotolo di pergamena, non solo nelle scelte cromatiche ma anche nelle angolazioni dall'alto. Meno note di quelle di Kinugasa sono le opere di Hiroshi Shimizu, che continuò a produrre eccellenti film sull'infanzia: "Hachi no su no kodomotachi" (I bambini dell'alveare, 1948) impiega attori non professionisti e ambienti reali per affrontare il problema degli orfani di guerra. Shimizu fondò un orfanotrofio e nei film successivi usò come attori molti dei suoi piccoli ospiti.
Mikio Naruse, che negli anni Trenta aveva lavorato per diversi studi, realilizzò per Toho, Shintoho e Daiei alcuni notevoli shomin-geki: "Pasto" (Meshi, 1951), "Fulmine" (Inazuma, 1952), "Madre" (Okasan, 1952), "Nuvole sospese" (Ukigumo, 1955) e "Corrente" (Nagareru, 1956) sono incentrati sulle relazioni fra madre e figlia, zia e nipote, sorella e sorella. In questi oscuri melodrammi ambientati in quartieri operai, i personaggi sono vittime di malattie, debiti e gelosie. Hideko Takamine, una delle migliori attrici del dopoguerra, vi ricopre spesso il ruolo dell'eroina sofferente.
Meno deprimenti sono i film girati nel dopoguerra da Heinosuke Gosho che tempera lo shomin-geki con un lirismo appena accennato.
I due più importanti maestri del dopoguerra erano ancora Kenji Mizoguchi e Yasujiro Ozu. Come negli anni Trenta, a Mizoguchi interessava il problema sociale della sofferenza femminile: "La vittoria delle donne" (Josei no shori, 1946) mostra una donna avvocato impegnata nella difesa di una madre che, in un raptus di disperazione, ha ucciso il figlio, e "Donne della notte" (Yoru no onnatachi, 1948) descrive la vita delle prostitute - un soggetto che Mizoguchi avrebbe affrontato ancora nel suo ultimo film, "La strada della vergogna" (Akasen chitai, 1956).
Nei primi film del dopoguerra, Mizoguchi continua a piazzare i personaggi a notevole distanza dalla macchina da presa, una soluzione portata all'estremo nelle inquadrature decentrate e in campo lunghissimo di "L'amore dell'attrice Sumako" (Joyu Sumako no koi, 1957). Nelle scene più intime Mizoguchi tende a riprendere leggermente dall'alto, scegliendo il grandangolo per tenere in profondità i personaggi, spesso incorniciati da porte e muri.
Mizoguchi insiste inoltre con inquadrature di lunghezza fuori dal comune: la durata media è fra i quaranta e i cinquanta secondi, ma alcune durano minuti interi. A differenza di Ophuls o di Antonioni, però, Mizoguchi non ricorre quasi mai al movimento di macchina, creando così un enorme impatto drammatico: quando ne "La vittoria delle donne" la madre confessa di aver ucciso suo figlio, Mizoguchi imposta l'azione in una scena frontale dove il movimento graduale e spesso interrotto della madre e del suo avvocato verso la macchina da presa produce una crescente tensione. Dopo il 1950 la regia di diviene più convenzionale e ricorre più spesso al primo piano e all'alternarsi di campi e controcampi. Più esplicito diventa anche il rimando alle tradizioni estetiche giapponesi.
Nei decenni successivi anche Ozu avrebbe seguito un percorso analogo: dopo alcuni shomin-geki di vena realistica (come "Il chi è di un inquilino", Nagaya shinshiroku, 1947) il regista avviò una collaborazione con lo sceneggiatore Kogo Noda che avrebbe prodotto opere importanti. I temi centrali sono di solito crisi familiari — matrimonio, separazione e morte: in "Tarda primavera" (Banshun, 1949) una figlia esemplare deve affrontare la necessità di abbandonare il padre vedovo; in "Inizio d'estate" (Baku shu, 1951) diverse generazioni di una famiglia sono scosse dall'impulsiva decisione di una figlia di spsarsi; "Viaggio a Tokyo" (Tokyo monogatarì, 1953) racconta la visita di una coppia di anziani ai loro figli adulti e insensibili; infine, sia in "Fiori di equinozio" (Higanbana, 1958) che ne "Il gusto del sakè" (Sanima no aji, 1962), un padre è costretto ad accettare il desiderio di sua figlia di andarsene da casa.
I temi drammatici prescelti da Ozu e Noda sono pochi, osservati però da diverse angolazioni. Di solito ogni loro film è pervaso dalla rassegnazione contemplativa ai dolorosi cambiamenti della vita — un atteggiamento incarnato nel sorriso gentile e nel sospiro dell'attore Chishu Ryu, volto immancabile nella produzione di Ozu di questo periodo.
Lo stile del regista è pervaso da un'analoga calma. I suoi film aderiscono alle "regole" che egli stesso si era imposto negli anni Trenta: macchina da presa collocata in basso, spazio di ripresa a 360°, montaggio grafico, sequenze di transizione che obbediscono a logiche di somiglianze e differenze piuttosto che alla rigorosa continuità spaziale. Evitando i relativi eccessi dei suoi film ante-guerra, le opere più tarde si distinguono per un stile più in sordina, sviluppato durante la guerra, come in "Fratelli e sorelle della famiglia Toda" (Todake no kyodai, 1941) e "C'era un padre" (Chichi ariki, 1942). Ora Ozu rinnega del tutto le dissolvenze: filma le conversazioni con i personaggi rivolti alla macchina da presa che guardano oltre l'obiettivo. L'uso del colore trasforma ambientazioni banali in decorazioni astratte e l'obiettivo continua a lasciarsi attrarre da oggetti umili nell'angolo delle stanze, in fondo a un corridoio o su un'arteria stradale. La pacifica contemplazione dei più profondi recessi del dramma si incarna in uno stile che ci da il tempo di guardare da vicino i personaggi e il loro mondo.
Come in altri Paesi, molti dei registi giapponesi più celebri del dopoguerra avevano iniziato la carriera durante il conflitto. Le opere belliche di Keisuke Kinoshita, in particolare "Fioriscono i fiori sul porto" (Hana saku minato, 1943) e "Esercito" (Rikugun, 1944) erano drammi del fronte interno a cui mancava lo stridente nazionalismo spesso presente nel genere. Sotto l'occupazione, Kinoshita diresse "Il mattino della famiglia Osone" (Osone-ke no asa, 1946). Nei quarant'anni seguenti, Kinoshita difesse molti gendai-geki: il suo film più noto in Occidente è "Ventiquattro occhi" (Nijushi no hitomi, 1954), storia di un appassionato insegnante in una scuola rurale durante la guerra.
Kon Ichikawa si guadagnò fama di efficente artigiano in grado di sfornare numerosi film per tutte le principali case di produzione. Ichikawa non si specializzò mai in un genere, ma la sua reputazione nel dopoguerra deriva in larga parte da commedie satiriche e grottesche come "La chiave" (Kagi, 1959) e da intensi drammi: "L'arpa birmana" (Biruma no tategoto) racconta di un soldato costretto a travestirsi da monaco e infine conquistato da un pacifismo umanitario.
La figura più celebre del dopoguerra è Akira Kurosawa, che aveva iniziato come sceneggiatore e aiuto regista, come la maggior parte dei registi giapponesi. Già autore di diversi film durante la guerra, Kurosawa fun pronto ad allinearsi alla politica dell'occupazione con "Non rimpiango la mia giovinezza" (Waga seishun ni kuinashi, 1946), melodramma politico sul Giappone militarista. A questo seguì una serie di film su problemi sociali il crimine ("Cane randagio", Nora inu, 1949), la burocrazia ("Vivere", Ikiru, 1952), la guerra nucleare ("Testimonianza di un essere vivente", Ikimono no kiroku, 1955) e la corruzione dell'alta finanza ("I cattivi dormono in pace", Warui yatsu hodo yoku nemuru, 1960). Duresse anche alcuni fortunati jidai-geki - iniziando da "I sette samnurai" e proseguendo fra l'altro con "La fortezza nascosta" (kakushi toride non sa-akunin, 1958) e "La sfida del samurai" (Yojimbo, 1961) - senza trascurarae gli adattamenti letterari: "Il trono di sangue" (Kumonosu-jo, 1957) era una riduzione del "Macbeth". Quasi tutti i film di Kurosawa avevano per protagonista il fiero e minaccioso Toshiro Mifune.
L'impegno sociale di Kurosawa, la sua tendenza al sentimentalismo e al simbolismo, il suo fiuto nello scegliere progetti prestigiosi, il suo virtuosismo tecnico e il perfetto tempismo della sua apparizione sulla scena internazionale ne fecero il più celebre dei grandi registi giapponesi.

1946 - 1958
Il popolo sovietico rimase attanagliato dalla miseria del dopoguerra fin nel pieno degli anni Cinquanta: i leader esortavano gli operai a maggiori sacrifici indicando nell'alleanza occidentale il nuovo nemico e la repressione politica ritornò in pieno vigore. I campi di prigionia furono invasi di soldati fatti prigionieri, profughi, fedeli di varie religioni e detenuti politici.
Il Partito Comunista riaffermò rapidamente il suo dominio sulle arti. Nel 1946 il Ministro della Cultura Andrej Zdanov - che aveva diretto le purghe culturali dei tardi anni Trenta - lanciò una nuova campagna e il realismo socialista divenne, se possibile, ancora più restrittivo di quanto non fosse stato negli anni Trenta.
La produzione di film era già un farraginoso processo burocratico, ma la campagna di Zdanov per la purezza ideologica portò gli studi praticamente alla paralisi: tutte le "fabbriche di film" sovietiche insieme produssero 17 lungometraggi nel 1948, 15 nel 1949, 13 nel 1950 e appena 9 nel 1951; ormai una sceneggiatura poteva vagare per due anni nei labirinti burocratici prima di ottenere l'approvazione.
"Micurin" (1948) di Aleksandr Dovženko e "La giovane guardia" (Molodaja guardija, 1947) di Sergej Gerasimov subirono "correzioni" durante la scrittura e le riprese; altri film - un caso eclatante fu quello della seconda parte di "Ivan il terribile" di Sergej M. Ejzenštein - furono del tutto proibiti.
La maggior parte dei pionieri del cinema degli anni Venti fu costretta all'inattività: Lev Kulešov ad esempio continuò a insegnare ma non fece più un film; la salute impedì a Ejzenštein di completare "Ivan il terribile" e il regista morì nel 1948 senza aver girato più niente; Vsevolod Pudovkin fece solo due film dopo la guerra e Dovženko addirittura uno. Solo Aleksandrov, Sergej Jutkevic, Fridrich Ermler e Grigorij Kozincev continuarono a lavorare, mentre la nuova generazione dei Gerasimov, Mark Donskoi, Michail Romm e Josif Chejfic conquistava i posti centrali nel cinema del dopoguerra. Il più zelante nell'adattarsi alla politica fu forse il georgiano Michail Ciaureli che con "Il giuramento" (Kljatva, 1945) e "L'indimenticabile anno 1919" (Nezabjvaemji 1919 god, 1951) portò la venerazione per Stalin ad altezze vertiginose.
Nel 1952, al congresso del Partito, fu ordinato un incremento della produzione: la trafila fu semplificata e si cominciarono ad ammettere anche sceneggiature incentrate su gente comune, purché il Partito Comunista giocasse sempre un ruolo positivo nella storia. L'ultimo film di Pudovkin "Il ritorno di Vasilij Bortnikov" (Vozvrascenije Vasilija Bortnikova, 1953) illustra perfettamente questa tendenza.
La morte di Stalin nel marzo del 1953 scatenò una lotta per il potere che cinque anni dopo avrebbe portato al vertice Nikita Kruscev. Nel 1956, Kruscev attaccò apertamente la tirannia di Stalin additando il cinema come veicolo primario del "culto della personalità" e denunciando i film che esaltavano il genio militare del dittatore. I più revisionisti fra i film del disgelo trattarono perciò il genere bellico in una luce nuova: il primo film di Grigorij Cuchraj "Il quarantunesimo" (Sorok pervyj, 1956), racconta una relazione sessuale tra una soldatessa e il suo prigioniero; "Il destino di un uomo" (Sud'ba celoveka, 1959), il film con cui debuttò nella regia l'attore Sergej Bondarcuk, mette in dubbio la condotta di un soldato russo in un campo di concentramento nazista.
Verso la fine del decennio, altri due film di guerra rappresentavano una tendenza verso un nuovo umanitarismo. "Quando volano le cicogne" (Letjat zuravli, 1957) del veterano Mikhail K. Kalatozov descrive il fronte interno senza retorica, con una protagonsita ben lontana dalle eroine positive del realismo socialista. Uno stile che senza dubbio contribuì a fargli vincere la Palma d'oro al Festival di Cannes del 1958. Questa sensazione di rinnovamento fu rafforzata da "La ballata di un soldato" (Ballada o soldate, 1958) di Cukhraj, dramma sulla seconda guerra mondiale.
Alla fine del decennio i film dell'URSS aveavno ottenuto prestigio in tutto il mondo. Nel 1958 uscì finalmente la seconda parte di "Ivan il terribile" e al clamore suscitato dall'occasione si aggiunse il trionfo di "La corazzata Potemkin", eletto, con un sondaggio tra critici di tutto il mondo, il miglior film di tutti i tempi.
Le opere di Dziga Vertov e Dovženko venivano riscoperte e nuovi film guadagnavano notorietà.

1945 - 1960
Alla fine della guerra, l'esercito sovietico occupava Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria, Albania, Bulgaria, Romania, Jugoslavia e il settore orientale della Germania. In tutte queste Nazioni si formarono fra il 1945 e il 1948 governi comunisti — dapprima attraverso coalizioni con altri partiti, quindi purgando le coalizioni dai non comunisti e dai dissidenti — finché, nel 1950, praticamente tutta l'Europa dell'Est era sotto il dominio sovietico. Stalin considerava questi stati un "cuscinetto" contro l'invasione occidentale, ma la loro funzione era anche di rifornire L'URSS di materie prime e di servire da mercato per i prodotti sovietici.
Il cinema dell'Europa orientale imitava inizialmente la struttura sovietica: produzione centralizzata e sceneggiature approvate da una singola agenzia controllata dal Partito, con amministratori deputati ad assegnare i progetti ai lavoratori e burocrati che richiedevano revisioni nelle varie fasi del provesso produttivo.
Solo la Jugoslavia deviò da questa linea, svincolandosi dall'Unione Sovietica nel 1948: il Maresciallo Tito, leader comunista del Paese, instaurò un socialismo più orientato al mercato, decentralizzando l'industria cinematografica. L'industria iugoslava divenne la "più commerciale" dell'Est europeo, partecipando a numerose coproduzioni con l'Occidente e ospitando produzioni estere.
Sempre seguendo il modello sovietico, i Paesi dell'Est europeo diedero grande importanza a un'istruzione cinematografica specializzata: scuole avanzate furono aperte a Varsavia (1945), Budapest (1945), Belgrado (1946), Praga (1947), Bucarest (1950) e Postdam (1954).
Prima che i partiti comunisti raggiunsero il controllo totale, alcuni registi di sinistra ebbero modo di tentare varie strade: in Polonia Aleksandr Ford mostra in "Fiamme su Varsavia" (Ulica Graniczna, 1948) come due persone comuni siano spinte a divenire simpatizzanti nazisti; in "Gli assassini sono tra noi" (Die Morder sind unter uns, 1946) Wolfang Staudte da un uso quasi neorealistico delle rovine di Berlino ma non dimentica la tradizione locale dell'espressionismo.
Questo genere di umanismo di sinistra cadde presto in disgrazia quando i Paesi dell'Europa dell'Est abbracciarono il rigore del realismo socialista sovietico secondo Zdanov.
Nonostante tutto, quasi in ogni Nazione apparvero film che forzavano o eludevano le regole del realismo socialista: in Polonia si distinsero "I cinque della via Barska" (Piatka z ulicy Barskiej, 1954) di Aleksandr Ford e le prime opere di Jerzy Kawalerowicz. In Ungheria "Quattordici vite" (Eltjel, 1954) di Zoltan Fabri descriveva con accenti neorealisti una tragedia di minatori intrappolati sottoterra.
In Cecoslovacchia e Jugoslavia nacquero importanti studi specializzati in animazione.
La morte di Stalin e la politica di "destalinizzazione" di Kruscev diedero origine al "disgelo" di molti governi dell'Europa orientale. Il disgelo portò in molti Paesi dell'Est europeo un rinascimento culturale: le cinematografie superarono la controparte sovietica allentando le tradizionali strutture narrative e puntando a nuovi effetti psicologici e simbolici.
Il disgelo della Cecoslovacchia fu relativamente breve; tra il 1956 e il 1958 nuove tendenze emersero nell'opera di due tra i cineasti più vecchi: Ladislav Helge realizzò "Scuola per padri" (Skola octù, 1957), mentre Jan Kadar presentava "Laggiù presso il capolinea" (Tam na Konecne, 1957). Un cineasta appena laureato - Vojtech Jasny - propose "L'aspirazione" (Touha, 1958) e Vaclav Krska offriva "Hic sunt leones" (Zde jsou lvi, 1958).
L'Ungheria rispose fra il 1954 e il 1957 con la commedia in costume "Liliomfi" (1954), primo film di Karoly Makk, "Primavera a Budapest" (Budapesti tavasz, 1955) e "Un bicchiere di birra bionda" (Egy pikolo vilagos, 1955). entrambi di Felix Mariassy.
Particolarmente importanti sono due film di Zoltan Fabri: il suo "Carosello" (Korhinta, 1955) e "Il professor Annibale" (Hannibal tanar, 1956).
Delle Nazioni sotto il dominio sovietico, la Polonia si rivelò la più ostile al comunismo. Nel maggio 1955 l'industria polacca avviò un processo fondato sulle Unità per il Film Creativo. Come in Jugoslavia, i cineasti potevano iscriversi a un'unità regionale di produzione che affittava dallo Stato strutture e tratri di posa.
Negli anni Cinquanta la "scuola polacca" produsse il cinema più importante dell'Europa dell'Est: della scuola polacca fecero parte numerosi registi, ma due tra essi si rivelarono particolarmente influenti: Andrzej Munk e Andrzej Wajda. Di quest'ultimo ricordiamo "I dannati di Varsavia" (Kanal, 1957) che vinse il premio speciale a Cannes e "Cenere e diamanti" (Popiol i diament, 1958) vincitore a Venezia.
La critica ha rilevato il contrasto fra la celebrazione romantica degli eroi tragici di Wajda e l'atteggiamento più ironico e smitizzante di Munk. Entrambi i registi utilizzano il genere bellico per mettere in discussione la versione ufficiale della storia affrontando argomenti diversi: la natura della resistenza, la tradizione polacca di coraggio.

1945 - 1965
Durante la seconda guerra mondiale la violenza delle guerra civile cinese si era attenuata poiché le forze governative e i rivoluzionari resistevano fianco a fianco all'invasione giapponese, ma dopo la resa del Giappone nel 1945 la lotta esplose nuovamente: nonostante il sostegno americano, le forze di Chia Kai-shek dovettero lasciare Taiwan nel 1959 e i comunisti sotto Mao Tse-Tung istituirono sul continente la Repubblica Popolare Cinese.
Durante la guerra civile, la produzione cinematografica continuò ad avere base a Shanghai. Molti sceneggiatori e registi simpatizzavano con la causa rivoluzionaria e non di rado si scontravano con la rigorosa censura del tempo di guerra, anche se alcuni film offrirono modelli per il cinema post-rivoluzionario: il più importante di questi fu "Il fiume della Primavera scorre verso est" (Yijiang chunshui xiang dong liu, 1947), un film in due parti di Cai Chusheng e Cheng Chun-li.
Altri due importanti film di quest'epoca furono "Corvi e passeri" (Wuya yu maque, 1949) di Cheng Chun-li e "San Mao, il piccolo vagabondo" (San Mao, liulang Ji, di Zhao Ming e Yan Gong, 1949).
Il Partito Comunista nazionalizzò rapidamente il cinema cinese; nel 1949 fu fondato il Film Studio di Pechino e come capo fu scelto Yuan Muzhi, che nel 1937 aveva realizzato "Angeli della strada" (Malu tianshi).
Il nuovo Ministero della cultura creò anche l'Ufficio per il Cinema. Tra il 1949 e il 1950 si formularono piani per entralizzare la produzione, la censura, la distribuzione e l'esercizio; i film popolari provenienti dall'Occidente furono gradualmente eliminati e, poiché la produzione cinese non bastava a soddisfare la domanda, furono importate pellicole dall'URSS e da altri Paesi comunisti.
Nonostante il valore propagandistico dei film, i burocrati delal cinematografia avevano un seiro problema: la Cina era un Pese prevalentamente agricolo, con l'80% della popolazione situata in zone rurali e nel 1949 la Nazione disponeva soltanto di 650 sale concentrate nelle città portuali e destinate a un pubblico colto e di classe media. Milioni di cinesi non avevano mai visto un film e non erano in grado di assimilare le idee veicolate dai film sovietici.
Dopo la rivoluzione del 1917, il governo cinese si impegnò a estendere la rete delle sale e a realizzare film apprezzaili da contadini, operai e soldati: subito dopo la rivoluzione nacquero cinematografi itineranti per portare i film nelle regioni più lontane. Nel 1960 essi raggiungevano la cifra di circa 15.000 e, via via che i nuovi spettatori venivano conquistati dal mezzo, cresceva enormemente anche il numero dei biglietti venduti, dai 47 milioni del 1949 ai 4,5 miliardi del 1959.
Nuovi tecnici furono formati dapprima in una scuola aperta nel 1952 e collegata ai Film Studio di Pechino e in seguito alla Accademia Cinematografica di Pechino (1956). Alcuni film del periodo che vale la pena ricordare sono "La mia vita" (Wo zhe yibeizi, di Shi Hui, 1950), "Il sacrifico del nuovo anno" (Zhufu, Sang Hu, 1956) e "La giocatrice di pallacanestro" (Nulan wuhao, di Xie Jin, 1957).
La politica ufficiale invocava una rapida crescita dell'economia cinese, secondo la linea nota come il "grande balzo in avanti": la fine di questa politica portò nella prima metà degli anni Sessanta a un altro periodo di apertura in cui la produzione cinematografica crebbe all'unisono con la frequenza del pubblico.
Il rinnovato interesse per la vita cinese fece si che semopre più film si occupassero delle 55 distinte minoranze del Paese. Alcuni si limitavano a utilizzarle come esempi di culture pittoresche: "Ashima" (di Liu Qiong, 1964); altri miravano a mostrae l'unione di una minoranza con il corpo della nazione: "Servi della gleba" (Nongnu, di Li Jun, 1963). Anche il film storico subì questo rinnovamento: "La battaglia navale del 1894" (Jiawn fengyun, 1962), di Lin Nong.
Ne "Il distaccamento rosso delle donne" (Hongse niangzijun, 1961), il regista più importante dell'epoca, Xie Jin, si dimostrò abile nel combinare il melodramma con la politica. Il film di Xie più noto in Occidente è "Due sorelle in palcoscenico" (Wutai jiemei, 1965).

1950 - 1960
All'inizio del secolo la tumultuosa colonia britannica delle Indie Orientali (Pakistan, India, Ceylon, Bangladesh, Birmania) era in piena espansione economica grazie agli ingenti investimenti stranieri (ferrovie e piantagioni), ma l'innocua distribuzione della ricchezza nazionale, i tradizionali pregiudizi di casta e la sovrappopolazione delle terre fertili erano causa di miseria, arretratezza sociale e analfabetismo. Il Movimento Nazionalista, formatosi nei college di ispirazione anglosassone, rivendicava riforme interne e fomentava boicottaggi e attentati. Alla fine della Guerra Mondiale, Gandhi lancia la prima campagna della Iatyagraha (resistenza passiva) per protestare contro il monopolio inglese; durante due decenni di lotte pacifiche, la colonia viene poco a poco smembrata, ma Gandhi riesce a piegare ripetutamente gli inglesi, estorcendo una riforma dopo l'altra, finché nel 1042 intima loro di andarsene. L'indipendenza però, conseguita cinque anni dopo, apre le porte al fanatismo religioso e agli scontri di massa fra indù e mussulmani, culminati nell'assassinio del leader. I grossi problemi interni (fame, disoccupazione, arretratezza, sovrappopolazione) ed esterni (guerra con la Cina del 59 e con il Pakistan del 65) vengono fronteggiati con affanno dai governi di Nehru e di Indira Gandhi, che cercano comunque una collocazione terzomondista per il loro immenso e fragile paese. Il cinema arriva con gli agenti dei fratelli Lumière e trova subito un terreno fertile. Ben presto anzi il film cessarono di essere rivolti esclusivamente agli agenti europei e si sentì l'esigenza di cominciare a produrre in loco pellicole dirette alla borghesia indigena. Nonostante la carenze tecniche, Bombay divenne subito grosso centro cinematografico (all'avvento del sonoro sfornava una quarantina di film all'anno). Poco alla volta si affermarono altri due poli; Calcutta, dedita alla leggende folcloristiche sovente pregne di scene violente, e Madras, sede di un'industria più modesta e più liricheggiante. Fra queste tre città e altri centri minori vengono prodotti oltre trecento film all'anno in ventidue lingue diverse. L'immensa produzione (la maggiore del mondo) viene quasi totalmente assorbita all'interno ed è oggetto di un vero consumo di massa. Dal punto di vista tecnico l'India si è costantemente tenuta aggiornata sulle novità occidentali, fino a dotarsi anzi di strutture di formazione e di diffusione d'avanguardia. Ma alla imponente quantità (ottocento film nel 1981) non ha fatto riscontro un'adeguata qualità. Fin dall'avvento del sonoro i film musicali legati in qualche modo alla tradizione e al mondo rurale hanno rappresentato il genere commerciale per eccellenza, seguiti dal melodramma e dalla commedia. Nel dopoguerra un vivace dibattito culturale ha ingenerato una corrente realista propensa a documentare la realtà sociale dell'India contemporanea e le contraddizioni del processo urbanizzazione: molti film degli anni sessanta e settanta mescolano religione, sesso e psicologia: personalità conturbanti invasate di misticismo, donne condannate ad essere vittime delle contraddizioni sociali (prostituzione o suicidio), predicazione di vangeli apocrifi.
Tra i cineasti del periodo spiccano Bimal Roy e il suo "Due ettari di terra" (Do Bigh Zamin, 1953) e "Sujata" (1959); Satyajit Ray: la sua opera prima "Il lamento sul sentiero" (Pather Panchali, 1955) vinse un premio al Festival di Cannes e il seguito "L'invito" (Aparajito, 1956) conquistò il Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia, due anni dopo firma un altro capolavoro, "La sala di musica" (Jalsaghar, 1958).
Gran parte dell'opera di Ray è di segno opposto rispetto al cinema indiano commerciale e si avvicina di più al cinema d'autore europeo.
L'opposto di Ray era Raj Kapoor. Il suo terzo film "Il vagabondo" (Awara, 1951) ottenne uno strepitoso successo in tutto l'Oriente.
Un altro importante produttore e regista, Guru Dutt, si impose con "Sete" (Pyaasa, 1957) e "Fiori di carta" (Kagaz ke Phool, 1959), il primo film indiano in Cinemascope.
Come Dutt e Ray, anche Ritwik Ghatak era bengalese; il suo primo film "L'abitante della città" (The City Dweller, 1953) non venne distribuito. Tornato a Calcutta dopo aver fatto lo sceneggiatore a Bombay, Ghatak riuscì a firmare vari titoli, fra cui "Non è una macchina" (Ajantrik, 1958) e "La fuga" (The Runaway, 1959).

1946 - 1970
Fino agli anni '60 il cinema dell'America Latina era stato ristretto alle pellicole di bassa qualità prodotte in Messico (con epiche rievocazioni della rivoluzione), in Argentina (storie di gauchos) e in Brasile. Negli anni '50 però si erano già avuti fenomeni artistici come i film di Buñuel in Messico e quelli di Cavalcanti in Brasile.
Quest'area aveva lungamente patito l'instabilità politica e le frequenti restrizioni del diritto di espressione, che in pratica avevano lasciato crescere il cinema soltanto per iniziative personali. Nella piatta mediocrità delle dittature latino-americane spiccano alcuni eventi importanti: la rivoluzione messicana del 1911, che fece del paese l'area più progressista dell'intero continente; Gatulio Vargas nel 1930 mise fuori legge tutti gli estremisti brasiliani e varò una serie di riforme; il demagogo Juan Peron nel 1946 conquistò il potere in Argentina, ma le sue riforme furono di scarsa efficacia. I paesi minori giunsero alla ribalta delle cronache soltanto quando le sinistre minacciarono seriamente di rovesciare la dittatura: la guerriglia di Fidel Castro fu la prima (nel 1959) ad averla vinta (e a scatenare anche la crisi di Cuba del 1962); i tupamaros dell'Uruguay vennero sterminati; il partito comunista cileno (guidato da Salvator Allende) giunse al potere democraticamente ma venne poi estromesso dal colpo di stato di Pinochet del 1973; i sandinisti presero il potere in Nicaragua dopo una decennale guerra civile ma persero la prima elezione democratica. Questi movimenti insurrezionali (sinceri o ipocriti che fossero) ebbero l'effetto di creare consapevolezza sociale nelle masse.
In Brasile esercitò Nelson Pereira dos Santos che realizzò “Rio 40 gradi” (Rio 40 graus, 1955), e “Rio, zona nord” (Rio, zona norte, 1957). Fernando Birri – allievo del Centro sperimentale di cinematografia di Roma – fondò in Argentina la scuola del Film documentario di Santa Fé e vi girò con i suoi studenti il cortometraggio “Tire dié” (Gettami una moneta, 1958).
Sia Birri che dos Santos sarebbero stati figure centrali nel cinema latino americano di sinistra degli anni Sessanta.
Un cinema d’autore di stile europeo emerse più vistosamente in Argentina, dove Buenos Aires era un centro di cultura cosmopolita: figlio di un regista veterano, Leopoldo Torre Nilsson diresse alcuni lungometraggi, finché il suo “La casa dellangelo” (La casa del angel, 1957) venne acclamato al Festival di Cannes. In Messico il regista che riuscì a farsi notare con “La vergine indiana” (Maria Candelaria, 1943) e “Innamorata” (Enamorada, 1946) fu Emilio Fernandez. Tra gli altri cineasti di rilevo vanno ricordati Mathilde Landeta e Alejandro Galindo.
Le platee di lingua non spagnola conobbero essenzialmente il cinema mesicano del dopoguerra attraverso Luis Buñuel, che si trasferì in Messico e diresse fra il 1946 e il 1965 venti film che rivitalizzarono la sua carriera. Il suo terzo film messicano “I figli della violenza” (Los Olvidados, 1950), vinse a Cannes nel 1951 e descrive i delinquenti giovanili di un quartiere povero a Mexico City.
Dopo lo scandalo suscitato da “Viridiana”, girato in Spagna, Buñuel torno in Messico per due film prestigiosi, “L’angelo sterminatore” (El angel exterminador, 1962) e “Simon del deserto” (Simon del deserto, 1965): entrambi costituivano punte di modernismo che il regista non toccava dai tempi di “L’age d’or” (1930).

1958-1967
I dieci anni che seguirono il 1958 videro in tutto il mondo straordinari fermenti nel cinema inteso come arte: alle innovazioni degli autori già affermati si aggiunse una quantità di nuove tendenze e di nouvelles vagues impegnate ad affrontare la tradizione modernista con spirito critico e rinnovatore. Fra i registi più giovani molti sarebbero divenuti le figure centrali dei decenni successivi.
In tutto il mondo il cinema si trovava in condizioni molto favorevoli ai nuovi talenti: anche se negli Stati Uniti il numero di biglietti staccati calava inesorabilmente fin dal 1947, il pubblico degli altri Paesi non subì cali significativi fino alla fine degli anni ‘50, quando la televisione iniziò a offrire divertimento a buon mercato. I produttori risposero puntando a nuovi segmenti di pubblico - con coproduzioni, ad esempio, e film erotici - e individuando rapidamente un terreno fertile nella cultura giovanile emersa sul finire del decennio in gran parte dei paesi occidentali. In Europa la liberazione sessuale, la musica rock, le nuove mode, l'esplosione del calcio e di altri sport, e nuove forme di turismo divennero i simboli della generazione che raggiungeva la maturità attorno al 1960. L'impulso verso una comoda vita urbana fu rafforzato dal boom economico, che dopo il 1958 favorì in tutta Europa un netto miglioramento nella qualità della vita. Fenomeni analoghi emergevano in Giappone e nell'Europa dell'Est.
Le case di produzione aprirono la strada a registi esordienti, mentre proliferavano le scuole professionali di cinema: il periodo 1958-1967 segnò in tutta Europa l'esordio di molti registi trentenni.
La nuova generazione accelerò il processo di internazionalizzazione della cultura cinematografica: i cinema d'essai e i cineclub si moltiplicavano, mentre la lista delle città che ospitavano festival internazionali si estendeva a macchia d’olio. In Italia e in Francia nacquero nel 1965 il Festival di Pesaro e quello di Hyères, entrambi pensati come occasioni di incontro per giovani autori.

Qualsiasi Paese si prenda in esame, il nuovo cinema è un disordinato assortimento di cineasti molto diversi le cui opere di solito non rivelano quell'unità stilistica presente nei vari movimenti dell'epoca del muto. Non si può tuttavia negare che le varie tendenze condivisero alcuni elementi generali.
La nuova generazione era la prima ad avere il senso della storia del cinema: la Cinemathèque Française a Parigi, il National Film Theatre a Londra e il Museum of Modern Art di New York divennero templi per giovani spettatori desiderosi di scoprire il cinema mondiale. Le scuole di cinema proiettavano e studiavano i classici del cinema internazionale e alcuni registi più anziani divennero autentici padri spirituali: Renoir per Truffaut, Lang per Kluge, Dovženko per Tarkovskij. I giovani registi assorbirono in particolare l’estetica del neorealismo e del cinema artistico degli anni ‘50, sviluppandone l'esperienza.
Più vistose erano però le innovazioni tecniche, anche perché parte del nuovo cinema si identificava con un approccio più immediato al linguaggio filmico: a partire dalla fine degli anni ‘50, e per tutti gli anni ‘60, si miisero a punto macchine da presa senza bisogno di cavalletto, mirini reflex per vedere esattamente ciò che inquadrava l'obiettivo, e le pellicole divennero più sensibili. Diventava così possibile girare in presa diretta, registrando il rumore d'ambiente del mondo reale, lontano dal silenzio pneumatico dei teatri di posa. La nuova attrezzatura portatile permetteva fra l'altro di girare in fretta e con budget minimali per il sollievo dei produttori, ansiosi di fare economie in tempo di crisi.
Il cinema di fiction conquista negli anni ‘60 una libertà espressiva che lo avvicina a quello documentario del cinema diretto: spesso la macchina da presa si mantiene lontano dal soggetto - seguendo l'azione con una panoramica e ricorrendo allo zoom per coglierne i dettagli - quasi che si trattasse di riprese giornalistiche "rubate". I primi piani e il gioco di campi e controcampi sono realizzati sempre più spesso con focali lunghe - una tendenza che dominerà tutti gli anni ‘70.
Il ruvido stile documentario non provocò però la condanna del cinema alla registrazione passiva del mondo reale; i giovani registi saccheggiarono anzi le potenzialità del montaggio frammentario e discontinuo in una misura mai vista dall'epoca del muto: in “Fino all'ultimo respiro” (A bout de souffle, 1960) Jean-Luc Godard frantuma le regole fondamentali del montaggio contiguoarrivado al “jump cut”, al taglio di alcuni fotogrammi all'interno di una sequenza che viene così punteggiata da stridenti salti; un film del giapponese Nagisa Oshima poteva arrivare a oltre un migliaio di inquadrature. Il montaggio divenne un elemento centrale nella creazione del film, anche se i registi più anziani preferivano uno stile più scorrevole.
Ma la nuova generazione intensificò anche il ricorso alla sequenza lunga, uno dei principali tratti stilistici del dopoguerra. Una scena poteva essere risolta tutta in una sola inquadratura - una soluzione ben presto classificata con la sua definizione francese di "piano sequenza" – per la quale le macchine da presa leggere si rivelarono ideali.
Per tutti gli anni ‘60 le riprese col teleobiettivo, il montaggio discontinuo e i movimenti di macchina elaborati soppiantarono le dense composizioni in profondità che avevano costituito la norma dopo la seconda guerra mondiale.
Nel primo dopoguerra la forma narrativa del cinema europeo era basata sul realismo oggettivo di eventi casuali, spesso incompatibili con la linearità della tradizionale narrazione per cause ed effetti; a questa oggettività contribuiva l'uso di attori non professionisti, di ambienti reali e di interpretazioni improvvisate. Le nuove tecniche del cinema diretto permettevano ora ai registi più giovani di spingersi ancora più avanti su questa strada, ambientando le storie nel loro quartiere o nel loro appartamento, con uno stile che i registi tradizionali giudicavano grezzo e poco professionale: “I teppisti” (Los golfos, di Carlos Saura, 1960), una storia di giovani delinquenti di strada, usa ad esempio attori non professionisti, molta improvvisazione, macchina amano e repentini zoom ottenendo un tono di immediatezza documentaria.
Si sviluppò in questo periodo anche il realismo soggettivo del cinema d'autore. I flashback - divenuti dopo la guerra pratica comune - iniziarono a essere utilizzati per intensificare una percezione dello stato mentale dei personaggi: “Hiroshima mon amour” ( di Alain Resnais, 1959) portò al flashback “soggettivo” legioni di registi, mentre proliferavano le scene fantastiche e oniriche.
Anche la tendenza a inserire il commento dell'autore proseguì e si rinnovò: i cadenzati movimenti dell'obiettivo di Truffaut attorno ai suoi personaggi suggeriscono di vedere le loro vite come una lirica danza; in “Le margheritine” (Sedmikrásky, 1966), Vĕra Chytilova utilizza inquadrature particolari per rendere l'immagine derisoria che le sue eroine hanno degli uomini.
Realismo oggettivo e soggettivo e commenti d'autore si mescolano in una generale ambiguità narrativa che non sempre mette lo spettatore in grado di capire quale di questi tre fattori sia la base del racconto: alcune scene di “8 1/2” (1963) mescolano in modo inestricabile ricordi e immagini di fantasia. Gli autori più giovani sperimentavano anche un uso ambiguo della forma narrativa, dagli eventi che cambiano a seconda del punto di vista ai finali “aperti” come in Fino all'ultimo respiro.
La perdita di chiarezza delle storie raccontate parve allontanare il cinema dalla missione di documentare il mondo e la società: in certi casi l'unica realtà che il regista poteva rivendicare era il film stesso. Unendosi alla profonda conoscenza della storia del cinema da parte dei giovani registi, l'abbandono del realismo oggettivo rese autoreferenziale forma e stile dei film: molte pellicole non cercavano più di riflettere una realtà esterna e il cinema - come la letteratura e la pittura moderna - si ripiegò su di sé concentrandosi sui suoi stessi materiali, strutture e storia.
Questa riflessività era forse meno perturbante quando la trama del film era costruita sulla realizzazione di un film, come in "8 1/2", "Il disprezzo" (Le mepris, 1963) di Godard o "Tutto in vendita" (Wszystko na sprzedaz, 1969) di Andrzej Wajda. Anche quando il cinema non è il tema principale, la riflessività resta un tratto chiave del cinema nuovo e in generale del cinema artistico degli anni Sessanta. "La caccia" (Jakten, 1959) di Erik Løken inizia con una voce fuori campo che esclama: «Cominciamo», ed è chiuso dal narratore con il commento: «Non possiamo lasciare che finisca così». In "Fino all'ultimo respiro" il protagonista parla al pubblico, mentre "Tirate sul pianista (Tirez sur le pianiste, di François Truffaut, 1960) riecheggia con affetto il cinema muto.
Anche i film di montaggio, che giustappongono materiale di fonti o periodi diversi, contribuiscono a un'analoga consapevolezza dell'artificio filmico. I nuovi movimenti arrivavano a citarsi a vicenda, come quando ne "Il gatto è nel sacco" (Le chat est dans le sac, 1964) Gilles Groulx riecheggia deliberatamenteun film della Nouvelle Vague: il cinema riconosceva insomma i meccanismi dell'illusione e i debiti di ogni film verso la storia del mezzo. Questo rese le nuove tendenze i maggiori esempi del modernismo cinematografico del dopoguerra.

1958-1967
Nella Francia degli ultimi anni '50 l'idealismo e i movimenti politici del primo dopoguerra mutarono in una cultura quasi apolitica del consumo e del divertimento. La nuova generazione destinata a occupare presto i posti di potere in Francia fu battezzata Nouvelle Vague, ed era in gran parte composta da avidi lettori di riviste di cinema e frequentatori di cineclub e cinema d'essai: un pubblico, insomma, pronto per film meno allineati di quelli del cinema di qualità.
L'industria cinematografica non aveva ancora scoperto il nuovo mercato, ma nel 1958 l'affluenza nelle sale iniziò a declinare e molti film si risolsero in costosi fiaschi. Allo stesso tempo il sostegno statale incoraggiava il rischio: nel 1953 il Centre National du Cinéma aveva introdotto un premio di qualità che permetteva a nuovi registi di realizzare cortometraggi; una legge del 1959 rilanciò con il sistema della "avance sur recettes" (anticipo sulle ricevute), che finanziava le opere prime sulla base della sceneggiatura. Fra il 1958 e il 1961 esordirono così nel lungometraggio dozzine di registi.
Uno sviluppo così vistoso comprendeva naturalmente tendenze molto differenti, ma le due principali sono quelle che si identificano con il gruppo della Nouvelle Vague da una parte e dall'altra con quelli della Rive Gauche, autori di poco più anziani che solo ora si affacciavano sul mondo del cinema.

Si deve in gran parte alla Nouvelle Vague l'immagine romantica del giovane regista che lotta per sfidare con un cinema personale le convenzioni dell'industria. Paradossalmente, molti componenti del gruppo sarebbero divenuti rapidamente autori commerciali, spesso di livello assai ordinario; alcuni però non si limitarono a rendere popolare una concezione nuova e più personale del cinema, ma introdussero notevoli innovazioni nella forma e nello stile.
I principali esponenti della Nouvelle Vague nascevano come critici dei "Cahiers du Cinéma", erano fedelissimi alla politica degli autori e convinti che il regista dovesse esprimere una sua personale visione del mondo, non solo nella sceneggiatura del film ma anche nello stile.
L'epifania della Nouvelle Vague avvenne con quattro film usciti fra il 1958 e il 1960. "Le beau Serge" e "I cugini" di Claude Chabrol esploravano la disparità fra la vita rurale e quella urbana nella nuova Francia: il primo sfiorò di poco l'occasione di rappresentare la Francia a Cannes, mentre il secondo vinse un premio importante a Berlino. "I quattrocento colpi" di François Truffaut, sensibile ritratto di un piccolo ladro fuggiasco, vinse a Cannes il premio per la miglior regia e impose la Nouvelle Vague nel mondo. Ma il più innovativo dei quattro resta "Fino all'ultimo respiro" di Jean-Luc Godard, resoconto degli ultimi giorni di vita di un piccolo criminale.
Molti film della Nouvelle Vague erano l'ideale per le necessità finanziarie dei produttori: girati in ambienti reali con attrezzatura leggera, attori poco noti e troupe ridotte all'osso, potevano essere ultimati in fretta e per metà del budget medio abituale; spesso si girava senza sonoro e si provvedeva in seguito al doppiaggio; per tre anni, inoltre, svariate opere del genere produssero guadagni notevoli, portando alla fama Jean-Paul Belmondo, Jean-Claude Brialy, Anna Karina, Jeanne Moreau e altre star che avrebbero dominato per decenni il cinema francese, e rivelandosi più facilmente esportabili di tante grosse produzioni.
Come indica lo stesso termine di Nouvelle Vague ('nuova ondata'), gran parte del successo del gruppo si puo attribuire al suo legame con il pubblico giovane: la maggior parte dei suoi componenti era nata attorno al 1930 e abitava a Parigi. Incentrato sulla vita professionale urbana tra mode chic e auto sportive, bar, party notturni a oltranza e locali jazz, il cinema della Nouvelle Vague proponeva l'ambiente dei caffè come se fosse catturato con l'immediatezza del cinema diretto. Parecchie erano anche le affinità tematiche fra una pellicola e l'altra: dell'Autorità era meglio diffidare; l'impegno politico o romantico era considerato con sospetto; le azioni gratuite dei personaggi recavano tracce di un esistenzialismo pop e - in un'eco del realismo poetico, del cinema di qualità e dei noir americani - spesso i soggetti ruotavano attorno a una "femme fatale".
Gli autori della Nouvelle Vague condividono alcuni principi di base e spesso strutturano le trame su eventi casuali e digressioni, intensificando inoltre la tendenza ai finali aperti: il celebre finale de "I quattrocento colpi" fece del fermo immagine una tecnica ideale per esprimere una situazione irrisolta. Allo stesso tempo la mescolanza di toni del neorealismo è portata all'estremo: in Truffaut, Godard e Chabrol alla commedia farsesca subentrano spesso ansia, dolore e morte.
I registi-ex critici della Nouvelle Vague furono infine i primi a riferirsi sistematicamente alle tradizioni cinematografiche precedenti considerando la storia del cinema una presenza viva: in "Fino all'ultimo respiro" il protagonista imita Humphrey Bogart, mentre la protagonista viene da "Bonjour tristesse" (Id., 1958) di Preminger; a una festa in "Paris nous appartient" si proietta "Metropolis", mentre ne "I quattrocento colpi" il ragazzo ruba una foto di scena di "Monica e il desiderio" di Bergman. Le citazioni erano spesso incrociate - in una sorta di celebrazione della reciproca notorietà - o riferite agli amici dei "Cahiers du cinéma". Questa coscienza del debito di ogni film nuovo con quelli passati valse come introduzione al cinema riflessivo degli anni '60.
Visto il sostegno dato dai "Cahiers" a un cinema personale, non c'è da stupirsi che la Nouvelle Vague non si sia coagulata in un movimento compatto nello stile come l'espressionismo tedesco o la scuola del montaggio sovietico: le diverse direzioni prese negli anni Sessanta dai suoi esponenti induce semmai a vederla come una breve alleanza di temperamenti differenti. I due registi più importanti e influenti restano tuttavia Truffaut e Godard, anche se molti loro colleghi ebbero notevole fortuna.
Claude Chabrol, finanziato il suo primo film "Le beau Serge" grazie a un'eredità della moglie, gira rapidamente diversi film e l'ammirazione per Hitchcock lo portò a realizzare psicodrammipieni d'atmosfera, spesso spruzzati di un grottesco umorismo ("Le donne facili", "Ophelia"). All'inizio degli anni '90 Chabrol aveva totalizzato oltre quaranta film e numerosi episodi televisivi, confermandosi il più duttile dal punto di vista commerciale e il più pragmatico dei registi venuti dai "Cahiers".
Esteta riflessivo, Rohmer aderì scrupolosamente agli insegnamenti di Bazin: "Il segno del leone" ricorda "Ladri di biciclette" per come descrive i vagabondaggi di un uomo senza casa nel caldo dell'estate parigina.
Dopo quest'opera, Rohmer avviò la serie dei "Sei racconti morali", indagini oblique su uomini e donne colti nello sforzo di bilanciare l'intelligenza con impulsi emotivi ed erotici. Nel primo lungometraggio della serie, "La collezionista", la ninfetta Haydée tenta il superintellettuale Adrien ma si tiene appena fuori della sua portata; il successo del film permise a Rohmer di completare la serie, tra gli altri, con "La mia notte con Maud" (Ma nuit chez Maud, 1967).
La seconda serie, "Commedie e proverbi", si è chiusa nel 1980 quando il regista ha avviato la terza, "I racconti delle quattro stagioni". Sgonfiando le pretese dei suoi personaggi - ma sempre guardando con simpatia i loro sforzi di essere felici - il cinema di Rohmer restituisce il sapore del romanzo di costume o dei film di Renoir.
Se Rohmer predilige un racconto conciso e di nitida ironia, i film di Jacques Rivette - altro critico dei "Cahiers" - tentano di catturare il flusso continuo della vita stessa: "L'amore folle" (L'amour fou, 1968) dura oltre quattro ore, "Out 1" (1971) arriverà a dodici. Queste durate abnormi permettono a Rivette di svolgere gradualmente un ritmo quotidiano dietro al quale incombono cospirazioni intricate e seminascoste.
"Paris nous appartient" (1960) inaugura quest'anima paranoide: a una giovane donna viene detto che gli invisibili governatori del mondo hanno portato un uomo al suicidio e presto uccideranno l'uomo che lei ama. Il film deve molto a Lang, di cui Rivette ammirava le parabole sul fato annunciato da oscuri presagi, e introduce anche il tema della fascinazione per il teatro: uno dei percorsi narrativi segue un aspirante regista che tenta di mettere in scena "Pericle principe di Tiro" di Shakespeare in circostanze improvvisate. "L'amour fou" sviluppa l'argomento in modo più elaborato seguendo la troupe di un film 16mm che documenta l'attività di una troupe teatrale. Considerato marginale nel primo periodo della Nouvelle Vague, Rivette sarebbe diventato autore di vasta influenza nel cinema francese degli anni '70.
Decisamente più stilizzati sono i film di Jacques Demy, la cui carriera decollò con "Lola donna di vita" (Lola, 1961), dedicato a Max Ophuls in ricordo di Lola Montès): assieme a "La grande peccatrice" (La baie des anges, 1962) il film inaugura, nel ricorso a scenografie e costumi artificiali, quella che sarebbe stata la cifra del regista. Ancor più lontano dal realismo è "Les parapluies de Cherbourg" (ld., 1964), in cui tutto il dialogo è cantato: la colonna sonora pop di Michel Legrand e le vibranti combinazioni cromatiche di Demy ne fecero un enorme successo commerciale. La maggior parte dei film di Demy sono disturbati dal contrasto fra un sontuoso approccio visivo e trame banali o perfino squallide.
L'etichetta della Nouvelle Vague fu spesso applicata a registi che avevano poco in comune con il gruppo dei "Cahiers": ad esempio il selvaggio Les abysses (Gli abissi, 1963) di Nico Papatakis deve in gran parte al teatro dell'assurdo lo psicodramma frenetico di due cameriere; al contrario, un autore mainstream come Louis Malle opta per uno stile da Nouvelle Vague nel suo "Zazie nel metrò" (1960). La Nouvelle Vague diventava insomma quasi un marchio capace di consentire l'emergere di una gran varietà di giovani registi.

1958-1967
La fine degli anni '50 portò alla ribalta un altro eterogeneo gruppo di cineasti, noti fin da allora come quelli della "Rive Gauche", la riva sinistra. Mediamente più anziani e meno cinefili di quelli dei "Cahiers", tendevano ad assimilare il cinema ad altre arti, in particolare alla letteratura: anche il loro cinema, comunque, era d'impronta moderna e favorito dall'interesse del pubblico giovane per la sperimentazione.
La tendenza era stata anticipata a metà degli anni Cinquanta da due film: Alexandre Astruc, che aveva contribuito alla formazione della politica dell'autore col suo manifesto sulla camira-stylo, aveva girato "I cattivi incontri" (Les mauvaises rencontres, 1954) ricorrendo ampiamente a flashback e voci fuori campo per raccontare il passato di una donna portata in un commissariato per una storia di aborti; l'altro e più importante titolo è "La pointe courte", mediometraggio di Agnès Varda basato in gran parte sui vagabondaggi di una coppia il cui dialogo, stilizzato e fuori campo, stride con il loro essere attori non professionisti e con gli ambienti reali. Il montaggio ellittico fa di questo film un'opera unica nel cinema dell'epoca.
Il prototipo dei film della Rive Gauche è "Hiroshima mon amour", diretto da Alain Resnais su sceneggiatura di Marguerite Duras. Apparso nel 1959, il film divise la ribalta con "I cugini" e "I quattrocento colpi", offrendo ulteriore prova del rinnovamento del cinema francese ma anche marcando la propria diversità dalle opere di Chabrol e Truffaut: al tempo stesso altamente intellettuale e capace di scioccare profondamente, "Hiroshima mon amour" contrappone in modo inquietante presente e passato.
Giunta a Hiroshima per un film contro la guerra, un'attrice francese è attratta da un giapponese e nell'arco di due giorni e due notti ci fa l'amore, ci parla, ci litiga fino a che i due raggiungono un'oscura comprensione reciproca. Nella mente di lei riaffiorano intanto i ricordi del soldato tedesco amato durante l'occupazione; tenta così di associare il suo tormento durante la seconda guerra mondiale con le terribili sofferenze inflitte dalla distruzione atomica di Hiroshima nel 1945. Il film si chiude con un'apparente riconciliazione della coppia e l'idea che la difficoltà di comprendere in pieno qualsiasi verità storica sia analoga a quella di comprendere un altro essere umano.
Voci maschili e femminili si intrecciano sulle immagini: spesso non è chiaro se la colonna sonora stia proponendo una conversazione reale, un dialogo immaginario o un commento espresso dai personaggi, mentre il film passa con disinvoltura dall'azione della trama a materiale documentario o a inquadrature della giovinezza francese dell'attrice. Anche se i flashback erano divenuti frequenti già negli anni '40 e '50, i salti temporali di Resnais sono improvvisi, frammentari e spesso sospesi in modo ambiguo fra ricordo e fantasia.
Nella seconda parte di "Hiroshima mon amour" il giapponese segue la francese per la città durante la notte e ai flashback si sostituisce la voce interiore di lei che commenta ciò che sta accadendo nel presente. Se la prima metà del film era così veloce nel ritmo da disorientare lo spettatore, la seconda rallenta fino a corrispondere al passo di lei, al suo nervoso fuggire e alla paziente attesa dell'uomo: il ritmo, che ci costringe a osservare le sfumature del comportamento dei due, anticipa quello di Antonioni in "L'avventura".
Nel 1959 "Hiroshima mon amour" fu presentato fuori concorso al Festival di Cannes e vinse il premio della Critica Internazionale: le scene di intimità sessuale e lo stile del racconto fecero sensazione, e l'ambigua mescolanza di realismo documentario, evocazioni soggettive e commenti dell'autore costituirono una tappa importante nello sviluppo artistico del cinema di tutto il mondo.
"Hiroshima mon amour" diede a Resnais fama internazionale e il suo film seguente, "L'anno scorso a Marienbad", sviluppò ulteriormente l'ambiguità modernista: fantasia, sogno e realtà si mescolano nella vicenda di tre personaggi che si incontrano in un lussuoso albergo. Il successivo "Muriel", il tempo d'un ritorno non usa il flashback ma continua a rievocare il passato nei film amatoriali di un giovane che ha documentato con la cinepresa il suo traumatico servizio militare in Algeria. Il film solleva questioni politiche ancor più esplicite di "Hiroshima mon amour": la Muriel del titolo, che non vedremo mai, è un'algerina torturata dagli occupanti francesi; Resnais enfatizza l'angoscia del presente in un montaggio pieno di energia, ben più preciso dei jump cuts grezzi della Nouvelle Vague.
La fama di Resnais favorì l'esordio nella regia, oltre a quello di Marguerite Duras, di un'altra figura letteraria: già sceneggiatore di "L'anno scorso a Marienbad", il romanziere Alain Robbe-Grillet passò dietro la macchina da presa con "L'immortale", continuando l'esplorazione di spazi e tempi "impossibili"); il successivo "Trans-Europ-Express" affronta direttamente il tema stesso della narrazione incentrandosi su tre scrittori riuniti in un treno a scrivere del contrabbando internazionale di droga. Entrambi i film mostrano la messa in scena delle loro stesse trame, con tutte le varianti e le revisioni che emergono dalla discussione.
Il fenomeno "Hiroshima mon amour" aiutò anche Agnès Varda a realizzare il lungometraggio "Cléo dalle 5 alle 7". Nonostante il titolo, il film copre 95 minuti nella vita di un'attrice in attesa dei risultati di importanti analisi mediche: per alleggerire la tensione, Agnès Varda spezza il film in 13 "capitoli" e di quando in quando indulge in digressioni. L'esuberanza del film, in sorprendente contrasto con il suo soggetto morboso, lo avvicina ai toni della Nouvelle Vague ma gli esperimenti di manipolazione nella durata della trama hanno il sapore intellettuale tipico della Rive Gauche.
Il successo della Nouvelle Vague e della Rive Gauche durò soltanto pochi anni e alla lunga non servì ad arrestare il calo di spettatori nelle sale francesi. Alcuni film diretti da registi giovani - in particolare "Desideri nel sole" di Jacques Rozier - costarono uno sproposito e ormai, nel 1963, il cinema nuovo non vendeva più: esordire nella regia tornò a essere difficile come dieci anni prima. Produttori tenaci come Georges de Beauregard, Anatole Dauman, Mag Bodard e Pierre Braunberger continuarono a sostenere gli autori più importanti, ma ben più appetibili dal punto di vista commerciale erano registi come Claude Lelouch, il cui "Un uomo, una donna" (Un homme et une femme, 1966) ricorreva a tecniche della Nouvelle Vague per abbellire una storia d'amore assolutarnente tradizionale.
Nonostante tutto, il cinema francese degli anni Sessanta era uno dei più ammirati e imitati in tutto il mondo. La tradizione di qualità era stata soppiantata da un cinema assolutamente moderno.

1958-1967
A cavallo fra gli anni ‘50 e ‘60 l'industria del cinema italiano era in condizioni molto migliori di quella francese. Un aumento del prezzo dei biglietti aveva pareggiato il calo delle frequenze, le importazioni americane diminuivano e i film italiani si conquistavano una grossa fetta degli incassi domestici; il mercato internazionale intanto si rivelava accessibile a film horror, a commedie come "Divorzio all'italiana" (di Pietro Germi 1961) e ai nuovi film epico-mitologici come "Le fatiche di Ercole" (di Pietro Francisci, 1957), e sia l'America che le altre Nazioni europee partecipavano con entusiasmo a coproduzioni con l'Italia: mentre Cinecittà sfornava un film dopo l'altro, nel 1962 Dino De Laurentiis costruì alle porte di Roma un grande complesso di teatri di posa. All'inizio degli anni ‘60 l'Italia era il più forte centro di produzione dell'Europa occidentale.
I registi più in vista erano Fellini e Antonioni, ma l'espansione dell'industria favorì l'esordio di dozzine di nuovi registi: l'influenza della tradizione neorealista era spesso piuttosto marcata.
Il più deciso aggiornamento del neorealismo avviene nell'opera di Ermanno Olmi: dalla prima scena - quella di un giovane che si sveglia mentre i suoi genitori preparano la colazione - "Il posto" (1961) porta avanti la paziente osservazione della vita quotidiana di "Umberto D". Un tipico elemento che collega il film ai fermenti giovanili del cinema di tutto il mondo è l'allentarsi della struttura narrativa: la ricerca da parte del ragazzo di un impiego statale, la piccola routine dell'ufficio e le vite malinconiche degli impiegati sono raccontate in modo aneddotico e ricco di digressioni; la sottotrama romantica resta irrisolta.
I giovani di sinistra accentuarono l’impulso del neorealismo alla critica sociale. I più fedeli alla tradizione erano forse i fratelli Paolo e Vittorio Taviani, che avrebbero raggiunto la fama internazionale negli anni Settanta. Già aiuto di Visconti in "La terra trema", Francesco Rosi unì in "Salvatore Giuliano" (1961) l'inchiesta semidocumentaria sulla morte del bandito con una serie di flashback in ordine non cronologico. Con "La Cina è vicina" (1967), girato dopo "I pugni in tasca" (1965), Marco Bellocchio portò sullo schermo la critica della nuova sinistra al comunismo ortodosso; e Gillo Pontecorvo - il più anziano del gruppo - firmò con "La battaglia di Algeri" (1966) uno dei più importanti contributi alla tendenza: il film, una sorta di semidocumentario ricostruito, si ispira alle convenzioni del cinéma vérité per rendere con immediatezza la guerra d'indipendenza algerina, ma come i film di Rosi rivela l'influenza di Resnais e di altri sperimentatori nel ricorso a una complessa costruzione a flashback.
L'impulso neorealista trovò anche uno sviluppo in forma di modernismo radicale nell'opera di Pier Paolo Pasolini. Marxista non ortodosso, omosessuale, non credente ma imbevuto di cattolicesimo, Pasolini sollevò un polverone nella cultura italiana passando al cinema dopo aver già raggiunto la popolarità come poeta e romanziere e aver collaborato a diverse sceneggiature, e in particolare a quella di "Le notti di Cabiria" di Fellini.
"Accattone" (1961) e "Mamma Roma" (1962), analisi della povertà urbana, furono salutati come un ritorno al neorealismo, ma il modo in cui Pasolini descrive l'ambiente sembra dover più a "I figli della violenza" di Buñuel, e non solo per le scene di selvaggia violenza ma per l'inquietante onirismo.
I primi film di Pasolini propongono un'accozzaglia di atmosfere e immagini disparate: in composizioni che ricordano i dipinti rinascimentali, i personaggi pronunciano parole volgari; scene girate per strada alla maniera del cinéma-vérité sono commentate dalla musica di Bach. Pasolini spiegava questi accostamenti di stile con la tesi che i contadini e i livelli più bassi della classe operaia urbana mantenessero dei legami con la mitologia preindustriale, che egli intendeva evocare con le sue citazioni di grandi opere d'arte del passato.
La tattica della "contaminazione" stilistica era forse meno dura da digerire ne "Il Vangelo secondo Matteo" (1964). Il soggetto biblico era presentato con maggior realismo dei film epici di Hollywood o di Cinecittà: Pasolini fa di Gesù un predicatore di ferina e spesso impaziente energia e indugia sui tratti contorti, la pelle rugosa e i denti spezzati dei suoi personaggi. "Il Vangelo secondo Matteo", comunque, non è solo una versione neorealista della Bibbia: gli stili si mischiano, con Bach e Prokof'ev che nella colonna sonora gareggiano con l'africana Missa Luba; volti da dipinti rinascimentali sono ripresi con bruschi zoom; il processo di Gesù davanti a Pilato è girato con la macchina amano tra una folla di curiosi, come se un operatore di cinegiornale non fosse riuscito ad avvicinarsi di più.
Se Pasolini, scrittore sperimentale divenuto cineasta, ricorda in qualche modo Robbe-Grillet, Bernardo Bertolucci è l'equivalente italiano dei registi della Nouvelle Vague. A diciannove anni fu aiuto regista di Pasolini in "Accattone", e proprio Pasolini firmò il soggetto del suo primo film, "La commare secca" (1962).
Devoto cinefilo, Bertolucci da ragazzo aveva passato le vacanze a vedere film alla Cinemathèque Française: ma anche se il regista si identificherà fortemente negli autori della Nouvelle Vague, la costruzione accurata e l'eleganza tecnica dei suoi film lo avvicinano piuttosto a modernisti più anziani come Resnais. In "La commare secca" alcuni sospetti di omicidio sono interrogati da investigatori fuori campo e i flashback provvedono a mostrarci le diverse versioni degli eventi secondo ogni testimone. Questa soluzione, già usata in "Quarto potere" e "Rashomon", si applica qui a una classica situazione neorealista: il furto di una borsa che ricorda sia "Ladri di biciclette" che "Le notti di Cabiria". La sceneggiatura di Pasolini crea variazioni sulla soluzione interrompendo un flashback con l'altro e ricorrendo a flashback ancora anteriori per mostrare la vittima che si prepara a uscire la mattina del furto; ma lo stile visivo di Bertolucci è molto più morbido di quello del maestro e si serve di lente carrellate e composizioni ben calibrate.
Il titolo più celebrato di Bertolucci in questo periodo fu l'autobiografico "Prima della rivoluzione" (1964), la storia di un giovane che si innamora della zia: percorso da riferimenti ai "Cahiers du cinéma" e a registi di Hollywood, il film rivela nel regista una perfetta padronanza delle tecniche spiazzanti del nuovo cinema. Evitando le fratture radicali di Godard, Bertolucci firma opere tecnicamente impeccabili, qualità che sarà alla base dei suoi successi negli anni ‘70 e ‘80.
La prosperità dell'industria permise gli esordi di Olmi, Pasolini, Bertolucci e molti altri registi ma l'occasione, come in Francia, durò appena qualche anno: la crisi iniziò nella stagione 1963-64, quando i grandi film in costume passarono di moda e le case di produzione subirono costosi fallimenti - in particolare "Il Gattopardo" (1963) di Luchino Visconti e "Sodoma e Gomorra"
(Sodom and Gomorrah, 1963) di Robert Aldrich. Nel 1965 lo Stato intervenne offrendo aiuti analoghi a quelli francesi: premi per progetti di qualità, mutui garantiti e crediti tratti da fondi speciali.
Mentre questa politica provocava un nuovo boom, l'industria si lanciò in produzioni a basso budget che esploravano generi nuovi come l'erotismo e le imitazioni di James Bond; Mario Bava reinventò il thriller fantastico con inedite sfumature erotiche, scenografie barocche e bizzarri movimenti di macchina, ma il genere italiano di maggior successo internazionale fu quello poi definito nei paesi anglofoni "spaghetti western", e il cui esponente di maggior spicco è Sergio Leone.
Amante dei fumetti e dei noir americani, Leone era un cinefilo appassionato almeno quanto i colleghi della Nouvelle Vague; aveva lavorato come aiuto regista per suo padre Roberto Roberti, per De Sica (in "Ladri di biciclette") e per diversi registi americani che giravano film in Italia. Dopo aver diretto due film epici in costume, Leone passò al genere con cui i produttori speravano di ristabilizzare l'industria.
"Per un pugno di dollari" (1964), "Per qualche dollaro in più" (1965) e "Il buono, il brutto e il cattivo" (1966) sono rimasti i prototipi del western all'italiana e hanno tutti per protagonista il laconico e ispido Clint Eastwood, che vaga in un mondo di grottesca assurdità ispirato ai film di samurai di Kurosawa. I western di Leone sono all'insegna di un crudo realismo - città malsane, poncho luridi e una violenza molto più efferata di quanto gli spettatori avessero mai visto - ma tra le loro caratteristiche c'è anche uno splendore quasi operistico: paesaggi sconfinati (ripresi a basso costo in Spagna) si alternano a dettagli panoramici di occhi o di mani; il grandangolo distorce la profondità e lo sgargiante stile di Leone spinge le convenzioni del western al livello di pura cerimonia, tanto che un confronto in un bar diventa lungo e stilizzato come il duello di "Ivan il terribile" di Ejzenštejn. Queste scene sovraccariche sono spesso sdrammatizzate con ironia e umorismo nerissimi.
Anche le colonne sonore di Ennio Morricone conferiscono all'azione un affiato eroico, utilizzando ad esempio un volo d'archi, ma sono pronte a burlarsene con un fischio o un improvviso effetto sonoro; la musica contribuiva anche ad amplificare i nodi tematici del film, come alla fine di "Per qualche dollaro in più", quando il parallelo fra una sparatoria e una corrida emerge non solo dall'ambientazione in un'arena ma anche dai palpitanti ottoni messicani della colonna sonora.
L'enorme successo della cosiddetta "trilogia del dollaro" scatenò il filone del western all'italiana e diede celebrità internazionale a Leone, a Morricone e a Eastwood. Anche se Leone si mantenne all'interno di un genere popolare, il suo modo ricco e personale di reinventarne le convenzioni si rivelò altrettanto importante degli sforzi di quei registi d'essai che avevano rivisto e sfidato la tradizione neorealista.

1958-1967
Nel febbraio 1962 ventisei giovani autori firmarono un manifesto dichiarando la morte del vecchio cinema e denunciarono la decomposizione dell'industria e il crollo d ti biglietti, promettendo di riconquistare fama internazionale. All'inizio del 1965 il governo centrale fondò il Kuratorium Junger Deutscher Film ("Commissione per il Giovane Cinema Tedesco"), un ente che sulla base della sceneggiatura offriva mutui senza interesse ai registi segnalatisi con cortometraggi interessanti.
Durante la sua breve vita il Kuratorium finanziò quasi due dozzine di lungometraggi a basso budget, ribattezzati "Rucksackfilme" (film zaino): descrivevano la Germania contemporanea come una terra di matrimoni in frantumi, amori inaciditi, ribellione giovanile e sesso promiscuo, spingendosi talvolta fino a suggerire la persistenza nel presente dell'eredità nazista. Dopo quasi due decenni di rispettose riduzioni dei classici, il nuovo cinema tedesco strinse alleanze con scrittori sperimentali per un cinema d'autore che, a differenza di quello francese, mirava a una qualità letteraria; i due debutti più notevoli del periodo furono quelli di Alexander Kluge e Jean-Marie Straub.
Kluge iniziò a misurarsi con la scrittura sperimentale e – dopo aver visto "Fino all'ultimo respiro" - con la regia, diventando nel contempo il più instancabile difensore del nuovo cinema tedesco: Kluge era tra i firmatari del manifesto di Oberhausen ed ebbe un ruolo centrale nelle trattative per l'istituzione del Kuratorium, contribuendo anche alla fondazione della prima scuola di produzione della Germania Ovest, a Ulm. Nello stesso periodo Kluge realizzò una serie di cortometraggi e nel 1965 ottenne il finanziamento del Kuratorium per "La ragazza senza storia" (Abschied von Gestern, 1965). Il suo stile - jump cut, accelerazioni, titoli distraenti, carrellate e panoramiche con macchina a mano - e il suo modo di raccontare ellittico e frammentato fanno di "La ragazza senza storia" un prodotto tipico del cinema nuovo anni Sessanta: Anita G., che vaga per le città cercando di mantenere un lavoro di rappresentante, si abbandona a piccoli furti, si innamora e finisce incinta e in prigione, avrebbe potuto benissimo essere un'eroina della Nouvelle Vague.
A differenza dei suoi contemporanei francesi, Kluge tenta di dare ad Anita una valenza storica e ne intreccia la vicenda con una moltitudine di documenti: una storia di bambini degli anni Venti, interviste in stile cinema diretto, vecchie fotografie e canzoni che fanno della tragedia della protagonista un'illustrazione della continuità fra la vecchia e la nuova Germania. L’epigrafe del film è "Dallo ieri non ci separa un abisso ma una situazione diversa". Lo stile narrativo di Kluge non incoraggia il pubblico a identificarsi pienamente con Anita, ma permette momenti di sommesso pathos. "La ragazza senza storia" guadagnò il riconoscimento internazionale e fece di Kluge il teorico più convinto del nuovo cinema tedesco, sempre pronto alla difesa di film che offrissero all'immaginazione degli spettatori una nuova libertà.
Molto più schiva è la figura di Jean-Marie Straub, nato in Francia. Impressionato in gioventù da "Perfidia" di Bresson e dai film di Lang e Dreyer, Straub, insieme alla moglie Danièle Huillet che firmerà con lui tutti i film, adattò per lo schermo due opere di Heinrich Boll realizzando "Machorka-Muff" (1963) e "Non riconciliati, ovvero solo violenza aiuta dove violenza regna" (Nicht versöhnt oder Es hilft nur Gewalt, wo Gewalt herrscht, 1965).
Come Kluge, Straub contrappone materiali di finzione e documentari: "Machorka-Muff" - una denuncia del sorgere del militarismo in Germania - è composto da brandelli di dialogo, azione e monologo interiore, alternati con paesaggi e titoli di giornale, e riesce a comprimere il breve romanzo di Boll da cui è tratto in appena 18 minuti. "Nicht versöhnt" è ancora più audacemente condensato: in appena 50 minuti Straub e Huillet trovano la continuità fra le due guerre e il presente attraverso la storia di tre generazioni di una famiglia. La recitazione deliberatamente inespressiva e addirittura ampollosa, il gran numero di personaggi, i salti improvvisi e non segnalati fra presente e passato, la frammentazione netta delle scene rendono "Nicht versöhnt" quasi incomprensibile a una prima visione; la complessità della trama è accompagnata da una compiaciuta bellezza visiva e dal suono in presa diretta – una rarità tra giovani registi che abitualmente preferivano ridurre i costi ricorrendo al doppiaggio. I distributori tedeschi non vollero avere nulla a che fare con il film, che tuttavia consentì a Straub e Huillet di ottenere i finanziamenti del Kuratorium per un lungometraggio sulla vita di Bach.
Già alla fine del 1967 il nuovo cinema tedesco vantava parecchi titoli di successo: "La ragazza senza storia" di Kluge e "I turbamenti del giovane Törless" (Der junge Törless, 1965) di Schlöndorff vinsero otto premi ciascuno a vari festival, e anche altri film andarono bene sul mercato internazionale, ma gli autori - divisi sui principi e costretti a disputarsi scarse risorse - si trovarono sempre meno uniti. Il cinema mainstream invocò una nuova forma di sussidio e nel gennaio 1968 ottenne una legge per lo sviluppo del cinema che sbarrava la strada ai registi esordienti e favoriva i produttori che sfornavano serie commerciali veloci e a basso budget. Per giunta la nuova legge controllava anche i contenuti con una clausola che rifiutava l'appoggio a film "contrari alla costituzione, alla morale o al sentimento religioso".
Alcuni esordienti usarono i fondi del Kuratorium e l'attenzione dei produttori verso il mercato giovanile per girare thriller di spionaggio e commedie sexy; Eckhardt Schmidt, regista di "Come le ragazze oggi amano gli uomini" (Wie Mädchen heute Männer lieben, 1967) commentò: "Preferisco filmare una ragazza nuda che sproloquiare sui problemi". Ma nel decennio appena iniziato molti giovani registi pronti a criticare il "miracolo economico" della Germania avrebbero fatto sentire la loro voce.

1958-1967
Il disgelo seguito alla morte di Stalin nel 1953 si esaurì rapidamente, nella sfera politica con il soffocamento della rivoluzione ungherese nel 1956, e in campo artistico con gli attacchi del 1958 al romanzo di Boris Pasternak "Il dottor Zivago". Nel 1961 Kruscev lanciò tuttavia una nuova campagna di destalinizzazione invocando apertura e maggiore democrazia: intellettuali e artisti risposero con entusiasmo favorendo l'emersione di una cultura sovietica più giovane.
Al cinema la maggior parte dei vecchi registi continuò a lavorare secondo tradizione: "La signora dal cagnolino" (Dama s sobačkoj, di Josif Chejfic, 1959) ricorre banalmente alla profondità di fuoco di moda negli anni Cinquanta per raccontare una storia d'amore in una classe in declino. Fedele al suo stile monumentale, Michail Romm assunse una posizione più liberale in "Nove giorni in un anno" (Devjat' dnej odnogo goda, 1962), un film sociale sulle radiazioni atomiche. Anche se Romm era stato uno dei principali autori stalinisti, dopo il disgelo si rivelò un progressista che avrebbe formato e incoraggiato molti dei più importanti registi del dopoguerra.
Una nuova enfasi sulla gioventù affiorò evidente in parecchi film sull'infanzia; altri autori, come i loro colleghi stranieri, si concentrarono su giovani adulti nel mondo contemporaneo: lo scrittore Vasilij Šukšin diresse "Vive così un uomo" (Žvët takoj paren' , 1964), nel quale un bonario camionista scopre in URSS il mondo degli adolescenti.
Il più celebrato dei giovani registi fu Andrej Tarkovskij, figlio di un importante poeta e allievo di Romm alla VGIK. Come molti suoi coetanei, Tarkovskij si interessò al cinema d'arte europeo e in particolare a Bergman, Bresson e Fellini. Il suo primo lungometraggio - "L'infanzia di Ivan" (Ivanovo detstvo, 1962) - vinse i Venezia e divenne uno dei film sovietici più ammirati degli anni ‘60.
"L'infanzia di Ivan" aderisce a molte convenzioni del film sovietico della seconda guerra mondiale fin dalla trama, in cui un ragazzo giura di vendicare la morte dei suoi genitori e diventa una guida per un commando di partigiani; Tarkovskij tratta però questo materiale con un insolito lirismo: la sequenza iniziale - un sogno muto in cui Ivan galleggia fra gli alberi per salutare la madre e bere un po' d'acqua - imposta un insieme di temi visivi. Dopo che Ivan muore ucciso dai nazisti, il film si conclude con una luminosa sequenza di immagini fantastiche. L'ambiguità è tipica del cinema artistico degli anni Sessanta: la sequenza potrebbe essere l'ultimo sogno di Ivan o la libera elaborazione o commento dell'autore.
La nuova libertà ebbe vita breve: quando Kruscev denunciò "Mne dvadcat' Let" (Ho vent'anni, di Marlen Khutsiev, 1963) come un insulto alle vecchie generazioni, per il cinema nuovo cominciarono i problemi. Nel 1964 Kruscev stesso fu costretto a dimettersi e alla guida del Partito gli subentrò il conservatore Leonid Breznev: sotto la rubrica "sviluppo armonico", questi bloccò le riforme e strinse le maglie del controllo sulla cultura. I film anticonformisti furono girati di nuovo o messi al bando: "Storia di Asia Kljafina che amò senza sposarsi" (Asino Scast'e - Istorija Asi Kljačinoj, kotoraia ljubla, da nevysla zamuz) di Andrei Končalovskii, ultimato nel 1966, fu messo al bando con l'accusa di oltraggio alla vita contadina; "Commissario del popolo" (Kommissar, 1967) di Alexander Askoldov fu soppresso per aver dipinto personaggi ebrei in modo positivo; quanto a Grigorii Cuchrai, quando fu bloccato il suo "Inizio di un'epoca sconosciuta" (Nachalo nevedomago veka, 1967) chiuse il suo studio sperimentale.
Il destino del secondo lungometraggio di Tarkovskij esemplifica gli ostacoli che attendevano i cineasti: "Andrei Rubliov" - un lungo e cupo dramma sulla vita di un pittore di icone del quindicesimo secolo - seguiva la stessa strategia de "L'infanzia di Ivan" partendo da un genere popolare (in questo caso la biografia di un grande artista) e facendone il veicolo di immagini poetiche e misteriose. "Andrei Rubliov" poteva essere letto come un'inquietante allusione al presente: circondato dalla crudeltà e dalla depravazione, Rubliov smette di parlare, rinuncia alla pittura e abbandona la Fede. Qualcuno vi riconobbe un'allegoria di come l'arte sia soffocata dall'oppressione e gli amministratori della Goskino negarono al film la distribuzione.
Nonostante le pressioni politiche, molti film dell'era brezneviana affrontavano temi di particolare interesse per i giovani e gli intellettuali. Sulla scena si imposero due registe importanti: Larisa Šepit'ko, che in "Kryl'ja" (Ali, 1966) racconta di una donna pilota costretta a cambiare mestiere e a divenire supervisore scolastico, e Kira Muratova, il cui "Korotkie v strechi" (Brevi incontri, 1968) ci mostra un uomo dal duplice punto di vista di due donne innamorate di lui.
Gli studi delle Repubbliche sovietiche, più vicini alle tradizioni popolari e meno vulnerabili alle censure ufficiali, produssero alcuni film di ambigua poesia. Il più anziano dei "nuovi" registi, Sergej Paradžanov, era cresciuto in Georgia, si era laureato alla VGIK nel 1951 e negli anni Cinquanta aveva realizzato in Ucraina diversi film. Il suo "Le ombre degli avi dimenticati" (Teni zabytych predkov, 1965) descrive un uomo ossessionato dalla morte della donna che amava, un soggetto popolare raccontato però con una raffica di trovate convulsamente moderniste e ripreso con una mobilissima macchina amano che sobbalza veloce tra i paesaggi: Paradžanov ci propone inquadrature prese dai tetti delle case, composizioni di staticità cerimoniale e brusche immagini soggettive. Lo stile aggressivo di Paradžanov indusse le autorità a limitare la circolazione del film in URSS ma gli consentì anche di raccogliere oltre una dozzina di premi internazionali.
Una volta stabilizzato il regime di Breznev, Paradžanov, Tarkovskij e altri innovatori incontrarono serie difficoltà a realizzare nuovi progetti. L'industria e il Partito produssero invece il colossale "Guerra e pace" (Vojna i mir, 1967, di cui sono giunte in Italia solo due parti, delle quattro che compongono l'originale) di Sergej Bondarčuk, emblema ufficiale del cinema sovietico. Il film fu strombazzato come la produzione più costosa della storia ed ebbe enorme successo nei mercati esteri: Bondarčuk vi inserì con rispettosa cautela qualche tocco di stile ricercato (ralenti, macchina a mano) ma nel complesso non fece che rilanciare la tradizione monumentale. Fu l'inizio di un nuovo periodo di stabilizzazione - più tardi definito stagnazione - in cui il cinema e le altre arti dell'Unione Sovietica non avrebbero più avuto modo di esplorare nuove strade fino ai primi anni ‘70.

1958-1967
La resistenza dell'Unione Sovietica alla sperimentazione cinematografica aveva un equivalente in alcune Nazioni dell'Europa orientale, e tuttavia nei primi anni Sessanta affiorarono nuove tendenze in Polonia, Cecoslovacchia, Iugoslavia e Ungheria.
Sul finire degli anni ‘50 l'economia dell'Europa dell'Est si rafforzò spingendo i Paesi a tentare di inserirsi nei mercati occidentali, e i film si rivelarono preziosi beni di esportazione. Per giunta le riforme economiche indussero molti governi ad aumentare la libertà artistica.
Diverse Nazioni europee svilupparono simultaneamente strutture meno centralizzate della rigida gerarchia sovietica: nel 1955 la Polonia aveva tentato per prima la strada delle "unità creative cinematografiche", in ciascuna delle quali registi e sceneggiatori lavoravano sotto il controllo di un regista più anziano; nel 1963 la Cecoslovacchia e l'Ungheria adottarono soluzioni analoghe; il sistema decentralizzato della Iugoslavia, attivo sin dal 1950, fu rivisto nel 1962 per consentire ai cineasti di fondare società indipendenti destinate alla produzione di singoli film. La concorrenza permise agli autori di questi Paesi una maggiore libertà nell'esplorare soggetti, temi, forme e stili di maggior freschezza.

Il giovane cinema polacco

Nei primi anni ’60 poteva sembrare che in Polonia il cinema non avesse perso nulla della sua forza: in "Ingenui perversi" (Niewinni czarodzieje, 1960) Andrzej Wajda aveva adattato il suo stile a un soggetto intimo - una notte di una coppia; "Madre Giovanna degli angeli" (Matka Joanna od Aniolow, 1961) di Jerzy Kawalerowicz proponeva con audacia una storia di possessione in un convento. Nel 1960 il sistema produttivo polacco era una macchina bene oliata e il rigore del realismo socialista era decisamente superato.
Tuttavia la pressione politica era in aumento: di rado un film veniva messo al bando, ma tutti erano soggetti a denuncia da critici e politici - cosa che rallentava i progressi dei registi più anziani. Dopo "Ingenui perversi" Wajda non fece film in Polonia per diversi anni, ed a Kawalerowicz ci vollero sei anni di preparazione per produrre il lungo e pensoso "Il faraone" (Faraon, 1966).
Nel complesso, sembrava che la vecchia guardia avesse esaurito le energie.
Nei primi anni ‘60 balenò la possibilità che i più giovani autori polacchi coltivassero un approccio modesto e realistico opposto ai barocchismi di Wajda e Kawalerowicz: apparvero così alcuni piccoli film basati su osservazioni sociologiche, ma i due più celebrati fra i nuovi registi evitarono questo realismo optando per un approccio decisamente drammatico e dallo stile vistoso per soggetti giovanili.
Roman Polanski era stato attore prima di frequentare una scuola di cinema e attrarre l'attenzione di tutto il mondo con il cortometraggio "Due uomini e un armadio" (Dwaj ludzie z szafa, 1958). Dopo due anni trascorsi a Parigi tornò in Polonia per realizzare il suo primo lungometraggio "Il coltello nell'acqua" (Nóz w wodzie, 1962), che a un primo livello può essere visto come un piccolo dramma di suspense: una coppia infelicemente sposata raccoglie un giovane autostoppista durante una gita e la tensione cresce mentre l'uomo schernisce il ragazzo senza pietà. Il film è politicamente un attacco alla nuova "borghesia rossa" che vive nel lusso, ma è difficile vedere un eroe positivo nel giovane, il quale nella migliore delle ipotesi è ingenuo e confuso, e nella peggiore vagamente cinico.
Evitando la maggior parte delle innovazioni stilistiche del nuovo cinema europeo, Polanski si affida a un montaggio ortodosso e a vivide inquadrature con profondità di fuoco che rispettano il teso antagonismo dei personaggi. Per altri versi, tuttavia, "Il coltello nell'acqua" segue le convenzioni del cinema artistico, a cominciare da un incipit che si ispira a "Viaggio in Italia", anche se nel 1962 Polanski non ha più bisogno del dialogo necessario a Rossellini: possiamo dedurre che la coppia sta litigando quando la moglie esce dall'auto per far guidare il marito. Il finale del film, con la coppia riunita in macchina e il marito che si domanda se il giovane sia veramente morto, sarebbe diventato emblematico dell'assenza di conclusioni nel cinema degli anni ‘60.
Jerzy Skolimowski, sceneggiatore di "Ingenui perversi" e de "Il coltello nell'acqua", è il regista polacco più vicino come stile e temi alla Nouvelle Vague parigina. In ogni film il protagonista (di solito interpretato dallo stesso Skolimowski) è un sensibile vagabondo deluso dalla società ma sempre animato dalla speranza di trovare la felicità nell'amore di una donna.
I film di Skolimowski sfoggiano le casuali improvvisazioni dei primi Godard e Truffaut e uno stile vistoso ed esibizionista: piani sequenza con complesse combinazioni di movimenti di macchina e zoom, composizioni astratte e spesso spiazzanti e immagini surreali di città contemporanee. In "Segni particolari: nessuno" (Rysopis, 1964), dopo un incidente d'auto una mano copre l'obiettivo: solo allora ci rendiamo conto che l'inquadratura rappresenta la soggettiva del protagonista.
I tardi anni ‘60 segnarono la fine della scuola polacca: dopo "Il coltello nell'acqua" Polanski andò in esilio e Skolimowski girò dapprima in Belgio, poi in Inghilterra e in Europa occidentale.

Il nuovo cinema cecoslovacco: la Nová Vlna.

La Cecoslovacchia offriva condizioni più favorevoli a un cinema nuovo: negli anni 1962-1966 il Paese si mosse verso un "socialismo del mercato" permeato da un'atmosfera riformista e il cinema ebbe parte attiva nel rinnovamento culturale. Un sistema di produzione decentralizzato poneva alla testa di ciascuna unità una coppia regista-sceneggiatore e - mentre la televisione diventava la fonte principale di intrattenimento popolare - il cinema ottenne il sostegno finanziario dello Stato. Nel 1968 le unità produttive erano ormai indipendenti e la censura era diminuita.
Il periodo di punta del nuovo cinema cecoslovacco fu fra il 1963 e il 1967, anni in cui i film vinsero premi internazionali e perfino premi Oscar: nonostante la disapprovazione di alcuni Paesi della sfera sovietica, altrove avrebbero avuto un'influenza pari quasi a quella della Nouvelle Vague.
Ma anche il fenomeno cecoslovacco può essere definito movimento stilistico solo in senso molto generale: ad accomunare i vari autori erano praticamente solo le condizioni di lavoro, le preoccupazioni tematiche e il bisogno di allontanarsi dalle formule del realismo socialista.
Una tendenza comune era quella verso il realismo artistico: "Křik" (1963) di Jaromil Jireš, spesso considerato la prima manifestazione del nuovo cinema cecoslovacco, si avvaleva di attori non professionisti e di uno stile da cinema diretto nel ritratto di una coppia in attesa di un bambino;
Jiří Menzel portò all'estremo quell'alternanza di toni che il neorealismo aveva reso uno dei principi fondamentali del cinema del dopoguerra: "Treni strettamente sorvegliati" (Ostře sledované vlaky, 1966) mescola problemi solenni con gag piccanti, satira delle autorità e momenti di puro assurdo, e passa con disinvoltura dalla derisione delle modeste ambizioni del protagonista all'apprezzamento del suo coraggio - sia pure inavvertito - nel partecipare a un sabotaggio partigiano.
Anche Miloš Forman fu influenzato dal neorealismo e dal cinema diretto ma i suoi film propongono una critica sociale più caustica di quelli di Menzel. Il suo primo lungometraggio, "L'asso di picche" (1963) è incentrato su un adolescente simile al Miloš di Menzel: quasi incapace di mantenere un lavoro, costantemente ai ferri corti col padre, in eterna ricerca di un amore, Petr diventa l'emblema comico della confusione della gioventù cecoslovacca. Nella prima metà de "Gli amori di una bionda" (Lásky jedné plavovlásky, 1965) Forman si concentra con crudele ilarità sugli effetti provocati dal distaccamento di una divisione dell'esercito presso un villaggio industriale in cui le donne sopravanzano di gran lunga gli uomini; nella seconda metà la protagonista insegue fino a Praga il pianista di un'orchestrina, per accorgersi solo allora che ne lui ne i suoi genitori nutrono per lei il minimo affetto. Il sapore triste del film si mescola all'ironia con cui Forman addita lavori privi di senso e moralità ufficiale.
Al centro de "L'asso di picche" e "Gli amori di una bionda" ci sono lunghe scene serio-comiche di coppie che flirtano durante un ballo, ma in "Fuoco, ragazza mia" (Hori, ma panenko, 1967) Forman costruisce su una situazione simile l'intera trama. Concentrandosi soltanto sulla festa in onore di un capo dei pompieri in procinto di andare in pensione, Forman non approfondisce i personaggi ma riempie il film di incisive gag ricorrenti e rivelazioni delle vanità umane. Stilisticamente, "Fuoco, ragazza mia" esemplifica la tendenza mondiale di usare teleobiettivi e tecniche documentarie in scene di finzione. Il ritratto formaniano della società socialista, con la sua sessualità frustrata, la burocrazia incompetente e le piccole ruberie, avrebbe scatenato un diluvio di critiche.
Al di là degli impulsi verso un realismo satirico vi fu chi tentò di trovare un tono formalmente più complesso, sul modello di Resnais, Fellini o Robbe-Grillet. Il primo lungometraggio di Jan Němec, "I diamanti della notte" (Demanty noci, 1964) prende come soggetto la fuga di due giovani da un treno che li porta a un campo di concentramento - un evento che sarebbe la base perfetta di un film di guerra del realismo socialista, ma che qui innesca un esercizio di modernismo anni ‘60: la fisicità frenetica della fuga del ragazzi è resa come in un documentario, con macchina a mano, fotografia contrastata e una colonna. sonora dominata da ansiti e violenti fruscii.
Němec interrompe l'azione con flashback frammentari, mescolati in modo indiscernibile a scene di fantasia.
Se "I diamanti della notte" deve qualcosa a "Hiroshima mon amour", il film seguente di Němec riecheggia "L'anno scorso a Marienbad"; "Rapporto sulla festa e gli invitati" (O slavnosti a hostech, 1966), sulla vuota assurdità della vita borghese, è il preludio a una simbolica critica dello stato di polizia stalinista. Appena ultimato, il film fu messo al bando e distribuito con due anni di ritardo, qualificandosi come il film più discusso della Nová Vlna.
Nel 1966-67 lo Stato cercò di stringere di nuovo la politica culturale, le autorità attaccarono gli scrittori liberali e misero al bando parecchi film, fra cui "Le margheritine" (di Vera Chytilová, 1966) e "Rapporto sulla festa e gli invitati". Il 1968 - un momento di svolta per il cinema di tutto il mondo - sottoporrà il nuovo cinema ceco a una prova cruciale.

Il nuovo cinema iugoslavo

Fin dal 1948 la Iugoslavia aveva sviluppato un suo socialismo nazionale fondato sul mercato. Nel 1960-61 e nel 1966-67 i consigli operai conquistarono sempre più potere sulla produzione industriale con effetti benefici per chi lavorava nell'industria cinematografica. Una riforma della legge sul cinema (1962) dava alle repubbliche regionali una maggiore autonomia nella produzione, permettendo ai cineasti di avviare società indipendenti che potevano disputarsi generosi sussidi statali: presto il numero delle unità produttive triplicò.
Il terreno era propizio per il Novi Film iugoslavo: influenzati dal neorealismo, dalla Nouvelle Vague e dalle nuove tendenze del cinema dell'Est europeo, i nuovi autori iniziarono a praticare la sperimentazione cinematografica in nome dell'umanitarismo socialista.
Il momento più felice del Novi Film, 1963-1968, rivelò gruppi attivi a Belgrado, Zagabria e Lubiana e due registi ebbero fuori dalla Iugoslavia un impatto particolarmente forte. Il più noto fra i film di Aleksandar Petrovič, "Ho incontrato anche zingari felici" (Skupljači perja. Sreo sarn cak i srecne cigane, 1967) esamina la figura di un duro zingaro - mercante di piume d'oca - portato al delitto dall'amore per due donne: il regista si avvale di teleobiettivi e riprese con macchina a mano, e di attori non professionisti che parlano le rispettive lingue; l'effetto complessivo è un realismo pseudo-documentario che descrive con efficacia una minoranza oppressa.
Molto più a ruota libera, vicino alle sperimentazioni sgargianti dei fantasisti cecoslovacchi, sono le opere di Duśan Makavejev, che fin dal primo lungometraggio "L'uomo non è un uccello" (Čovjek nije pica, 1965) annuncia una propensione a ridicolizzare le pretese della politica utilizzando l'umorismo popolare: in una scena, due amanti si accoppiano al suono della Nona di Beethoven, suonata per l'edificazione degli operai; in "Un affare di cuore" (Ljubavni slucaj ili Tragedija složbenice PTT, 1967) Makavejev utilizza una forma di collage che deve qualcosa a Resnais e a Godard ma è filtrata dal suo licenzioso umorismo, alternando il progredire della storia d'amore con anticipazioni del macabro finale: lo spettatore apprende presto che la storia finirà con la morte di Isabella, ma non sa quale dei suoi due amanti l'avrà uccisa. Il film include materiale di repertorio tratto da cinegiornali e conferenze sul comportamento criminale, mescolando scene raccapriccianti (un'autopsia, una caccia al ratto) a sprazzi di pungente umorismo e alla satira degli ideali socialisti.
La tecnica del collage permette al regista di burlarsi di nazismo e comunismo, fare la satira dell'industria dello spettacolo, celebrare il cinema ingenuo del passato e rendere omaggio all'orgoglio nazionale del "bellissimo vecchio film" di Aleksič. Ed è sempre il collage che consente a "Un affare di cuore" e al successivo "Verginità indifesa" (Nevinošt bez zaštite, 1969) di creare quel genere di "metafora aperta" che Petrovič aveva chiesto per il Novi Film.

Nuovo cinema ungherese

La Nouvelle Vague ebbe in Ungheria un fortissimo impatto; questa influenza non avrebbe però sortito grandi risultati se non si fossero verificate alcune favorevoli circostanze produttive.
Con il liberalizzarsi della scena politica e il crescere della popolarità della televisione, la produzione fu decentralizzata. Nel 1958 fu fondato lo studio Bela Balász (battezzato così in onore del pioniere della teoria del film e della sceneggiatura) che offriva la possibilità di realizzare corti e lungometraggi d'esordio ai laureati della scuola di cinema. Nel 1963 l'industria adottò il sistema polacco di "unità creative cinematografiche", assegnando a ogni regista un posto in ciascuna unità ma anche dandogli facoltà di proporre progetti a unità diverse; tutto sotto il coordinamento della MAFILM, che regolava anche l'accesso alle strutture di produzione. La riorganizzazione dell'industria sfociò in una produzione di almeno 20 film all'anno, il doppio della media degli anni ‘50.
Anche il nuovo cinema ungherese includeva due generazioni. I primi anni Sessanta offrirono occasioni a registi più anziani, come Karoly Mákk e Zoltán Fabri. Particolare attenzione suscitò Miklós Jancsó, che aveva esordito nel 1958 a trentasette anni ma raggiunse la fama con i film girati dopo i quaranta.
La nuova generazione era composta in larga parte dai laureati dell'Accademia teatrale e cinematografica alla fine degli anni ‘50. Estasiati non solo dalla Nouvelle Vague ma anche dal giovane cinema polacco e da autori europei come Bergman e Antonioni, i registi ungheresi condividevano le finalità della maggior parte dei nuovi movimenti: ripensare il passato del loro Paese e offrire un ritratto della gioventù contemporanea.
István Szabó giunse ad esempio a descrivere i suoi film come "L'autobiografia di una generazione": il suo "L'età delle illusioni" (Almodozdsok kora, 1964) descrive una nuova tecnocrazia socialista di giovani fiduciosi che indossano abiti sportivi occidentali, vanno in vacanza in spiaggia e parlano dei loro amori assistendo alla proiezione di filmati sugli orrori nazisti.
Talvolta Szabó ne romanticizza le vite con soluzioni da Nouvelle Vague - lirici ralenti o citazioni di Truffaut - ma, proseguendo, il film avanza dubbi sul valore del successo materiale.
Il film seguente di Szabó, "Padre" (Apa, 1966) sonda la mente del protagonista secondo l'uso del cinema artistico europeo, e il passare del tempo diventa - come nei film di Kluge e di Straub - un mezzo per porre domande su politica e storia: Tako crede che suo padre sia un eroe di guerra ma dopo alcune ricerche scopre che la storia è più complessa. l'interscambio di ricordo, sogno, fantasia e Storia - nell'esperienza del protagonista - crea quell'ambiguità tipica del modernismo anni ‘60: analogamente a "Hiroshima mon amour", in cui i cinegiornali erano allo stesso tempo documenti e commento simbolico, Szabó inserisce nella sua storia materiali sulle sollevazioni del 1956 con un vago effetto di collage che immerge in modo plausibile i personaggi negli eventi storici. Nel suo tentativo di fondere le preoccupazioni della gioventù contemporanea con lo studio critico del passato del suo Paese, Szabó esemplifica gli sforzi della maggioranza dei registi delle nuove cinematografie dell'Europa orientale.

1958-1967
Dopo essere stata violentata da un giovane teppista, una liceale si accorda con lui per sedurre uomini che lui possa poi rapinare. Quando lei rimane incinta, il ragazzo le trova i soldi per l'aborto andando a letto con una donna più vecchia. Alla fine una banda lo ammazza di botte e la ragazza - che si è fatta dare un passaggio da un altro uomo - tenta di fuggire e viene trascinata a morte sull'asfalto.
Appropriatamente intitolato "Racconto crudele della giovinezza" (Seishun zankoku monogatari, 1960) questo film del giovane Nagisa Oshima avrebbe costretto gli estimatori occidentali di Kurosawa, Mizoguchi e Ozu a ripensare radicalmente le loro opinioni sul cinema nipponico: il film è un prodotto tipico del nuovo cinema giapponese, particolarmente notevole per il fatto di essere uno dei pochissimi nuovi movimenti deliberatamente creati dall'industria cinematografica.
Gli studi giapponesi erano stati pronti a sfruttare il mercato giovanile: a metà degli anni ‘50 ai ragazzi era dedicato il ritorno del "film di spada" mentre per le adolescenti si producevano melodrammi romantici. Nel 1956 "La stagione del sole" (Kurutta kajitsu, 1956) lanciò un filone di film sulle "tribù del sole" (taiyozoku) centrati sulle vite amorali e licenziose di giovani viziati. Gialli d'azione, musical, rock e film di spada uscivano a getto continuo soprattutto dagli studi meno prestigiosi, come la Nikkatsu e la Toei. Grazie alla nuova strategia, la frequenza nelle sale nel 1958 permise di toccare il miliardo di biglietti venduti, un record del dopoguerra.
La Shochiku, il più conservatore degli studi giapponesi, osservò i rivali trionfare con questo genere di materiale, considerò la fortuna commerciale del giovane cinema francese e decise di lanciare una Nouvelle Vague nipponica: nel 1959 il giovane aiuto regista Nagisa Oshima fu promosso alla regia e incoraggiato a dirigere sceneggiature scritte da lui stesso. Il successo dell'operazione spianò la strada ad altri aiuti regista di talento.
All'inizio i film del nuovo cinema giapponese furono bene accolti dalla critica e dal pubblico giovanile, ma non furono sufficienti ad arginare il calo degli incassi. Nel 1963 il diffondersi della televisione a colori fece precipitare le presenze in sala alla metà di quelle del 1958. Per riconquistare il pubblico gli studi tentarono rimedi disperati, riducendo il prezzo dei biglietti, rendendo i film di spada più violenti (come nella serie di "Zatoichi", lo "spadaccino cieco") e proponendo nuovi generi - i film yakuza (analoghi al gangster movie) e i "film rosa" (pornografia soft-core). Alcuni nuovi registi davano a questi generi contributi interessanti, ma presto la maggior parte di essi abbandonò gli studi.
L'abitudine delle sale di offrire il doppio spettacolo creò tuttavia una richiesta di titoli maggiore di quanto gli studi non fossero in grado di soddisfare senza rimetterci, col risultato che molti rappresentanti delle nuove tendenze ebbero buon gioco a fondare case di produzione in proprio. I film dei giovani registi erano spesso distribuiti dalle grandi società, ma un ruolo centrale fu assunto dalla catena di sale specializzate Art Theater Guild (ATG), che iniziò a produrre e distribuire, diventando il sostegno di tutta la generazione del nuovo cinema, nel 1964.
Anche il nuovo cinema giapponese sferrò l'attacco alle tradizioni mainstream, rendendo di uso comune complesse strutture a flashback, intrusioni di fantastico e di simbolismo, esperimenti nell'inquadratura, nel colore, nel montaggio e nei movimenti di macchina; l'energia dirompente trovò sfogo soprattutto nella scelta di soggetti, temi e toni.
Nessun film aveva prima osato criticare la società giapponese con tanta ferocia, rivelando oppressione e conflitti dietro la facciata di una Nazione tranquilla e prospera. Furto, omicidio e stupro divennero argomenti comunissimi: i registi sbandieravano la volgarità dei loro protagonisti e la critica era spesso ricondotta a posizioni politiche.
Tutte queste qualità sono evidenti nell'opera di Nagisa Oshima che, come il suo contemporaneo Truffaut, arrivò alla regia dopo aver praticato la critica più incendiaria - anche se il suo passato di attivista studentesco conferiva ai suoi articoli un'inclinazione politica assente nei critici francesi.
Oshima lamentava che la società giapponese soffocasse l'individuo in nome di un'armonia superficiale, invocando un cinema personale del "soggetto attivo" in cui il regista esprimesse le sue passioni, le sua ansie e le sue ossessioni più profonde.
Oshima credette di scorgere scintille di "soggettività attiva" nell'ondata di dimostrazioni studentesche che sul finire degli anni ‘50 osteggiò il rinnovo del trattato di sicurezza fra Giappone e Stati Uniti: per la prima volta il popolo giapponese abbandonava la sua acquiescenza, nella convinzione di poter cambiare il proprio destino; ben presto però Oshima si convinse che i cortei contro il trattato portassero solo alla disillusione. Questo processo è ripercorso in "Notte e nebbia del Giappone" (Nihon no yoru to kiri, 1960), una critica devastante del Partito Comunista e della sinistra studentesca in cui scene di attività politica degli studenti negli anni ‘50 e dimostrazioni contro il trattato di sicurezza negli anni ‘60 si alternano secondo un ordine che ne evidenzia i parallelismi; i due periodi temporali sono incorniciati da una cerimonia nuziale che simboleggia una cinica resa degli ideali politici. La Shochiku ritirò "Notte e nebbia del Giappone" quasi subito dopo l'uscita con il pretesto di deludenti risultati commerciali, ma Oshima accusò lo studio di essersi piegato alle pressioni politiche seguite al recente assassinio di un leader socialista e se ne andò per protesta, anche se parecchi dei suoi film successivi sarebbero stati comunque prodotti dalla Shochiku.
In questi e altri film Oshima insiste sulla questione di come i desideri individuali del soggetto, per quanto distorti, rivelino la rigidità dell'autorità politica. I due temi principali scelti dal regista per rappresentare questi desideri - criminalità ed erotismo - produssero film che restano a tutt'oggi inquietanti. Per di più Oshima si rifiutò di coltivare uno stile personale: "Racconto crudele della giovinezza" utilizza spesso campi medi e primi piani stretti e decentrati; "Notte e nebbia del Giappone", composto da appena 45 inquadrature, disorienta con movimenti di macchina che sferzano quadri equilibrati in modo teatrale; "Il demone in pieno giorno" (Hakuchu no torima, 1966), al contrario, usa una messa in scena naturalistica e circa 1.500 inquadrature. Lo stile di ogni film, sosteneva Oshima, nasceva dal suo stato d'animo e dal suo atteggiamento in quella determinata occasione.
Altri registi, pur esprimendo un certo livello di critica sociale, optarono per stili più tradizionali. Hiroshi Teshigahara ebbe successo internazionale con "La donna di sabbia" (Suna no onna, 1964): storia di un uomo intrappolato in un'enorme buca di sabbia con una donna misteriosa, il film fu letto un po' da tutti come un'allegoria di come una società arida potesse essere travolta da un erotismo primitivo.
Più tipicamente appartenente al nuovo cinema era Yoshishige Yoshida, promosso a regista dalla Shochiku sull'onda del successo delle prime opere di Oshima. Ammiratore di Resnais e Antonioni, Yoshida deve a loro l'enfasi data nelle sue opere a immagini di sorprendente pittoricità. I suoi sensuali movimenti di macchina ne "Le terme di Akitsu" (Akitsu onsen, 1962) devono più a "L'anno scorso a Marienbad" che a Oshima, anche se gli intenti del film rimangono risolutamente storici, suggerendo che nel dopoguerra il Giappone abbia perso l'occasione per realizzare una vera democrazia.
Più vicino alla prospettiva politica di Oshima è l'altro principale esponente del nuovo cinema giapponese, Shohei Imamura, che dichiarò il suo interesse per la "parte più bassa del corpo umano e i livelli inferiori della struttura sociale", dedicandosi all'esplorazione delle regioni dimenticate, delle classi oppresse e degli impulsi più lascivi del Giappone.
Giovane regista alla Nikkatsu, Imamura venne associato al nuovo cinema principalmente grazie alla satira sfacciata del suo "Porci, geishe e marinai" (Buta to gunkan, 1961), storia di un teppista adolescente la cui banda alleva maiali con l'immondizia delle navi americane. Il film non è stilizzato come certe opere coeve di Oshima, ma la critica politica rimane tagliente: nella descrizione di una società di piccoli gangster, prostitute e madri ansiose di vendere le figlie ai soldati americani, Imamura assimila i giapponesi ai maiali che si nutrono degli scarti delle corazzate statunitensi. Il suo protagonista muore in uno scatto di ribellione, falciato mentre mitraglia una fila di costruzioni. Come quelli di Oshima, anche gli uomini di Imamura sono sempre spinti da perversi impulsi antisociali, ma il regista li guarda con un'ironia più marcata, come si vede "Introduzione all'antropologia" (in Jinruigaku nyumon, 1966).
La scena finale di "Porci, geishe e marinai" pone al centro del cinema di Imamura la figura della donna forte che lotta per se stessa in un mondo dominato da uomini: "Cronaca entomologica del Giappone" (Nippon konchu ki, 1963) celebra il pragmatismo di tre generazioni di donne del dopoguerra che fanno della prostituzione e del furto il mezzo per guadagnarsi un minimo di indipendenza; in "Rosso desiderio di omicidio" (Akai satsui, 1964) una donna, messa incinta dal suo stupratore, lo lascia morire e continua a vivere per amore di suo figlio.

1958-1967
Così come l'Italia aveva coltivato lo "spaghetti western" e il Giappone aveva puntato sugli adolescenti, il cinema inglese reagì al declino delle presenze con nuovi generi, la Hammer Films - una piccola casa indipendente - divenne all'improvviso popolare con una serie di film horror di grande successo in tutto il mondo: molti, come "Dracula:il vampiro" (Dracula, 1958) e "La mummia" (The Mummy, 1959), entrambi di Terence Fisher, erano remake alla lontana dei film prodotti dalla Universal negli anni ‘30, più sanguinari e arricchiti da una confezione patinata di prima qualità e da un'elegante fotografia a colori.
La moda dell'horror aprì la strada a uno dei più insoliti film del periodo, "L'occhio che uccide", di Michael Powell. La produzione in questo caso non era Hammer, ma da lì proveniva l'autore della sceneggiatura, centrata su un timido assistente operatore che si rivela un assassino psicotico con la mania di riprendere in 16mm l'agonia delle sue vittime. I critici non si raccapezzarono sul perché Powell, che aveva diretto alcuni dei film più prestigiosi del dopoguerra come "Scarpette rosse" e "Scala al paradiso", avesse scelto di raccontare una storia così ignobile: ma "L'occhio che uccide" esplora le radici della violenza sessuale con una complessità insolita per l'epoca, collegando con grande anticipo l'abuso sull'infanzia ai crimini commessi in seguito dalla vittima; il film solleva inoltre la questione di come il mezzo cinematografico possa eccitare gli impulsi erotici.
Se l'horror costituiva la parte più vistosa del cinema mainstream, la tendenza del "Kitchen Sink" (vale a dire del "lavello", un nomignolo che nasce dalla tendenza ad esplorare sporca vita di tutti i giorni) fu l'equivalente britannico della Nouvelle Vague.
A metà degli anni ‘50 una serie di opere di teatro e di narrativa incentrate su lavoratori ribelli crearono una tendenza di "giovani arrabbiati" animata da una precisa coscienza di classe: l'opera più importante in questo senso fu il dramma di John Osborne "Ricorda con rabbia", messo in scena da Tony Richardson nel 1956.
Uno dei primi film della Woodfall - fondata da Richardson nel 1959 - fu proprio la riduzione del testo di Osborne ne "I giovani arrabbiati" (Look Back in Anger , di Tony Richardson, 1959) con Richard Burton. Il protagonista gestisce una bancarella di dolciumi in un mercato all'aperto lamentandosi con i colleghi delle ingiustizie di classe; la sua migliore amica è la vecchia padrona di casa, che lui accompagna a visitare la tomba del marito. Come altri film di questa tendenza, il sobrio realismo deve moltissimo alle riprese in ambienti reali.
La quintessenza del cinema Kitchen Sink è forse "Sabato sera, domenica mattina" (Saturday Night and Sunday Morning, di Karel Reisz, 1960): Arthur non può soffrire il lavoro in fabbrica e i suoi passivi genitori ma alla fine lo ritroviamo con la fidanzata mentre osserva un complesso residenziale in costruzione in una periferia, inquadratura che suggerisce come la sua vita continuerà sugli stessi monotoni binari: "Sabato sera, domenica mattina" è basato su un romanzo di Alan Sillitoe, che adattò per Richardson un suo racconto in "Gioventù, amore e rabbia" (The Loneliness ot the Long Distance Runner, 1962), la storia di un astioso detenuto che in un riformatorio si allena per una corsa campestre. Come altri film sui "giovani arrabbiati", anche questo usa tecniche prese a prestito dalla Nouvelle Vague, tra cui accelerazioni per suggerire eccitazione durante i crimini del protagonista e macchina a mano per le scene delle sue esilaranti corse all'aria aperta. In un'eco de "I quattrocento colpi" di Truffaut, "Gioventù, amore e rabbia" si chiude con un fermo immagine sul giovane che monta maschere antigas.
Come i registi dei "Cahiers du cinema", Lindsay Anderson era un ex critico che aveva attaccato il cinema inglese per il suo testardo rifiuto di affrontare la vita contemporanea: il suo primo lungometraggio, "Io sono un campione" (This Sporting Lite, 1963 ), sceglie così come protagonista un minatore che cerca di diventare giocatore di rugby professionista portando avanti un difficile amore con la sua padrona di casa. Attraverso i personaggi dei corrotti impresari sportivi che il protagonista incontra, Anderson mette sotto accusa la società capitalista.
La tendenza del Kitchen Sink non ebbe lunga vita. "Io sono un campione" fu un fiasco e il successo inatteso di un altro - e assai diverso - film della Woodfall spinse i cineasti verso altre direzioni. Abbandonato il crudo realismo, Richardson adattò in "Tom Jones" (ld., 1963) un classico comico della letteratura inglese, avvalendosi ancora di una sceneggiatura di Osborne: finanziato dalla United Artists, questo grosso film a colori si ispirava pesantemente alla Nouvelle Vague. Il successo fu enorme e suggellato da diversi Oscar.
Abbandonata la vita dei lavoratori nelle città industriali, i cineasti iniziarono a ritrarre la vita della "swinging London": gli abiti inglesi e il rock britannico divennero improvvisamente di gran moda e Londra fu vista come la capitale del trendy, della mobilità sociale e della liberazione sessuale. Una serie di film sulla superficialità della vita "mod" ebbe fortuna nei cinema d'essai di tutto il mondo.
A parte la nuova centralità della vita londinese, i talenti creativi abbandonarono il realismo del Kitchen Sink: il successo di "Tom Jones" portò Richardson a Hollywood mentre Albert Finney, Tom Courtenay, Richard Harris e Michael Caine diventarono star internazionali. Anche le tattiche di Hollywood nel finanziamento di film inglesi mutarono: il piccolo film realista sarebbe stato associato a un cinema più apertamente politico mentre molte notevoli produzioni inglesi sarebbero in seguito stati costosi colossi di prestigio (spesso finanziati dall'America), o fantasiose pellicole di genere.
Lo sperimentalismo cinematografico, rivitalizzato nel primo decennio del dopoguerra, divenne ancor più importante negli anni fra il 1958 e il 1967: mentre i registi già affermati consolidavano la tendenza, i giovani autori esploravano tecniche nuove applicandole a nuovi soggetti. Ormai i film d'essai erano spesso frammentari e non lineari nella gestione di spazio e tempo, provocatori e inquietanti nel modo di raccontare, ambigui nelle implicazioni tematiche.
Molte cinematografie giovani erano esplicitamente e criticamente politiche. In questo senso la Nouvelle Vague - così influente sotto tanti punti di vista - rimase indietro: fuori dalla Francia molti autori muovevano all'assalto dei miti della storia nazionale, osservavano severamente le condizioni sociali dell 'epoca, celebravano la ribellione all'autorità e sezionavano i meccanismi della repressione. Registi più anziani come Resnais e Jancsó e giovani talenti come Godard, Pasolini, Kluge e Oshima ponevano le basi di un cinema politico moderno. Questa tendenza sarebbe divenuta centrale nel cinema internazionale successivo al 1968.

1960-1979
Intorno alla metà degli anni ‘60 il cinema era ormai considerato non solo un mezzo di intrattenimento di massa, ma anche un veicolo di "cultura alta".
Le conquiste del modernismo europeo del dopoguerra, la crescente influenza dell'idea di "autore" e le innovazioni dei film documentaristici e sperimentali avevano contribuito a rendere il cinema una vitale forma d'arte contemporanea.
Molto presto, tuttavia, quest'arte si trovò ad affrontare numerosi problemi: dai primi anni ’60 fino a metà dei ’70, infatti, il mondo fu scosso da una serie di crisi politiche.
A partire dal 1945, la maggior parte dei contrasti politici, la cui violenza si intensificò durante gli anni ’60 e ’70, ebbe luogo nel Terzo Mondo, dove vivevano i tre quarti della popolazione mondiale. Gli Stati africani furono lacerati da conflitti etnici e guerre civili; in Sud America giunte militari di destra si impadronirono del potere e, per contrastarle, nacquero movimenti di guerriglia. Nel 1967 scoppiò la guerra fra Egitto e Israele, che si scontrarono di nuovo nel 1974, mentre gruppi di resistenza palestinesi intrapresero offensive militari in tutto il Medio Oriente.
I Capi di Stato occidentali cercarono di contenere l'espansione comunista nelle nazioni che avevano da poco raggiunto l'indipendenza. Il loro primo significativo fallimento fu quello con Cuba che, dopo la rivoluzione castrista del 1959, si schierò con l'URSS, come del resto fecero anche alcuni Stati africani. La guerra in Vietnam dimostrò in maniera ancora più drammatica fino a che punto il potere occidentale era disposto a spingersi pur di bloccare la formazione di un altro Stato comunista. Se da un lato la rivoluzione di Mao in Cina (1949) aveva simboleggiato la lotta asiatica contro il colonialismo occidentale, dall'altro la vittoria in Vietnam del Fronte di Liberazione Nazionale di Ho Chi Minh nel 1975, insieme all'ascesa dei Khmer Rossi di Pol Pot in Cambogia, avvenuta lo stesso anno, rappresentarono l'affermazione della guerriglia combattuta in nome della rivoluzione socialista.
Negli Stati Uniti nacque il Black Power, un movimento più politicizzato rispetto al contemporaneo movimento per i diritti civili degli afroamericani. In Africa e in America Latina si moltiplicarono i regimi di sinistra, che in molti casi ricalcavano il modello sovietico. Nello stesso periodo, in tutto l'Occidente, la cultura giovanile del dopoguerra divenne una "controcultura", nell'ambito della quale i giovani potevano sperimentare stili di vita al di fuori di quelli tradizionali. Con l'intensificarsi dei conflitti politici durante gli anni ‘60, gli studenti universitari iniziarono a partecipare alla politica rivoluzionaria come mai prima d'allora. Il 1968 e il 1969 segnarono l'apice della radicalizzazione della protesta giovanile in Europa, in Asia e nelle Americhe.
La conseguenza di tutto questo fu che il cinema divenne politicizzato come non lo era più stato dalla seconda guerra mondiale. Nel Terzo Mondo, ma anche altrove, i documentari politici e i film di realismo sociale, spesso ispirati al neorealismo italiano, divennero forze vitali. La cosa più sorprendente è che le innovazioni del cinema moderno del dopoguerra si fusero con il nuovo orientamento della sinistra radicale, creando un cinema politico moderno che portò il cinema commerciale a livelli di sperimentazione paragonabili a quelli dei movimenti d'avanguardia degli anni ‘20.
Intorno alla metà degli anni Settanta molte rivoluzioni erano fallite, come in America Latina, o avevano rivelato il loro lato dispotico, come in Vietnam, Cambogia e Cina. I registi cominciarono a immaginare una "micropolitica" intesa a promuovere un cambiamento sociale a livello istituzionale. Le tendenze più estreme del cinema politico si attenuarono nelle produzioni commerciali in 35mm: i registi sperimentarono tipologie narrative e stilistiche meno provocatorie. Persino nel Terzo Mondo, dove veniva prodotto il cinema più militante e alternativo, si cominciarono a realizzare film per un pubblico internazionale e in forme decisamente più accessibili. Il cinema politico d'avanguardia resistette più a lungo, ma verso la fine degli anni ’80 i registi di film in 16mm e Super8 erano quasi tutti tornati a un cinema più "puro" o avevano abbracciato forme di sperimentazione postmoderne.
Verso la fine degli anni ’80, il comunismo cinese è stato scosso da ribellioni interne e si è spostato verso il capitalismo, mentre l'URSS e l'intera Europa orientale hanno abbandonato il marxismo-leninismo, sforzandosi di entrare a far parte delle economie di mercato occidentali.
L'assenza di valide alternative al comunismo sovietico ha fatto sì che il capitalismo e la democrazia di stampo occidentale divenissero il modello predominante a livello planetario.
Il declino del cinema politico tout court è stato determinato anche dal calo del numero degli spettatori nelle sale cinematografiche. La televisione e altre forme di impiego del tempo libero hanno distolto il pubblico dai cinema, tendenza che si è intensificata con il boom delle videocassette.
Negli Stati Uniti il contenuto calo dell'affluenza ha dato all'industria cinematografica una stabilità sufficiente a permetterle un nuovo consolidamento e l'ulteriore conquista di mercati esteri. Per gran parte degli anni ’70 e ’80, il rinnovato cinema hollywoodiano ha rappresentato la principale attrazione per il pubblico cinematografico di tutto il mondo. I registi al di fuori di Hollywood hanno cercato di entrarvi o di fargli concorrenza; i distributori e i gestori di cinema hanno tentato di trarre profitti dai suoi prodotti odi bloccarne l'entrata nei mercati nazionali. In ogni caso, Hollywood non ha potuto essere ignorata.

Terzo Mondo: Produzione di Massa e Rivoluzioni

Le tensioni fra le potenze occidentali e il blocco sovietico non si attenuarono durante gli anni ‘60, ma vari segnali indicavano che il modello bipolare del mondo stava fallendo. Il crescente antagonismo fra Cina e Unione Sovietica sfociò in un'aperta rottura nel 1960, e per tutto il resto del decennio le popolazioni dell'Europa orientale cercarono di allentare il giogo di Mosca. Nel frattempo il Terzo Mondo diede prova della sua forte identità: le colonie diventarono Stati sovrani e molti Capi di Stato rifiutarono sia il modello sovietico, sia quello occidentale. Il "terzomondismo", come venne chiamato, coincise con la speranza che i Paesi "periferici" avrebbero raggiunto non solo la vera libertà, ma si sarebbero serviti della loro esperienza di popoli oppressi per costruire società più giuste.
Il primo obiettivo da realizzare era lo sviluppo economico, ma vi erano disuguaglianze fra una zona e l'altra: Messico, Hong Kong, Singapore, Taiwan e Corea del Sud stavano rapidamente diventando dei centri industriali, mentre India e Africa non si sviluppavano abbastanza velocemente per poter fronteggiare la rapida crescita della loro popolazione.
La violenza politica accrebbe le difficoltà di sviluppo. A parte il braccio di ferro fra Oriente e Occidente - a Cuba, in Vietnam e nel Medio Oriente -, il Terzo Mondo conobbe colpi di stato, offensive straniere, guerre civili e conflitti etnici. Il "Fidelismo", la fede nella guerriglia continua sul modello cubano, diede forza a molti movimenti di resistenza in America Latina, Africa e Asia.
La storia del cinema venne profondamente influenzata dagli avvenimenti del Terzo Mondo. L'affluenza nelle sale cinematografiche aumentò parallelamente all'industrializzazione. La continua crescita delle città del Terzo Mondo accrebbe il numero di spettatori; un dato significativo se si considera che tutto questo avveniva mentre in Europa e negli Stati Uniti l'affluenza nelle sale era in calo. Gran parte del pubblico cinematografico mondiale era dunque composto da indiani, africani e asiatici.
Altrettanto importante è il fatto che un numero sempre maggiore di film veniva prodotto nel Terzo Mondo. Nel 1950, in tutto il mondo si realizzavano circa 2.000 film all'anno, ma nel 1980 l'Asia da sola ne produceva altrettanti. A differenza dei vestiti fabbricati a Singapore o degli orologi "made in Hong Kong", la maggior parte di questi film orientali non furono mai distribuiti sul mercato occidentale.
Dei circa 3.500 film realizzati in tutto il mondo a metà degli anni Settanta, l'8% di quelli americani e il 30% di quelli europei avevano una diffusione mondiale: potevano essere visti in una comoda sala cinematografica dell'Algeria o di Buenos Aires, o proiettati su teli appesi nella piazza del paese in Costa d'Avorio o in Venezuela. Tuttavia, i film meno costosi provenienti da altri Paesi si stavano diffondendo. Presto, le industrie cinematografiche più potenti del Terzo Mondo - in particolare quella indiana e quella di Hong Kong - penetrarono nelle nazioni meno sviluppate.
Un'altra tendenza emerse dagli sconvolgimenti politici del decennio: il cinema venne usato come strumento sociale e come arma di liberazione politica. Il nucleo centrale di questo capitolo esamina la diffusione del cinema rivoluzionario nel Terzo Mondo. In America Latina a introdurre questa tendenza fu il Cinema Nôvo brasiliano, tendenza che divenne poi più manifesta a Cuba, in Argentina e in Cile. Nell'Africa nera, il cinema politicizzato nacque sia come forma di espressione della cultura indigena sia come critica ai regimi neocolonialistici. In Cina, il cinema rivoluzionario ortodosso costituì un'emanazione diretta della politica ufficiale.

Cinema Politico

Sebbene le industrie cinematografiche di Hong Kong e di altre nazioni del Terzo Mondo puntassero a conquistare il pubblico di massa dei Paesi in via di sviluppo, difficilmente esse riuscivano a presentare idee rivoluzionarie. E anche se il Cinema Nôvo riuscì a raggiungere un compromesso fra cinema d'autore e critica politica, i suoi film erano destinati a spettatori colti che sapevano apprezzare il cinema d'arte europeo. Alla fine degli anni ‘60, i registi del Terzo Mondo cominciarono a girare film politici destinati a un pubblico più vasto.
L'egiziano Youssef Chahine poté sfruttare la sua reputazione commerciale per girare film populisti come "La terra" (El ard, 1969). In Turchia, anche l'attore Yilmaz Gliney beneficiò di un'industria cinematografica nazionale in crescita. La sua popolarità gli diede la possibilità di dirigere “Speranza" (Umut, 1970), in cui interpreta il personaggio principale, un taxista che spera di diventare ricco vincendo alla lotteria.
L'attenzione rivolta alla routine quotidiana e l'andamento episodico inseriscono il film nella tradizione del neorealismo e del cinema d'arte dei primi anni ‘60, mentre il ritmo lento e l'uso di tempi morti dimostrano la riluttanza ad accettare una trama basata soprattutto sull'azione.
Anche "Il signor Shome" (Bhuvan Shome, 1969), dell'indiano Mrinal Sen, ebbe origine principalmente dal bisogno del regista di fare della critica sociale. Sen aveva fatto parte del movimento di sinistra Indian People's Theatre Association e aveva girato film a partire dal 1956, ma "Il signor Shome", una satira comica dei burocrati neocolonialisti, lo portò a quello che lui definì "gusto per il pamphlet".
Il terzomondismo, tuttavia, esigeva una tipologia di film ancora più militanti. Molti credevano che la rivoluzione del Terzo Mondo stesse per scoppiare. Nel 1962 l'Algeria vinse la guerra d'indipendenza con la Francia; le colonie africane, da poco liberate, mostrarono speranze di un governo indipendente; in America Latina, alcuni movimenti di guerriglia ebbero inizialmente la meglio; l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), fondata nel 1964, si prefissò lo scopo di conquistare una patria per i palestinesi; Fidel Castro aveva guidato la rivoluzione cubana, mentre l'invasione della Baia dei Porci, appoggiata dagli Stati Uniti, era stata facilmente respinta; la spaccatura fra la Cina e Mosca nel 1960 sembrò il segnale della nascita di un comunismo non sovietico e le dichiarazioni di Mao Tse-tung ebbero un forte impatto sugli estremisti durante gli anni ‘60; in Vietnam, il Fronte Nazionale di Liberazione di Ho Chi Minh era riuscito a bloccare l'intervento degli Stati Uniti nella guerra contro il regime corrotto del Sud.
"Popoli del mondo", incitava Mao Tse-tung nel 1964, "unitevi e sconfiggete gli aggressori americani e tutti i loro tirapiedi! ". Nel 1966, alla Conferenza per la Solidarietà all'Havana, i relatori sostennero l' importanza che Asia, Africa e America Latina si organizzassero per combattere l'imperialismo e il neocolonialismo occidentali.
L'ideale rivoluzionario dei tre continenti ispirò molti cineasti. In Medio Oriente, per esempio, nacque un nuovo cinema dedicato alla rivoluzione del Terzo Mondo. I film egiziani anticolonialistici come "Cairo '30" (di Salah Abu Seif, 1966) e "I ribelli" (al-Mutamarridun, di Tewfik Saleh, 1968) spinsero i registi del Libano, della Tunisia e dell'Egitto a realizzare film politicamente più impegnati. Nel dicembre del 1973, contemporaneamente a una conferenza di Paesi non allineati, ad Algeri si tenne un meeting di registi del Terzo Mondo. Simili iniziative ebbero luogo in Asia, Africa e America Latina. La premessa fondamentale del cinema rivoluzionario terzomondista era che tutta l'arte, anche quella che si propone come puro intrattenimento, fosse profondamente politica. Le storie che vengono raccontate, i punti di vista che gli spettatori sono chiamati a condividere, i valori impliciti nell'azione e anche il modo in cui l'azione è narrata, riflettono ideologie politiche. Il dominio dei film hollywoodiani nel Terzo Mondo costituiva quindi un ovvio bersaglio. Il cinema rivoluzionario non solo doveva rifiutare l'ideologia nascosta dietro l'intrattenimento e attaccare l'imperialismo dei film americani, ma doveva anche offrire allo spettatore un'esperienza cinematografica di liberazione politica.
In America Latina e in Africa i registi diedero vita a nuovi generi di film di finzione.
Molto diffuso era l'esame storico delle lotte di massa contro l'imperialismo. In quasi tutti i Paesi i registi trovarono episodi di resistenza o ribellione che potevano essere collegati agli avvenimenti contemporanei. C'era anche il film sull'esilio, che descriveva le esperienze di coloro che erano stati strappati alle loro radici e che dall'estero riflettevano sul loro Paese d'origine.
Un altro genere (conosciuto nel cinema africano come "ritorno alle origini") attingeva invece alle culture indigene e cercava di rivelare un'identità nazionale non contaminata dal colonialismo
Stilisticamente i registi militanti terzomondisti rifiutarono la tecnica patinata che veniva identificata con lo spettacolo hollywoodiano. Le macchine da presa leggere e l'illuminazione informale del cinema diretto offrirono l'opportunità di girare film a basso costo e in breve tempo, restituendo anche il senso di un incontro più immediato e intimo con l'evento. La crudezza dello stile era una dichiarazione politica in se stessa, ma i registi potevano anche avvalersi di alcune finezze tecniche. I cineasti cubani e cileni seguirono l'esempio di Rocha nel fare della camera a mano una forza aggressiva e cinetica. Inoltre, il doppiaggio offriva grandi possibilità di manipolare la colonna sonora in funzione dell'immagine.
Molti film sfidarono le concezioni occidentali dell'arte cinematografica, dimostrando che il pubblico di massa non era così intollerante alla sperimentazione come Hollywood e l'Europa l'avevano costretto ad essere.

Dopo la seconda metà degli anni ‘70, sebbene venissero ancora realizzati film di contenuto politico, il terzomondismo militante diminuì. In America Latina i gruppi insurrezionisti vennero sconfitti: non ci furono mobilitazioni di massa e i regimi militari si dimostrarono capaci di terrorizzare la popolazione. Le coalizioni di destra costrinsero all'esilio alcuni registi del Cinema Nôvo, Sanjinés e i cineasti cileni e argentini. In Africa, la maggior parte dei Paesi furono governati da partiti dispotici e da dittatori tanto carismatici quanto autoritari. Il terzomondismo contribuì in molti casi a creare una nuova classe di capitalisti, come spesso sottolineavano i film di Sembene e dei suoi colleghi africani. La rivoluzione culturale di Mao venne screditata dalla sconfitta della banda dei quattro e la rivelazione delle atrocità commesse dai Khmer Rossi portò a non considerare più la Cambogia come un modello possibile di socialismo asiatico.
Nel 1973, la decisione di aumentare il prezzo del petrolio da parte degli Stati arabi produttori fu un colpo tremendo soprattutto per le economie del Terzo Mondo. I Paesi sottosviluppati cominciarono ad accumulare debiti che graveranno su di loro fino al prossimo secolo. Dopo un decennio di retorica rivoluzionaria, questi Paesi rimanevano nazioni agricole caratterizzate dalla miseria e guidate da magnati e militari appoggiati dalle potenze occidentali o dal blocco sovietico.

1958-1979
In questa fase di sviluppo per le industrie cinematografiche dei Paesi asiatici (nel 1975 producevano un quarto del cinema di tutto il mondo senza contare India e Giappone), il più competitivo era la colonia inglese di Hong Kong, che negli anni ‘50 costruì uno studio system per la produzione di massa. Dopo il 1970, quando la sua produzione si stabilizzò intorno ai 120 titoli all'anno, il cinema di Hong Kong divenne uno dei più importanti dell'era sonora.
L'industria di Hong Kong si era sviluppata negli anni ‘50 con melodrammi familiari, versioni cinematografiche dell'opera cantonese e film di arti marziali. Questi generi continuarono per tutto il decennio successivo, soprattutto sotto l'egida della più grande compagnia della colonia, la Shaw Brothers. Arrivato da Singapore nel 1958, l'infaticabile imprenditore Run Run Shaw vi costruì Movietown, un grandioso studio cinematografico, funzionante ventiquattr'ore su ventiquattro. Sebbene il budget medio dei loro film fosse solo di 100.000 dollari, i fratelli Shaw dominavano il mercato di Hong Kong.
Durante gli anni ‘60 Run Run Shaw fu il primo a rinnovare i film sulle arti marziali (wuxia pian o film di "cavalieri erranti esperti di arti marziali"). Inizialmente questo genere si era ispirato alla filosofia di Confucio; i registi di Shaw, invece, ne enfatizzarono l'azione e l'aspetto acrobatico.
Ispirandosi alle acrobazie dell'opera di Pechino, ai film sui samurai giapponesi, al western all'italiana e persino ai film di James Bond, il film di arti marziali di Hong Kong divenne uno spettacolo affascinante. Zhang Che, il più famoso regista di questo genere, realizzò film di grandissimo successo come "L'assassino" (1967), "La rondine dorata" (1968) e "Lo spadaccino errante" (1970); nel decennio successivo anche i suoi assistenti e istruttori diventarono registi famosi.
Più innovativo e largamente conosciuto fu King Hu, il cui "Vieni a bere con me" (1965) segnò l'inizio di una nuova ondata di film sulle arti marziali. Girato quasi interamente in una locanda, il film basa la sua azione su intrighi, travestimenti e risse fra i clienti. Il suo montaggio veloce, le travolgenti composizioni su schermo panoramico e le acrobazie sul modello dell'opera cinese caratterizzarono il genere per decenni.
Hu se ne andò da Hong Kong e si trasferì a Taiwan dove fondò uno studio di produzione di film sulle arti marziali. Lì girò "La fanciulla cavaliere errante" (A Touch of Zen, 1971), un progetto di dimensioni mai raggiunte prima dal genere wuxia pian: per realizzarlo ci vollero tre anni. Il film si basava sulla complicata filosofia buddista e, nella versione originale, durava tre ore. Mentre i "combattimenti in volo" erano una convenzione della letteratura e dei film sulle arti marziali, Hu intensificò l'incalzare dell'azione: i suoi guerrieri eseguivano salti fantastici, librandosi in aria per attaccare e colpire l'avversario, prima di tornare al suolo con grazia, già pronti per un nuovo assalto. Nei suoi film successivi, gli attori si lanciano con agilità sulle rocce, rimbalzano sui muri e sui tronchi d'albero e piombano dal cielo.
Con Hu il genere delle arti marziali acquistò una nuova grazia cinetica e i film che egli produsse a Taiwan ebbero un'influenza duratura sui registi di Hong Kong.
Il nuovo cinema sulle arti marziali si sviluppò sotto gli auspici di Raymond Chow che, dopo aver lavorato come capo della produzione per Run Run Shaw, nel 1970 se ne andò per fondare una sua compagnia, la Golden Harvest. Rivolgendosi soprattutto al mercato internazionale, Chow riuscì a conquistare immediatamente il successo con i film che avevano come protagonista l'attore cinese-americano Bruce Lee.
Lee aveva lavorato per il cinema e la televisone americana, interpretando ruoli minori, prima che "Il furore della Cina colpisce ancora" (The Big Boss, di Lo Wei, 1971), prodotto dalla Golden Harvest, uscisse sugli schermi. Grazie a questo film Lee conquistò la celebrità e il kung fu, l'arte di dar pugni e calci, diventò una moda in tutto il mondo. Chow contribuì a rendere Lee ancora più famoso con "Dalla Cina con furore" (Fist of Fury, di Lo Wey, 1972) e "L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente" (The Way of the Dragon, di Bruce Lee, 1972); entrambi i film batterono ogni record d'incasso a Hong Kong.
Bruce Lee svolse un ruolo chiave nell'apertura dei mercati stranieri ai film provenienti da Hong Kong, diventando l'emblema dell'eccellenza delle arti marziali cinesi. I suoi film, apprezzati in tutto il Terzo Mondo, finivano spesso per simbolizzare l'orgoglio ribelle dell'Asia in rivolta.
Sebbene abbia diretto un solo film, "L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente", Lee curava attentamente la sua immagine. Generalmente impersonava un superuomo, indubbiamente il miglior lottatore sulla piazza, ma conservando la massima espressione della sua forza per il momento decisivo. Rispetto agli altri film di Hong Kong, Lee predilesse scene di combattimento più realistiche, esaltando la sua bravura grazie a inquadrature in totale e in piano sequenza. Alcuni momenti spettacolari, tuttavia, sono accentuati da trucchi di ripresa e dal montaggio.
Dopo la morte di Bruce Lee, i produttori cercarono dei sostituti (spesso soprannominati Bruce Le, Leh o Li), senza riuscire ad evitare il rapido declino qualitativo dei film sul kung fu. Ciò nonostante, al pubblico straniero piaceva il genere e l'impresa di Raymond Chow si ingrandì. A metà degli anni ‘70 la Golden Harvest e la Shaw Brothers producevano circa un terzo dei film di Hong Kong. Chow controllava la più grande catena di cinema della colonia, nonché altre 500 sale in tutta l'Asia. Il film sulle arti marziali, come si sviluppà con Shaw e Chow, influenzò il cinema d'azione di tutto il mondo e conquistò un posto di notevole importanza per i film di Hong Kong sui mercati internazionali.

1961-1976
Nel 1963 il romanziere messicano Carlos Fuentes scriveva: "A sud del vostro confine, amici nordamericani, c'è un continente in fermento rivoluzionario, un continente che possiede una ricchezza immensa e che ciononostante vive in una miseria che voi non avete mai conosciuto e neppure potete immaginare". Erano questo fermento rivoluzionario e la sfida che esso lanciava all'Europa e agli Stati Uniti che molti registi latino-americani cercarono di alimentare.
Per quasi tutto il secolo l'America Latina era stata economicamente dipendente dal mercato mondiale controllato dall'Occidente. Gli anni ‘60 videro una stagnazione del commercio in tutta l'America Latina, con il risultato di incoraggiare l'avvento di regimi militari dispotici che cercarono di attrarre investimenti dal Nord e di reprimere il dissenso politico.
Gli Stati Uniti, inoltre, cercarono di soffocare l'attività della sinistra, che poteva compromettere i rapporti commerciali. Kennedy sponsorizzò gli esuli cubani che invasero la Baia dei Porci nel 1961, Johnson schiacciò una rivolta nella Repubblica Domenicana nel 1964 e la CIA cercò di sovvertire i regimi che non cooperavano, in particolare quello di Salvador Allende in Cile. Queste azioni intensificarono la sensazione che l’America Latina fosse un terreno di battaglia fra l'imperialismo economico e la rivoluzione di massa.
A Cuba il cinema era sponsorizzato dal regime di Fidel Castro, ma altrove i registi politicamente impegnati si riunivano generalmente in piccoli gruppi di due o tre, e spesso lavoravano in collaborazione con movimenti politici o sindacati. Poteva succedere, come in Argentina e Cile, che un nuovo governo sostenesse o almeno tollerasse la loro attività, ma la rinascita di regimi di destra spinse i registi all'esilio.
Più di altri registi terzomondisti, quelli latino-americani erano ossessionati dal cinema hollywoodiano. I film statunitensi avevano dominato i mercati sudamericani dalla metà degli anni ‘10. Durante gli anni ‘30 e ‘40, la passione di Hollywood per le ambientazioni e le musiche sudamericane, sebbene presentasse immagini stereotipate, intensificò l'interesse del pubblico per i generi e le star americane. Il fascino da sogno dello studio system influenzò profondamente le culture di questi Paesi.
I registi sudamericani politicizzati a volte assorbivano elementi del cinema hollywoodiano; a loro ben noto, ma si ispiravano anche a modelli stranieri di cinema socialmente impegnato. Come era accaduto negli anni ‘50, il neorealismo italiano ebbe un'influenza notevole, soprattutto nell'uso di attori non professionisti e di riprese in esterni. Anche il documentarismo del cinema diretto rappresentò una fonte importante, come lo era stato per il gruppo del Cinema Nôvo. In "Tarahumara, la vergine perduta" (Tarahumara, 1964), per esempio, il messicano Luis Alcoriza usa la macchina a mano come aveva fatto Guerra ne “I fucili". Per ragioni sia estetiche che economiche, la maggior parte dei registi latino-americani girava in esterni con attori non professionisti, utilizzando un'attrezzatura leggera e doppiando i dialoghi.
Nel montaggio generalmente ci si basava sul principio hollywoodiano della continuità. C'erano, tuttavia, alcuni esperimenti che si rifacevano al cinema muto sovietico, in particolare al "montaggio intellettuale" di Ejzenštejn.
Per esempio, l'argentino "L'ora dei forni" (La hora de los hornos, di Fernando E. Solanas, 1968) si serve del montaggio per alternare l'immagine pubblicitaria di una bibita con la scena della macellazione di un toro. Anche il sonoro veniva utilizzato per sottolineare il senso di questo montaggio a tema.
Nel film cubano "Memorie del sottosviluppo" (Memorias del subdesarollo, di Tomás Gutiérrez Alea, 1968), cinegiornali sulle vittime della tortura militare sono alternati a immagini di donne dell'alta società che applaudono, e la muta insensibilità dell'elite al governo è sottolineata dalla colonna sonora, che si riduce semplicemente al rumore delicato degli applausi femminili.
Tutte queste tendenze stilistiche, insieme a elementi presi dalle nouvelles vagues europee, portarono i film latino-americani a rendere meno marcati i confini fra documentario e fiction. La scelta di servirsi di attori non professionisti, l'immediatezza della camera a mano, l'uso di materiali tratti dai cinegiornali e l'attenzione prestata a tematiche d'attualità diede ai film il tono del reportage, anche quando l'azione era ambientata nel passato. Allo stesso tempo, il ricorso a un'estetica modernista - i flashback frammentari, la narrazione ellittica, l'attore che si rivolge alla macchina da presa - evitò la piattezza del realismo socialista sovietico.
Spinti dal desiderio di esprimere le aspirazioni politiche del continente, i nuovi registi cercarono un contatto con il pubblico più immediato: a Cuba, fusero le forme sperimentali con l'intrattenimento; altrove, esplorarono i modi per coinvolgere lo spettatore comune nel processo di produzione o proiezione. Come le opere del Cinema Nôvo tropicale, alcuni film si rifacevano alle tradizioni folcloristiche, in particolare alla narrativa orale; altri vennero pensati per suscitare discussioni dopo la proiezione. Per un certo periodo di tempo il cinema latino-americano si ispirò al cinema sperimentale e politico del Cinema Nôvo e di altri movimenti, rivolgendosi però a un pubblico più vasto di quello conquistato dai registi brasiliani.
I registi latino-americani assomigliavano a quelli della scuola del montaggio sovietico e ai neorealisti italiani anche per il forte desiderio di unire la teoria alla pratica. Alla fine degli anni ‘60 le discussioni critiche sul cinema politico diedero origine a saggi e manifesti, in particolare a quelli di Fernando E. Solanas e Octavio Getino, "Verso un terzo cinema" (1969), e di Julio Garda Espinosa "Per un cinema imperfetto" (1969). Nessuna linea teorica caratterizzò il cinema terzomondista, ma questi scritti, insieme a film di dirompente energia e forza, servirono a chiarire i problemi affrontati dai registi rivoluzionari di tutto il mondo.

1962-1972
Alla fine degli anni ‘50, i giovani cinefili di Rio de Janeiro cominciarono a incontrarsi nei cinema e nei caffè. Attratti sia dai classici hollywoodiani, sia dai film d'arte europei dell'epoca, scrivevano articoli reclamando la necessità di un cambiamento nella produzione cinematografica brasiliana. Ottenuta l'opportunità di agire nell'ambito dell'industria commerciale, lanciarono il Cinema Nôvo.
A grandi linee, la storia del Cinema Nôvo è uguale a quella di altri movimenti giovanili di quegli anni, in parti colar modo alla Nouvelle Vague francese; tuttavia, vi sono anche nette differenze. I cinefili brasiliani, decisamente più militanti dei francesi da un punto di vista politico, volevano che i loro film parlassero per conto della popolazione non istruita del loro Paese - le minoranze etniche, i contadini, i lavoratori senza terra. Influenzati dal neorealismo italiano e dalla Nouvelle Vague, questi registi cercarono di riprodurre i problemi e le aspirazioni della loro Nazione.
Il Brasile, il Paese più popolato del Sud America, ha un territorio che varia da zone deserti che a spiagge tropicali e una popolazione che comprende gruppi di origine africana, amerinda, europea e asiatica. Attraverso una politica di "nazionalismo evolutivo" il presidente Joao Goulart cercò di unificare e modernizzare il Brasile. Seppur bersagliato sia dalla destra che dalla sinistra nel suo tentativo di raggiungere il capitalismo industriale, Goulart incoraggiò molte iniziative culturali liberali.
Il Cinema Nôvo fu uno di questi sforzi. Nelson Pereira dos Santos aveva già descritto la situazione nel neorealistico "Rio 40 graus" (Rio 40 gradi, 1955) e divenne il produttore, organizzatore e ispiratore di un gruppo di giovani provenienti dalle scuole di cinema e dalla critica cinematografica. Come molti registi delle nouvelles vagues prima di loro, i brasiliani si cimentarono inizialmente nei cortometraggi.
Attingendo da forme stilistiche di altre correnti del nuovo cinema - la macchina a mano, lo zoom, il piano sequenza, i momenti drammatici recitati con scarsa enfasi, i tempi morti, i passaggi ambigui dalla fantasia alla realtà -, questi registi produssero opere di critica politica.
Molti film prestavano attenzione alla realtà extraurbana. "Barravento" di Glauber Rocha (1962) è ambientato a Bahia. Firmino, il protagonista, torna dalla città e cerca di convincere i pescatori a liberarsi dalla schiavitù del padrone delle loro reti. Così facendo entra in conflitto anche con Arua, l'uomo santo del villaggio, ma alla fine sarà proprio Arua a prendere coscienza.
Il film seguente di Rocha, "Il dio nero e il diavolo biondo" (Deus e o diabo na terra do sol, 1963) è più disorganico. Ambientato nel sertão, l'aspra pianura nel Nord-Ovest del Brasile, mostra l'oppressione dei contadini da parte dei capi religiosi messianici e di violenti banditi. In mezzo alle due forze si collocano il vaccaro Manuel e il pistolero Antonio das Mortes. La storia si rifà alle ballate popolari e l'azione è ironicamente commentata da alcune canzoni. Quando Antonio uccide il bandito Corisco, un coro canta "il potere della gente è il potere più forte", immediatamente seguito da una lunga ripresa di Manuel e di sua moglie che scappano attraverso terre desolate.
"Vite aride" (Vidas secas, 1963) di Nelson Pereira dos Santos si occupa della vita dei contadini in modo più austero, descrivendo i tentativi di Fabiano per trovare un lavoro durante la siccità degli anni ‘40. Le sequenze iniziali, de-drammatizzate e quasi senza parole, introducono il viaggio della sua famiglia attraverso l'arido sertão. Dopo molte peripezie, Fabiano riesce a trovare un lavoro, finche non viene ingiustamente arrestato e picchiato.
Ruy Guerra realizzò uno dei primi film del Cinema Nôvo, "I cafaiestes" (Os Cafajestes, 1962), ma raggiunse la celebrità con "I fucili" (Os fuzis, 1963), facendo uso di primi piani ripresi con lenti grandangolari, di notevole effetto, oltre che di campi lunghi che drammatizzano le scene di massa.
La fantasia vivida e profonda di Guerra, la de-drammatizzazione incolore di Pereira dos Santos, gli zoom ostentati e il montaggio convulso di Rocha caratterizzano ciascun film come il prodotto di una sensibilità distinta. Come Rocha, la maggior parte dei registi del Cinema Nôvo considerava il cinema d'autore uno strumento di critica politica, una reazione al dominio di Hollywood, e fare film eccentrici costituiva un atto rivoluzionario.
La fama internazionale del samba e della bossa nova e la costruzione della nuova capitale, l'avveniristica Brasilia, contribuirono a promuovere il Cinema Nôvo come espressione di un Paese vitale e in via di modernizzazione. Più precisamente, il cinema seguiva l'ideologia di Goulart, che intendeva rendere i brasiliani consapevoli della loro arretratezza, nel momento in cui mostrava i contadini oppressi dall'ignoranza, dal problema della sopravvivenza e dalle regole militari e religiose. I film ambientati nel sertão rappresentano ciò che Rocha definiva "l'estetica della fame", e rivelano come secoli di sofferenza potevano sfociare in rivolte catartiche.
Le riforme del presidente Goulart allarmarono i circoli conservatori. Nel 1964 i militari presero il potere e per più di vent'anni furono i generali a comandare. Guerra, che lasciò il Paese subito dopo il colpo di stato, dichiarò che il Cinema Nôvo era finito nel 1964. Il movimento, tuttavia, non si era ancora interrotto. Nonostante il regime autoritario, l'arte politicamente schierata fioriva. I registi del Cinema Nôvo continuarono a lavorare e nuovi produttori entrarono nell'industria.
Molti registi si interrogarono sul fallimento del governo di Goulart. I loro film spesso si concentrano sulla figura dell'intellettuale tormentato, escluso sia dalla borghesia che dal popolo. "Il guerriero coraggioso" (O bravo guerriero, di Gustavo Dahl, 1967) si chiude con l'inquadratura di un politico idealista che sta per spararsi in bocca. Rocha trattò questa disperazione in maniera stravagante in "Terra in trance" (Terra em transe, 1967): nel Paese dell'Eldorado, un mito politico si esaurisce nella coscienza delirante di un poeta rivoluzionario.
"Terra in trance" è una ricerca surrealistica del ruolo politico dell'artista e culmina in una sequenza alla Ejzenštejn: mentre la polizia spara al poeta, uomini di chiesa e affaristi partecipano a una tetra celebrazione.
Nonostante il nuovo regime, la cultura cinematografica del Brasile faceva progressi. Le università cominciarono a tenere corsi sul cinema, a Rio si inaugurò un festival annuale e apparvero nuove riviste. Si stabilirono per legge esenzioni fiscali, prezzi dei biglietti uniformi e l'obbligo di proiettare percentuali maggiori di prodotti locali. Nel 1961 nacque il Grupo Executivo da Industria Cinematografica (GEICINE) allo scopo di coordinare la politica cinematografica; nel 1966 il GEICINE fu assorbito dall'Instituto Nacional do Cinema (INC), che sosteneva la produzione con finanziamenti e premi. L'INC sostenne anche le coproduzioni, che incrementarono notevolmente la produzione cinematografica nazionale.
Questa espansione venne anche favorita da un brusco cambiamento degli eventi politici. Nel 1967-1968 l'inflazione aumentò e di conseguenza crebbero gli scioperi e le proteste. Ci fu un secondo colpo di stato che portò al potere i generali della linea dura, i quali fecero promulgare leggi che limitavano la libertà personale ed eliminavano i partiti. Le forze di sinistra cominciarono una guerriglia urbana e, fra il 1969 e il 1973, il Brasile fu terreno di battaglia fra i guerriglieri e il regime militare.
Come sempre Glauber Rocha era pronto a commentare la situazione. "Antonio das Mortes" (O dragão da maldade contra o santo guerreiro, 1969) rivisita il soggetto de "Il dio nero e il diavolo biondo", anche se Rocha vede qui il mistico e il bandito come forze positive e i contadini non sono più vittime ignoranti: la rivoluzione nasce durante rituali popolari come il teatro e le feste. Di conseguenza, la tecnica di Rocha si fa più stilizzata: il popolo diventa lo spettatore, mentre i conflitti degli antagonisti hanno luogo in un'arena nuda e semiteatrale. Politicamente, l'assassino dal sangue freddo aveva delle analogie naturali con il nuovo regime militare.
Nonostante l'aumento della produzione (91 film nel 1971 grazie all’Embrafilme, un ente nato per controllare la produzione cinematografica), la repressione politica spinse molti artisti a lasciare il Paese, mentre i registi che rimasero in Brasile modificarono il loro stile spingendosi in direzioni diverse.
Una tendenza di quel periodo, che coinvolse anche la musica e il teatro, venne denominata "tropicalismo", celebrazione comica e grottesca della cultura popolare indigena. Invece di sottolineare, a scopo didattico, l'arretratezza della vita rurale come faceva il Cinema Nôvo, il tropicalismo considerava la cultura popolare piena di vitalità e saggezza. "Macunaíma: l'eroe senza nessun carattere" (Macunaíma - O heroe sem nenhum cárater, 1970) di Joaquim Pedro de Andrade, per esempio, è un'esuberante epica comica che fonde i miti brasiliani con la satira contemporanea. Girato con colori brillanti, ricco di gag surreali e di improvvisi cambiamenti di tono, "Macunaíma" fu il primo film del Cinema Nôvo a conquistare un vasto pubblico in Brasile.
In "Macunaíma" l'eroe pigro e ingannato è messo a confronto con il cannibalismo, visto come un modo di vendicarsi dei nemici. Questo motivo, retaggio dei movimenti letterari degli anni ‘20, divenne un altro elemento del Cinema Nôvo di quel periodo. La metafora del cannibalismo rimandava alla cultura brasiliana autentica che assimila voracemente le influenze coloniali. In "Com'era buono il mio francese" (Como era gostoso o meu francês, 1972), il regista Nelson Pereira dos Santos, utilizzando la tecnica del cinema diretto e ricorrendo alla voce narrante fuori campo, racconta la storia di un colonialista francese catturato da una tribù di Tupinamba al quale viene concesso di vivere fra di loro, prima di essere giustiziato e mangiato.
Sia il tropicalismo che il cannibalismo facevano parte della brasiliana "sinistra festosa", che tradizionalmente rendeva omaggio alla cultura popolare. Rocha vedeva in questi aspetti le possibilità per i registi di stabilire un legame con il mito e di guidare la gente verso la "liberazione anarchica".
Mentre il Cinema Nôvo acquisiva crescente prestigio, ottenendo anche il supporto finanziario dell'INC e dell'Embrafilme, nasceva un'avanguardia più estremista destinata a fargli concorrenza. Università, cineclub e cinema d'essai cominciarono a proiettare esempi di udigrudi, l'underground brasiliano. "Il bandito della luce rossa" (O bandido da luz vermelha, di Rogerio Sganzerla, 1968), "Bla... Bla... Bla..." (di Andrea Tonacci, 1968) e "Ammazzò la famiglia e andò al cinema" (Maton a família e foi ao cinema, di Julio Bressane, 1969) erano veri e propri attacchi al buon gusto. Scene raccapriccianti di omicidio e vomito erano rappresentate con uno stile deliberatamente dimesso. Questa "estetica della spazzatura", come si autodefinì, prendeva selvaggiamente in giro l'estetica della fame, e molte scene erano parodie dei film di Rocha, Guerra e dei loro seguaci.

1966-1971
Nel 1956, un gruppo di esiliati sbarcò sulle coste cubane per rovesciare il governo del presidente Fulgencio Batista. Dopo meno di tre anni, Batista lasciò il Paese. Il primo gennaio del 1959 l'esercito di guerriglieri comandato da Fidel Castro entrò all'Havana. L'America Latina aveva così assistito alla sua prima rivoluzione dopo la seconda guerra mondiale.
In poco tempo Castro nazionalizzò l'economia. Cuba si dette un ordinamento socialista, allineandosi all'URSS, politica che si consolidò in seguito all'embargo degli Stati Uniti. Dopo il fallimento, nel 1961, dell'invasione della Baia dei Porci appoggiata da John F. Kennedy, e dopo la crisi provocata dai missili sovietici nel 1962, Cuba divenne uno Stato satellite dell'Unione Sovietica. Per buona parte del Terzo Mondo Cuba divenne il simbolo della rivoluzione antimperialista.
Il cinema contribuì a creare un nuovo stile di vita cubano. In campo artistico, la prima mossa fu la creazione, nel 1959, dell'Instituto Cubano del Arte y Industria Cinematograficos (ICAIC).
Guidata da Alfredo Guevara, l'ICAIC divenne il fulcro della nuova cultura cinematografica cubana. Nel 1960 fondò una cineteca e un giornale di cinema, "Cine Cubano". Nel 1965 gestiva completamente la produzione, la distribuzione e la gestione delle sale dell'intero Paese, preparava tutto il personale e controllava le importazioni e le esportazioni. Sostituendo le vecchie pubblicità con manifesti più dinamici e coinvolgenti ideati e realizzati da artisti dell'istituto, l'ICAIC influenzò il disegno grafico di tutto il mondo. Con un'iniziativa che ricordava le unità di proiezione mobili sovietiche e cinesi, l'ICAIC creò i cine moviles, camion che si recavano nelle aree più remote per proiettare film.
L'ICAIC produsse anche moltissime pellicole. Con i governi precedenti il cinema era stato un'attività a basso costo e su piccola scala, che consisteva quasi interamente di tipici film di genere o pornografici. L'ICAIC dovette creare una base produttiva. Grazie all'aiuto del governo, ai registi e alle troupe che avevano prodotto film prima della rivoluzione, nonché al massiccio sostegno da parte di artisti stranieri, nel 1960 nacque un'industria cinematografica su grande scala.
Poiché Cuba aveva pochi registi prerivoluzionari degni di fiducia, l'ICAIC dovette affidarsi a nuovi talenti: Julio García Espinosa e Tomás Gutiérrez Alea, ex membri di cineclub, prima della rivoluzione avevano realizzato solo cortometraggi sperimentali; Humberto Solas diresse il suo primo film importante, "Lucía" (1968), a ventisei anni. I giovani registi dell'ICAIC divennero l'equivalente cubano delle nouvelles vagues europee o del Cinema Nôvo brasiliano.
All'inizio degli anni ‘60, l'ICAIC si concentrò sui brevi cortometraggi documentaristici, che non solo erano una buona scuola per i nuovi registi, ma rispondevano anche al bisogno di promuovere le politiche di governo. L'esponente principale del nuovo documentario cubano era Santiago Alvarez, che fondeva immagini di repertorio, titoli, animazione e una molteplicità di suoni per creare film partigiani debitori del montaggio sovietico.
Nonostante l'allineamento di Cuba a Mosca, gli artisti non abbracciarono il realismo socialista. I membri dell’ICAIC dibattevano sulla natura dell'arte rivoluzionaria e i registi erano aperti a diverse influenze. I film di questi primi anni spesso portavano il marchio del neorealismo. García Espinosa e Gutiérrez Alea avevano studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e "Storie della rivoluzione" (Historias de la revolucion, 1960) di Gutiérrez Alea attingeva la sua struttura episodica da "Paisà" di Rossellini. Lo sceneggiatore Cesare Zavattini contribuì alla sceneggiatura di "Il giovane ribelle" (El joven rebelde, 1961) di Garcia Espinosa.
Le principali opere del cinema rivoluzionario cubano nacquero nel periodo cruciale compreso fra il 1966 e il 1971. In questi anni la necessità di porre le basi dell'economia cubana spinse Castro a promuovere la pianificazione, chiedendo al popolo un enorme sacrificio morale e fisico. Durante questa campagna, i cubani celebrarono il 1968 come il culmine di quei "cent'anni di lotte" iniziate con i primi sforzi per liberarsi dalla colonizzazione spagnola.
I registi cominciarono a seguire il modello neorealista e ad adottare le tecniche del cinema moderno. I cineasti cubani conoscevano le opere di Antonioni, Bergman, Resnais e la Nouvelle Vague; citavano altri film con un tono ora affettivo, ora critico; attingevano anche al cinema d'arte; flashback e flashforward improvvisi, sequenze fantastiche, uso della macchina amano, montaggio ellittico, collage di riprese di opere teatrali, documentario e animazione.
Ma essi non si limitarono alla semplice imitazione. Come per gli esponenti del Cinema Nôvo, le circostanze e l'impegno li portarono a esplorare un cinema politicizzato, e, nello stesso tempo, a modificare coerentemente le tecniche moderne per renderle accessibili a un vasto pubblico. L'ICAIC accolse la sperimentazione che demistificava il processo cinematografico. Alfredo Guevara spinse i registi a "rivelare tutti i trucchi, tutte le risorse del linguaggio, a smantellare tutti i meccanismi di ipnosi cinematografica". Dato che i cineasti cubani tendevano a usare generi conosciuti, con le loro opere resero la forma del film meno ambigua e oscura rispetto alla maggior parte dei registi brasiliani e europei.
"La morte di un burocrate" (La muerte de un burócrate, di Gutiérrez Alea, 1966), per esempio, attualizza un ricorrente genere socialista, la satira della burocrazia. Animazione, cinegiornali e anche foto interrompono l'azione con spezzoni di commedia grottesca. Il film corre attraverso affezionati omaggi a Fellini e Buñuel. Anche l'arte dell'ICAIC viene parodiata quando si vede un pittore usare un polpo vivo come modello per un manifesto sull'imperialismo americano.
Altrettanto comico nel tono è "Le avventure di Juan Quin Quin" (Las aventuras de Juan Quin Quin, di García Espinosa, 1967), una parodia dei western hollywoodiani che ha come protagonista un giovane rivoluzionario. Altri film, soprattutto "Memorie del sottosviluppo" e "Lucía", offrono esempi più seri dell'assimilazione critica di altri modelli. Un altro importante tentativo per creare un cinema politico accessibile fu "La prima carica al machete" (La primera carga al machete, di Manuel Octavio Gómez, 1969), uno dei molti film storici che, nella celebrazione dei cent'anni di lotta, ricostruisce una rivolta del 1869, quando il machete divenne l'arma dei tagliatori di canna da zucchero oppressi. Gómez fece in modo che il film sembrasse un cinegiornale del 1969, completo di interviste a personaggi che si rivolgono alla macchina da presa, suono in presa diretta, riprese a mano e immagini di repertorio.
Lo stile documentaristico e il commento fuori campo aiutavano il pubblico a comprendere le tecniche visive più audaci. La macchina a mano riusciva a descrivere la ferocia di una battaglia, enfatizzava i conflitti personali e comunicava le percezioni confuse di un personaggio. I registi cubani più innovativi riconoscevano il bisogno di quello che García Espinosa definì, nel 1969, cinema "imperfetto": popolare, incentrato sui problemi d'attualità e volto a far partecipare gli
spettatori alla creazione dell'opera.
Conquistando il grande pubblico, i registi cubani si ispirarono al cinema sovietico degli anni ‘20, adattando le tecniche moderniste alla necessità di un cinema di propaganda. Quanto essi debbano alla tradizione sovietica è esplicito ne "I giorni dell'acqua" (Los días del agua, di Gómez, 1971): contadini insorti sparano nelle campagne e colpiscono gli abitanti delle città; nella scena culminante, che cita il massacro della scalinata di Odessa de "La corazzata Potëmkin", figure borghesi stilizzate vengono assassinate su una scala.
Fra il 1972 e il 1975, tuttavia, i registi cubani abbandonarono la sperimentazione. I problemi economici del Paese portarono ad una diminuzione nella produzione cinematografica. Aspri dibattiti nazionali sulla lealtà degli scrittori spinsero gli artisti a rimanere cauti. I registi cominciarono a prendere spunto dai generi hollywoodiani quali il thriller poliziesco e il western.
Verso la metà degli anni ‘70, il cinema cubano era rispettato in tutto il mondo. Mentre i film del Cinema Nôvo ebbero successo principalmente presso un pubblico d'elite, i cubani dimostrarono che il cinema del Terzo Mondo poteva mettere insieme le convenzioni del cinema moderno con quelle forme narrative alle quali gli spettatori di massa erano stati abituati.

1961-1962
Durante gli anni ‘50 il documentarista argentino Fernando Birri aveva dato vita a un "cinema della scoperta", critico e realistico, che lo aveva fatto diventare, per i registi sudamericani, una figura a cui ispirarsi. L'Argentina aveva anche inaugurato un cinema d'arte con le opere di Leopoldo Torre Nilsson. Durante i primi anni ‘60, il Paese ebbe la sua debole Nueva Ola, di cui facevano parte registi che rappresentavano la classe media di Buenos Aires (un po' alla maniera di Chabrol e Malle). E alla fine degli anni ‘60, l'Argentina fu il teatro di uno dei movimenti più importanti del cinema militante.
Dopo la caduta del presidente nazionalista Juan Perón, una serie di regimi cercarono di eliminare il consenso popolare di cui egli godeva. Nel 1966 un colpo di stato militare sospese l'assemblea legislativa, sciolse i partiti politici e soppresse il movimento dei lavoratori. La maggior parte dei cineasti commerciali realizzarono film approvati dal regime, basati sul folclore o su versioni ufficiali della Storia argentina.
Nel frattempo, la sinistra, la classe media, i gruppi studenteschi e i peronisti si adoperavano per destituire il governo militare. Un cinema politico parallelo, per esempio, è quello di "Operazione massacro" (Operación masacre, di Jorge Cedrón, 1969), film in cui si rivelava il tentativo del governo di eliminare i maggiori esponenti del peronismo. I film politici più importanti vennero realizzati dal gruppo Cine Liberación: fondato dai peronisti di sinistra Fernando E. Solanas e Octavio Getino, svolse un ruolo fondamentale nella definizione del cinema politico in America Latina.
Il film più importante di Solanas e Getino fu "L'ora dei forni". In quest'opera, della durata di quattro ore, la fusione di cinema diretto e scene girate in studio, accompagnata da una complessa colonna sonora, dà vita a un trattato cinematografico di una complessità simile a quella di Dziga Vertov e Chris Marker. Le tre parti del film dovevano provocare discussione e azione. "Neocolonialismo e violenza", la parte dedicata a Che Guevara, mostra un'Argentina sfruttata da Europa, Stati Uniti e dall'elite al governo; la seconda parte, "Un atto di liberazione", analizza il fallimento del peronismo; la terza parte, "Violenza e liberazione", è incentrata su interviste agli attivisti che discutono le prospettive di cambiamento.
"L'ora dei forni" bombarda lo spettatore con un collage di immagini e suoni. Come nei film cubani e nel cinema sovietico di montaggio, le tecniche del cinema moderno sono utilizzate con un intento rivoluzionario. Gli opposti entrano in collisione: i fondatori del Paese con i golfisti della classe media contemporanea, un massacro di abitanti delle montagne con una moderna discoteca. Il "mito di una cultura universale" è parodiato attraverso un raccordo con il quale si passa da un quadro di pittura accademica a un uomo trascinato via dalla polizia. La colonna sonora intensifica il senso di questo montaggio. Quando si sente della musica pop mentre la macchina da presa effettua una carrellata sui musei, il film suggerisce la cooptazione degli intellettuali da parte dei mass media.
Ma "L'ora dei forni" va oltre la pura complessità intrinseca, per raggiungere direttamente il suo pubblico. Il film venne fatto circolare fra gruppi di lavoratori e proiettato di nascosto in riunioni segrete. Sebbene Solanas e Getino aderissero alla linea peronista, volevano che il film fosse interrotto dalle discussioni fra gli spettatori. E a un certo punto il film si arresta: "Adesso dipende da voi tirare le conclusioni, continuare il film. A voi la parola".
Dall'esperienza delle riprese e delle proiezioni di "L'ora dei forni" nacquero altri manifesti di Cine Liberación che definivano il "terzo cinema". Per Solanas e Getino il "primo cinema" coincideva con quello hollywoodiano, che sopraffaceva lo spettatore attraverso lo spettacolo rendendolo un consumatore dell'ideologia borghese. Il "secondo cinema" era il cinema artistico d'autore che, promuovendo l'espressione individuale, rappresentava un passo avanti, soprattutto nelle opere del Cinema Nôvo, ma che ormai aveva fatto il suo tempo. Il "terzo cinema" usava il film come un'arma di liberazione, facendo di ogni partecipante un "guerrigliero". Il regista faceva parte di un collettivo: non solo un movimento di massa, piuttosto un gruppo produttivo che lavorava per conto degli oppressi.
In linea con le innovazioni formali di "L'ora dei forni", Solanas e Getino reclamavano un "terzo cinema" che rompesse con gli eroi individuali e con la narrazione ortodossa. Nel frattempo le condizioni di ricezione dovevano essere trasformate, chiedendo ai registi di creare circuiti di distribuzione segreti fra i gruppi sovversivi. Quando la proiezione è clandestina, lo spettatore corre un rischio già nell'assistervi e questo lo rende un "compagno che partecipa", pronto a pensare e a prendere parte al dibattito. Solanas e Getino definirono "L'ora dei forni" "un'azione cinematografica"; essi chiedevano ai registi di considerare il cinema come una tattica concreta all'interno di una lotta più vasta.
Durante gli anni ‘70 l'Argentina si stava disgregando; la repressione del governo era contrastata dalle insurrezioni e dal terrorismo. Solanas e Getino diedero il loro contributo girando due interviste-documentario con l'esiliato Perón. Altri registi continuarono a fare film peronisti ed emersero gruppi di estrema sinistra come Cine de Base.
Nel 1973 le autorità militari non potevano più contenere le rivolte né sperare di risolvere i problemi economici della nazione: Perón fu rinominato presidente. I capi di Cine Liberación cominciarono a lavorare per il suo regime; Solanas venne messo a capo di un'associazione cinematografica indipendente, mentre Getino divenne il responsabile della commissione nazionale di censura: riammise tutti i film banditi, liberalizzò la censura e offrì finanziamenti ai gestori di sale e ai sindacati cinematografici. Venne redatta una nuova legge sul cinema che incrementava il supporto del governo all'industria. Cine de Base e il gruppo FAS rimasero invece clandestini, realizzando film di denuncia in cui il peronismo era accostato al fascismo. E Perón confermò subito i loro sospetti usando la mano pesante con la sinistra. Morto nel 1974, a succedergli fu la moglie Isabel, che però non riuscì a far diminuire l'inflazione né a contenere la guerriglia urbana fra la sinistra e la destra. Con il Paese nel caos, ogni riforma cinematografica venne dimenticata. I registi di Cine Liberación scapparono: Getino fuggì in Perù e Solanas a Parigi. Entrambi continuarono a lavorare in esilio.
Nel 1976, i militari conquistarono il potere e lanciarono un attacco feroce all'opposizione. Negli anni a venire sparirono circa 20.000 persone, la maggior parte delle quali uccisa per mano degli squadroni della morte. La produzione cinematografica praticamente si interruppe. Lo studio Sono Film chiuse nel 1977 e Torre Nilsson morì in esilio l'anno dopo. Il cinema argentino risorse solo intorno alla prima metà degli anni ‘80, lasciandosi alle spalle l'ombra dei generali.

1962-1976
Il cinema politico in Cile seguì un andamento simile a quello brasiliano e argentino. Negli anni ‘60, in un clima politico ostile, emerse un cinema politico di grande energia, che si allineò con il governo liberale prima di essere eliminato, nel decennio successivo, da un colpo di stato e da un regime militare repressivo.
La cultura cinematografica cilena si sviluppò durante gli anni ‘60, quando l'università del Cile fondò una cineteca nazionale e un dipartimento di cinema sperimentale. Nel 1962 venne fondato un festival cinematografico a Viña del Mar e, nel 1967 , la manifestazione ospitò il primo meeting continentale dei registi latino-americani. Gli artisti che si servivano di altri mezzi di comunicazione, capeggiati dal poeta comunista Pablo Neruda, cominciarono ad agitarsi in nome di un cambiamento sociale.
La produzione cinematografica cilena fu minima fino al 1967, quando il governo moderato di Eduardo Frei cominciò a offrire sostegno all'industria. In breve tempo emersero i primi giovani registi. "Tre tristi tigri" (Tres tristes tigres, di Raul Ruiz, 1968) presenta una visione casuale e bizzarra di alcuni intellettuali della classe media che vagano per i bar, indifferenti alla politica. "Valparaiso amore mio" (Valparaíso, mi amor, di Aldo Francia, 1969) racconta la storia di una ragazzina costretta a prostituirsi a causa della sua povertà. In "Salnitro sanguinante" (Caliche sangriento, 1969) Helvio Soto mostra come una guerra andina del 1879 diede alla Gran Bretagna la possibilità di accedere ai depositi di salnitro. "El Chacal de Nahueltoro" (Id., di Miguel Littin, 1969) esamina la vita di un assassino, individuando le cause del suo crimine nel suo ambiente sociale.
La situazione politica cilena era simile a quella sperimentata da Cine Liberación in Argentina, ma questi film, per l'accostamento di finzione popolare e di tecniche del cinema d'arte, sono più vicini alle opere cubane. "Caliche sangriento" prende spunto dai western hollywoodiani, mentre i flashback di "El Chacal de Nahueltoro" ricordano il cinema d'arte europeo. "Valparaíso, mi amor" si basa su un realismo semplice e diretto, mentre "Tres tristes tigres" usa immagini surrealiste per indebolire le convenzioni del melodramma kitsch.
La maggior parte di questi registi si allineò con il marxista Salvador Allende e con il suo partito di Unità Popolare, che nel 1970 vinse per uno stretto margine le elezioni. Allende si adoperò per socializzare l'economia, nazionalizzando l'industria del rame e altre industrie chiave. Gli Stati Uniti cercarono subito di minare le basi del suo governo creando un "blocco invisibile" contro il Cile.
Dopo la vittoria di Allende, Miguel Littin, uno dei giovani registi più impegnati politicamente, scrisse un manifesto che richiamava il cinema imperfetto di García Espinosa e l'idea di "terzo cinema" di Solanas e Getino: "Il pubblico genera l'azione ed è alla fine il vero creatore; il regista è il suo strumento di comunicazione". Littin divenne il capo di Chile Film (dove rimase meno di un anno), un ente statale che produceva parecchi documentari. Allo stesso modo di Cine Liberación, egli sperava di creare un sistema per cui alle proiezioni sarebbero seguite discussioni.
Sotto il governo di Allende i registi del nuovo cinema realizzarono film più radicali. "Voto + fucile" (Voto + Fusil, di Helvio Soto, 1970), presenta tre generazioni della sinistra cilena che si riuniscono a cena per ripensare le loro posizioni. "Non basta più pregare" (Ye no basta con rezar, di Aldo Francia, 1971) invita i cattolici latino-americani ad impegnarsi nell'attivismo politico. Ruiz fece parecchi film, molti dei quali caratterizzati da un atteggiamento beffardo nei confronti della politica ufficiale; il suo "La colonia penale" (La colonia penal, 1971) dà l'idea dell'onnipresenza di uno stato di polizia.
Nonostante gli ostacoli economici, i tentativi della CIA di rovesciare il governo e la crescente violenza fra la destra e la sinistra, Allende fu rieletto nel marzo del 1973. Ma dopo poco tempo, nel più violento colpo di Stato di tutto il XX secolo, in America Latina i militari si impadronirono del potere. Migliaia di cileni perirono e Allende morì durante il bombardamento del palazzo presidenziale.
Il generale Augusto Pinochet Ugarte assunse il potere e proclamò lo stato di assedio; annullò la costituzione, sciolse il congresso e dichiarò illegali i partiti politici. I militari distrussero le scuole cinematografiche e i centri di produzione, bruciando i film e fracassando gli impianti. I lavoratori di Chile Film vennero licenziati o arrestati.
La maggior parte dei giovani registi cileni scappò. Soto andò in Spagna, Patricio Guzmán terminò a Cuba "La battaglia del Cile" (La batalla del Chile, 1973-1979), un resoconto documentaristico degli anni del governo di Allende. Littin (come Ruiz) finì a Parigi "La tierra prometida" (Id., 1973), il racconto simbolico di un precedente colpo di stato. Lasciata la Francia, continuò a lavorare a Cuba e in Messico, realizzando film epico-storici che celebravano la resistenza dei popoli latino-americani. I registi cileni produssero complessivamente decine di film all'estero durante i sedici anni del regime di Pinochet.
In tutto il Sudamerica, il fermento rivoluzionario degli anni ‘60 diminuì nel decennio successivo. Se nel 1960 la maggior parte dei governi erano stati moderatamente democratici, nel 1973 quasi tutti gli Stati sudamericani erano governati da un dittatore, senza che alcuno di questi Paesi seguisse l'esempio rivoluzionario di Cuba.
Glauber Rocha girò "Il leone a sette teste" (Der Leone Have Sept Cabeças, 1970) nella Repubblica Popolare del Congo; egli descrisse il film come un "comunicato sul cinema degli anni ‘60", un dialogo con Ejzenštejn, Brecht e Godard. Guerra tornò al nativo Mozambico dove sostenne il governo marxista, fondando un istituto cinematografico e realizzando documentari.
Altri esiliati produssero opere più politicizzate, incitando alla guerriglia, come proposto da Solanas e Getino. L'esempio più famoso fu quello del boliviano Jorge Sanjinés che, all'inizio degli anni ‘60, creò una scuola di cinema e un cineclub mentre girava cortometraggi di rivolta. Con i suoi amici Sanjinés realizzò molti film, il più importante dei quali è "Sangue di condor" (Yawar Mallku, 1969), in cui attaccava gli American Peace Corps e la loro politica sul controllo delle nascite nelle comunità indios. Alla prima del film si scatenò una manifestazione di piazza, e "Sangue di condor" svolse un importante ruolo nel bandire i Peace Corps dalla Bolivia.
Nel 1971 un colpo di stato fascista costrinse Sanjinés all'esilio, durante il quale egli completò "Il coraggio del popolo", noto anche come "La notte di San Giovanni" (El coraje del pueblo o La noche de San Juan, 1971). Il film racconta il massacro dei minatori in sciopero avvenuto nel 1967 per mano del governo boliviano, combinando immagini documentarie, testimonianze dei sopravvissuti e sequenze girate in studio. A Sanjinés venne impedito di tornare in Bolivia, per cui, insieme al suo gruppo Ukamau, girò "Il nemico principale" (El enemigo principal, 1971) in Perù. Il film descrive i problemi della guerriglia durante la mobilitazione dei contadini locali promossa da Che Guevara. "Fuori di qui" (Fuera de aquí, 1976) presenta i missionari delle comunità cubane dell'Ecuador come propagatori delle idee imperialistiche statunitensi.
Mentre "Sangue di condor" assomiglia alla produzione militante del periodo, i film che Sanjinés girò in esilio crearono un'estetica più originale. Incoraggiando i protagonisti, attori non professionisti, a rivivere sulla scena le loro esperienze, egli fece del film un'azione collettiva - un'idea in linea con il "terzo cinema" e con i manifesti del cinema imperfetto. Rifiutandosi di strutturare la trama sui singoli personaggi, il gruppo Ukamau di Sanjinés creò un eroe popolare che ricordava il cinema sovietico degli anni ‘20, servendosi, tuttavia, di campi lunghi e piani sequenza piuttosto che del montaggio. Mentre il piano sequenza era utilizzato nel cinema europeo del dopoguerra per registrare i progressivi cambiamenti di stato d'animo, in questo film è usato per esprimere la solidarietà agli oppressi. Mosso dall'impegno politico e dal desiderio di esplorazione formale, il cinema di guerriglia realizzato da esiliati come Sanjinés e il gruppo Ukamau continuò la tradizione del cinema rivoluzionario latino-americano fino agli anni ‘70.

1963-1977
Se alla metà degli anni ‘70 in America Latina il cinema militante era in declino, in Africa cominciava a svilupparsi. Le colonie dell'Africa nera avevano ottenuto l'indipendenza all'inizio degli anni ‘60; un decennio dopo, la maggior parte degli Stati più importanti aveva prodotto almeno un lungometraggio. Risulta quasi incredibile che nell'Africa nera, provata da due lunghe guerre, quaranta tra colpi di stato e rivolte, parecchie siccità e carestie devastanti, sia stato realizzato un così gran numero di film.
Eppure, alla maggior parte di questi Paesi mancavano i finanziamenti, i materiali e l'infrastruttura necessari per fondare un'industria cinematografica. La distribuzione dei film sul territorio era controllata dagli interessi di Europei e Americani, che invadevano il mercato con film a basso costo; a dominare nelle sale erano i titolo provenienti dall'Egitto, dall'India e da Hong Kong. Inoltre, il pubblico di ciascun Paese era in genere troppo limitato per sostenere un'industria nazionale di qualche importanza.
I registi africani cominciarono dunque a cercare cooperazione. A Cartagine, in Tunisia, fu istituito un festival biennale ne11966, e un altro (il FESPACO) nacque nel Burkina Faso. Nel 1970 venne creata un'associazione continentale, la Federation Pan-Africaine des Cineastes (FEPACI), per facilitare gli scambi di informazione e per aiutare i gruppi d'interesse governativi a sostenere la produzione.
Il Senegal, la Costa d'Avorio e altri Paesi francofoni furono i primi e i più forti produttori del cinema nero africano. Erano in effetti le nazioni più industrializzate, nelle quali la produzione cinematografica beneficiava dei contributi del Ministero francese della Cooperazione. Dal 1963 al 1980 il Ministero offrì finanziamenti e strutture per la produzione, sostenendo in totale la realizzazione di più di cento film. Il rovescio della medaglia era che questi film circolavano solo nei centri culturali e non nelle grandi sale cinematografiche, per cui la maggior parte del pubblico non poteva assistervi.
La prima generazione di registi africani indigeni includeva Paulin Vieyra e il romanziere Ousmane Sembene (entrambi senegalesi), Med Hondo (Mauritania), Desiré Écaré (Costa d'Avorio) e Oumarou Ganda (Niger). Sarah Maldoror (Guadalupa) lavorò in vari Paesi africani. Molti di questi artisti erano di sinistra: Sembene era un comunista che aveva studiato cinema a Mosca, così come Sarah Maldoror, moglie di un capo rivoluzionario dell'Angola.
Diversi registi cominciarono con cortometraggi che descrivevano la vita in esilio. "Africa sulla Senna" (Afrique sur Seine, di Paulin Vieyra, 1955) è un ritratto della vita quotidiana degli studenti africani a Parigi, e mostra l'influenza del neorealismo italiano. "La negra di..." (La noire de..., di Ousmane Sembene, 1966) descrive la miseria di una donna portata in Francia per fare la cameriera.
I registi cominciarono anche a parlare di neocolonialismo: "Il conducente del carretto" (Borom Sarret, di Ousmane Sembene, 1963), spesso considerato il primo lungometraggio dell'Africa nera girato in Africa, è l'intenso ritratto di un giorno di vita di un conducente di carro a Dakar. In maniera quasi documentaristica, usando una voce fuori campo per il monologo interiore, Sembene mostra che l'indipendenza non ha eliminato la povertà e la sofferenza dall'Africa. "Il vaglia" (Le mandat, 1968) è un'aspra commedia sulla transizione culturale, mentre "Impotenza" (Xala, 1974), con una ferocia che ricorda Buñuel, si rivolge contro le élite neocolonialiste che sfruttano le masse invece di rappresentarle.
Alla base dei film africani c'era anche la critica dei regimi coloniali. "Il dio del tuono" (Emitai, 1972), sempre di Sembene, descrive lo scontro di soldati francesi con una tribù locale durante la seconda guerra mondiale. L'insurrezione anticolonialista in Angola è stata ripresa in "Sambizanga" (di Sarah Maldoror, 1972) che descrive l'arresto di un leader rivoluzionario e il grande sforzo compiuto dalla moglie per liberarlo. Quando la fazione marxista salì al potere, nel 1975, l'Angola cominciò a produrre film sulla guerra in cui si esortava il popolo a sostenere il nuovo regime; altre nazioni africane in cui regnavano governi socialisti, come il Mozambico e l'Etiopia, produssero film che denunciavano il loro passato colonialista.
Negli anni ‘70 i registi africani andarono anche alla ricerca delle origini delle loro culture. Come in altre regioni del Terzo Mondo, le culture autoctone erano state spesso nascoste o di storte dalle immagini occidentali. Il film più famoso del movimento definito "ritorno alle origini" è "Intruso" (Ceddo, 1977) di Sembene. Il film mostra lo scontro fra l'Islam, la cristianità e le tradizioni tribali indigene. Grandioso nel racconto del rapimento di una principessa, il film presenta a tratti dei salti temporali che portano al Senegal del futuro.
Convinti che la narrazione orale fosse un aspetto importante della loro cultura, molti registi africani hanno cercato di trasporre soggetti, trame e tecniche di quella tradizione in termini cinematografici. Sembene, per esempio, assume coscientemente il ruolo del griot, il cantastorie tradizionale.
L'uso che Sembene fa dei "tipi" (il povero, l'imbroglione) e di alcuni motivi (la magia, gli improvvisi colpi di fortuna) si rifà alle convenzioni del racconto popolare. In "Intruso" il carattere di leggenda della trama e la presenza del commento del griot sottolineano ancor più il fatto che il film va letto come una versione contemporanea della tradizione orale.
Anche la libertà del commento sonoro è legata alla concezione che Sembene ha del griot. In "Borom Sarret" a dominare è la sua stessa voce, che si rivolge direttamente agli spettatori parlando delle speranze e delle disillusioni del personaggio.
Rispetto ad altri registi africani, lo stile di Sembene rimase più vicino alla corrente principale realista. "Touki-Bouki" (1973) del senegalese Djibril Diop Mambety, il film più avanguardistico del continente realizzato in quel periodo, si rifà ai racconti popolari africani e, allo stesso tempo, prende spunto da tecniche del cinema modernista europeo. Altrettanto sperimentale fu Med Hondo, che girò la maggior parte dei suoi film in esilio a Parigi. I suoi esordi furono caratterizzati da uno stile surreale simile a quello di Rocha: in "Sole O" (Soleil O, 1970) descrive un africano disoccupato ossessionato dalla visione di una guerriglia che dilaga in Asia, Africa e America Latina. "Gli sporchi-negri, vostri vicini" (Les bicots-néfgres, vos voisins, 1973) rivela le condizioni dei lavoratori africani in Francia. Entrambi i film usano le stesse tecniche del collage presenti nei film politici di altre parti del mondo, unendo documentario, finzione realistica, animazione, fotomontaggi e il rivolgersi direttamente allo spettatore.
Hondo fu uno dei maggiori sostenitori della creazione di una versione africana del "terzo cinema". Egli voleva che i film rappresentassero le lotte politiche popolari e trasmettessero le differenze culturali. "La dimensione temporale di un film arabo o africano è diversa da quella di un film occidentale. È questione di avere un diverso modo di respirare, di raccontare una storia. Noi africani viviamo con il tempo, mentre gli occidentali stanno sempre a inseguirlo". Pur consapevoli delle tradizioni cinematografiche europee e americane, ma decisi a rappresentare gli aspetti centrali della loro cultura, Hondo e i suoi contemporanei sostennero, negli anni ‘70, un approccio al cinema politico prettamente africano.

1966-1976
Il "cinema rivoluzionario" della Repubblica Popolare Cinese era molto diverso da quello del resto del Terzo Mondo: come a Cuba, il governo comunista controllava la produzione cinematografica, ma mentre l'ICAIC incoraggiava la sperimentazione, la Cina optò per una concezione del cinema rivoluzionario severa e dogmatica.
Dopo la rivoluzione del 1949, il cinema cinese, similmente a quello sovietico del dopoguerra, alternò periodi di rigido controllo da parte del governo a fasi di liberalizzazione. Nei primi anni ‘60, i registi godettero di notevole autonomia, ma nel 1966 un imprevisto cambiamento politico portò a un periodo di repressione senza eguali nel dopoguerra.
Sebbene Mao Tse-tung rimanesse il leader venerato della rivoluzione e del Partito Comunista, in politica era diventato marginale: chi deteneva realmente il potere era il presidente della Repubblica, Liu Shao-chi, e il segretario generale del Partito, Teng Hsiao-ping. Essi introdussero delle riforme che permettevano agli agricoltori alcune iniziative private, premiavano con incentivi i lavoratori più produttivi e richiedevano esami d'ammissione alle università. Mao, che sosteneva la totale uguaglianza escludendo qualsiasi forma di imprenditorialità capitalista, cercò di riconquistare il potere dichiarando nel 1966 Mao dichiarò la "grande rivoluzione culturale del proletariato".
Verso la fine degli anni ‘60 il Partito era composto quasi interamente da maoisti; il presidente Liu era stato arrestato e morì in prigione; Teng venne esiliato in campagna.
Durante le rivoluzione culturale, le arti erano controllate con estrema rigidità. La moglie di Mao, Jiang Qing, faceva parte di un gruppo di alti funzionari, successivamente nominato la "banda dei quattro", che aveva il compitodi occuparsi della cultura. Jiang Qing, che negli anni ‘30 aveva recitato in film di secondaria importanza, supervisionò la creazione di un cinema maoista. La sua prima iniziativa fu la chiusura dell'industria cinematografica: vennero banditi tutti i film stranieri e quelli cinesi girati prima del 1966, e nessun nuovo titolo cinese venne distribuito fra il 1966 e il 1969. Al cinema, il pubblico vedeva solo cinegiornali, la maggior parte dei quali mostrava Mao che passava in rassegna le truppe o sfilava a cavallo nelle parate.
Jiang Qing e i suoi collaboratori cercarono un approccio ideologicamente accettabile al cinema di finzione, arrivando a definire un genere chiamato "espressione del modello rivoluzionario". I film a esso appartenenti erano versioni di rappresentazioni teatrali che combinavano forme attualizzate dell'opera di Pechino, balletto tradizionale e temi militari rivoluzionari. Questi furono gli unici film realizzati fra il 1970 e il 1972; di essi solo sette vennero distribuiti, per essere proiettati incessantemente.
Il più famoso di questi film è "Il distaccamento femminile rosso" (Hongse niangzijun, di Pan Wenzhan e Fu Jie, 1971), registrazione di un balletto del 1964. Il balletto, la cui colonna sonora era stata realizzata da un collettivo di compositori, parlava di un distaccamento di donne-soldato realmente esistito durante la guerra civile cinese degli anni ‘30.
La mancanza di dialogo e la semplicità dell'azione facilitarono la comprensione della storia ai contadini. I personaggi sono quelli tipici del cinema comunista sovietico e cinese: il proprietario terriero sadico, il buon capo maoista, la protagonista vendicativa che deve imparare la disciplina comunista. Eliminando qualsiasi sviluppo psicologico, la trama si concentra sulla preparazione del distaccamento alla battaglia cruciale. Le ballerine indossano le scarpe da danza e camminano sulle punte, ma impugnano anche i fucili e assumono pose aggressive. I registi cinesi non adottarono mai forme di cinema diretto, preferendo le riprese in studio, delle quali avevano una lunga esperienza e che ricordavano il cinema hollywoodiano degli anni ‘30. In "Hongse niangzijun", le scene sono girate come su un palcoscenico teatrale, con alberi e tendaggi artificiali.
Dal 1973 cominciarono ad apparire altri tipi di film, tutti incentrati su argomenti politici, con personaggi standard che praticavano la dottrina maoista. "Basta con le vecchie idee" (Juelie, di Li Wenhua, 1975) è un dramma su una scuola agricola e illustra la schematicità con cui venivano trattate le idee di Mao. Egli, infatti, aveva scritto che i giovani erano i suoi "successori rivoluzionari", ma riteneva anche che essi non dovevano essere istruiti, poiché l'istruzione li avrebbe avvantaggiati nei confronti della gente comune, rendendoli elitari: le università non dovevano usare criteri di ammissione severi, che avrebbero escluso contadini e operai.
In "Juelie", un maoista convinto, Long, diventa responsabile di una scuola dalla quale gli amministratori hanno escluso i contadini e gli operai analfabeti. Long esamina i giovani e ammette un ragazzo pieno di entusiasmo solo perché ha lavorato come maniscalco. Altri contadini raccomandano una donna violentata da un proprietario terriero prima della rivoluzione e che da allora è diventata un'esperta coltivatrice di riso. Quando Long le chiede se sa leggere e scrivere, lei scrive: "Il presidente Mao è il nostro salvatore"; in un crescendo di musica trionfante, la donna viene immediatamente accettata nella scuola.
La rivoluzione culturale resistette fino agli anni ‘70. Mentre Mao invecchiava, la banda dei quattro continuava inesorabilmente la sua politica. Dopo la morte di Mao, avvenuta nel settembre del 1976, Teng Hsiao-ping, che era stato riabilitato nel 1973, prese il potere. I componenti della banda dei quattro vennero arrestati nell'ottobre del 1976 e condannati due anni dopo.
La rivoluzione culturale devastò la Cina: una generazione perse l'opportunità di studiare e lo sviluppo industriale si bloccò. Anche nel cinema la rivoluzione culturale provocò quelli che i cinesi chiamano "i dieci anni perduti". Solo all'inizio degli anni ‘80 fu possibile vedere i segni di una ripresa.

1968-1975
Il maggiore sconvolgimento nel blocco sovietico ebbe luogo in Cecoslovacchia. Dopo varie lotte interne, nel gennaio del 1968 il riformatore Alexander Dubček assunse il controllo del Partito Comunista Cecoslovacco. Dubček incoraggiò i dibattiti e ventilò anche la possibilità di un sistema pluralista. Verso la fine di giugno la riforma era nell'aria. Più di sessanta tra scienziati, artisti e studiosi firmarono il manifesto delle "duemila parole", che sosteneva l'autogestione degli operai, la critica all'autorità del Partito e il rifiuto di un comunismo vecchio stampo. La "primavera di Praga" ebbe un'enorme influenza sulla cultura. I film banditi nel 1967 vennero rimessi in circolazione e i registi della Nová Vlna si sentirono liberi di fare nuove sperimentazioni.
Ma l'euforia durò poco. Il 20 agosto 1968 l'URSS ordinò a mezzo milione di soldati del Patto di Varsavia di invadere la Cecoslovacchia. I funzionari statali vennero spediti a Mosca in manette. Con l'appoggio della Russia, i conservatori abolirono le riforme. Nell'aprile del 1969 il successore di Dubček, Gustav Husák, presiedette al "processo di normalizzazione", l'annullamento cioè di tutte le riforme del '68 e la condanna dei ribelli: a migliaia di intellettuali e artisti venne impedito di scrivere, esibirsi o insegnare. Nel giro di due anni quasi 200.000 cecoslovacchi emigrarono.
I funzionari bandirono qualsiasi film che richiamasse lo spirito di critica sociale della primavera di Praga. Un esempio lampante è "Allodole sul filo" (Skřivánci na niti, 1969) di Jiří Menzel, ambientato nel 1948 quando, come ci informa una scritta ironica, la classe lavoratrice conquistò il potere in Cecoslovacchia. A quel punto professionisti, intellettuali e camerieri si ritrovano a separare i rottami in un deposito di robivecchi. Con il suo caratteristico tono caustico, Menzel mescola commedia, melodramma e satira. Nella scena iniziale la coppia di protagonisti riprende, per un servizio di attualità, un gruppo di fedeli operai socialisti: manifesti e striscioni colorati nascondono i rottami alle loro spalle. "Allodole sul filo" fu terminato nel 1969, ma ne venne bloccata la distribuzione perché lo si accusava di "disprezzo per la classe lavoratrice"; a Menzel fu impedito di lavorare per cinque anni.
Il "processo di normalizzazione" portò dei cambiamenti nell'industria cinematografica ceca: fu abolito il sistema produttivo cinematografico e centralizzato il controllo. Il nuovo regime esigeva che i soggetti politici venissero trattati in modo positivo, eroico; un ritorno quindi al realismo socialista, dato che, naturalmente, i funzionari disapprovavano la sperimentazione e il "pessimismo" della Nová Vlna. Nel 1973 quattro film vennero messi al bando.
Questi attacchi distrussero la Nová Vlna. Molti dei migliori registi emigrarono. Alla maggior parte di quelli che rimasero fu impedito di lavorare fino alla metà degli anni ‘70. Ad esempio, Věra Chytilová riuscì appena a terminare la favola "I frutti degli alberi del paradiso noi li mangiamo" (Dvoce stromu rajských jíme - La fruit du paradis, 1969) prima che si stabilisse il nuovo blocco. Nei sei anni successivi fu costretta a sottoporre i suoi copioni all'approvazione ministeriale e andò invano alla ricerca di progetti. Messa da parte, le fu impedito di partecipare ai festival stranieri e, infine, venne giudicata "elitaria" e "non impegnata". Solo nel 1976, quando scrisse una lettera al presidente Husák accusando i funzionari di agire illegalmente e in maniera discriminatoria, le venne permesso di tornare a dirigere.
L'invasione sovietica mise in atto quella che diventò famosa come la "dottrina di Brežnev", la politica secondo la quale l'URSS sarebbe intervenuta in uno qualsiasi dei suoi satelliti che avesse manifestato dissenso. La rivolta di Praga aveva dimostrato che la libera discussione poteva dare origine a una pericolosa deriva politica e la maggior parte dei regimi comunisti rinnegò le liberalizzazioni della metà degli anni ‘60.
Un fallimento parallelo avvenne in Iugoslavia. A Zagabria gli intellettuali riuniti intorno al giornale "Praxis" avevano espresso critiche nei confronti del comunismo sovietico a partire dall' inizio degli anni ’60, dichiarando la loro opposizione a qualsiasi istituzione sociale "che paralizzasse gli esseri umani, arrestasse il loro sviluppo e imponesse loro modelli di comportamento semplici, facilmente prevedibili, vuoti e stereotipati". In quello stesso periodo il Comitato Centrale del Partito Iugoslavo chiese una riforma economica. Nella primavera del ‘68 gli studenti occuparono l'università di Belgrado: Tito intervenne per sospendere lo sciopero e la repressione del governo si intensificò. Nel 1972 l'espansione del movimento nazionalista croato spinse il governo ad arrestare, processare e punire i dissidenti politici.
Il nuovo cinema iugoslavo, politicamente ed eroticamente esplicito, faceva infuriare le fazioni conservatrici. "Il maestro e Margherita" (di Aleksandar Petrovič, 1972) paragonava allo stalinismo gli attacchi al cinema che avvenivano in quegli anni. Nel 1970 il tema del festival del cinema di Zagabria fu la "sessualità come sforzo per raggiungere un nuovo umanesimo". Dato che dopo il 1968 le pressioni erano aumentate, le critiche ufficiali etichettarono i nuovi film come "film neri" a causa del loro disfattismo e nichilismo.
Duśan Makavejev firmò il film "nero" più scandaloso del periodo: "W.R., I misteri dell'organismo" (W.R., Misterije organizma, 1971). Come le sue opere precedenti, il film, esplicitamente incentrato sul sesso, mette insieme estratti di cinegiornali, scene di vecchi film e fiction originale: la biografia di Wilhelm Reich, teorico radicale del sesso, è intervallata da spezzoni nello stile del cinema diretto sulle pratiche erotiche contemporanee negli Stati Uniti, da cinegiornali della rivoluzione cinese e dalla grottesca storia di Milena, una donna iugoslava secondo la quale "il comunismo senza il libero amore è come una veglia funebre in un cimitero".
All'inizio degli anni ‘70 il gruppo Praxis fu costretto a dividersi. Il governo impedì la distribuzione di "W.R.", "Il maestro e Margherita" e altri film "neri". Petrovič, che con "Ho incontrato anche zingari felici" aveva conquistato una fama a livello internazionale, venne allontanato dall'Accademia di Cinema. Il Partito cacciò Pavlović e Makavejev, che si unì al gruppo di registi erranti esiliati dall'Europa orientale.
Anche il cinema polacco, com'era successo a quello cecoslovacco, subì severe restrizioni dall'alto, ma si riprese più facilmente. Nella primavera del ‘68 il governo stava prendendo in considerazione l'attuazione di una riforma economica. In maggio venne soppressa una rivolta all'università di Varsavia: gli studenti e i dissidenti vennero attestati e la censura si irrigidì. L'Unità di Produzione Cinematografica Creativa, esistente dalla metà degli anni Cinquanta, venne rimpiazzata da un'organizzazione centralizzata, e figure venerate come Aleksander Ford furono rimosse dalle loro posizioni di controllo.
Comunque, dopo gli scioperi degli operai a Danzica all'inizio degli anni ‘70, Wladislaw Gomulka, il segretario del Partito, venne destituito e al suo posto si insediò una leadership più tollerante. La nuova atmosfera libera rianimò il cinema polacco. Le unità di produzione vennero riorganizzate nel 1972, e i registi ottennero addirittura maggiore autonomia di quanta ne avessero prima. Il cinema ispirato alla letteratura ottenne un grande successo di pubblico e nello stesso tempo rafforzò l'organizzazione produttiva. Andrzej Wajda tornò a occupare una posizione di spicco nel cinema polacco con "Paesaggio dopo la battaglia" (Krajobraz po bitwie, 1970), "Le nozze" (Wesele, 1972) e "La terra della grande promessa" (Ziernia obiecana, 1975 ). Emersero parecchi nuovi talenti, tra i quali Krzysztof Zanussi, che, da ex studente di fisica, portò le sue conoscenze scientifiche a interagire con i drammi contemporanei trattati ne "La struttura del cristallo" (Struktura krysztalu, 1969), "Illuminazione" (Illuminacja, 1972) e "Bilancio trimestrale" (Bilans kwartolny, 1974).
Altri cinema dell'Europa orientale fiorirono nell'era successiva all'invasione sovietica. In Romania, un Paese che non aveva forti legami con l'URSS, la fine degli anni ‘60 vide. l'affermarsi di una maggior libertà d'azione: alla sperimentazione venne concesso più spazio e, a partire dagli anni ‘70 si formarono unità produttive decentralizzate. Dal canto suo, nel 1968 anche il governo bulgaro creò un sistema di unità produttive e, tre anni dopo, insediò nel settore una nuova classe dirigente. Il più famoso film bulgaro di quel periodo, "Iconostasi" (Iconostasis, di Todor Dinov e Hristo Hristov, 1969), somiglia ad "Andrei Rubliov" (Andrei Rublëv, 1969) di Tarkovskij nei richiami all'arte folcloristica e religiosa. Dopo il 1971, il cinema bulgaro attraversò un periodo di rinascita e molti film ottennero riconoscimenti internazionali.
Fu l'Ungheria, tuttavia, che si guadagnò una posizione di spicco nel cinema dell'Europa orientale dopo la primavera di Praga. Le riforme economiche della fine degli anni ‘60 non furono toccate, mentre la pianificazione decentralizzata e l'economia mista permasero fino alla metà degli anni ‘70. In Ungheria proseguì anche il cinema politicamente impegnato e ciascuna delle quattro unità produttive del Paese riuscì a realizzare circa cinque film all'anno.

1969-1977
Anche se non ci fu una "primavera di Mosca", i primi anni ‘60 produssero in Russia un movimento giovanile simile a quello cecoslovacco. Gli studenti analizzavano la storia del comunismo e discutevano della condotta del Partito Liberali e credenti formarono organizzazioni dissidenti e favorevoli alla democrazia. Quando i carri armati sovietici invasero la Cecoslovacchia, i contestatori si riversarono nella piazza Rossa.
Di fronte a un'economia in declino e al conflitto con la Cina, il segretario di Partito Leonid Brežnev scelse una politica di distensione con l'Occidente, mentre verso i dissidenti del fronte interno optò per la repressione. Nel 1970 Aleksandr Solženicyn vinse il Premio Nobel per la letteratura, ma dopo la pubblicazione di "Arcipelago Gulag" (1973), che rivelava gli orrori dei campi di prigionia di Stalin, fu espulso dal Paese.
Per quanto riguarda il cinema, la produzione era di circa 130 film all'anno. Il nuovo blocco voleva un ritorno al realismo socialista, che aveva assunto il nome di "realismo pedagogico". Tornarono sugli schermi i vigorosi operai delle fabbriche e gli eroi della seconda guerra mondiale. Alcuni dei registi giovani più originali, come ad esempio Vasilij Šukšin, produssero adattamenti letterari ben confezionati. Alla fine degli anni ‘60 Andrej Končalovskij aveva proposto un film su Che Guevara, ma anche lui tornò a fonti più sicure, come Turgenev per "Nido di nobili" (Dvorjanskoe gnezdo, 1969).
Nelle varie repubbliche dell'URSS, tuttavia, gli intensi nazionalismi antirussi diedero vita a un "cinema poetico". Il lirismo contadino di Dovženko offriva ai registi un precedente lontano e "Le ombre degli avi dimenticati" (Teni zabytych predkov, 1965) di Sergej Paradžanov, riaprì la strada a una trattazione personale delle tradizioni popolari. "Pirosmanišvili" (1969) di Georgij Šengelaja usava il genere biografico per descrivere la vita di un pittore popolare, un soggetto che aveva in sé connotazioni nazionalistiche, ma che permetteva anche sperimentazioni a livello quasi astratto. Sullo stesso versante si possono collocare "L'uccello bianco con la macchia nera" (Belaja pitca s černoj otmetinoj, 1972), dell'ucraino Juri Iljenko, e "Pastorale" (Pastoral', 1977), del georgiano Otar Ioseliani.
Altri due registi legati alla tendenza poetica emersero come figure centrali del nuovo cinema sovietico. "Andrei Rubliov" di Andrej Tarkovskij, la cui vicenda produttiva comincia nei primi anni ‘60, venne proiettato per la prima volta a Parigi nel 1969. Dopo aver ottenuto vasto favore all'estero, venne distribuito in URSS. A quel tempo Tarkovskij aveva già terminato il suo terzo film, "Solaris" (Id., 1972), decantato da molti come la risposta sovietica a "2001: Odissea nello spazio" (2001: A Space Odyssey, di Stanley Kubrick, 1968). La descrizione ambigua delle delusioni del protagonista è motivata dalla premessa del viaggio nello spazio, ma tipicamente tarkovskiani sono i passaggi di mistica contemplazione: erbe che si attorcigliano sott'acqua, un'autostrada senza fine, solenni immagini finali. Tarkovskij voleva evitare il messaggio ideologico: "L'immagine non è un determinato significato, espresso dal regista, ma un mondo intero riflesso in una goccia d’acqua".
Il riflesso del mondo dell'artista è portato all'estremo ne "Lo specchio" (Zerkalo, 1975), un poetico insieme di ricordi infantili, brani documentaristici e immagini fantastiche. Mentre la voce fuori campo di Tarkovskij recita poesie del padre, la macchina da presa scivola attraverso una stanza, inquadrando prima un gatto che lecca una pozza di latte e poi la madre in lacrime, alla finestra, mentre guarda la pioggia. Un granaio brucia durante un acquazzone; un uomo viene quasi spazzato via in un paesaggio ventoso; una donna levita verso l'alto. Mentre il più tradizionale "Schiava d'amore" (Raba ljubvi, di Nikita Michalkov, 1976) otteneva successo ifiternazionale, le autorità sovietiche dichiararono "Lo specchio" incomprensibile e ne penalizzarono gravemente la distribuzione.
Sergej Paradžanov rimane l'esempio più vivido di come, nel cinema sovietico, il privato diventò politico. Dopo aver ottenuto grande successo in tutto il mondo con il suo film ucraino"Le ombre degli avi dimenticati", usò la fama acquisita per protestare contro il trattamento dei dissidenti. Arrestato nel 1968, fu accusato di "nazionalismo ucraino"; al suo rilascio venne trasferito in Armenia dove, nel 1969, girò "Il colore del melograno" (Sayat Nova). Anche se la sceneggiatura è basata sulla vita del poeta armeno Sayat Nova, un prologo ci informa che il film non è una biografia convenzionale. Lunghi totali ci presentano personaggi, animali e oggetti in severi quadri frontali. Il montaggio serve principalmente a legare queste inquadrature o a interrompere gli statici ritratti con tagli stridenti. La messa in scena del film presenta l'immaginario poetico di Sayat Nova: libri infradiciati aperti ad asciugarsi sui tetti, tappeti che sanguinano mentre vengono lavati, piume di pollo che cadono sul poeta morente. Sebbene lo stile di Paradžanov sia molto diverso da quello di Tarkovskij, entrambi contemplano le mutevoli caratteristiche degli oggetti nel lento scorrere del tempo.
"Il colore del melograno" fu probabilmente il film sperimentale più scioccante realizzato in URSS dalla fine degli anni ‘20. Venne immediatamente insabbiato, anche se nel 1971 ne fu distribuita, in misura limitata, una versione più corta e riveduta (quella disponibile oggi). Essendogli stato proibito di dirigere, Paradžanov contrattaccò scrivendo un pamphlet sulle sue vicissitudini e sui problemi del cinema sovietico. Nel gennaio del 1974 venne accusato di omosessualità, traffico di opere d'arte rubate e "istigazione al suicidio", per essere poi condannato a molti anni di lavori forzati.
Nel blocco orientale, la linea del realismo socialista costringeva l'artista a servire la società - o meglio, il suo rappresentante: il Partito Comunista. I principali registi dell'Europa orientale, come Chytilová, Jancsó e Makavejev, ritenevano di essere in armonia con una determinata idea di socialismo, anche se malvista in quel momento; il cinema poetico di Tarkovskij e Paradžanov, invece, presentava la visione di un artista indipendente da tutti i bisogni della collettività. I loro film profondamente personali sfidavano sfacciatamente l'ortodossia sovietica, ricordando alcune correnti occidentali che cercavano la liberazione politica attraverso la libera immaginazione dell'individuo.

1961-1975
Il cinema rivoluzionario del Terzo Mondo anticipò tendenze che si manifestarono in seguito nei Paesi industrializzati. Fra la metà degli anni ‘60 e la metà degli anni ‘70 fare cinema e andare al cinema divennero atti politici a un livello che non era più stato raggiunto dopo la seconda guerra mondiale. La politica radicale entrò nella vita di tutti i giorni; il "privato" era diventato "politico".
Il 1968 segnò l'apice della protesta sociale nei Paesi occidentali. A partire dal ‘66 un numero sempre maggiore di studenti cominciò a mettere in dubbio le autorità e a rifiutare i tradizionali valori americani. Tra il 1967 e il 1969 la resistenza giovanile alla guerra del Vietnam si trasformò in conflitto, con l'occupazione di edifici e scontri per strada con la polizia. Il movimento per la libertà di parola di Berkeley del 1965 divenne un prototipo della ribellione universitaria mondiale.
Gli avvenimenti del 1968 portarono molti a credere che la società occidentale fosse sull'orlo della rivoluzione.
L'inizio dell'anno vide la cultura cinematografica francese impegnarsi in politica, il Festival di Cannes venne interrotto dietro l’iniziativa di Godard e Truffaut.
Le manifestazioni di massa a Nanterre e alla Sorbona vennero accolte con gas lacrimogeni e manganelli. Il 10 maggio 20.000 dimostranti costruirono barricate e sfidarono la carica, della polizia. Tre notti dopo mezzo milione di studenti, operai e professionisti manifestarono a Parigi, obbligando il governo a riaprire la Sorbona e a rilasciare i capi studenteschi arrestati. Gli studenti occuparono di
nuovo le università, cercando di creare modelli per una società più libera che non sfruttasse gli individui. In gesto di solidarietà, 10 milioni di francesi scioperarono.
A giugno il governo De Gaulle venne riconfermato e la vita tornò gradualmente alla normalità.
Gli atenei americani si sollevarono nell'aprile del 1970, quando Nixon estese la guerra del Vietnam alla Cambogia; il movimento radicale, tuttavia, stava già perdendo coesione e gli studenti non erano quasi mai riusciti ad allearsi con la classe lavoratrice.
Le idee della nuova sinistra vennero assorbite dai partiti socialisti e comunisti tradizionali; l'impegno politico della fine degli anni ‘60 venne sostituito da una "micropolitica".
In generale, sia l'estremismo militante della fine degli anni ‘60, sia la micropolitica degli anni ‘70 riuscirono a modificare alcuni atteggiamenti fondamentali della società: principi come il diritto agli studi universitari, l'uguaglianza sociale e sessuale all'interno delle democrazie occidentali e le questioni di orientamento sessuale diventarono parte della coscienza pubblica come mai prima di allora.
I registi parteciparono attivamente alla politicizzazione della cultura. Dalla fine degli anni ‘60 alla metà dei ‘70 si possono individuare tre grandi tendenze. Il "cinema impegnato" si schierò totalmente dalla parte del cambiamento sociale rivoluzionario. Accanto al cinema impegnato emerse un "modernismo politico", sviluppo del cinema d'arte del dopoguerra e delle tendenze terzomondiste come il Cinema Nôvo, che fondeva la politica della sinistra con forme e stili innovativi. Infine, anche il film commerciale e il cinema d'arte tradizionale manifestarono i segni della crescente politicizzazione.

Il cinema impegnato

Volendo evitare i mezzi di comunicazione tradizionali, il cinema impegnato fu, costretto ad adottare metodi produttivi alternativi. Una particolare caratteristica dell'epoca era il tentativo di creare collettivi di film-maker: i registi militanti si riunivano e lavoravano divisi in piccoli gruppi su progetti distinti. Il prototipo del collettivo di cinema impegnato era il gruppo americano Newsreel, composto dagli studenti dell'organizzazione Students for a Democratic Society che decisero di realizzare film sulla protesta contro la guerra del Vietnam.
Anche in Francia si formarono collettivi: il gruppo Medvedkine, creatosi spontaneamente e di cui facevano parte Godard e Marker, realizzò "Lotta di classe" (Lutte de classe, 1969). Godard poi, insieme a Jean-Pierre Gorin, formò il gruppo Dziga Vertov, mentre Marker fondò un collettivo più grande e forte, lo SLON (successivamente denominato ISKRA).
Come Solanas e Getino di Cine Liberación, i registi occidentali impegnati cercarono di far circolare le loro opere in contesti diversi dagli usuali, con proiezioni nei circoli, durante riunioni Sindacali e in centri universitari o di quartiere.
Le riviste più vecchie, come l'americana "Cineaste" e la parigina "Cahiers du cinema", si spostarono politicamente a sinistra. Anche se verso la metà degli anni ‘70 l'estrema sinistra perse potere, il. cinema impegnato rimase un aspetto centrale nella micropolitica dell'epoca.
In generale, i registi impegnati adottarono le tecniche e le forme del cinema diretto della fine degli anni ‘50. Le macchine da presa 16mm, più leggere, i registratori portatili, le pellicole più sensibili erano particolarmente adatte per un cinema di protesta e potevano essere usate da persone senza una preparazione specifica.
La maggior parte dei film Newsreel, come "Rompi ed entra" (Break and Enter, 1971), combina riprese di manifestazioni con interviste ai partecipanti. Come in tutti i film di montaggio, il reportage poteva intensificare il suo impatto sul pubblico grazie alla colonna sonora o all'interpolazione di immagini di repertorio. Durante gli anni ‘70 i registi impegnati esplorarono anche la tecnica dell'intervista: interi film venivano costruiti intorno a gente che parlava.
Negli stessi anni, alcuni lunghi documentari impegnati vennero proiettati nei cinema commerciali ottenendo un vasto successo di pubblico.
Il regista impegnato che conobbe il più consistente successo commerciale fu Emile De Antonio. Il suo primo film, "Ordine del giorno" (Point of Order, 1963), era dedicato alle udienze investigative nel caso del senatore Joseph McCarthy, dimostrando che le normali immagini dei servizi giornalistici potevano sostenere un film di critica politica senza dover ricorrere a una voce narrante fuori campo. Cercando fra gli scarti, De Antonio ripescò immagini televisive mai trasmesse perché ritenute troppo macabre o crude e le utilizzò per "Nell'anno del maiale" (In the Year of the Pig, 1969), una storia molto analitica della guerra del Vietnam.
"Nell'anno del maiale" porta avanti il suo discorso attraverso tecniche diverse. Nell'allucinante scena iniziale, brevi e quasi subliminali immagini di battaglie e di contadini che soffrono si alternano su uno sfondo nero, mentre cresce il ronzio agghiacciante degli aeroplani e degli elicotteri. Il resto del film procede in modo più analitico, giustapponendo dichiarazioni di esperti e testimoni a immagini di repertorio di discorsi, cerimonie, battaglie e scene di vita quotidiana in Vietnam. Con il montaggio, De Antonio usa un'intervista per contraddirne un'altra e contrappone racconti ufficiali a testimonianze dirette che sostengono l'opposto.

Il cinema politico

I cineasti militanti si ispirarono al cinema della scuola del montaggio sovietico degli anni ‘20; Ejzenštejn e Vertov divennero modelli di coscienza politica e di innovazione estetica. Molti cercarono anche di superare il cinema d'arte del dopoguerra, le cui tecniche erano ormai diventate abbastanza diffuse e i cui contenuti apparivano più riformisti che rivoluzionari. Alla testa di questa linea di tendenza stavano registi come Jean-Luc Godard e Nagisa Oshima.
Durante gli avvenimenti di maggio Godard realizzò molti cine-tracts (cine-volantini), cortometraggi fatti di immagini a tesi e di fotografie, su cui generalmente era scarabocchiata qualche breve frase. I suoi film alternano questo materiale a dialoghi di riflessione politica tra i personaggi: un ragazzo e una donna su un fondale nero ne "La gaia scienza" (Le gai savoir, 1968), un gruppo di operai e studenti in "Un film come gli altri" (Un film comme les autres, 1968). Dopo "Uno più uno" (One plus one, 1968), che contrappone immagini dei Rolling Stones durante le prove a scene girate in studio che descrivono la repressione politica e la rivoluzione dei neri, Godard si convertì al maoismo e si unì al giovane comunista Jean-Pierre Gorin per formare il gruppo Dziga Vertov, che si sciolse in seguito a un grave incidente motociclistico di cui Godard fu vittima (anche se dopo la sua guarigione lui e Gorin realizzarono "Crepa padrone, tutto va bene" - Tout va bien, 1972).
Ogni film del gruppo Dziga Vertov è il risultato della combinazione di materiali eterogenei, in cui lo stile del cinema diretto (scene girate in strada e sui posti di lavoro, conversazioni) è giustapposto a titoli e inquadrature altamente stilizzati, e dove spesso i personaggi si rivolgono direttamente alla macchina di presa; la trama è praticamente assente, montaggi serrati di fotografie e di fotogrammi vuoti si alternano a lunghe riprese, che sono o completamente statiche o presentano un leggero movimento verso destra o sinistra. Nella colonna sonora delle voci leggono brani di Marx o di Mao Tse-tung, oppure esortano lo spettatore a criticare l'immagine.
Nel 1975, insieme alla fotografa e regista Anne-Marie Mieville, Godard creò a Grenoble la Sonimage, un centro di produzione dedicato alle nuove tecnologie. Molti dei loro film comprendono riprese video, che permettono una giustapposizione di immagini, suoni e linguaggio scritto ancora più articolata.
L'opera del regista giapponese Nagisa Oshima, sebbene meno diffusa, non era meno aggressiva e scomoda, anche se, a differenza di Godard, alternava film molto sperimentali a opere più accessibili.
I registi del nuovo cinema giapponese avevano cominciato a produrre film di critica politica verso la fine degli anni ‘50. Oshima fece molti film sulla politica studentesca, in particolare "Diario di un ladro di Shinjuku" (Shinjuku dorobo Nikki, 1968) e "Storia segreta del dopoguerra di Tokyo" (Tokyo Senso Sengo Hiwa, 1970). Rivolse anche l'attenzione ai problemi sociali dei coreani e degli abitanti di Okinawa, popolazioni che soffrivano la discriminazione dei giapponesi.
Nella sua esplorazione, Oshima fu attratto soprattutto dalla tecnica della ripetizione di azioni o episodi ripresi da prospettive diverse, nessuna delle quali proposta come più autentica delle altre.
Godard e Oshima sono i due registi più rappresentativi, ma non esauriscono tutte le tendenze del cinema politico moderno; c'erano, infatti, almeno altri quattro filoni: il collage, il film fantastico e la parabola, la rappresentazione stilizzata del mito e della storia, il minimalismo.
- Il collage -
Il film-collage mette insieme spezzoni non strettamente legati tra loro. Piuttosto che far sembrare naturale o addirittura "invisibile" il raccordo fra le inquadrature, come nella consuetudine hollywoodiana, le discordanze fra le immagini o fra i suoni vengono sottolineate, obbligando lo spettatore a compiere un salto immaginativo.
Kühle Wampe (Id., di Bertolt Brecht e Slatan Dudow, 1932) fu tra i primi film a utilizzare questa tecnica, che abbiamo già visto anche nelle opere di Makavejev. Molto simile a "W.R., i misteri dell'organismo" sono "Io sono curiosa – giallo" (Jag är nyfiken - gul, 1967) e "Io sono curiosa – blu" (Jag är nyfiken - bla, 1968) entrambi di Vilgot Sjöman, la storia di una giovane donna che si batte per la libertà sessuale spesso interrotta da inserti eterogenei.
- Il film fantastico e la parabola -
Dopo il 1967, il rinnovato successo internazionale di Buñuel riaccese l'interesse per la tradizione surrealista, che aveva alimentato le aspirazioni rivoluzionarie a partire dagli anni ‘20. Molti spettatori consideravano "Il fascino discreto della borghesia" (1972) e "Il fantasma della libertà" (Le fantôme de la liberté, 1974) acuti commenti sulle repressioni delle rivolte del 1968. Più vicino alla ferocia dei primi film di Buñuel è "Viva la muerte!" (ld., 1971), del commediografo spagnolo Fernando Arrabal: un ragazzo immagina che suo padre venga torturato per mano della Chiesa e dell'esercito; il giovane protagonista è anche ossessionato dalla madre e la immagina immergersi in una vasca piena del sangue di un toro macellato.
Meno debitore del surrealismo nell'uso del fantastico fu Pier Paolo Pasolini. "Uccellacci e uccellini" (1965) è il primo esempio del suo interesse per le parabole politiche. Nelle opere successive appartenenti a questo filone Pasolini divenne ancora più sarcastico e provocatorio. "Porcile" racconta, ricorrendo al montaggio parallelo, due storie i cui protagonisti sono armati da appetiti perversi: uno, divenuto cannibale, viene condannato e dato in pasto alle belve; l'altro, giovane rampollo di un magnate dell'industria, sfoga la sua crisi di identità accoppiandosi con i maiali, dai quali finirà sbranato. In questi film Pasolini mostra un rigore tecnico che ricorda Buñuel e fa da contrappunto allo spettacolo assurdo e grottesco di una società in via di disgregazione.
- La storia e il mito -
Riadattando miti classici e storia contemporanea, Pasolini riusciva a ottenere una critica di tipo politico. In "Medea" (1969), la protagonista incarna il conflitto fra colonizzatori e popolazione dominata. L'ultimo film di Pasolini, "Salò o le 120 giornate di Sodoma" (1975) mette in scena i giorni conclusivi del fascismo italiano come uno spettacolo ispirato al marchese de Sade.
Dopo il 1968 anche Miklós Jancsó diventò più provocatoriamente antirealistico: cominciò a creare allegorie politiche unendo fra loro eventi passati, presenti e futuri. "Agnus Dei" (Égy bárány, 1970) mostra la rivoluzione del 1919 nelle campagne ungheresi, concentrandosi su un prete epilettico e su un misterioso funzionario che potrebbe rappresentare il fascismo che in seguito avrebbe dominato l'Europa. Le sue opere si presentano come cerimonie rituali, rese con un'elaborata coreografia e interminabili piani sequenza.
"Salmo rosso" (Még kér a nép, 1971), considerato da molti critici il su capolavoro, bilancia riferimenti universali con elementi nazionali e un simbolismo più personale. Sebbene non si prenda in considerazione un evento o un periodo storico reale, il film descrive uno scontro fra i contadini ungheresi e i proprietari terrieri appoggiati dai soldati. Le vittime egli oppressori, per mezzo di zoom, panoramiche e carrellate, si muovono in uno spazio astratto che sembra espandersi e contrarsi. Frequente è il ricorso ai simboli rivoluzionari: il film comincia con una contadina che tiene sulla spalla una colomba e finisce con la stessa donna che imbraccia un fucile.
Un trattamento stilizzato della storia e del mito è anche quello del regista greco Thodoros Angelopulos. Influenzato da Mizoguchi, Antonioni e Dreyer, Angelopulos cominciò la sua carriera sotto la dittatura dei colonnelli. Il suo primo film, "Ricostruzione di un delitto" (Anaparastasi, 1970), mostra un intreccio di presente e passato tipico di quel periodo: la storia delle indagini su un omicidio è continuamente interrotta da flashback. Come il primo Jancsó, Angelopulos indaga sulla storia della sua Nazione per trarne una lezione politica da usare nel presente. Sempre sotto il regime dei colonnelli, il regista greco girò "La recita" (O thiasos, 1974-75), un excursus di quattro ore sulle lotte politiche avvenute in Grecia fra il 1939 e il 1952. Diversi periodi storici arrivano a convivere nella medesima scena; i soliloqui e le interpretazioni degli attori, perlopiù ripresi in lunghi piani sequenza, producono un aspro senso di straniamento, coerente con le interpretazioni della teoria brechtiana dei primi anni ‘70.
- Il minimalismo -
Esempi significativi si possono trovare nell'opera di Chantal Akerman, una delle registe più importanti del periodo. Il suo minimalismo, più che da fonti europee, deriva dall'opera di Warhol. Il suo film più importante è "Jeanne Dielman, 23, Quai du commerce, 1080
Bruxelles" (1975): in 225 minuti racconta tre giorni della vita di una casalinga che vive con il figlio e si prostituisce ricevendo gli uomini in casa. La macchina da presa collocata in basso e posizionata al centro del corridoio o in mezzo al tavolo della cucina registra ogni sua piccola mossa. Dopo l'ennesimo incontro con un uomo, tuttavia, la sua routine viene misteriosamente spezzata e lei comincia a commettere errori. Alla fine, con la stessa naturalezza di sempre, pugnala un cliente, per poi andarsi a sedere al tavolo da pranzo: la prima volta in cui la vediamo, di fatto, rilassarsi. Attraverso uno stile in cui l'azione è rallentata fino all'immobilità, Chantal Akerman obbliga lo spettatore a soffermarsi sui tempi morti e sull'ambiente domestico, elementi che il cinema tradizionale non prende nemmeno in considerazione.
Sebbene il suo stile minimalista ricordi anche Bresson, Ozu, e il cinema sperimentale, Chantal Akerman lo usa per fare critica politica. La macchina da presa molto statica, il punto di vista dal basso e la geometricità della composizione hanno un effetto straniante sullo spettatore e restituiscono al lavoro domestico dignità sociale ed estetica.
Nonostante le diversità all'interno del modernismo politico, verso la metà degli anni ‘70 questa tendenza venne meno. Mentre le posizioni di sinistra venivano assimilate dalla politica tradizionale, la produzione dei gruppi radicali risultava sempre più difficile da sostenere.

Il cinema d’arte

In Italia, negli anni ’60 e ’70, i registi si sentivano più disposti a indagare sul passato fascista; persino il western all'italiana diventò più impegnato (ad esempio: "Giù la testa", di Sergio Leone, 1972).
Dal punto di vista commerciale, la miglior integrazione fra politica di sinistra e cinema narrativo classico si realizzò nel genere del "thriller politico": il primo a esplorarlo fu Francesco Rosi in "Salvatore Giuliano" (1961) e ancora ne "Il caso Mattei" (1972). I suoi film inframmezzano l'inchiesta con flashback su eventi chiave del passato, usando tecniche documentaristiche come inserti di cinegiornale, riferimenti cronologici e didascalie esplicative.
L'esponente più famoso del thriller politico fu Costantin Costa-Gavras, che nel 1969 gira "Z -L'orgia del potere" (Z, 1969), uno dei film politici più visti dell'epoca.
"Qualsiasi riferimento a fatti realmente accaduti o a persone viventi non è casuale": la didascalia d'apertura annuncia un chiaro intento politico.
I suoi film si basavano in buona parte su un'accurata documentazione, ma ai critici li biasimavano per l'eccesso di azione e per la schematicità dei personaggi, sempre ricondotti al binomio buoni-cattivi, il regista rispose che solo lavorando all'interno delle convenzioni avrebbe potuto parlare a un pubblico vasto.
I temi politici divennero soggetto anche delle commedie italiane, soprattutto di quelle di Lina Wertmüller quali "Mimì metallurgico ferito nell'onore" (1972) e "Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto" (1974).
Le commedie grottesche di Marco Ferreri riflettono un atteggiamento più impassibile ed enigmatico: "Dillinger è morto (1969) riesce a costruire una grande suspense mentre osserva un uomo d'affari che torna a casa, prepara la cena, guarda dei filmini in Super8 e alla fine uccide la moglie. Ne "La grande abbuffata" (1973) quattro amici arrivano letteralmente e volontariamente a morire in un'orgia di cibo e sesso.
Bernardo Bertolucci, sempre a contatto con le tendenze contemporanee, fece un uso più innovativo del flashback ne "La strategia del ragno" (1970). Qui non solo passato e presente si alternano senza stacchi, ma arrivano a interagire direttamente fra loro attraverso personaggi che dall'uno all'altro sembrano rimanere immutati. Un uso più semplice del flashback è quello di "Novecento" (1975), ampio affresco della nascita del fascismo, presentato da Bertolucci attraverso le vite parallele di due amici, il figlio di una famiglia di ricchi proprietari terrieri e il figlio dei contadini che lavorano per loro.
I registi della generazione del dopoguerra rispecchiavano la nuova era in modi diversi: "Fellini Satyricon" (di Federico Fellini, 1969) venne interpretato come un aspro commento sul declino della società contemporanea, mentre in "Amarcord" (1973) il regista realizzò un ritratto dello "spettacolo" fascista a metà fra la nostalgia e la parodia.
"Zabriskie Point" (di Michelangelo Antonioni, 1970) sposò la causa della rivolta giovanile; indimenticabili la sequenza allucinata delle coppie di giovani che fanno l'amore nel deserto, e quella al ralenti che mostra ripetutamente l'esplosione della grande villa di un ricco americano. "Professione: reporter" (1975) si sposta invece nel Terzo Mondo: un intrigo politico collegato a un traffico d'armi costituisce il pretesto narrativo all'interno del quale emergono le tipiche domande di Antonioni sull'identità dell'individuo.
Complessivamente, il cinema tradizionale e il cinema d'arte si adattarono alla politica culturale dell'epoca successiva al 1968. Le convenzioni narrative classiche assimilarono temi e soggetti politici, specialmente nei generi del thriller politico e della commedia. A loro volta, i registi del cinema d'arte che si erano astenuti dalle sperimentazioni estreme del cinema politico moderno si interessarono alla micropolitica e alla cultura del dissenso. Verso la fine degli anni Settanta, mentre il cinema politico radicale abbandonava il campo della produzione commerciale in 35mm, le esigenze di una riflessione politica venivano accolte dalla fiction tradizionale e dal cinema d'arte.

1962-1978
Il Neue Deutscher Film, definizione coniata all'inizio degli anni ‘70, denota un gruppo di registi estremamente eterogenei.
Il manifesto di Oberhausen del 1962 stimolò un cinema di critica sociale destinato soprattutto alla televisione, ma gli studenti di sinistra dell'Istituto di Cinema e Televisione di Berlino solo dopo il 1968 lanciarono una serie di documentari impegnati e film diretti al pubblico operaio. Più ambiziosi erano i film della Scuola di Berlino, che, per la loro attenzione alla vita della classe operaia, ricordavano i film tedeschi sul proletariato della fine degli anni ‘20. Rifiutando il realismo idealizzato della scuola di Berlino, la femminista Helga Reidemeister si limitò a documentare la vita domestica della classe lavoratrice.
Anche il cinema politico rappresentò una grande forza del nuovo cinema tedesco: i registi "politici" ripresero la critica sociale implicitamente presente in molto giovane cinema tedesco dei primi anni ‘60, dandole un taglio più radicale, in risposta alla nascita della controcultura e della nuova sinistra.
L'opera di Alexander Kluge, una forza motrice del Neue Deutscher Film, è un esempio dell'uso della tecnica del collage nel cinema politico moderno. "Artisti sotto la tenda del circo: perplessi" (Die Artisten in der Zirkuskuppel: ratlos, 1968) nacque come reazione agli studenti radicali, che al festival di Berlino lanciarono uova contro Kluge e lo accusarono di snobismo. Nel film, la storia del tentativo di Leni Peickert di creare un nuovo tipo di circo è interrotta da materiali eterogenei, sia sonori che visivi, tra cui foto di cronaca, cinegiornali, scene da "Ottobre" (Oktjabr') di Ejzenštejn, immagini a colori e riferimenti all'opinione comune secondo cui solo attraverso una "fase di lutto" la Germania poteva riconciliarsi con il suo passato nazista. Nella scelta di un testo aperto, Artisti sotto la tenda del circo: perplessi questo film la difficoltà dì un utopistico cambiamento politico e suggerisce che solo una "lunga marcia attraverso le istituzioni" porterà al miglioramento sociale.
L'alternanza di documentario e finzione dei film di Kluge assume forme più teatrali nell'opera di Hans-Jürgen Syberberg: i suoi film più famosi sono quelli della "trilogia tedesca" - "Ludwig II: requiem per un re vergine" (Ludwig II: Requiem für einen jungfräulichen König, 1972), "Karl May" (1974) e "Hitler, un film sulla Germania" (Hitler: ein Film aus Deutschland, 1977). Lo spirito di Brecht si mischia a un gigantismo wagneriano nella prima e nell'ultima di queste opere. Vortici di fumo, grandi aloni di luci colorate e musica luttuosa abbracciano quadri monumentali che rappresentano il crepuscolo della cultura tedesca. L'autoriflessività di "Hitler, un film sulla Germania", con riferimenti che vanno da Edison e Riefenstahl a "Quarto potere", ne fanno una sorta di storia del cinema, in cui Hitler, trasformando la politica in un dramma mitico, diventa "il più grande regista di tutti i tempi".
I più controversi registi del modernismo politico nel nuovo cinema tedesco furono probabilmente Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Dopo "Non riconciliati, ossia solo la violenza aiuta dove violenza regna" (Nicht versöhnt oder Es hilft nur Gewalt, wo Gewalt herrscht, 1965), realizzarono il lungometraggio "Cronaca di Anna Magdalena Bach" (Chronik der Anna Magdalena Bach, 1968). In un certo senso questo film usa l'estetica del collage, mettendo insieme riprese di tipo documentaristico della vita quotidiana di Bach, brevi scene narrative girate in studio e lunghe performance musicali; ma per gran parte della sua durata rappresenta un grande esercizio di minimalismo. Straub e Huillet presentano episodi ellittici e frammentari della vita del compositore, e usano inquadrature statiche o lenti movimenti di macchina per registrare lunghi brani di esecuzioni, sempre senza mostrare il pubblico. I due registi contraddicono la prassi corrente dei film di finzione usando il suono in presa diretta e riuscendo così a catturare le peculiarità sonore di ogni spazio. Nel suo essere uno studio "materialista" del lavoro artistico, questo film suggerisce che, almeno in parte, la musica di Bach derivi da particolari congiunture sociali e politiche.
La combinazione di struttura a collage, suono in presa diretta e austerità del racconto e dello stile torna in "Lezioni di storia" (Geschichtsunterricht, 1972), adattamento di un romanzo di Brecht. Straub e Huillet esplorano anche modi minimalisti di adattare pièce teatrali: ne "Gli occhi non vogliono sempre chiudersi o forse un giorno Roma si permetterà di scegliere a sua volta" (Les yeux ne veutent pas en tout temps se fermer ou peut-être qu' un jour Rome se permettra de choisir à son tour, 1969) fanno uso della macchina a mano per mettere in scena l'Ottone di Corneille nella Roma contemporanea, mentre "Mosè e Aronne" (Moses und Aron, 1974) si svolge in un'arena deserta con arrangiamenti musicali stilizzati di cantanti solisti e coro. Contrariamente a qualsiasi forma di cinema d'intrattenimento, i film di Straub e Huillet interrogano la tradizione artistica, esplorando romanzi e testi teatrali classici per rintracciare in essi implicazioni politiche contemporanee.
I film del nuovo cinema tedesco che ottennero maggiore successo commerciale adattavano il contenuto politico alle convenzioni del cinema tradizionale. Tra i nuovi generi i più importanti erano l'Arbeiterfitm, che usava la tecnica del racconto realistico per descrivete la vita della classe operaia contemporanea, e l'Heimatfilm, incentrato sulla vita rurale.
Fra i molti registi che operavano all'interno del cinema d'arte, spicca Volker Schlöndorff. Il suo "L'improvvisa ricchezza della povera gente di Kombach" (Der plötzliche Reichtum der armen Leute von Kombach, 1970), appartenente al genere Heimatfilm, attinge con equilibrio alle tecniche brechtiane per descrivere la cattura e l'esecuzione di un gruppo di banditi contadini. Schlondorff attirò l'attenzione internazionale dirigendo insieme a sua moglie, Margarethe von Trotta, "Il caso Katharina Blum" (Die verlorene Ehre der Katharina Blum, 1975). È la storia di una donna braccata dalla polizia e perseguitata dalla stampa scandalistica perché accusata di aver aiutato un terrorista. Per quasi tutta la durata del film, lo spettatore è indotto a pensare che Katharina sia una vittima innocente. Una volta che lei ha conquistato la simpatia del pubblico, la trama svela che per amore la donna ha davvero aiutato il giovane uomo. Il film utilizza i procedimenti narrativi del cinema classico per convincere gli spettatori ad approvare l'atto sovversivo della protagonista.
Dopo aver realizzato un altro film con Schlondorff, Margarethe von Trotta cominciò a dirigere da sola. "Il secondo risveglio di Christa Klages" (Das zweite Erwachen der Christa Klages, 1977) segue la strategia narrativa di "Katharina Blum", inducendo il pubblico a schierarsi dalla parte di una ladra femminista in fuga. In un periodo in cui il terrorismo, i dirottamenti aerei e gli assassini occupavano le prime pagine dei giornali, attribuire una tale attenzione a una criminale donna era un gesto di forte valenza politica. La carriera di Margarethe von Trotta è un esempio di come il sistema di sovvenzione per la produzione cinematografica della Germania occidentale garantisse alle donne possibilità di lavoro senza eguali in altre nazioni. Molte di loro realizzarono film d'arte con implicazioni politiche. "Violenza; l'esercito industriale di riserva" (Gewalt; die industrielle Reservearmee, di Helma Sanders-Brahms, 1971) per esempio, è un "anti road-movie" che alterna statiche mappe stradali al racconto di come due operai di una catena di montaggio uccidono un immigrato. Ne "L'impiegata" (Der Angestellte, 1972), un " Arbeiterfilm", Helma Sanders-Brahms descrive il progressivo precipitare nella follia di un programmatore di computer, mentre "Gli ultimi giorni di Gomorra" (Die letzen Tage von Gomorrha, 1974) mostra una società futuristica in cui la televisione appaga ormai ogni desiderio.
Rainer Werner Fassbinder fu il regista più famoso del nuovo cinema tedesco, anche per la sua veemente personalità e il suo stile di vita autodistruttivo. Fassbinder subì l'influenza della Nouvelle Vague e del modernismo politico della fine degli anni ’60, rivelando un gusto particolare per la commedia grottesca, la violenza esasperata e il forte realismo, anche linguistico, dei personaggi.
Dopo il cortometraggio "Il piccolo caos" (Das Kleine Chaos, 1966), in cui si sente l'influenza di Godard, Fassbinder prima entrò a far parte dell'Action-Theater, un gruppo di avanguardia di Monaco, poi, nel 1968, insieme ad amici attori e tecnici, fondò l'Antiteater, con il quale girò undici film. Alcuni di questi ripropongono i generi hollywoodiani, mentre altri mostrano l'influenza della Nouvelle Vague e di Straub e Huillet. Successivamente, Fassbinder conobbe i melodrammi hollywoodiani di Douglas Sirk, e li prese come modello per un cinema di critica sociale che fosse anche emotivamente coinvolgente. Era molto colpito dalla scelta arbitraria del lieto fine (lo chiamava "infelice lieto fine") e dal modo in cui Sirk impediva la totale identificazione con i personaggi. Con "Il mercante delle quattro stagioni" (Der Händler der vier Jahreszeiten , 1971) Fassbinder inaugurò una seconda fase della sua carriera, quella dei melodrammi domestici. Ancora una volta si dimostrò molto prolifico, con piani di lavoro che prevedevano tempi rapidi di riprese e costi limitati. Fra le opere di questo periodo: "Le lacrime amare di Petra von Kant" (Die bitteren Tränen der Petra von Kant, 1972), "La paura mangia l'anima" (Angst essen Seele auf, 1973), "Effi Briest" (Fontane Effi Briest, 1974) e "Il diritto del più forte" (Faustrecht der Freiheit, 1974).
All'inizio della sua carriera Fassbinder spesso inquadrava i personaggi in maniera neutra, con uno stile quasi da foto segnaletica. Nella sua fase di "revisione hollywoodiana" accettò le convenzioni del montaggio in continuità per dare massima importanza al dramma; il fascino di questi film, tuttavia, deriva soprattutto dal suo indugiare su sguardi fissi e vedute da lontano, o dall'uso di elementi decorativi per mascherare lo stato emotivo dei personaggi.
La maggior parte dei film di Fassbinder hanno come soggetto il potere. Egli concentra spesso la sua attenzione sulla vittimizzazione e il conformismo, mostrando come i membri di un gruppo sfruttino e puniscano i non integrati. Fassbinder insiste sul fatto che la vittima finisce spesso per accettare le regole del gruppo, arrivando a credere che la punizione sia meritata. Ne "La paura mangia l'anima" Alì interiorizza a tal punto il pregiudizio razziale che subisce, da collassare per un'ulcera, una malattia comune fra gli operai immigrati.
L'opera di Fassbinder, apparsa dopo i fallimenti del 1968, viene spesso interpretata come la dimostrazione dell'impossibilità di un cambiamento radicale. Nessuna estetica brechtiana avrebbe potuto garantire una rivoluzione sociale. Il passaggio di Fassbinder da un modernismo politico severo e anarchico a opere che usano convenzioni meno provocatorie, come quelle hollywoodiane e del cinema d'arte, riflette una tendenza generale all'interno del cinema europeo di critica politica durante gli anni ‘70.
Questo stesso cambiamento è ben sintetizzato da due film europei rispettivamente dell'inizio e della fine del periodo. Nel 1967, tredici registi di sinistra, la maggior parte dei quali francesi, collaborarono alla realizzazione di "Lontano dal Vietnam". Il film, che cercava di mobilitare gli intellettuali contro la guerra, era composto da diversi episodi, alcuni di finzione (ad esempio quello di Resnais), altri realizzati con materiale di repertorio (quello di Marker) e uno saggistico (quello di Godard). Nel 1978 quattordici registi tedeschi, coordinati da Kluge, realizzarono "Germania in autunno" (Deutschland im Herbst) che, come "Lontano dal Vietnam", unisce tendenze diverse all'interno del cinema contemporaneo. In questo caso, però, lo scopo non è cambiare la politica internazionale, ma tentare di capire la vita di una nazione in preda a terrorismo e repressione di destra. Alcuni episodi, in particolare l'incontro allucinato di Fassbinder con il suo amante, entrambi sotto l'effetto della droga, mostra fino a che punto il politico è diventato personale. "Germania in autunno" è un esempio di come la micropolitica abbia preso il posto del precedente attivismo collettivo, ma indica anche che il cinema rimaneva un veicolo critico centrale nella cultura politica del dissenso degli anni ‘70.

1960-1988
Negli Stati Uniti fra la fine degli anni ‘60 e l'inizio degli anni ‘70 la protesta nei confronti dell'autorità raggiunse il culmine dopo gli anni della grande depressione. L'atteggiamento liberale del movimento per i diritti civili aveva provocato la radicalizzazione del Black Power; l'opposizione al coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam si era intensificata; Martin Luther King e Robert P. Kennedy furono assassinati; la polizia attaccò i dimostranti durante il congresso del Partito Democratico a Chicago nel 1968; il presidente Nixon estese la partecipazione americana alla guerra. Le università esplosero: nel 1970 ben 400 chiusero o entrarono in sciopero.
Il ritiro delle forze statunitensi dal Vietnam nel 1973 non riuscì a sanare le divisioni che la guerra aveva creato nella società americana. La nuova sinistra crollò, in parte a causa di dispute interne, in parte perché l'assassinio degli studenti della Kent State University nel 1970 sembrò dimostrare la fragilità dell'azione organizzata: il risentimento degli elettori della classe media nei confronti dei radicali della costa orientale, della sinistra e della controcultura favorì l'ascesa di Nixon al potere.
I sollevamenti internazionali di questo periodo diedero origine a un cinema politicamente critico e anche negli Stati Uniti Emile De Antonio, il gruppo Newsreel e altri registi si dedicarono a un cinema "impegnato" di protesta sociale. Allo stesso tempo l'industria hollywoodiana cercò di attirare i giovani con film di controtendenza, sforzo che generò alcuni esperimenti nella direzione della crescita di un cinema d'arte americano.
In risposta allo spostamento verso destra del governo, all'inizio degli anni ‘70 gli attivisti radicali e di sinistra abbracciarono una "micropolitica", concentrandosi su problemi concreti (aborto, discriminazioni razziali o sessuali, welfare, politica ambientale), alla ricerca di un profondo cambiamento sociale. Molti documentaristi americani parteciparono a questi movimenti che, tuttavia, erano ferocemente contrastati dalla nascita di una "nuova destra" formata da organizzazioni conservatrici che erano in grado di ottenere consenso a livello locale reintegrando la preghiera nelle scuole; chiedendo l'abolizione del diritto all'aborto recentemente conquistato e altro ancora. La lotta fra i movimenti riformisti e le forze della nuova destra sarebbe diventato il nodo politico centrale dopo la metà degli anni ‘70, e molti film ("Lo squalo", Jaws, di Steven Spielberg, 1975; "Nashville", Id., di Robert Altman, 1975; "Dalle nove alle cinque... orario continuato", Nine to Five, di Colin Higgins, 1980; "Tootsie", Id., di Sydney Pollack, 1982) ne portano le tracce.
Queste tensioni avevano come sfondo la recessione dell'economia statunitense - causata dall'embargo sul petrolio e dalla forte concorrenza da parte di Giappone e Germania - che chiuse l'era della prosperità del dopoguerra. Il periodo coincide con la riscoperta da parte di Hollywood del blockbuster e con la salita al potere dei "movie brats", i "ragazzacci del cinema", tra i quali George Lucas, Steven Spielberg, Francis Ford Coppola, che diventarono i nuovi leader creativi dell'industria.
L'amministrazione Reagan (1980-1988), che si identificava ampiamente nei programmi della nuova destra, diminuì il controllo sull'economia tagliò le spese per l'assistenza pubblica, inaugurando un periodo di crescente speculazione finanziaria in cui diversi gruppi di controllo acquistarono le compagnie hollywoodiane e le legarono a case discografiche ed editrici.
Dal punto di vista dell'immagine, Reagan rappresentò un'America ancora una volta detentrice di valori forti e padrona di ogni situazione.
Sebbene quest'immagine si frantumasse di fronte alla crescita del deficit federale e allo scandalo Iran-Contras, Reagan aveva dalla sua parte l'essere il presidente degli Stati Uniti nel momento in cui i Paesi dell'Europa occidentale e dell'Unione Sovietica cominciavano a liberarsi della politica della guerra fredda. Ex attore cinematografico che nei suoi discorsi di presidente citava battute dei film della Warner Bros. e che soprannominava la sua iniziativa strategica di difesa ad alta tecnologia "guerre stellari", Reagan venne ferito in un attentato per mano di un uomo ossessionato da "Taxi Driver", Id., di Martin Scorsese, 1976: in tutti questi sensi, si ebbe la misura della pervasività del cinema hollywoodiano nel profondo della coscienza del Paese.
Negli anni ‘80 il cinema americano cessò di essere di controcultura; rivolgendosi a spettatori diversi diventò un elemento centrale nella cultura di massa e uno dei protagonisti dell'informazione mediatica.

1969-1993
Le megaproduzioni degli anni ‘60 batterono ogni precedente record d'incassi. I produttori investirono voracemente grandi somme in vari blockbuster, nella speranza di aver trovato una soluzione alla minaccia della televisione, ma in alcuni casi andarono incontro a gravissimi disastri finanziari. Allo stesso tempo, le principali compagnie dovettero far fronte alla concorrenza di "instant majors", canali televisivi che cominciarono a produrre film per le sale.
La prosperità degli anni ‘60 finì; fra il 1969 e il 1972 le principali compagnie persero 500 milioni di dollari. Gli esercenti cominciarono a costruire sale all'interno dei centri commerciali e a dividere vecchi cinema in due o più sale: il risultato fu una serie di sale piccolissime con una pessima qualità della visione e del sonoro.
I produttori andarono alla ricerca di nuovi modi per attrarre il pubblico. Una possibilità provenne dai mutamenti nei criteri nazionali di censura: nel 1968 le società aderenti alla MPAA crearono un sistema di valutazione codificato dalle lettere dell'alfabeto: G (general: ammesse tutte le età), M (mature: adulti e giovani maggiorenni), R (restricted: gli spettatori di età inferiore ai sedici anni devono essere accompagnati da un genitore oda un tutore) e X (i minori di sedici anni non sono ammessi). Il nuovo liberalismo diede la possibilità a film come "Il mucchio selvaggio" (The Wild Bunch, di Sam Peckinpah, 1969) e "Un uomo da marciapiede" (Midnight Cowboy, di John Schlesinger, 1969) di arrivare in vetta alle classifiche.
I produttori costretti a darsi da fare per porre rimedio alla recessione notarono anche che "Il laureato" (The Graduate, di Mike Nichols, 1967) e "Bonnie and Clyde" (Gangster Story, di Arthur Penn, 1967) avevano venduto un'enorme quantità di biglietti rivolgendosi al pubblico giovane. Gli studios lanciarono così una serie di film giovanili (youthpix) che affrontavano temi non trattati dalla televisione: il prototipo fu "Easy Rider" (Id., di Dennis Hopper, 1969), cronaca del viaggio in motocicletta di due spacciatori di droga attraverso l'America. Realizzato con meno di mezzo milione di dollari, divenne uno dei film di maggior successo dell'anno e scatenò un'orda di imitazioni.
I film giovanili trattavano temi come la ribellione universitaria ("Fragole e sangue", The Strawberry Statement, di Stuart Hagmann, 1970), la controcultura ("Alice's Restaurant", Id., di Arthur Penn, 1969), ma comprendevano anche film nostalgici ("L'ultimo spettacolo", The Last Picture Show, di Peter Bogdanovich, 1971) e commedie anarchiche ("M*A*S*H*", di Robert Altman, 1970; "Harold e Maude", di Hal Ashby, 1971). Anche il film italiano di Bruno Bozzetto "Allegro non troppo", una parodia di "Fantasia" (Id., 1940), ottenne un certo successo dovuto anche alla reputazione di capolavoro del film Disney.
All'inizio e alla metà degli anni ‘70 l'industria beneficiò anche di un certo numero di successi basati sui generi tradizionali - "Patton, generale d'acciaio" (Patton, di Franklin Schaffner, 1973), il film di guerra; "Il violinista sul tetto" (Fiddler on the Roof, di Norman Jewison, 1971), il film musicale; "La stangata", (The Sting, di George Roy Hill, 1973), la commedia di gangster - e in alcuni casi tornò alla strategia del blockbuster degli anni ‘60, ma colpiscono maggiormente quei film, a volte a basso e medio costo, di registi giovani o sconosciuti che ottennero un enorme successo commerciale: "Il padrino" (The Godfather, di Francis Ford Coppola, 1972), "L'esorcista" (The Exorcist, di William Friedkin, 1973), "American Graffiti" (Id., 1973) e "Guerre Stellari" (Star Wars, 1977) di George Lucas, "Rocky" (Id., di John Avildsen, 1976), "Lo squalo" e "Incontri ravvicinati del terzo tipo" (Close Encounters of the Third Kind, 1977) di Steven Spielberg.
Dall'inizio alla metà degli anni ‘70, gli studios che avevano da poco scampato la minaccia della bancarotta ottennero profitti mai raggiunti prima: "Lo squalo" superò i 100 milioni di dollari d'incasso solo negli Stati Uniti; "Guerre stellari" arrivò a quasi 200 milioni di dollari che, nel 1980, erano diventati 500 grazie alla circolazione del film in tutto il mondo.
Ogni anno, solo una decina di titoli "da non perdere" facevano il tutto esaurito, mentre la maggior parte dei film prodotti dalle major non riusciva neanche a recuperare i costi. Le major distribuirono non più di 150 film all'anno, facendo uscire le loro megaproduzioni nei periodi di vacanza, in estate e a Natale.
Dato che gli spettatori continuavano ad andare a rivedere "Lo squalo", i distributori si resero conto che era conveniente estendere i periodi di programmazione dei film importanti. Nel pianificare le produzioni, gli studios optarono per i sequel e le serie basate su successi come "Rocky", "Guerre stellari" e la trilogia di Indiana Jones lanciata con "I predatori dell'arca perduta" (Raiders of the Lost Ark, di Steven Spielberg, 1981).
Il boom degli anni ‘70 spinse nuove compagnie a entrare nell'industria cinematografica come le "mini-major" Orion e Cannon, oltre a società indipendenti dal budget limitato, ma il mercato restava governato dai soliti noti. Le sette compagnie che dominavano la produzione controllavano anche la distribuzione: la Warner Communications, la Gulf + Western (Paramount), la Disney, la MCA (Universal), la MGM/UA Corporation, la 20th Century-Fox e la Columbia, pur producendo solo un terzo dei film distribuiti negli Stati Uniti, raccoglievano più o meno il 90% di tutte le entrate.
I registi di successo ottennero un controllo maggiore sui loro progetti ed i budget si gonfiarono a dismisura: le riprese di "Apocalypse Now" (Id., di Francis Ford Coppola, 1979), durarono tre anni e il film costò più di 30 milioni di dollari per una durata iniziale di sette ore e mezzo. I costi medi di produzione e di distribuzione di un film salirono da circa 16 milioni di dollari nel 1983 a oltre 40 milioni di dollari nel 1992, ma l'industria continuò a prosperare. Nel 1990 gli incassi dei film hollywoodiani nel mondo raggiunsero un record di 3 milioni e mezzo di dollari, la vendita dei biglietti si mantenne costante e in mercati chiave come il Giappone e l'Australia aumentò. "E.T." (Id., di Steven Spielberg, 1982) fu il primo film a superare i 200 milioni di dollari, seguito da "L'impero colpisce ancora" (The Empire Strikes Back, di Irvin Kershner, 1980), "Il ritorno dello Jedi" (Return of the Jedi, di Richard Marquand, 1983), "Ghostbusters" (Id., di Ivan Reitman, 1984), "Batman" (Id., di Tim Burton, 1989), la serie di Indiana Jones diretta da Steven Spielberg, "Balla coi lupi" (Dances with Wolves, di Kevin Costner, 1991), "Jurassic Park" (Id., di Steven Spielberg, 1993).
I produttori si resero conto che questi successi potevano essere sfruttati in una misura che non aveva precedenti. I sequel, che avevano avuto un andamento irregolare prima degli anni ‘70, ebbero un grande successo con "Il padrino - Parte II" (The Godfathet; Part II, di Francis Ford Coppola, 1974) e con i capitoli successivi di "Rocky", "Rambo" e "Star Trek" (Id., di Robert Wise, 1979). Le serie, a lungo associate con film di serie B, vennero considerate un buon investimento dopo il successo dei film di James Bond. Iniziò l'epoca delle "sinergie": il film diventava una pedina in una più ampia strategia di marketing che coinvolgeva l'etichetta discografica della compagnia, i suoi canali televisivi e il merchandising. La Warner Communications Incorporated rinnovò l'immagine di Batman nei fumetti prima di realizzare il film "Batman" (Id., di Tim Hurton, 1989) che, in cambio, produsse una marea di gadget e due album.
Le principali compagnie continuarono a essere acquistate da grandi società non americane: la giapponese Matsushita comprò la MCA (Music Corporation of America) e la Universal, mentre la Sony acquistò la Columbia; la Pathé Communications acquisì la MGM, ma dopo che questa ebbe accumulato un'enorme quantità di debiti, fu la banca francese Credit Lyonnais a rilevarla nel 1992. Anche gli incassi negli Stati Uniti aumentarono in maniera costante, sebbene le percentuali sempre crescenti chieste dai distributori spesso limitassero i profitti dei gestori delle sale. I film venivano sempre più spesso finanziati dietro garanzie fornite dagli esercenti che si accollavano i rischi maggiori pur di avere l'ultimo film di Lucas o di Spielberg. I gestori delle sale cominciarono anche a sostituire i locali scalcinati con sale tenute meglio e più lussuose. La Cineplex Odeon, una società canadese che puntava sulla tecnologia e sul comfort, inaugurò la tendenza a costruire cinema multiplex. Verso la fine degli anni ‘80 il numero di sale negli Stati Uniti era salito a circa 24.000 - un vero e proprio record nel dopoguerra - la maggior parte delle quali si trovava in aree suburbane, mentre scompariva il cinema di paese.
Presto i gruppi che possedevano le compagnie di produzione e di distribuzione cinematografica cominciarono ad acquistare catene di sale: nel 1991 la MCA possedeva sia la Cineplex Odeon che la Universal Studios. Questa tendenza scavalcò i decreti anti-monopolio del 1948 e segnò il ritorno della compagnia a concentrazione verticale tipica dell'epoca degli studios hollywoodiani

1976-1990
La prosperità dell'industria cinematografica negli anni ‘80 era in parte dovuta allo sviluppo delle nuove tecnologie. Quando, alla fine degli anni ‘70, nacque la pay-tv, gli studios cominciarono a vendere i diritti ai canali via cavo: la trasmissione via cavo rappresentava un'altra fase nella vita di un film, che seguiva quella delle proiezioni sulle linee aeree e precedeva quella della trasmissione televisiva. Presto le televisioni via cavo cominciarono a finanziare i film e a comprare i diritti televisivi prima della produzione.
All'inizio degli anni ‘90, il modello si sarebbe ribaltato: le grandi compagnie che operavano via cavo avrebbero comprato azioni di catene di sale cinematografiche e avrebbero pianificato il finanziamento di film destinati alla programmazione pay-per-view che avrebbe fatto concorrenza alla distribuzione in prima visione degli stessi titoli.
Anche il videoregistratore aiutò l'industria cinematografica ad aumentare i profitti. Il gruppo giapponese della Sony cominciò a commercializzare il sistema Betamax nel 1975; subito dopo la Matsushita introdusse il VHS (Video Home System) e in tutto il mondo ci fu una rapida espansione dell'home video.
Nel 1976 la MCA e la Disney si rivolsero al tribunale affinché venissero impedite le vendite di videoregistratori poiché infrangevano il diritto d'autore; presto, tuttavia, fu chiaro che il video non danneggiava l'affluenza degli spettatori al cinema, ma videocassette potevano fruttare maggiori guadagni alle compagnie. L'uscita in videocassetta sostituiva la seconda e terza visione del film in voga nel periodo dell'apogeo hollywoodiano.
La Paramount si azzardò a immettere sul mercato la videocassetta di "Flashdance" (Id., di Adrian Lyne, 1983) mentre il film era ancora sugli schermi cinematografici: le vendite della versione in cassetta non solo andarono molto bene, ma aumentarono il successo del film nelle sale.
Nel 1986 almeno la metà delle entrate delle principali compagnie cinematografiche proveniva dalla vendita delle videocassette: un film di successo poteva incassare fino a 10 milioni di dollari dalla vendita delle videocassette, e persino un titolo medio poteva ricavare 3 o 4 milioni.
La rinascita dell'industria negli anni ‘70 stabilì il modello da seguire per i due decenni successivi. Negli anni ‘70 e ‘80 solo un film su dieci otteneva profitti alti e questo incoraggiò i produttori a continuare a far affidamento sui blockbuster. Come sempre, alcune megaproduzioni furono dei fallimenti, ma gli incassi ottenuti da alcuni titoli riuscirono a giustificare budget elevati: l'unica cosa sicura era che cercare di pronosticare il successo di un film fosse più che mai difficile.
Malgrado i flop occasionali, il sistema, in generale, godeva di buona salute. Alla fine degli anni ‘80 il numero dei film provenienti da Hollywood aumentò in tutti i Paesi europei e i cambiamenti avvenuti nell'Europa orientale aprirono un nuovo mercato all'invasione americana. Le compagnie estere si affrettarono a investire nei film hollywoodiani, con capitali privati o con accordi per coproduzioni sostenuti dai governi. Nel mercato cinematografico globale che stava emergendo, Hollywood continuò a svolgere il ruolo principale.

1968-1992
Verso la fine degli anni ‘60 le compagnie indipendenti che producevano film a basso costo si rafforzarono, in parte grazie a un Production Code meno rigido e in parte per il declino delle major. Russ Mayer indicò negli anni ‘70 una nuova via per l'erotismo con film come "Vixen" (Id., 1968). Il film indipendente a basso costo "La notte dei morti viventi" (Night of the Living Dead, 1968), rifiutato dall'AIP perché troppo cruento, ottenne un grandissimo successo che lo fece diventare un cult e lanciò la carriera del regista George Romero.
Durante quasi tutti gli anni ‘70 la produzione indipendente si dimostrò una forte alternativa alle major: mentre gli studios riducevano i costi di produzione, i film a basso costo servivano per riempire il mercato. Le società cominciarono a specializzarsi in determinati generi - i film sulle arti marziali, di azione, erotici ("sexploitation", cioè sfruttamento del sesso). I film che si rivolgevano agli afroamericani ("blaxploitation", o sfruttamento dei neri) offrivano l'occasione per far conoscere giovani attori neri registi di talento. Lo sfruttamento del mercato giovanile avvenne con film dell'orrore come la commedia grottesca "Non aprite quella porta" (Texas Chainsaw Massacre, di Tobe Hooper, 1974), o "L'ultima casa a sinistra" (Last House on the Left, di Wes Craven, 1973), oppure il più sobrio e costoso "Halloween" (Id., di John Carpenter, 1978).
In alcune sale, i film a basso costo potevano attrarre un pubblico che i più patinati prodotti realizzati negli studios non raggiungevano. I gestori delle sale si resero conto dell'opportunità di sfruttare gli "spettacoli di mezzanotte" che attraevano un vasto pubblico: "The Rocky Horror Picture Show" (Id., di Jim Sharman, 1975) e "Eraserhead" (Id., di David Lynch, 1978) incassarono molto soprattutto grazie a questi spettacoli.
Le megaproduzioni si fecero più esplicite dal punto di vista sessuale e, per la prima volta, Russ Mayer si trovò a lavorare per uno studio. "L'esorcista" raggiunse nuovi livelli di repulsione e di blasfemia. "Guerre stellari" e "Incontri ravvicinati del terzo tipo" incorporarono elementi della fantascienza a basso costo, mentre "Alien" (Id., di Ridley Scott, 1979) e altri film rifletterono i nuovi parametri di violenza stabiliti da registi indipendenti come Carpenter e David Cronenberg.
Quando anche autori solitamente orientati verso il pubblico delle famiglie sperimentarono temi più orrorifici in "Gremlins" (Id., di Joe Dante, 1984) e "Indiana Jones e il tempio maledetto" (Indiana Jones and the Temple of Doom, di Steven Spielberg, 1984), il sistema di valutazione MPAA fu revisionato e venne inserita la categoria "PG-13".
Molti registi emergenti di quel periodo impararono a usare i generi cinematografici a basso costo; i registi indipendenti riguadagnarono un po' di potere con la nascita della televisione via cavo e dell'home video quando dopo il 1984, una produzione minore poteva essere finanziata quasi completamente dalle prevendite della videocassetta. Molti film indipendenti non venivano proiettati nelle sale, ma erano trasmessi direttamente sulla televisione via cavo o distribuiti in videocassetta e la maggior parte delle produzioni indipendenti si adattò all'uso di formule ormai consolidate che fecero aumentare l'interesse verso il cinema di genere. Il pubblico giovanile divenne appassionato di film musicali, thriller, film dell'orrore e di fantascienza, tutti chiaramente catalogati nel più vicino videonoleggio.
Mentre il numero dei film distribuiti annualmente dalle major e dalle mini-major superò di poco i 150, alla fine degli anni ‘80 le compagnie indipendenti ne distribuirono altrettanti, soprattutto grazie ai nuovi finanziamenti e ai nuovi canali di distribuzione. L'incredibile aumento nella produzione diede grandi opportunità a registi di tutte le generazioni: James Ivory e il suo produttore Ismail Merchant avevano realizzato a partire dagli anni ‘60 solamente piccoli film letterari, ma il nuovo mercato indipendente diede loro la possibilità di adattare prestigiosi romanzi di Henry James e di E. M. Forster ("Gli europei", The Europeans, 1979; "Casa Howard", Howards End, 1992).
I registi di film a basso costo poterono usare il nuovo formato Super16 e fare accettabili stampe in 35mm. Anche un certo numero di festival continuò a offrire lo spazio e i premi per opere indipendenti e a basso costo. Il Sundance Institute di Robert Redford nello Utah incoraggiò i film realizzati fuori da Hollywood attraverso seminari e un festival annuale. Anche se colpito dalla recessione degli anni ‘80, il cinema indipendente a basso costo ha dimostrato di avere una grande capacità di ripresa.

1968-1986
Quando la Paramount Pictures gli chiese di fare un film dal romanzo "Il padrino", Francis Ford Coppola tornò a casa disperato. "Vogliono che io diriga questa spazzatura: io non voglio farlo, io voglio fare film d’arte".
Il fatto che Coppola nutrisse queste speranze rifletteva una nuova tendenza del cinema americano. "Lilith, la dea dell'amore" (Lilith, di Robert Rossen, 1964), "Mickey One" (Id., di Arthur Penn, 1965) e "L'uomo del banco dei pegni" (The Pawnbroker, di Sidney Lumet, 1965) avevano preso dalla Nouvelle Vague il montaggio disgiuntivo, l'inserimento di immagini fantastiche e di flashback e un generale allentamento dei rapporti di causa-effetto; questi film, tuttavia, erano considerati ambiziose stranezze. Con la recessione della fine degli anni ‘60 e il tentativo di conquistare un pubblico universitario, il cinema hollywoodiano accolse più favorevolmente le tecniche narrative che il cinema d'arte europeo aveva già sperimentato, soffermandosi sugli stati d'animo, la caratterizzazione e l'ambiguità psicologica dei personaggi.
Un esempio calzante di questo atteggiamento è "Petulia" (Id., 1968), nel quale Richard Lester gioca con la soggettività dei personaggi e l'ordine temporale in una maniera che ricorda Resnais.
Anche "2001: Odissea nello spazio" di Stanley Kubrick (2001: A space Odyssey, 1968), revival del genere fantascientifico, sfrutta il simbolismo enigmatico del cinema d'arte europeo. Le lunghe scene di vita quotidiana asettica sulla nave spaziale, l'uso ironico della musica e il finale ingannevole e allegorico invitano a un'interpretazione tematica generalmente riservata ai film di Fellini o di Antonioni.
Anche la tendenza giovanilistica incoraggiò la sperimentazione stilistica. Gli elementi che hanno attratto il pubblico giovane in "Easy Rider" possono essere la colonna sonora rock e il viaggio di due spacciatori di droga attraverso l'America, ma era il suo stile a sconvolgere gli spettatori come mai prima di allora. I passaggi da un'inquadratura all'altra, infatti, sono discontinui: qualche fotogramma dell'inquadratura precedente, per esempio, si alterna con qualche fotogramma della successiva; Un'inquadratura enigmatica di una motocicletta in fiamme, inoltre, punteggia la narrazione prefigurando la fine dell'odissea dei due spacciatori.
Altri "road movie" adottarono un approccio libero e aperto alla narrazione, con dialoghi rarefatti e caratterizzazioni minimaliste. Brian De Palma mescola musica rock, un umorismo mordace ed espedienti stilistici autoriflessivi presi da Truffaut e Godard. "America, America dove vai? " (Medium Cool, di Haskell Wexler, 1969), "Il rivoluzionario" (The Revolutionary, di Paul Williams, 1970) e "Zabriskie Point" (di Michelangelo Antonioni, 1970) sono esempi della nascita di un cinema di critica politica parallelo a quello europeo, che spesso si basava sull'ambiguità narrativa e i finali aperti
Altri registi fecero sporadiche incursioni nel cinema d'arte. In "Images" (Id., 1972) e "Tre donne" (Three Women, 1977), Robert Altman rappresenta passaggi ambigui dalla realtà oggettiva alla soggettività dei personaggi, arricchiti con composizioni astratte ed enigmatiche, mentre "Interiors" (Id., di Woody Allen, 1978) è un cupo dramma da camera ispirato all'opera di Bergman.
Anche il realismo così com'era concepito dal cinema d'arte ebbe nuova fortuna. John Cassavetes, l'unico membro della New Wave americana che era entrato nel cinema mainstream, si ispirò al suo stesso "Ombre" (Shadows, 1960) in un gruppo di film che mettono in scena una recitazione quasi improvvisata e un uso della macchina da presa casuale. "Volti" (Faces, 1968) e "Mariti" (Husbands, 1970), con gli improvvisi zoom sui primi piani e la ricerca di dettagli rivelatori, usano le tecniche del cinema diretto per analizzare lo squallore quotidiano e le delusioni delle coppie della classe media americana. In "Una moglie" (Woman under the Influence, 1974), "La sera della prima" (Opening Night, 1979) e "Love Streams" (Id., 1984), crea un ritmo spasmodico continuo che evidenzia i momenti individuali delle performance di ogni attore. Questo aspetto, insieme all'attenzione per temi come l'amore tra persone mature e il lavoro quasi sempre dominati dall'isteria, fecero sembrare sperimentali i suoi melodrammi sulla mezza età se confrontati ai parametri hollywoodiani degli anni ‘70 e ‘80.
Nel frattempo, la politica dell'autore si era diffusa negli Stati Uniti e i "movie brats", che avevano cominciato a lavorare negli anni ‘60, l’avevano imparata nelle scuole di cinema.
Il più famoso di loro è Francis Ford Coppola: la sua commedia giovanile "Buttati Bernardo" (You're a Big Boy Now, 1967) usa le tecniche vistose dei film sui Beatles di Richard Lester e dei ritratti della "swinging London". Con "Non torno a casa stasera" (The Rain People, 1969), girato per strada con un autobus Dodge, finanziamenti minimi e un gruppo di amici come troupe, Coppola cercò di fare un film che avesse la ricchezza stilistica e la capacità di sdrammatizzare del prestigioso cinema europeo. Flashback improvvisi e dalla sequenza irregolare interrompono le scene, mentre il fonico di Coppola, Walter Murch, fa un montaggio dei rumori circostanti - il crepitio delle linee telefoniche, l'indistinto e rumoroso procedere veloce dei camion che fanno traballare le stanze dei motel ai bordi della strada.
Nel 1969 Coppola fondò l'American Zoetrope per produrre i suoi film. Malgrado il fallimento a causa di una cattiva gestione, l'American Zoetrope lasciò in eredità "La conversazione" (The Conversation), il film che Coppola girò nel 1974 con i proventi de "Il padrino". Come i film di Altman, "La conversazione" usa le convenzioni del cinema d'arte insieme a quelle di uno specifico genere hollywoodiano, in questo caso il film di detective.
Anche se "La conversazione" viene spesso paragonata a "Blow-up", Coppola esplora la mente del protagonista molto più profondamente di quanto non faccia Antonioni. Harry Caul, esperto di intercettazioni telefoniche, registra frammenti di una conversazione che lo portano a sospettare un piano omicida. Mentre riascolta il dialogo (reso da Murch attraverso un'intricata registrazione del suono) e ne effettua il missaggio, la sua crescente ansia è descritta da sogni e spezzoni di flashback. L'omicidio è presentato attraverso indizi che disorientano lo spettatore, mentre Harry li intravede e li sente per caso. Alla fine il pubblico scopre che parte della conversazione originale è stata filtrata attraverso la mente di Harry. Quando questi si rende conto della vera situazione, Coppola alterna inquadrature sue con quelle dell'assassinio, forse come lui adesso immagina sia effettivamente accaduto.
Alcuni registi si sforzarono di avvicinarsi alla versione americana del cinema d'arte. Il pupillo di Altman, Alan Rudolph, esplorò queste tecniche nelle ambigue sequenze di fantasia-flashback di "Choose Me" (Id., 1984) e nel misterioso panorama cittadino di "Stati di alterazione progressiva" (Trouble in Mind, 1985). "Eraserhead", "The Elephant Man" (ld., 1980) e "Velluto blu" (Blue Velvet, 1986) di David Lynch spinsero queste tendenze verso la distorsione espressionista. Nel complesso, tuttavia, i registi evitarono la sperimentazione incoraggiata dalla moda del cinema d'arte alla fine degli anni ‘60 e inizio anni ‘70.
Dopo il successo de "Il padrino", "American Graffiti" e "Lo squalo", la maggior parte dei giovani registi puntò su film accessibili al pubblico che non sfidavano le convenzioni narrative; in questo processo, pur realizzando ancora qualche film personale e provocatorio, essi rivitalizzarono Hollywood.

1969-1992
Con la recessione dell'industria cinematografica alla fine degli anni ’60 e i produttori che andavano alla ricerca di film "giovanili", film dall'impronta artistica e blockbuster, apparvero sulla scena molti nomi nuovi. Alcuni di loro erano emigranti conosciuti per le loro opere nell'ambito del cinema d'arte europeo, come Miloš Forman e Roman Polanski. Altri erano registi americani più anziani che spesso provenivano dalla televisione e la cui carriera era stata dirottata verso la nuova Hollywood come Robert Altman e Paul Mazursky.
I registi che attiravano maggiormente l'attenzione erano, tuttavia, più giovani: la generazione dei "movie brats" era molto eclettica e comprendeva l'ex critico Peter Bogdanovich ("L'ultimo spettacolo", 1971; "Ma papà ti manda sola?", What's Up, Doc?, 1972), il regista indipendente George A. Romero ("La notte dei morti viventi"), il regista televisivo Bob Rafelson ("Cinque pezzi facili", 1970; "Il re dei giardini di Marvin", The King of Marvin Gardens, 1972) e nuovi talenti come Brian De Palma ("Ciao America", Greetings, 1968; "Le due sorelle", Sisters, 1973), John Carpenter ("Dark Star", 1974; "Distretto 13 - Le brigate della morte", Assault on Precinct 13, 1977), Terrence Malick ("La rabbia giovane", Badlands, 1973) e John Milius ("Dillinger", Id., 1973; "Il vento e il leone", The Wind and the Lion, 1975).
I più potenti e rispettati "movie brats" - Francis Ford Coppola, George Lucas, Steven Spielberg e Martin Scorsese - si imposero all'inizio degli anni ‘70. Altri registi della stessa età apparvero più tardi: lo sceneggiatore Paul Schrader con "Tuta blu" (Blue Collar, 1978), Michael Cimino con "Il cacciatore" (The Deer Hunter, 1978), David Lynch con "Eraserhead" e Jonathan Demme con "Una volta ho incontrato un miliardario" (Melvin and Howard, 1980).
All'inizio degli anni ‘80 emerse una seconda generazione, registi nati intorno agli anni ’50: Robert Zemeckis ("Ritorno al futuro", Back to the Future, 1985) era un pupillo di Steven Spielberg, mentre Lawrence Kasdan aveva scritto delle sceneggiature per Spielberg e Lucas prima di diventare regista ("Brivido caldo", Body Heat, 1981; "Il grande freddo", The Big Chill, 1983). Ron Howard cominciò la sua carriera di regista con film d'azione a basso costo per poi dirigere megaproduzioni come "Splash" (Id., 1984) e "Parenti, amici e tanti guai" (Parenthood, 1989).
Quando le major iniziarono a produrre un maggiore numero di film, registi ancora più giovani cominciarono a lavorare e alcuni di loro ebbero subito successo, diventando i Coppola e gli Spielberg degli anni ‘80. Prima della fine del decennio, Tim Burton ("Pee-Wee's Big Adventure", Id., 1985; "Beetlejuice", Id., 1988) e James Cameron ("Terminator", The Terminator, 1984) avrebbero diretto due dei blockbuster di maggior successo della storia, rispettivamente, "Batman" e "Terminator 2: Il giorno del giudizio". Come all' inizio degli anni ‘70, anche i talenti meno giovani trovarono l'opportunità di dirigere un film: spesso questi erano ex sceneggiatori come Barry Levinson ("A cena con gli amici", Diner, 1982; "Rain Man", Id., 1989) e Oliver Stone ("Salvador", Id., 1986; "Platoon", Id., 1986), ma anche attori come Robert Redford.
L'espansione della produzione aiutò i registi marginali a inserirsi nel cinema mainstream e, per la prima volta dall'epoca del cinema muto, riuscirono ad affermarsi registe donne; il successo dei alcuni film indipendenti del cinoamericano Wayne Wang o dell'afroamericano Spike Lee ("Lola Darling", She's Gotta Bave It, 1986) diedero anche a questi registi la possibilità di ottenere budget più elevati e conquistare un pubblico più vasto.
Molti registi lavoravano all'ombra di generi ormai consolidati, classici consacrati e registi venerati: la nuova Hollywood, sotto molti aspetti, si definiva facendo riferimento al passato.
I registi cominciarono a riutilizzare espedienti stilistici del periodo d'oro di Hollywood. Ne "Lo squalo", Spielberg prende da Hitchcock l'espediente dello zoom più carrello, tecnica che sarebbe diventata comune nei film degli anni ‘80 per mostrare uno sfondo che misteriosamente si stringe intorno a una figura immobile. Molti registi della nuova Hollywood, in particolare Spielberg e De Palma, introdussero composizioni realizzate con il grandangolo che ricordavano Welles, Wyler e il noir: Ne risultò spesso un'impressionante profondità di campo con distorsione delle figure, ma l'uso del teleobiettivo continuò a essere diffuso negli anni ‘70 e ‘80.
Il cinema degli anni ‘70 e ‘80, tuttavia, cercò anche di differenziarsi con dimostrazioni di virtuosismo tecnico: potenti lampade da studio permettevano ai direttori della fotografia di immergere il set in una penombra diffusa, creando, un nuovo "stile soft"; la luce nitida, priva di contrasto, tipica della tecnica dei video musicali, poteva coesistere con una combinazione di colori vivaci e saturi che ricordavano la pop art; la messa in scena a volte includeva fonti luminose dalla tonalità non realistica. Spielberg, Lucas e Coppola ("Un sogno lungo un giorno", One from the Heart, 1979) trasformarono i loro film in dimostrazioni di grande abilità tecnica.
Il rinnovato orgoglio per il virtuosismo fu reso evidente dal ritorno dell'animazione agli splendori di un tempo: la Disney abbandonò il suo tipico stile realistico e dettagliato in "Robin Hood" (Id., 1973) e "Le avventure di Bianca e Bernie" (The Rescuers, 1977). Alcuni vecchi disegnatori capeggiati da Don Bluth ruppero ogni rapporto con lo studio per realizzare "Brisby e il segreto di Nimh" (The Secret of Nimh, 1982) e "Fievel sbarca in America" (An American Tail, 1986), il primo film a disegni animati prodotto da Steven Spielberg. Il successo di Bluth portò a una proliferazione di film estremamente raffinati sia negli sfondi sia nei movimenti. La Disney andò oltre con "La Bella e la bestia" (Beauty and the Beast, 1991), in cui le tecniche rotoscopiche sono applicate al set dando, in questo modo, molto volume e solidità allo spazio. I nuovi film d'animazione, inoltre, si spostarono dal pubblico degli adolescenti per puntare su quello dei bambini.
Tra gli anni ‘70 e ‘80 si svilupparono altre due tendenze: alcuni registi preferivano continuare la tradizione hollywoodiana attraverso generi attualizzati e omaggi a registi venerati; altri cercarono di dar vita a un cinema più personale e di portare le convenzioni del cinema d'arte nella produzione di massa e nei generi popolari. Entrambe le tendenze sono caratterizzate da una profonda consapevolezza della storia del cinema e della sua continua influenza sulla cultura contemporanea.

Nel solco della tradizione
Parecchi film di questo periodo puntavano semplicemente a continuare la tradizione dei generi hollywoodiani. Molti film della nuova Hollywood rivisitarono i generi tradizionali: "Il padrino" si ispirò al film di gangster, aggiornandone la formula. La prima parte (1971) enfatizza le divisioni etniche convenzionali e i valori del machismo, ma evidenzia in modo nuovo i temi dell'unità della famiglia e della successione tra le generazioni. Michael Corleone, inizialmente lontano dagli "affari di famiglia", arriva per assumere il suo ruolo di diritto, quello di erede del padre, a costo di allontanarsi dalla moglie Kay. "Il padrino - Parte II" mostra la conquista del successo del padre di Michael, rifacendosi a un'altra regola del genere, la salita al potere del gangster emigrante. Il passato è interrotto con scene del presente in cui l'autorità e la spietatezza di Michael sono aumentate. Mentre alla fine del primo film Michael si è integrato completamente alla linea maschile della famiglia, al termine della seconda parte il protagonista è circondato da un'ombra autunnale, solo, mentre medita tristemente, incapace di aver fiducia in qualcuno.
Se "Il Padrino" non portò a una rinascita del genere gangster, altri due generi della nuova Hollywood trovarono un maggiore seguito. Innanzitutto il film dell'orrore, a lungo associato con produzioni a basso costo, con "L'esorcista" ottenne una nuova rispettabilità e divenne uno dei cardini dell'industria per vent'anni. Titolo tra i più importanti del genere, "Halloween" di Carpenter ispirò un filone di film a base di serial killer e vittime teen-ager. Da best-seller di Stephen King furono tratti "Carrie, lo sguardo di Satana" (Carrie, di Brian De Palma, 1976) e "Shining" (The Shining, di Stanley Kubrick, 1980). Infine, anche film drammatici cominciarono a prendere spunto dal genere horror.
L'altro genere significativo a cui fu ridata vitalità è la fantascienza. "2001: Odissea nello spazio" di Kubrick (1968) fu il principale precursore, ma furono Lucas e Spielberg a impressionare Hollywood con gli strepitosi incassi ottenuti. "Guerre stellari" (1977) dimostrò che l'avventura spaziale, arricchita con effetti speciali all'avanguardia, poteva attirare una nuova generazione di spettatori, e il suo successo senza precedenti diede non solo l'avvio a numerosi sequel, ma spinse a portare sul grande schermo la serie televisiva "Star Trek". "Incontri ravvicinati del terzo tipo" (1977) trasformò i "film sulle invasioni" degli anni ‘50 in un'esperienza di comunione quasi mistica con la saggezza extraterrestre. "E.T." (1982) spinse ulteriormente sul tema diventando il più grande successo d'incassi dell'epoca. Più o meno nello stesso periodo emerse un genere di fantascienza critica e distopica con "Blade Runner" (1982): in questo tipo di film, il genere serviva per mettere in mostra le novità del progetto produttivo e gli effetti speciali.
Come produttori, Lucas e Spielberg diedero nuova vitalità ai film di avventura per le famiglie ("Willow", Id. , di Ron Howard, 1988), ai film fantastici ("Gremlins", 1984), alla commedia con disegni animati ("Chi ha incastrato Roger Rabbit? ", Who Framed Roger Rabbit?, di Robert Zemeckis, 1988).
Spielberg divise il suo impegno fra quello che lui definiva "film da fast-food" e sforzi registici più raffinati, adattamenti di best-seller legati al genere del grande film degli anni ’30 e ‘40. Guardando alla tradizione, sia Lucas che Spielberg riempirono i loro film di riverenti allusioni al film hollywoodiano, alla Walt Disney e ad autori venerati (John Ford è citato sia in "Guerre stellari" che in "E.T. ").
A differenza di Lucas e Spileberg, altri registi spesso coltivavano uno stile che prendeva spunto in maniera evidente dai loro maestri. Le esagerazioni grandangolari delle immagini dei Coen ricordano "L'infernale Quinlan" di Welles, le riprese aeree, la sorprendente profondità delle immagini e l'uso dello split-screen per le scene d'azione di De Palma richiamano il virtuosismo hitchcockiano.
Il passato di Hollywood venne trattato in maniera molto meno rispettosa nelle satire e nelle parodie che fiorirono negli anni ‘70 e ’80. Mel Brooks trasformò il western ("Mezzogiorno e mezzo di fuoco", Blazing Saddles, 1973), il film dell'orrore ("Frankenstein Junior", Young Frankenstein, 1974), il thriller hitchcockiano ("Alta tensione", High Anxiety, 1977) e il genere epico ("La pazza storia del mondo", History of the World, Part I, 1981) in farse chiassose. Woody Allen realizzò parodie del film di rapina ("Prendi i soldi e scappa", Take the Money and Run, 1969), del film fantascientifico ("Il dormiglione", Sleeper, 1973) e del documentario ("Zelig", Id., 1983). David e Jerry Zucker, insieme a Jim Abrahams, saccheggiarono il film catastrofico in "L'aereo più pazzo del mondo" (Airplane! , 1980), il genere spionistico in "Top Secret!" (Id., 1984) e i film sui "top gun" in "Hot Shots!" (Id., 1991). Questo uso comico delle regole del genere era stato a sua volta tipico dello slapstick del cinema muto e delle commedie di Bop Hope e Bing Crosby o di quelle di Dean Martin e Jerry Lewis. Prendere in giro Hollywood era, insomma, una tradizione hollywoodiana.

Il cinema d’arte
Il desiderio di creare un cinema d'arte americano incoraggiò alcuni registi a realizzare film più personali accostando (e rielaborando) le convenzioni narrative classiche alle tecniche del cinema d'arte europeo.
I film di Robert Altman, spesso una parodia dei generi - il film di guerra ("M*A*S*H*"), il musical ("Popeye", Id., 1980) - comunicano sfiducia nei confronti dell'autorità, criticano il bigottismo americano e celebrano un idealismo confuso ma vitale.
Altman sviluppò anche uno stile eclettico avvalendosi di una recitazione incerta, semi-improvvisata, di un uso continuo di panoramiche e zoom, di un montaggio brusco, di riprese effettuate con diverse macchine da presa sì da mantenere il punto di vista fuori dall'azione del personaggio e di una colonna sonora molto intensa. "Nashville" (1975) segue 24 personaggi lungo un weekend, spesso sparpagliandoli all'interno dello spazio inquadrato. Nei suoi film, i personaggi borbottano qualche parola, si interrompono fra di loro, parlano contemporaneamente oppure sono sopraffatti dagli altoparlanti. Attraverso il suo modo peculiare di trattare i temi, i generi, l'immagine e il suono, Altman diede vita, nella Hollywood degli anni ‘70, a un cinema estremamente personale.
Altrettanto fece Woody Allen, suo contemporaneo, che divenne uno dei registi comici più famosi continuando la tradizione della comicità assurda dei fratelli Marx e di Bop Hope. I suoi primi film si rivolgevano anche al pubblico giovanile attraverso l'uso di citazioni cinematografiche, come l'omaggio alla scalinata di Odessa de "La corazzata Potëmkin" ne "Il dittatore dello Stato libero di Bananas" (Bananas, 1971).
Con "Io e Annie" (Annie Hall, 1977) iniziò una serie di film in cui univa l'interesse per i problemi psicologici dei borghesi intellettuali al suo amore per la tradizione cinematografica americana e per registi come Fellini e Bergman.
I più importanti film di Allen hanno gettato la stia maschera comica l'ipersensibile intellettuale ebreo in un groviglio di conflitti psicologici. In alcuni casi la trama è incentrata sulla confusa vita amorosa del personaggio ("Io e Annie"; "Manhattan", Id. , 1979). In "Hannah e le sue sorelle" (Hannah and Her Sisters, 1986) e "Crimini e misfatti" (Crimes and Misdemeanors, 1990) la trama si svolge intorno agli intrecci amorosi fra i diversi personaggi, rappresentati, per contrasto, con uno stile che sta fra l'invenzione verbale della commedia e l'asciuttezza del dramma. Allen costruisce molti dei suoi film sui temi che lo interessano direttamente, e rappresenta in maniera impassibile le cose che ama (il jazz, Manhattan), che odia (la musica rock, la droga, la California) e i suoi valori (l'amore, l'amicizia e la fiducia).
Un accordo produttivo unico gli ha permesso di mantenere il controllo sulla sceneggiatura, la scelta del cast, il montaggio e persino la possibilità di rigirare parti dei suoi film. Woody Allen ha esplorato una vasta gamma di stili, dal realismo pseudo-documentaristico di "Zelig" (1983) alla parodia dell'espressionismo tedesco di "Ombre e nebbia" (Shadows and Fog, 1992) e ha reso omaggio a un certo numero di film e autori prediletti: "Stardust Memories" (Id., 1980) è un'aperta rielaborazione di "8 ½"; "Radio Days" (Id., 1987), nella sua appassionata rievocazione dei dettagli di un determinato periodo storico, richiama "Amarcord"; "Interiors" (Id., 1978) e "Settembre" (September , 1987) sono drammi da camera sullo stile di Bergman, mentre le riunioni familiari in occasione delle feste di Hannah e le sue sorelle ricordano "Fanny e Alexander".
Un altro regista i cui interessi personali fondevano Hollywood con il cinema d'arte è Martin Scorsese, che si guadagnò una reputazione nell'underground con diversi cortometraggi e due film a basso costo prima di farsi conoscere con "Mean Streets" (Id., 1973). "Alice non abita più qui" (Alice Doesn't Live Here Anymore, 1974) e "Taxi Driver" (1975) lo consacrarono al successo, ma "Toro scatenato" (Raging Bull, 1980), la biografia del campione di pugilato Jake LaMotta, fu un trionfo ed è considerato da molti critici il miglior film americano degli anni ‘80. I suoi ultimi film - in particolare "Re per una notte" (The King of Comedy, 1982), "L'ultima tentazione di Cristo" (The Last Temptation of Christ, 1988), "Quei bravi ragazzi" (Goodfellas, 1989) - lo hanno confermato il regista più acclamato dalla critica della sua generazione.
La coscienza metacinematografica di Scorsese emerge nelle sue virtuosistiche esibizioni tecniche: ad esempio, scene di dialogo aggressivo progettate per mettere in luce la bravura di attori come Robert De Niro si alternano a scene di azione fisica con splendidi movimenti della macchina da presa. Le sequenze d'azione sono spesso astratte e senza dialogo, costruite su immagini ipnotiche: un taxi giallo che scivola per le strade inondate di fumo infernale, palle che rimbalzano su un tavolo da biliardo ("Il colore dei soldi", The Colar of Money, 1986). Tutte le scene di combattimento di "Toro scatenato" sono coreografate e riprese in maniera diversa.
Come per Woody Allen, anche i film di Scorsese si basano su elementi autobiografici: "Mean Streets" e "Quei bravi ragazzi" prendono spunto dalla sua adolescenza italo-americana; "Toro scatenato" è il risultato di anni di comportamento autodistruttivo dopo i quali il regista si sentì pronto per metterlo in scena. La conseguenza di questo suo forte coinvolgimento emotivo, forse, è che al centro delle storie ci sono sempre personaggi deviati, addirittura ossessionati, e che il suo stile spesso ci porta con sicurezza dentro la loro mente. Brevi soggettive, sguardi che guizzano, immagini al ralenti e una personale colonna sonora "in soggettiva" intensificano l'identificazione del pubblico con Jake LaMotta, con il tassista Travis Bickle o con l'aspirante comico Robert Pupkin.
Se Allen e Scorsese diedero vita a un cinema personale attraverso i drammi psicologici dei loro protagonisti, altri registi espressero la loro visione critica della società attraverso film di impegno civile. Una serie di film intensi e schierati politicamente - "Platoon", "Nato il quattro luglio" (Born on the Fourth of July, 1989), "JFK" (Id., 1991) - rivelano il punto di vista di Oliver Stone sul fatto che l'idealismo liberale degli anni ‘60 sia andato perduto dopo la morte di Kennedy.
Spike Lee, il più noto esponente del cinema afroamericano mainstream della fine degli anni ‘80, realizzò film problematici e didattici pieni di vigore ("School Daze", Id., 1988; "Fa' la cosa giusta", Do the Right Thing, 1989; "Jungle Fever", Id., 1991). I suoi film interrogano sia la comunità afromericana sia il pubblico dei bianchi. L'uso di colori forti, la composizione dell'inquadratura e l'abitudine a lasciare che i personaggi si rivolgano direttamente alla macchina da presa danno ai suoi film l'immediatezza tipica dei manifesti.
Negli anni ‘80, il cinema d'autore emerse sotto un'altra forma e il film originale, che in passato sarebbe fiorito solo nell'ambito della produzione indipendente, scivolò nel mainstream. Dal cult-movie "Eraserhead", David Lynch si spostò verso il cinema più tradizionale con "The Elephant Man" (1980), prima che "Velluto Blu" (1986) e "Fuoco cammina con me" (Twin Peaks: Fire Walkwith Me, 1992) investissero la vita di provincia con passioni misteriose e perverse. Le sperimentazioni nella costruzione narrativa di Jim Jarmusch - il post-punk e il gusto beat di "Stranger than Paradise" {Id., 1984), il melodramma maschile in "Daunbailò" (Down By Law, 1989) e le tre storie che si sovrappongono in "Mystery Train" (Id., 1989) - si basano su uno stile recitativo inespressivo e su un dolente umorismo.
La diversità delle scelte registiche all'inizio degli anni ‘90 corrispondeva alla nuova importanza del cinema americano nella vita contemporanea. A dispetto di chi prevedeva che il cinema sarebbe scomparso a causa dell'assalto della televisione via cavo e delle videocassette, i film al cinema sono rimasti elementi centrali nel sistema dei media. All'inizio degli anni ‘90 sono stati realizzati circa 4.000 film in tutto il mondo. Le major e le compagnie indipendenti americane ne hanno prodotti circa 3-400, ma hanno costituito il 70% degli incassi totali al botteghino. Festeggiando, nel 1994, il suo centenario, il cinema americano si è confermato come l'industria più potente del mondo dal punto di vista economico e culturale.

1967-1993
La rinascita di Hollywood ebbe complesse conseguenze negli altri Paesi, avvantaggiando distributori ed esercenti che proiettavano film americani che entravano in competizione con le industrie locali. I film americani circolavano in molti più Paesi di quanto non accadesse per i film provenienti dalle altre Nazioni, occupando in molte di esse fino al 90% del tempo totale di proiezione. Nella maggior parte dei Paesi, al di fuori dagli Stati Uniti, il pubblico diminuì costantemente, riducendo ulteriormente la possibilità che un film locale recuperasse nel mercato nazionale i costi sostenuti. Per raggiungere questo obiettivo una strada possibile era differenziare il prodotto locale dalle offerte di Hollywood, come avevano fatto l'espressionismo tedesco o il neorealismo italiano creando "scuole nazionali" fortemente caratterizzate. L' apparizione delle nouvelles vagues e dei nuovi cinema fu il segnale di questo continuo bisogno di novità: per tutti gli anni ‘70 e ‘80 questo processo fece emergere cinematografie giovani in diversi Paesi.
In generale, negli anni ‘80, l'economia europea si stabilizzò. La causa principale della diminuzione del numero di spettatori fu la televisione, ormai a colori e con una buona qualità dell'immagine, mentre dopo la fine degli anni ‘70 le videocassette portarono via molti spettatori al cinema, riducendo drasticamente anche il mercato cinematografico dei film pornografici. Qualunque fosse l'ammontare degli incassi, la maggior parte finiva comunque a Hollywood.
I registi europei erano costretti a fare affidamento soprattutto sui sistemi di coproduzione e sull'assistenza governativa. Il prototipo dell'eurofilm comprendeva nel cast grandi attori italiani, francesi e tedeschi; di origine diversa erano anche il regista e la troupe, così come le riprese potevano essere fatte in vari Paesi. Anche le produzioni internazionali ricorsero al sostegno dei governi, mentre gli Stati europei continuarono a promuovere il cinema come veicolo culturale.
I governi sostennero i produttori con prestiti, concessioni e premi; diversi Paesi si ispirarono alla soluzione francese dell'avance sur recettes, che consiste in finanziamenti anticipati calcolati sulle aspettative di ciò che il film guadagnerà e che vengono recuperati da una percentuale sugli incassi (in realtà questi investimenti furono recuperati di rado).
Una forma più pratica di sostegno governativo traeva vantaggio dalla più grande concorrente audiovisiva del cinema: la televisione. Avendo bisogno di film da trasmettere, spesso gli enti televisivi sostenevano opere cinematografiche: la ORFT finanziò "Mouchette" (Id., di Bresson, 1967), mentre la RAI produsse i film storici di Rossellini, "I clowns" di Fellini (1970) e alcuni film di Ermanno Olmi e dei fratelli Taviani.
La Germania occidentale fu il primo Paese a usare in maniera sistematica la televisione nazionale per sostenere il cinema: dal 1974 un nuovo accordo fra cinema e televisione offrì condizioni favorevoli per le coproduzioni. Questo accordo portò una nuova ondata di energia e molti nuovi registi tedeschi conquistarono fama e finanziamenti internazionali.
Quando "Il tamburo di latta" (Die Blechtrommel, di Volker Schlöndorff, 1979), che era stato finanziato dal governo, ottenne un grande successo al botteghino e vinse l'Oscar come miglior film straniero, investire nel nuovo cinema tedesco venne considerato di grande prestigio internazionale e altre televisioni nazionali cominciarono a sostenere il cinema seguendo il modello tedesco. Presto, tuttavia, la depressione della metà degli anni ‘70 e la diminuzione delle entrate della televisione pubblica costrinsero molti governi ad ammettere canali commerciali nell'etere. L'espansione più sregolata di canali televisivi avvenne in Italia dove sorse un gran numero di piccole Stazioni locali, alcune delle quali con una programmazione di ventiquattro ore al giorno. Grazie allo sviluppo della televisione via cavo e satellitare, inoltre, alcuni Paesi potevano ora ricevere i programmi da tutta Europa.
Con la proliferazione dei canali commerciali, il numero di spettatori cinematografici precipitò. Il sistema televisivo pubblico della Germania occidentale, che riuscì a bloccare quello privato più a lungo degli altri Paesi, cominciò a subire le conseguenze negative della sua politica cinematografica: il governo continuò a finanziare film d'arte a basso costo, ma gran parte di questi non era neanche distribuita nelle sale. Alcuni registi risposero con opere ibride che sarebbero poi diventate dei veri e propri "eventi" per entrambi i mezzi di comunicazione, come gli interminabili film-serie "Berlin Alexanderplatz" (Id., di Rainer Werner Fassbinder, 1980) e "Heimat" (Id., di Edgar Reitz, 1983 ).
I governi cercarono di attirare capitale privato nell'industria cinematografica: in Italia la RAI strinse un accordo con il gruppo Cecchi Gori per la produzione di 15 film all'anno; in Francia il governo Mitterand contribuì alla nascita di società d'investimento private. Il capitale privato più imponente veniva tuttavia, ancora una volta, dalla televisione. In tutta Europa il peso del finanziamento cinematografico passò dagli investitori privati e dai governi statali a gruppi che operavano nel campo delle comunicazioni e cominciarono a finanziare film anche al di fuori dei loro Paesi.
Oltre alle fonti governative e ai consorzi privati di investimento, anche le banche assunsero un ruolo più attivo nella produzione.
Fin dagli anni ‘50, le coproduzioni e i progetti finanziati da diversi Paesi erano stati accusati di essere degli insipidi "eurofilm" a cui mancava qualsiasi elemento di distinzione nazionale, accusa cui corrispondeva il timore di molti che un'Europa unica avrebbe eliminato le differenze fra le varie culture. Il grande film internazionale fu fatto rinascere con "L'ultimo imperatore" di Bernardo Bertolucci (1987). Durante l'apogeo dell'eurofilm, comunque, era difficile che nascessero distinti movimenti cinematografici nazionali, e alcuni osservatori ritennero persino che il loro tempo fosse ormai passato.
All'inizio degli anni ‘90 i film statunitensi erano più al sicuro che mai: mentre i film europei ottenevano solo l'1% degli incassi nelle sale americane, i film hollywoodiani raccoglievano l'80% degli incassi al botteghino europeo.
L'industria cinematografica europea lottò per sopravvivere: per i registi degli anni ‘60 trovare i finanziamenti cominciò a costituire un problema. Le compagnie europee investirono anche nel cinema americano: Canal Plus acquistò una grossa partecipazione di "Terminator 2: Il giorno del giudizio" e "JFK" (Id., 1991), mentre Ciby 2000, società appartenente a un gruppo edile, produsse i film di David Lynch e Charles Burnett.
Alcune vestigia del passato persistettero, anche se trasformate dalla nuova era multimediale e multinazionale: nel 1993 si stabilì, per esempio, che Cinecittà fosse venduta; nella Germania orientale il vecchio studio UFA di Neubelsberg, dove erano avvenute le riprese di "Metropolis" e "L'angelo azzurro", dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 fu acquistato da una società immobiliare francese che lo riconvertì in centro di produzione televisiva.

1969-1992
In una situazione che presentava poche opportunità di ottenere successo, i generi popolari europei mantennero la loro stabilità. Il pubblico internazionale era attratto dalla commedia italiana, da "Pane e cioccolata" (1973) di Franco Brusati a "Ladri di saponette" (1990) di Maurizio Nichetti, a "Johnny Stecchino" (1992) di Roberto Benigni. Anche le commedie sexy francesi e l'eccentrico umorismo britannico (i film dei Monty Python) mantennero una buona posizione sia nel mercato nazionale sia in quello straniero. I film polizieschi francesi e inglesi spesso evocavano le tradizioni del realismo poetico e del noir. Quando venne liberalizzata la censura, in Europa dilagò il cinema erotico e pornografico. Il successo internazionale di "Emmanuelle" (Id., di Just Jaeckin, 1974) dimostrò che i film erotici avevano un vasto pubblico nelle sale cinematografiche, che perdurò fino all'inizio degli anni ‘80, quando le videocassette si sostituirono al grande schermo.
In Italia Ettore Scola fu sceneggiatore e regista di commedie, prima che "C'eravamo tanto amati" (1974) lo consacrasse come acuto commentatore delle delusioni politiche dell'Italia del dopoguerra. Con questo film, "Una giornata particolare" (1977) e "Ballando ballando" (1983) Scola è diventato un regista di fama internazionale. I suoi film fondono con intelligenza il modernismo del cinema d'arte con la commedia accessibile al grande pubblico. "Ballando ballando", ad esempio, è interamente ambientato in una sala da ballo francese, ed è privo di dialoghi.
I valori letterari e lo stile elegante sembravano dar vita a una nuova tradizione francese di qualità. Bertralid Blier ottenne riconoscimenti internazionali ("Preparate i fazzoletti", Préparez vos mouchoirs, 1978; "Troppo bella per te", Trop belle puortoi, 1989); anche Bertrand Tavernier, prima critico e poi regista, evocava gli anni d'oro del cinema francese del dopoguerra con film come "Una domenica in campagna" (Un dimanche à la campagne, 1984) in omaggio a Jean Renoir.
"L'albero degli zoccoli" di Ermanno Olmi (1978) segnò un ritorno al neorealismo ricostruendo la vita dei contadini alla fine del XIX secolo, facendoli parlare con il loro dialetto originale, ma anche dando ai personaggi la dimensione della leggenda.
Paolo e Vittorio Taviani, che negli anni ‘60 e ‘70 avevano promosso un cinema politico umanistico e populista, acquistarono prestigio internazionale con il successo di "Padre padrone" (1977) e proseguirono con la mitica ricomposizione del neoralismo italiano de "La notte di San Lorenzo" e con gli esuberanti adattamenti delle novelle di Pirandello di "Kaos" (1984).
Che il nuovo cinema internazionale potesse anche fare della critica politica fu dimostrato dal fatto che negli anni ‘70 il nuovo cinema tedesco si stava conquistando il rispetto di tutto il mondo. Rainer Werner Fassbinder apparve sulla scena internazionale con grosse produzioni che avevano come protagonisti attori famosi. Grazie al successo internazionale de "Il matrimonio di Maria Braun" (Vie Ehe der Maria Braun, 1978), poté affidarsi a coproduzioni su larga scala come "Lili Marleen" (Id., 1980), "Lola" (Id., 1981) e "Querelle" (Id., 1982). In questi ultimi film il colore e i costumi sono usati per stilizzare il mondo dei personaggi: fasce irrealistiche di luce viola che passano attraverso un viso ("Lola") o un bagliore arancione che emana da un pontile ("Querelle") e, ancora, primissimi piani di dettagli storicamente pregnanti che interrompono l'azione de "Il matrimonio di Maria Braun".
Quando i registi cominciarono ad abbandonare gli estremismi della critica politica modernista, molti di loro cercarono di descrivere i conflitti sociali in maniera più realistica. In Francia Maurice Pialat affronta con durezza problemi come il divorzio, i bambini indesiderati e il cancro. "La mamma e la puttana" (La maman et la putain, 1972) di Jean Eustache è un ritratto raggelante del maschio egoista che mente e si fa strada a suo modo nella vita delle donne.
In Gran Bretagna, la vita della classe operaia rappresentava uno dei soggetti del cinema realistico. In "Kes" (1969) Ken Loach utilizzò attori non professionisti e uno stile quasi documentaristico per le riprese dei nord industriale.
Un cinema politico più sperimentale e di rottura, tuttavia, non svanì completamente dalla scena europea. Alexander Kluge, dopo aver utilizzato uno stile narrativo quasi tradizionale in "Ferdinando il duro" (Der starke Ferdinand, 1975), ritornò alle frammentarie allegorie storiche che indagavano sulle conseguenze durature del nazismo e della guerra. Jean-Marie Straub e Danièle Huillet continuarono a fare film statici e incentrati sul testo e adattamenti letterari più orientati verso la narrazione. L'esule cileno Raul Ruiz diede vita a labirintiche costruzioni moderniste: "La vocazione sospesa" (La vocation suspendue, 1977) fa finta di presentare due film incompleti, uno montato nell'altro, su intrighi che hanno luogo all'interno di un ordine religioso. "Memorie delle apparenze - La vita è un sogno" (Mémoire des apparences - La vie est un songe, 1987) presenta un agente politico in una dittatura dove gli interrogatori della polizia avvengono dietro lo schermo di un cinema.
Il più importante dei registi che appartengono alla tradizione del cinema politico degli anni ‘80 fu il greco Theo Angelopoulos. I suoi affreschi della storia greca come "La recita" (1975) lasciarono spazio a drammi più intimistici. Angelopoulos affrontò anche i problemi dell'emigrazione europea e della dissoluzione dei confini nazionali: in "Paesaggio nella nebbia" (Topio stin omichli, 1988) due bambini lasciano la loro casa per andare alla ricerca del padre, convinti che si trovi in Germania, mentre il protagonista de "Il passo sospeso della cicogna" (Le pas suspendu de la cicogne, 1991) è un famoso romanziere che rinuncia alle comodità della classe media per vivere precariamente come un rifugiato. La sua macchina da presa è posizionata lontano dal centro dell'azione per mettere in risalto le figure che si muovono all'interno dei paesaggi, delineando così la forza dello spazio sull'azione o mettendo a confronto un luogo con l'evento (come quando un piano sequenza in campo lungo rende più scioccante la violenza carnale della ragazzina in "Paesaggio nella nebbia").
La più grande ondata di film politicamente impegnati venne dalle donne. Nel cinema popolare, le commedie sull'amicizia femminile e sui rapporti fra uomo e donna dell'italiana Lina Wertmüller, della tedesca Doris Dorrie e delle francesi Diane Kurys e Coline Serreau ottennero grande successo.
Altre registe espressero preoccupazioni femminili o femministe attraverso le convenzioni del cinema d'arte: Marguerite Duras, Margarethe von Trotta e anche Agnès Varda, vincitrice del Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia con "Senza tetto ne legge" (Sans toit ni loi, 1985): al centro del film, un'enigmatica giovane donna che, vagabondando senza meta nella campagna, accetta di vivere in maniera non ortodossa. Agnès Varda descrive il crollo della protagonista con una tecnica scarna e distaccata che suggerisce da una parte rispetto per il personaggio e dall'altra il senso di una vita sprecata.
A parte l'opera dei pochi registi politicamente impegnati e delle molte registe femministe, gran parte dei più significativi film europei evitò l'impegno diretto nei temi politici che aveva caratterizzato il periodo fra il 1965 e il 1975. I registi affermati continuarono a produrre film per il mercato internazionale. François Truffaut ebbe grande successo con "Effetto notte" (La nuit américaine, 1973) e "L'ultimo metro" (Le dernier métro, 1980), ma la forte malinconia de "La camera verde" (La chambre verte, 1978) non raccolse gli stessi consensi da parte del pubblico; Alain Resnais mostrò sempre più interesse per il disvelamento degli artifici della narrazione, spesso con un tocco leggero adottato di rado nei suoi capolavori ufficiali, "Hiroshima mon amour" e "Muriel, il tempo di un ritorno". In "Mon oncle d'Amérique" (Id., 1980) la carriera degli esseri umani è una dimostrazione delle teorie sul comportamento animale; "Providence" (Id., 1976), con le sue scene interrotte e corrette durante il loro svolgimento, svela l'arbitrarietà dell'intreccio.
Due registi più anziani che vivevano in Gran Bretagna contribuirono alla rinascita del cinema d'arte europeo: nel 1975 Stanley Kubrick realizzò con "Barry Lyndon" un freddo e distaccato adattamento del libro di William Makepeace Thackeray, trattandolo come un'occasione per fare esperimenti tecnici con un obiettivo in grado di catturare le immagini a lume di candela; Nicholas Roeg, un abile direttore della fotografia, divenne famoso con "Sadismo" (Performance; 1970), un film ambiguo e aggressivo, prima di creare racconti interrotti da lampi di soggettività in "A Venezia... un dicembre rosso shocking" (Don't Look Now, 1974) e "Il lenzuolo viola" (Bad Timing, 1985).
Nell'ambito del nuovo cinema d'arte pan-europeo apparvero molti nuovi registi. Proveniente dal cinema sperimentale, Peter Greenaway si rivolse a un pubblico più vasto con "I misteri del giardino di Compton House" (1982), un lussuoso dramma in costume ambientato nel XVII secolo nel quale usa i giochi labirintici dei suoi primi film per svelare i segreti di un'agiata famiglia, scoperti da un pittore mentre prepara dei disegni della loro tenuta; in "Giochi nell'acqua" (Drowning by Numbers, 1988) fa un uso sistematico dei numeri in ogni sequenza; ne "L'ultima tempesta" (1991), un libero adattamento de "La tempesta" di Shakespeare, fa vivere i ventiquattro libri di Prospero.
Il pastiche e l'umorismo offrirono grandi possibilità a molti giovani registi come Pedro Almodóvar che passò da film gay underground a produzioni più tradizionali che fondono il melodramma, il camp e la commedia sexy. Nel suo mondo, le suore diventano delle drogate ("L'indiscreto fascino del peccato", Entre tinieblas, 1983), una moglie maltrattata dal marito lo ammazza con un osso di prosciutto ("Che cosa ho fatto io per meritare questo? ", ¿Que he hecho yo para merecer esto!!!, 1984) e una conduttrice di telegiornali confessa in diretta televisiva di essere un'assassina ("Tacchi a spillo", Tacones lejanos, 1991). Almodóvar presenta intrecci che ricordano Douglas Sirk, pieni di rivalità romantiche e di morti improvvise; le situazioni e le immagini scandalose sono trattate con una leggerezza casuale e suadente.
Mentre Almodóvar otteneva un successo internazionale con la farsa a sfondo sessuale "Donne sull'orlo di una crisi di nervi" (Mujeres al borde de un ataque de nervios, 1988), il finlandese Aki Kaurismäki si faceva notare in tutto il mondo con il film wendersiano "Ariel" (1989) e il bressoniano "La fiammiferaia" (Tulitikkutehtaan tyttö, 1989). La sua parodia crudele e impassibile, dovuta in parte al suo amore per la musica rock, si può ritrovare allo stato puro in "Leningrad Cowboys Go America" (Id., 1989), mentre è attenuata con un sentimento ironico in "Ho affittato un killer" (I Hired a Contract Killer, 1990) e "Vita da bohème" (Scènes de la vie de Bohème, 1991). La sua celebrazione di personaggi bizzarri e marginali, la vasta gamma di citazioni cinematografiche e la satira dei valori della classe media lo hanno reso un regista di culto nell'Europa degli anni ‘90.
Lo spagnolo Victor Erice è stato meno, prolifico di Almodóvar e Kaurismäki, ma i suoi film hanno colpito il pubblico per la loro pacata bellezza e per l'esplorazione dell'infanzia come tempo della fantasia e del mistero. "Lo spirito dell'alveare" (El espiritu de la colmena, 1972), ambientato nella Spagna degli anni ‘30, ha per protagonista una ragazzina convinta che il criminale a cui offre un nascondiglio sia il sosia del mostro del suo film preferito, "Frankenstein"; in "El Sur" (1983) un adolescente scopre che suo padre ha un'amante. Attraverso una fotografia dominata dal chiaroscuro, Erice costruisce un mondo crepuscolare fra l'infanzia e l'età adulta.
Una tendenza tipica della fine degli anni ‘80 è l'uso complesso e frammentario del flashback. Il nuovo eurofilm spesso ritornava su quei salti temporali in libertà che erano stati sperimentati di Fellini, Buñuel e altri. "L'elemento del crimine" (Forbrydelsens element, 1983) e "Europa" di Lars von Trier descrivono panorami inquietanti e fantasmagorici sospesi fra la storia e il sogno. Dopo un breve interessamento per il realismo sociale durante gli anni ‘70, i più ambiziosi fra i nuovi registi hanno adottato costruzioni basate sull'artificiosità della trama e l'ambiguità delle forme e dei temi caratteristiche del cinema d'arte degli anni ‘60.

1973-1991
Nel giugno del 1989 Michail Gorbaciov riconobbe ai Paesi dell'Europa orientale un grado maggiore di autodeterminazione. Nel 1989 Germania orientale, Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria e Romania sterzarono verso la democrazia e riforme economiche in senso liberista; il 9 novembre venne abbattuto il muro di Berlino; meno di due anni dopo un colpo di stato sventato contro Gorbaciov fu la causa del crollo del Partito Comunista nella stessa Unione Sovietica.
Negli anni precedenti, la Polonia, l'Ungheria e altri Paesi orientali calmarono le loro popolazioni con riforme economiche e aiuti per migliorare le condizioni di vita; la prosperità dell'Europa orientale, tuttavia, era artificiale e sostenuta dal controllo dei prezzi. L'aumento del prezzo del petrolio da parte dell'OPEC nel 1973 fu tra le cause di uno scontento popolare generale. Nuove forze per il cambiamento, come sindacati, gruppi nazionalisti, e persino organi religiosi, cominciarono a intaccare i regimi comunisti.
Gli eventi più importanti accaddero in Polonia. Nel 1976-1977, contro il tentativo del governo di alzare i prezzi furono organizzati un gran numero di scioperi. Lech Walesa e altri operai fondarono un nuovo sindacato, Solidarnosc, che divenne presto una sorta di fronte popolare che si proponeva come obiettivo la trasformazione della Polonia in una "repubblica autogovernata". Il regime rispose dichiarando Solidarnosc illegale, i capi del sindacato vennero arrestati e l'organizzazione diventò clandestina. Quando nel 1985 Gorbaciov annunciò che il governo sovietico non avrebbe appoggiato l'invasione di una Nazione sovrana, il governo polacco cominciò a negoziare con Solidarnosc. Alle elezioni dell'estate del 1989 Walesa fu eletto presidente della nuova Polonia.
La libertà politica, tuttavia, si dimostrò alla fine dannosa per la produzione cinematografica.
In Germania orientale il realismo socialista resisteva, controbilanciato da tendenze verso un cinema giovane e più aggressivo. La fine del regime di Honecker nel 1989, seguito dalla riunificazione con la Germania occidentale l'anno successivo, lasciò in difficoltà i registi più tradizionalisti. Dopo la riunificazione, i film tedeschi raccoglievano solo il 10% degli incassi nazionali.
In Iugoslavia, un movimento cinematografico indipendente che stava emergendo, la produzione fortemente decentralizzata sostenuta finanziariamente dalla televisione e lo spostamento verso la privatizzazione furono annientati dal crollo economico del Paese alla metà degli anni ‘80. Nel 1991 ebbe inizio una guerra etnica che distrusse la società civile.
Il cinema dell'Europa orientale si spostò dalla stagnazione della metà degli anni ‘70 verso la desolante situazione degli anni ‘90. Il cinema ungherese fu quello che subì i cambiamenti meno radicali: negli anni ‘70 il Paese fu sconvolto dalle riforme all'interno dell'economia socialista; il Partito Comunista, pur mantenendo uno stretto controllo, aveva tollerato le elezioni con più candidati e la censura si era relativamente allentata.
Di conseguenza, il cinema ungherese produsse mediamente fra i dodici e i venti film l'anno. Dopo aver lavorato in Italia, Miklós Jancsó ritornò in Ungheria; lavorò con regolarità, ma nessuno dei suoi film fu applaudito con lo stesso entusiasmo con cui erano state accolte le sue opere precedenti, e alcuni film furono più smaccatamente commerciali come "Vizi privati, pubbliche virtù" (1976), dall'esplicito contenuto sessuale. In campo internazionale fu István Szabó ad avere il
successo maggiore, realizzando in Germania occidentale opere ad alto budget e di alte ambizioni.
La situazione cecoslovacca era meno serena. Il governo mise in atto severe restrizioni dopo la Primavera di Praga stringendo il controllo sulle unità cinematografiche.
Molti registi emigrarono negli Stati Uniti, in Canada e in Europa occidentale.
Dei registi della Nová Vlna che rimasero, Jiří Menzel non diresse film realizzò dopo il 1976 diverse commedie agrodolci, in particolare "Il mio dolce paesino" (Vesnicko ma stredisková, 1986), che ottenne un grande successo in Cecoslovacchia e nei cineforum stranieri. Věra Chytilová tornò alla regia con "Il gioco della mela" (Hra o jablko, 1976), una parodia dei rapporti sociali che fu distribuita all'estero nonostante la disapprovazione degli organi ufficiali.
Dopo la rivoluzione del 1989, le opere più importanti che erano state bandite dai circuiti cinematografici vennero alla luce. Il pubblico di tutto il mondo poté vedere quello che i censori avevano proibito e riassaporare la vivacità della Primavera di Praga. "Allodole sul filo" (1969) di Menzel venne rimesso in circolazione e vinse l'Orso d'oro a Berlino vent'anni dopo essere stato girato.
A esprimere la forza più vitale nel cinema dell'Europa orientale di quel periodo fu la Polonia, che offriva ai registi un certo spazio per la critica sociale. All'inizio degli anni ‘70 i registi privilegiavano soggetti storici e letterari a basso rischio; a metà del decennio, in sincronia con lo scontento popolare nei confronti della politica economica, emerse il "cinema di interesse morale".
Un primo esempio è "L'uomo di marmo" (Czlowiek z marmoru, di Andrzej Wajda, 1976), indagine su un "operaio modello" degli anni ‘50: una regista cerca di scoprire perché Birkut, un fedele muratore, è stato cancellato dalla storia. In una consapevole citazione di "Quarto potere", le sue interviste con persone che conoscevano Birkut incorniciano lunghi flashback.
Insieme a "Colori mimetici" (Barwy ochronne, 1976) di Krzysztof Zanussi, una descrizione del conformismo e dell'idealismo in un campo estivo per studenti universitari, "L'uomo di marmo" fu il segnale del nuovo scontento nei confronti del regime.
Con gli scioperi di Solidarnosc galvanizzarono, l'ambiente cinematografico si strinse intorno alla causa. Dall'unità produttive supervisionate da Wajda e Zanussi arrivarono opere che riflettevano un nuovo realismo. Il film più famoso fu "L'uomo di ferro" (Czlowiek z zelaza, di Wajda, 1980), seguito de "L'uomo di marmo", in cui Agnieszka e il figlio di Birkut spingono la loro indagine negli anni ‘60 e ‘70. "L'uomo di ferro", attaccando il governo con un'audacia senza limiti, divenne presto il film polacco più visto nella storia.
Quando il governo abolì le conquiste di Solidarnosc, i registi che si erano esposti ne sentirono i contraccolpi. L'instaurazione della legge marziale portò alla chiusura di tutte le sale per due mesi, bandì diversi film e incoraggiò i registi a produrre musical, commedie, film sexy e opere in costume. Alcuni registi emigrarono, ma gradualmente le restrizioni si allentarono: presto molti film cominciarono a criticare l'imposizione della legge marziale e, con la riapertura del negoziato fra il governo e Solidarnosc, i registi polacchi tornarono al cinema di impegno morale. L'autore più significativo fu Krzysztof Kieslowski: ne "Il cineamatore" (Amator, 1979), un operaio cerca di fare un film amatoriale sulla sua fabbrica, ma si scontra con problemi di onestà e buona fede. "Destino cieco" (Przypadek, 1981) presenta tre trame alternative, segnalando le scelte di vita che un uomo ha a sua disposizione: diventare un leader di partito, un oppositore o un apolitico. "Senza fine" (Bez Konca, 1984) è il suo film più coraggioso contro la legge marziale. Fondendo in maniera pungente il religioso e il profano, la sua serie televisiva "Decalogo" (Dekalog, 1988) prevede una storia per ognuno dei dieci comandamenti.
All'alba delle rivoluzioni del 1989, in diverse industrie cinematografiche si stavano preparando le riforme: la Iugoslavia riconobbe l'autonomia agli studi cinematografici regionali; l'Ungheria e la Polonia abolirono il monopolio statale sul cinema e concessero l'indipendenza alle unità produttive; dopo gli eventi del 1989,la Cecoslovacchia sciolse il suo dipartimento cinematografico centrale; nell'Europa orientale le compagnie cinematografiche furono privatizzate e accolsero l'entrata di capitali provenienti dall'Occidente, mentre la censura fu letteralmente abolita.
La nuova situazione scatenò una serie ininterrotta di problemi, un aumento dei prezzi che fece diminuire l'affluenza del pubblico, così come fece l'home video, sebbene penetrato in ritardo nel mercato dell'Europa orientale. I film americani, a lungo esclusi dall'Europa orientale, inondarono il mercato, come era già successo nel resto dell'Europa dopo il 1945. I prodotti locali erano proiettati difficilmente e comunque solo in piccoli cineforum.
Ai registi non rimase altra possibilità che quella offerta dal cinema globale. Molti registi sognavano un successo come quello de "La doppia vita di Veronica" (La double vie de Vironique, 1991) di Kieslowski. Con una trama tipica del cinema d'arte che mette in scena due donne apparentemente uguali che vivono in due Paesi diversi, il film ha trovato un pubblico in tutto il mondo. Girato in Polonia e Francia, "La doppia vita di Veronica" è stato finanziato dalla compagnia di proprietà di Kieslowski, da una società di produzione francese e da Canal Plus.
Pochi registi hanno tratto vantaggio dalle coproduzioni. Dopo aver sciolto il Patto di Varsavia nel 1991, l'Europa orientale ha chiesto di entrare a far parte della Comunità Europea. Alcuni registi hanno cominciato a ottenere fondi da Eurimages, ma molti hanno impiegato molti anni solo per raggiungere la posizione pur difensiva e ostacolata di gran parte dei loro colleghi dell'Europa occidentale.

1972-1990
Fra il 1964 e il 1982 Leonid Breznev fu il segretario del Partito Comunista dell'Unione Sovietica. Il suo regime presentava un'immagine di solidità e di crescita apparente. Nonostante l'aumento dei comfort a disposizione dei consumatori, la cultura attraversò un'altra fase di congelamento: Aleksandr Solženicyn, Andrej Sacharov e altri dissidenti vennero messi a tacere con l'esilio o la carcerazione. Sergej Paradžanov fu scarcerato nel 1977, ma gli fu impedito di emigrare o di lavorare per il cinema. Il Goskino, l'ente statale che supervisionava l'intera attività cinematografica, incoraggiava l'intrattenimento popolare in sintonia con il nuovo consumismo. Questa strategia venne ricompensata con il successo internazionale di "Mosca non crede alle lacrime" (Moskva slezam ne verit, di Vladimir Mensov, 1980), il primo film sovietico a vincere un premio Oscar.
L'esponente più importante del cinema d'arte opposto ai generi di massa e ai film di propaganda rimase Andrej Tarkovskij, "Solaris" (Solarjs, 1972) aveva in qualche modo mitigato lo scandalo di "Andrei Rubliov" (1966), ma "Lo specchio" (Zerkalo, 1975), oscuro e simile a un sogno, confermò la sua propensione a dar spazio alla vena mistica in forte opposizione al cinema tradizionale. Considerato un reazionario, Tarkovskij riteneva che la famiglia, la poesia e la religione fossero le forze centrali della vita sociale; schieratosi contro il cinema politico, sosteneva un cinema di impressioni dirette, evocative, che lo avvicinava ai registi tedeschi. "Stalker" (Id., 1979) narra di una spedizione allegorica attraverso un paesaggio post-industriale verso "la zona", una regione dove la vita umana può essere cambiata radicalmente. Dominato dal blu scuro, il film ha movimenti della macchina da presa innaturalmente lenti e ipnotici per creare quello che il regista ha definito la pressione del tempo che scorre attraverso le scene. Al momento della morte, nel 1986, Tarkovskij era diventato un emblema del cinema consapevolmente artistico. La sua fama impedì che i suoi film fossero messi da parte e, sebbene non venissero proiettati in URSS, rimanessero prodotti d'esportazione vendibili all'estero.
Durante il suo esilio e silenzio, Paradžanov tornò a realizzare lungometraggi: "La leggenda della fortezza di Suram" (Legenda o Suramskoj kreposti, 1984) ricorda "Il colore del melograno" nella sua semplicità stilizzata e nelle immagini vibranti.
Dietro la facciata del regime di Breznev, l'URSS ristagnava: la produzione agricola e industriale era diminuita, così come erano peggiorate le condizioni di salute e di vita; la corruzione, l'inefficienza e gli impegni militari stavano prosciugando le risorse dello Stato. Michail Gorbaciov, salito al potere nel 1985, rivelò che il Paese era sull'orlo del crollo finanziario e annunciò che l'URSS non avrebbe più sostenuto gli Stati dell'Europa orientale, provocando il rovesciamento dei loro regimi comunisti: un'altro disgelo era cominciato.
Il regime stalinista fu completamente demolito e i cittadini ebbero la possibilità di criticare gli errori della politica economica del passato. I registi acquisirono una libertà di agire senza precedenti: "La fredda estate del '53" (Kholodnoye letopyatdesyat tretyego, 1987), una sorta di western sovietico che presenta un paese terrorizzato da una banda di ex detenuti politici, attacca la politica di Stalin; "Gli occhi di carta di Prišvin" (Bumazhnye glaza Prišvina, di Valerij Ogorodnikov, 1989) descrive i primi giorni della televisione sovietica non risparmiando stoccate al cinema di propaganda e realizzando una memorabile sequenza che accosta dei cinegiornali al massacro sulla scalinata di Ejzenštejn, così da indurre gli spettatori a pensare che Stalin stia scegliendo le vittime da un balcone.
La maggior parte di questi film non sarebbe mai stata realizzata se la perestroika non si fosse aperta verso l'industria cinematografica. Nel 1986 il cinema veniva affidato a unità produttive libere, simili al modello dell'Europa orientale e la censura fu notevolmente allentata.
La glasnost e la perestroika concessero più autonomia alle repubbliche: in Kazakistan, registi quasi punk realizzarono opere come "L'ago" (Igla, di Rashid Nugmanov, 1988), un film sulla droga influenzato dal melodramma hollywoodiano, da Fassbinder e dai road movie di Wenders; in Georgia, Aleksander Rekhviashvili diresse "Il gradino" (Sapexuti, 1986), un film avventuroso e ironicamente assurdo sulle abitudini senza senso della vita sovietica di tutti i giorni; prima di morire, nel 1990, Paradžanov realizzò "Asik Kerib" (1989), adattamento letterario profondamente trasformato dal suo trattamento ritualizzato delle leggende della Georgia e dei costumi etnici.
Mentre aumentava l'interesse della critica nei confronti del nuovo cinema sovietico, i tentativi di Gorbaciov di trasformare radicalmente il comunismo si dimostrarono inefficaci; nel 1989, il governo cominciò a esigere la redditività dagli studi cinematografici e incoraggiò i registi a formare società private e cooperative indipendenti. I produttori poterono in questo modo accedere alla distribuzione, in precedenza dominata unicamente dal Goskino. Secondo la nuova pianificazione, il Goskino era il centro di smistamento dei finanziamenti, ma nel 1990 fu smantellato e il cinema diventò un'impresa completamente privata.
La riduzione dei finanziamenti statali raggiunse il livello minimo; l'economia libera era in realtà un mercato anarchico: nessuna legislazione regolava l'attività cinematografica, la pirateria era in continuo aumento, compagnie clandestine sfornavano film pornografici, spesso per riciclare denaro sporco. Il numero degli spettatori scese fino a un decimo della capacità dei cinema e i nuovi imprenditori fallirono in gran parte; a causa della svalutazione del rublo i costi di produzione aumentarono dieci volte.
Il prodotto locale doveva anche affrontare dei nuovi concorrenti: il mercato era dominato da vecchi film hollywoodiani o a basso costo che catturavano il 70% degli spettatori.
Nonostante tutti questi fattori, gli ultimi anni del cinema sovietico sono ricchi di opere importanti. I registi collaborano con gli scrittori e i compositori in nome di una cultura innovativa ed eclettica. Era dagli anni ‘60 che un numero così elevato di film sovietici non venivano apprezzati in Occidente: "Taxi Blues" (Id., di Pavel Lungin, 1990), una coproduzione franco-russa, descrive personaggi immorali e alla deriva in un mondo urbano decadente; il "film nero" "Sta' fermo, muori e risuscita" (Zamri, oumri, voskreni, di Vitali Kanevskij, 1990), descrive la cattiveria e il rancore che pervadono la vita sovietica contemporanea attraverso una storia sulla crudeltà dei bambini in un villaggio durante la seconda guerra mondiale; "Il lago dei cigni - La zona" (Lebedyne ozero - Zona, 1990), una coproduzione ucraino-canadese diretta da Yurj Ilienko, tratta con ascetismo bressoniano una favola politica in cui il protagonista, un evaso da un campo di prigionia, si nasconde in una gigantesca struttura vuota a forma di falce e martello. La pesante carica simbolica di quest'emblema imponente e arrugginito è controbilanciata da una ricca colonna sonora e da un'accurata descrizione di questo nascondiglio umido e angusto dove non c'è neanche spazio per muoversi.
Lo sventato colpo di stato contro Gorbaciov provocò lo scioglimento del Partito Comunista. Al potere salì Boris Eltsin e l'URSS si trasformò nella CSI (Comunità di Stati Indipendenti): la Russia, l'Ucraina, l'Armenia e altre ex repubbliche sovietiche diventarono così Nazioni distinte.
Come i loro colleghi dell'Europa orientale, i registi della CSI erano ansiosi di lavorare con l'Occidente, ma "la casa comune europea" che aveva previsto Gorbaciov e che consisteva in un grande mercato che andava dall'Atlantico agli Urali stentava a nascere. La CSI si trovava con un'economia in sfacelo, uno standard di vita in forte declino e problemi moderni come la criminalità e la droga.
Le Nazioni dell'ex Unione Sovietica, per disperazione, furono costrette a mettere le loro risorse e i loro mercati a disposizione dello sfruttamento occidentale: le principali società statunitensi aprirono uffici per la distribuzione dei loro film e costruirono dei multiplex; le società inglesi, francesi e italiane lanciarono opere "internazionali" che avevano come protagonisti grandi attori occidentali ed erano ambientate negli Stati della CSI; il Mosfilm, il Lenfilm e altri teatri di posa divennero strutture a disposizione delle produzioni di successo; gli occidentali vi potevano infatti trovare ambientazioni esotiche e personale zelante: quella che una volta era stata la terra della liberazione del proletariato non mise alcun freno agli investimenti di capitale straniero.

1966-1993
L'Australia e la Nuova Zelanda apparvero sulla scena internazionale in parte grazie ai finanziamenti statali, come era accaduto per il cinema dell'Europa occidentale, ed entrambi i Paesi diedero vita a un nuovo cinema destinato al circuito dei festival.
La produzione cinematografica australiana crollò negli anni ‘50 e all'inizio degli anni ‘60. Uno dei primi segnali che l'Australia stava ricominciando a produrre film commercialmente validi arrivò quando Michael Powell, costretto a lavorare per la televisione dopo gli scandali causati da "L'occhio che uccide", realizzò il nuovo lungometraggio, "Sono strana gente" (They're a Weird Mob, 1966), una commedia a basso costo su un italiano immigrato(Walter Chiari) che ebbe molto successo.
Quando, all'inizio degli anni ‘70, il partito liberale salì al potere, l'Australia cercò di crearsi un'identità nazionale. Le arti poterono usufruire nuovamente del sostegno da parte dello Stato: nel 1970 il governo formò l'Australian Film Development Corporation che finanziò la commedia "Le avventure di Barry McKenzie" (The Adventures of Barry McKenzie, di Bruce Beresford, 1972), "Le macchine che distrussero Parigi" (The Cars That Ate Paris, di Peter Weir, 1974) e altri film di registi che avrebbero presto dato vita a una new wave. Nel 1975, il Film Development Corp fu sostituito dall'Australian Film Commission (AFC) che nei primi cinque anni della sua esistenza aiutò a finanziare circa cinquanta film.
Nel 1956 anche in Australia era arrivata la televisione, distogliendo il pubblico dai cinema, ma anche incoraggiando una nuova generazione di giovani registi che sognavano di fare film destinati alla proiezione nelle sale. La critica cinematografica australiana degli anni ‘70 prediligeva i film della Nouvelle Vague francese e di autori come Ingmar Bergman e Luis Buñuel. La combinazione di supporto governativo e di interesse per il cinema di qualità sul modello europeo portarono i registi australiani verso un pubblico internazionale d'élite. Il film pioniere fu "Picnic ad Hanging Rock" (Picnic at Hanging Rock, di Peter Weir, 1976), che racconta la sparizione di un gruppo di compagne di scuola durante una gita; il film procede con un ritmo lento, creando intense atmosfere attraverso ambientazioni suggestive, con una colonna sonora spettrale e una fotografia luminosa.
Sebbene il nuovo cinema australiano comprendesse generi diversi, i film che ottennero maggior successo all'estero furono quelli storici. Bruce Beresford realizzò un film ambientato in una scuola vittoriana per ragazze, "Il sapore della saggezza" (The Getting of Wisdom, 1977), e "Breaker Morant" (Id., 1980), storia di un'assurda corte marziale durante la guerra anglo-boera. Un contesto storico altrettanto ricco è offerto da Peter Weir ne "Gli anni spezzati" (Gallipoli, 1981), un dramma ambientato durante la prima guerra mondiale, e "Un anno vissuto pericolosamente" (The Year of Living Dangerously, 1982), che mette in scena la rivolta contro Sukarno in Indonesia. Uno dei pochissimi film storici dedicati alla condizione degli aborigeni, "Il canto di Jimmie Blacksmith" (The Chant of Jimmie Blacksmith, di Fred Schepisi, 1978) presenta un giovane uomo di colore che lotta per avere successo in un mondo dominato dai bianchi per poi essere indotto a una ribellione omicida. Phillip Noyce in "Newsfront" (Notizie dal fronte, 1978) descrive con grande ammirazione i registi dei cinegiornali della fine degli anni ‘40. Tutti questi, ed altri importanti registi australiani, finirono poi per trasferirsi a Hollywood.
Oltre a questi film di prestigio, l'industria cinematografica australiana realizzò alcuni successi internazionali popolari. Una piccola produzione realizzò, senza il finanziamento del governo, un paio di violenti road movie futuristici, "Interceptor" (Mad Max, 1978) e "Interceptor; il guerriero della strada" (Mad Max 2, 1982), in cui il produttore-regista George Miller, influenzato dal western all'italiana di Sergio Leone e dai film d'azione a basso costo di Roger Corman, popola l'entroterra australiano, selvaggio e postatomico, di bizzarri guerrieri. Qualche tempo dopo, "Mr. Crocodile Dundee" («Crocodile» Dundee, di Peter Fairnan, 1986), una semplice commedia d'azione con l'attore australiano Paul Hogan come protagonista, ottenne un inaspettato e grandissimo successo in tutto il mondo.
Il successo dei film di qualità e dei film popolari portò all'aumento degli investimenti stranieri, delle coproduzioni e delle esportazioni: "Mad Max oltre la sfera del tuono" (Mad Max Beyond Thunderdome, di George Miller e George Ogilvie, 1985) venne finanziato dalla Warner Bros; anche "Mr. Crododile Dundee 2" («Crocodile» Dundee 2, di John Cornell, 1988) fu prodotto all'estero. Alla fine degli anni ‘80, il cinema australiano era diventato simile a quello hollywoodiano, spesso legato alla presenza di star straniere come Meryl Streep in "Un grido nella notte" (A Cry in the Dark, di Fred Schepisi, 1990).
Il percorso della Nuova Zelanda verso una produzione cinematografica nazionale fu simile, anche se più breve, a quello australiano. Dall'epoca del cinema muto la produzione era stata solo sporadica e non ci fu un'industria organizzata fino agli anni ‘70. Nel 1978 il governo fondò la New Zealand Film Commission per il finanziamento di film nella fase pre-produttiva e per aiutarli a trovare investimenti privati. Negli anni ‘80 fu finalmente stabilito un livello minimo, seppur fluttuante, di produzione.
Dato che la popolazione della Nuova Zelanda è di soli tre milioni di abitanti, l'unico modo per recuperare i costi sostenuti era l'esportazione e, come sempre, puntare sul pubblico d'élite: "Navigator" (Navigatore,di Vincent Ward, 1988), per esempio, trasporta i suoi personaggi dall'Inghilterra medievale a una moderna città australiana.
Un altro nome importante è quello della regista Jane Campion che, nata in Nuova Zelanda, studiò all'Australian and Television School. Il suo primo lungometraggio non televisivo, "Sweetie" (Id., 1989), fu prodotto in Australia; mettendo a confronto due sorelle con diversi problemi mentali, il film esplora il confine fra la pazzia e la sanità e fra il cinema di qualità e il melodramma. "Un angelo alla mia tavola" (An Angel at My Table, 1990) nacque come una mini serie costituita da tre parti e destinata alla televisione, ma poi uscì nelle sale di tutto il mondo. Il film, basato sulle opere autobiografiche della poetessa Janet Frame, attirò il pubblico per la sottile bravura della regista nel descrivere gli sforzi della protagonista per dimostrare di non essere "pazza".
Jane Campion, per sottolineare la rappresentazione della misera vita quotidiana della protagonista, usa molti primi piani e dà risalto alle scene attraverso paesaggi mozzafiato che rivelano la sua poetica visione del mondo. Il suo terzo film, "Lezioni di Piano" (The Piano, 1993), una coproduzione fra Australia, Francia e Nuova Zelanda, ha vinto la Palma d'oro al Festival di Cannes.

1975-1993
L'industria cinematografica giapponese era molto più solida di quella australiana o neozelandese; eppure, mentre il Giappone stava diventando una delle più potenti forze economiche del mondo, le sue compagnie cinematografiche entravano in un periodo molto difficile.
Come nei Paesi occidentali, i problemi iniziarono quando il numero di spettatori nelle sale cominciò a diminuire. Durante gli anni ‘70 la produzione e la distribuzione indipendente guadagnarono terreno; il gruppo indipendente più orientato verso il cinema di qualità era l'Art Theater Guild (ATG) che negli anni ‘70 finanziò alcuni film di Oshima, Yoshida, Shindo e altri registi della New Wave. Compagnie indipendenti più grandi, finanziate da grandi magazzini, da televisioni e da case editrici, cominciarono a produrre film in concorrenza agli studios.
Tra i progetti realizzati internamente agli studios, le serie interminabili come i film di mostri della Toho o i drammi sentimentali di Tora-San della Shochiku finirono per diventare le produzioni più sicure. Le tre grandi (Toei, Toho e Shochiku) dominavano la distribuzione e l'esercizio in modo da poter controllare ancora il mercato. I generi di maggior successo erano i film sulle arti marziali, i racconti yakuza (gangster), i film di fantascienza (basati sul successo di "Guerre stellari"), i film catastrofici e la pornografia soft-core (il cosiddetto "roman porno").
Ichikawa ottenne un grandissimo successo con "La famiglia Inugami" (Inugami-ke no ichizoku, 1976), un film di gangster sul modello de "Il padrino", finanziato dalla Toho e da una casa editrice specializzata in romanzi polizieschi. "La Ballata di Narayama" (Narayama bushi-ko, di Imamura, 1983), prodotto dalla Toei, ottenne un grande riconoscimento internazionale (compresa la Palma d'oro al Festival di Cannes) raccontando l'usanza di abbandonare gli anziani prossimi alla morte, tipica della cultura rurale.
I più famosi registi delle grosse produzioni, come ad esempio Akira Kurosawa, cominciarono a lavorare per film finanziati da Paesi diversi: "Dersu Uzala" (Id., 1975) era un progetto russo; "Kagemusha" (Id., 1980) e "Ran" (Id., 1985) erano coprodotti da Francia e Stati Uniti; "Sogni" (Yume, 1990) fu in parte finanziato dalla Warner Bros.
Le coproduzioni internazionali di Nagisa Oshima rappresentano un passo indietro rispetto alle sperimentazioni delle sue opere degli anni ’60; il suo primo film franco-giapponese, "Ecco l'impero dei sensi" (1976), ottenne uno scandaloso successo. Ispirato a un famoso fatto di cronaca del 1936, è la storia di un uomo e una donna che si ritirano in un mondo di sperimentazioni erotiche estreme, fino a quando l'uomo soccombe languidamente alla morte e alla mutilazione. Oshima abbandona decisamente tutti gli esperimenti modernisti che lo avevano reso famoso e descrive gli incontri amorosi fra i due protagonisti con immagini sontuose. Sebbene fosse stato girato in Giappone, il film fu pesantemente censurato nel Paese; andare a Parigi per vederne la versione integrale divenne una moda fra i ricchi giapponesi.
Imamura, Kurosawa e Oshima diminuirono la loro produzione fino a realizzare un film ogni quattro o cinque anni. Mentre lottavano per trovare finanziamenti per i loro ambiziosi progetti, nasceva in Giappone una nuova generazione di registi disposta a lavorare velocemente e con pochi soldi. Il cinema underground in Super8, spesso ispirato al punk, portò diversi registi a lavorare nell'ambito del cinema commerciale.
La nuova generazione, nata intorno agli anni ‘60, considerava il cinema politico ormai lontano, così come i registi della New Wave avevano considerato distante da loro la tradizione di Ozu e Mizoguchi. I giovani registi della fine degli anni ‘70 e inizio anni ‘80 si dilettavano nella volgarità anarchica dei fumetti violenti (manga) e della musica heavy-metal, attaccando gli stereotipi giapponesi dell'armonia e della prosperità con un marcato umorismo.
Non stupisce dunque che spesso si concentrassero sulla cultura giovanile con film che avevano per protagonisti dei motociclisti-rockettari come "La folle strada rombante" (Kurnizaki sanda rodo, di Sogo Ishii, 1980); "Brezza pomeridiana" (Yazetachino gogo, di Hitoshi Yazaki, 1980) presenta invece fantasie lesbiche giovanili. La tradizione nazionale rappresentava un altro soggetto: in "Gioco di famiglia" (The Family Game, di Yoshimitsu Morita, 1983), una studentessa universitaria che dà ripetizioni a un ragazzino finisce per sedurre un'intera famiglia; ne "La bizzarra famiglia" (Gyakufun-Sha Kazoto, di Sogo Ishii, 1984) odi familiari si acutizzano fino a scatenare una disperata battaglia con una motosega portatile; "Tetsuo" (Tetsuo: The Iron Man, di Shinya Tsukamoto, 1989), una storia fantastica in cui dei cittadini qualunque si trasformano in robot a causa dei loro macabri impulsi sessuali, è impregnato della stessa assurda violenza.
Giovani registi realizzarono film meno grotteschi nelle loro sperimentazioni. Fra questi spicca "Dormire, così come sognare" (Yume Miruyoni Nemuritai, di Kaizo Hayashi, 1986), una meditazione sulla storia del cinema giapponese in cui due investigatori vanno alla ricerca di una donna rapita, legata in maniera enigmatica a un film muto incompleto; la trama è interrotta da scene tratte dal film degli anni ‘20, riprese da Hayashi per dar vita a un pastiche dello stile muto giapponese. Lo stesso film, inoltre, è costruito come un film muto: ci sono musica e rumori, ma i dialoghi sono presentati sotto forma di didascalie; l'unica voce che si sente è un benshi che commenta.
Contemporaneamente alla nuova generazione di registi che lavoravano in presa diretta, emerse un gruppo di animatori specializzati in cartoni animati di fantascienza e fantastici della durata dei lungometraggi, definiti anime. Questi film pieni di energia, ispirati ai manga, hanno come protagonisti robot, astronauti e ragazzini supereroici. Alcuni dei maggiori successi giapponesi degli anni ‘80 sono stati film d'animazione e uno di questi, il sanguinoso e postapocalittico "Akira" (Id., di Katsuhiro Otomo, 1987), è diventato un film di culto in altri Paesi. Dovendo lavorare con budget limitati, gli artisti delle anime rinunciarono ai complessi movimenti dell'animazione classica in favore di angolazioni oblique, un montaggio veloce, immagini create al computer e una padronanza straordinaria delle sfumature e delle superfici traslucide. Anime di ogni tipo produssero notevoli guadagni provenienti soprattutto dalla vendita alle televisioni straniere e dalle videocassette.
Un altro regista su cui l'industria tradizionale puntava molto era Juzo Itami. Figlio di un famoso regista, era stato attore, sceneggiatore e autore a partire dagli anni ‘60. I suoi "Il funerale" (The Ososhiki, 1985), "Tampopo" (Id., 1986) e "Una donna tassista" (Marusa no onna, 1987) sono satire mordaci della vita giapponese contemporanea. Pieni di comicità fisica e parodie del nuovo Giappone consumistico, questi film divennero prodotti facilmente esportabili all'estero e fecero di Itami il regista giapponese più visto degli anni ‘80.
Il successo del "nuovo cinema giapponese" fu consolidato dalla situazione dell'industria: come negli Stati Uniti, la diminuzione del numero di spettatori nelle sale si arrestò alla fine degli anni ‘70.
Anche i film anticonformisiti dovettero affrontare una forte concorrenza da parte delle compagnie statunitensi: nel 1976, per la prima volta, gli incassi dei film stranieri superarono quelli dei film giapponesi.
L'industria cinematografica, avendo poche prospettive nelle esportazioni e dovendo affrontare una grande concorrenza interna, riponeva qualche speranza nei nuovi registi e nella politica fiscale che incoraggiava gli investimenti nel settore. Il controllo delle sale, inoltre, garantiva loro una parte delle entrate di Hollywood. Ma anche questa sicurezza fu messa in discussione nel 1993, quando la Time Warner aprì una serie di multiplex: questa nuova penetrazione nel mercato minacciava di indebolire ancora di più le tre grandi.
Al di là dell'industria cinematografica, comunque, l'economia giapponese stava entrando in conflitto con Hollywood. Questo avvenne durante lo strepitoso successo dell'industria nazionale che, nel 1980, deteneva il primato nel campo delle automobili, degli orologi, delle motociclette, delle macchine fotografiche e dell'elettronica. Il Giappone divenne il principale creditore internazionale prendendo il posto degli Stati Uniti: possedeva infatti le più grandi banche e società assicurative, e investiva miliardi di dollari in compagnie straniere e beni immobili.
Le più grandi società giapponesi nel campo delle comunicazioni parteciparono alla produzione cinematografica straniera. Negli anni ‘80 le finanziarie cominciarono a versare centinaia di milioni di dollari nelle società hollywoodiane. Con lo sviluppo della pay-tv e della televisione ad alta definizione le compagnie giapponesi avevano bisogno di materiale di tipo hollywoodiano che attirasse il pubblico. Con minore dispendio, la JVC investì nei film di Luc Besson e Jim Jarmusch, mentre un'agenzia pubblicitaria finanziò "Fino alla fine del mondo" (Bis aus Ende der Welt, di Wim Wenders, 1990) e una compagnia supportata dal quotidiano "Nippon Herald" coprodusse il film inglese "La moglie del soldato" (The Crying Game, di Neil Jordan, 1992). Gli investimenti giapponesi si stavano inoltre espandendo verso film realizzati a Hong Kong e Taiwan.
La cosa più sorprendente è che le compagnie giapponesi di prodotti elettronici stavano acquisendo i teatri di posa hollywoodiani: nel 1989, la Sony acquistò la Columbia Pictures Entertainment per tre miliardi e quattrocento milioni di dollari, mentre la Matsushita Electric Industrial Company pagò sei miliardi di dollari per la Music Corporation of America, la compagnia affiliata della Universal Pictures. Quest'ultimo fu il più grosso investimento in una società statunitense mai fatto da una compagnia giapponese. Quando la Sony si associò con la Time Warner e la News Corporation di Rupert Murdoch, divenne il più potente gruppo globale nell'industria dell'intrattenimento.
Nonostante l'industria cinematografica nazionale si fosse ridimensionata, la portata degli investimenti giapponesi all'estero garantiva al Paese un posto centrale nel mercato cinematografico internazionale. Durante i decenni del dopoguerra, le coproduzioni supervisionate dai governi erano diventate una prassi cinematografica diffusa, ma negli anni ‘70 e ‘80, anche a causa degli intoppi burocratici, hanno ceduto il passo a forme di cooperazione internazionale. Lo sviluppo dell'economia giapponese, il rafforzamento dell'unità europea e il crollo del comunismo hanno intensificato ulteriormente la tendenza verso un mercato cinematografico globale. Dal punto di vista estetico, questa tendenza ha spinto i registi ad attrarre il pubblico con varianti dei generi popolari e delle convenzioni del cinema di qualità sperimentate in passato.

1975-1992
Con lo svanire delle speranze di un cambiamento sociale, la convinzione che il Terzo Mondo rappresentasse una forza politica a se stante si dimostrò sempre meno plausibile. Gli economisti cominciarono a descrivere queste regioni come un "mondo in via di sviluppo": Corea del Sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan divennero potenti centri industriali e finanziari.
Nel complesso, tuttavia, le prospettive di questi Paesi si rivelarono ancora più negative di quanto già non fossero nel periodo precedente al 1975: molte Nazioni erano governate da giunte militari o da dittatori, mentre il divario fra i Paesi ricchi e quelli poveri si accentuò. L'agricoltura meccanizzata portò all'aumento della disoccupazione nelle campagne, costringendo le famiglie a emigrare verso le zone urbane. Quindici fra le più grandi città del mondo si trovavano nei Paesi in via di sviluppo ed erano in genere circondate da quartieri di baracche e da accampamenti di abusivi.
L'indebitamento verso l'Occidente aumentò vertiginosamente, proprio negli anni in cui i Paesi industrializzati, colpiti da crisi petrolifere, cominciarono a tagliare gli aiuti all'estero. La recessione mondiale all'inizio degli anni ‘80 poté solo intensificare i problemi finanziari dei Paesi in via di sviluppo.
A rovinare i Paesi sottosviluppati furono anche le guerre e le malattie: 1988, in Zaire, una persona su tredici era portatrice del virus HIV. Il dato forse più allarmante rimane però l'espansione incontrollata della popolazione, frutto della scarsa alfabetizzazione, della povertà e della Chiesa.
Nonostante gli enormi problemi, queste Nazioni continuarono a svolgere un ruolo determinante nel cinema mondiale. Il pubblico rimase numeroso e divenne un obiettivo per le compagnie cinematografiche statunitensi ed europee. Dopo la metà degli anni ‘70, la nuova Hollywood penetrò nei mercati ancora più profondamente di quanto non avesse fatto prima, arrivando a costituire fino all'80% del materiale proiettato.
L'esportazione fu meno semplice del previsto: industrie nazionali forti come in India e a Hong Kong riuscirono a tenere a bada la concorrenza straniera; i regimi comunisti bloccarono il cinema americano; in tutti i Paesi si noleggiavano, vendevano e barattavano copie illegali dei film hollywoodiani, spesso saturando il mercato locale molto prima della loro uscita ufficiale. In Birmania nei "teatrini" ricavati nei retrobottega, simili a quelli del cinema delle origini, si usavano proiettori video per mostrare cassette VHS.
Nel 1976, quando la Thailandia alzò bruscamente le tasse sui film d'importazione, la MPEAA boicottò il Paese per quattro anni, finché il governo tailandese capitolò; nel 1985, il Congresso e l'Ambasciata americana chiesero che la Corea del Sud permettesse a Hollywood di impiantare le sue società di distribuzione e presto il Paese diventò il secondo mercato asiatico per ampiezza per i film americani. La lotta contro la pirateria si concluse con la chiusura di tutti i negozietti di Taiwan che proiettavano film in videocassetta.
Questi Paesi continuarono comunque a produrre un notevole numero di film: alla fine degli anni ‘80, la metà del prodotto cinematografico globale veniva realizzata dai Paesi in via di sviluppo.
In India, Indonesia e Corea del Sud molti film non sono mai stati proiettati nelle sale, ma sono finiti direttamente in videocassetta; a dispetto del numero di film prodotti all'interno di ogni Paese, inoltre, le importazioni raccoglievano gran parte degli incassi al botteghino; i problemi economici hanno distrutto alcune industrie; il debito nazionale ha annullato il cinema brasiliano e argentino all'inizio degli anni ‘90.
Ciò nonostante, il cinema è un aspetto importante della cultura nazionale di tutti i Paesi in via di sviluppo. In Asia, America Latina e Africa, i registi esprimono le concezioni autoctone della storia nazionale, della vita sociale e del comportamento individuale. Il cinema mostra anche un senso di identità sovranazionale, per esempio quando i registi cercano di esprimere temi pan-africani. Alcuni film provenienti dai Paesi in via di sviluppo hanno catturato l'attenzione del pubblico internazionale.
Come in Europa, i governi si sono resi conto che se volevano un cinema nazionale dovevano contribuire a finanziarlo. La maggior parte dei nuovi cinema è vissuta del sostegno statale. I registi si affidavano anche ad accordi per coproduzioni con Stati vicini o con compagnie europee, spesso dei Paesi che nel passato erano stati loro colonizzatori. "La via delle capanne dei negri" (Rue cases nègres, di Euzhan Palcy, Antille, 1983) è stato finanziato da società francesi, mentre "Gli occhi blu di Yonta" (Os olhos azuis de Yonta, 1992), diretto da Flora Gomes, è una coproduzione fra la Guinea Bissau e il Portogallo, con la partecipazione di una compagnia francese e di Channel 4 inglese.
I nuovi cinema che emersero nei Paesi in via di sviluppo non presentavano la coerenza stilistica o tematica che aveva caratterizzato le correnti del cinema muto o il neorealismo italiano. Il nuovo cinema argentino, il "cinema parallelo" indiano, la New Wave di Hong Kong e la "quinta generazione" cinese raggruppavano spesso registi molto diversi fra loro.
C'era tuttavia qualche aspetto comune. I nuovi cinema spesso proponevano film di critica politica, legati ai problemi delle Nazioni in via di sviluppo. L'eredità del cinema rivoluzionario si poteva ritrovare nei film sugli abusi di potere da parte dei dittatori, sulle condizioni di vita delle famiglie, sui conflitti etnici e su altri problemi scottanti. La tutela ai diritti delle donne, a lungo vittime di soprusi, fu spesso al centro dell'attenzione. Il 1975-1985 venne definito dall'ONU il "decennio internazionale della donna", e questo contribuì a far emergere problemi come l'assistenza ai bambini in età prescolare, l'aborto, la violenza carnale e altri ancora. Nello stesso periodo, le registe donne cominciarono a entrare nel campo della produzione, spesso concentrandosi sui problemi femminili.
Anche quando i registi affrontavano soggetti o temi politici, la maggior parte di loro aveva abbandonato la sperimentazione radicale dei primi anni ‘70: i film realizzati nei Paesi in via di sviluppo tendevano ad affidarsi alle convenzioni narrative classiche o al cinema di qualità moderno (in particolare la dialettica fra realismo oggettivo e commento dell'autore). Queste strategie diedero la possibilità ai registi di rivolgersi a un pubblico più ampio. Abbandonando lo sperimentalismo, questi film potevano essere visti nei festival e in certi casi distribuiti in Occidente.

1973-1987
Durante gli anni ‘70, i governi militari presero il potere in molti Paesi del Sud e del Centro America: il Brasile, l'Uruguay, il Cile e l'Argentina caddero tutti sotto dittature militari. Dopo il 1978, in quasi tutti i Paesi dell'America Latina fu ristabilita la democrazia, ma i nuovi governi dovettero affrontare tassi di inflazione assai elevati, una diminuzione nella produzione e urgenti debiti con l'estero. Dal 1982 nessuno di questi grandi debitori è stato più in grado di ripagare nemmeno in parte il capitale ottenuto in prestito.
Le sale dell'America Latina erano state dominate da Hollywood a partire dalla prima guerra mondiale. Il prodotto cinematografico di questi Paesi era cresciuto in maniera significativa nel decennio 1965-1975, ma poiché gran parte dei governi di destra non impediva le importazioni dagli Stati Uniti, nel decennio successivo la produzione è diminuita costantemente. In qualche caso, tuttavia, le industrie locali si sono rafforzate e alcuni registi hanno conquistato un posto nel circuito internazionale del cinema di qualità.

Brasile
Nel 1973 le guerriglie avevano definitivamente perso la loro battaglia contro il governo militare brasiliano. Un anno dopo, il generale Ernesto Geisel diventò presidente del Brasile promettendo una maggiore apertura.
Nel 1975, l'Embrafilme, nato come ente di distribuzione statale, fu riorganizzato per dar vita a un monopolio a concentrazione verticale. Il governo alzò anche la quota sulle proiezioni, tagliando, di conseguenza, le importazioni e creando una domanda per i film nazionali.
L'Embrafilme lavorò con produttori indipendenti e cercò la collaborazione della televisione e dei Paesi stranieri per le coproduzioni. I poteri dell'ente aumentarono con la transizione verso un regime democratico e costituzionale.
I veterani del Cinema Nôvo mantennero un ruolo centrale nella cultura cinematografica brasiliana. Come i loro colleghi in altre parti del mondo, i registi brasiliani rinunciarono all'attivismo politico e alla sperimentazione formale in nome di un linguaggio più accessibile. Molti registi brasiliani e di altri Paesi del continente legarono la loro opera alla corrente letteraria latino-americana del "realismo magico".
Altri registi si adattarono al mercato internazionale. "Bye Bye Brasil" (Id., di Carlos Diegues, 1980), dedicato "ai brasiliani del ventunesimo secolo", ebbe molto successo all'estero. Il film, nel quale si racconta la storia di una piccola compagnia teatrale itinerante che vaga per un Paese straziato dalla povertà, in cui proliferano le discoteche, i bordelli, le città fungo e le antenne TV, si caratterizza per una sfrenatezza e un sentimentalismo che ricordano il primo Fellini. Un altro film che fu esportato con grande successo è "Donna Flor e i suoi due mariti" (Dona Flor e se us dois maridos, di Bruno Barreto, 1976), tratto dal romanzo di Jorge Amado, in cui un uomo che torna dal regno dei morti divide il letto di sua moglie con il secondo marito della donna.

Argentina
Durante la dittatura militare in Argentina (1976-1983), migliaia di cittadini furono arrestati e uccisi segretamente. Il regime privatizzò le industrie statali e abbassò le tariffe, aprendo il Paese ai film statunitensi e incoraggiando la produzione locale a basso costo. Quella che divenne famosa come la "sporca guerra" perseguitava gli artisti uccidendoli, mettendoli su liste nere o esiliandoli. La guerra per impadronirsi delle isole Falkland, colonie inglesi, contribuì a rovesciare il regime e portò all'elezione di un governo civile nel 1984.
Con la democrazia, nonostante l'inflazione, emersero diversi film tra cui "La storia ufficiale" (La historia oficial, di Luis Puenzo, 1985) - vicenda di una donna che scopre che la madre della figlia adottiva è "scomparsa" per mano degli squadroni della morte -, un dramma fortemente emotivo che ricorre a un intreccio tradizionale punteggiato da episodi simbolici. "La storia ufficiale" vinse l'Oscar per il miglior film straniero nel 1986.
Presto si cominciò a parlare di "nuovo cinema argentino". María Luisa Bemberg esplorò i ruoli della donna nella società argentina in "Camilla" (Camila, 1984) e "Miss Mary" (Id., 1986). Una distribuzione internazionale ebbe anche "Tangos - L'esilio di Gardel" (Tangos - El exilio de Gardel, di Fernando E. Solanas, 1985), in cui alcuni esiliati argentini a Parigi mettono in scena una "tanguedia", una commedia-tragedia presentata attraverso la danza. Il film, a tratti divertente, a tratti triste, celebra il ruolo del tango nella cultura argentina. Solanas, coautore del film attivista "L'ora dei forni", passa dalla realtà al fantastico secondo le convenzioni del cinema d'arte, avvolgendo i protagonisti in una nube allegra e misteriosa di fumo giallo. Iniziato in Francia durante la "sporca guerra", Tangos fu terminato in Argentina dove ebbe un grandissimo successo al botteghino.

Messico
Il governo messicano controllò l'industria cinematografica per decenni, ma durante gli anni ‘70 e ‘80 l'atteggiamento dello Stato oscillò bruscamente da un regime all'altro.
Nel 1975 il governo liberale comprò le principali strutture cinematografiche, fondò diverse società di produzione e si occupò anche della distribuzione. Queste misure incoraggiarono la produzione e favorirono lo sviluppo di un cinema d'autore. Fra la fine degli anni ‘60 e l'inizio degli anni ‘70, molti giovani registi avevano sentito l'esigenza di dedicarsi al cinema politico. "Reed: Messico insurrezionario" (Reed: México insurgente), biografia del giornalista John Reed, diretta da Paul Leduc nel 1970, segnò la nascita ufficiale del gruppo di cui facevano parte Arturo Ripstein e Jaime Humberto Hermosillo. Il veterano Felipe Cazals fece scalpore con "Canoa" (1975), ricostruzione di un linciaggio avvenuto in un villaggio nel 1968.
Il Messico, sebbene non avesse un regime militare come quello che governava il Brasile, l'Argentina e il Cile, alla fine degli anni ‘70 si spostò verso destra. Il nuovo presidente intraprese una politica di privatizzazione; lo Stato investì solamente in pochi progetti di prestigio.
L'improvviso calo dei prezzi del petrolio obbligò il governo a chiedere prestiti all'estero che portarono iperinflazione, disoccupazione di massa e indebitamento. La cultura cinematografica subì diversi attacchi: nel 1979 la polizia irruppe nei teatri di posa Churubusco e, accusandolo staff di cattiva gestione, arrestò e torturò parecchie persone; nel 1982 un incendio alla Cineteca Nacional distrusse migliaia di copie di film e di documenti.
All'inizio degli anni ‘80 la situazione migliorò leggermente quando cominciò una ricostruzione economica che prevedeva aiuti maggiori all'industria cinematografica. Fu creato un ente nazionale per finanziare le produzioni di qualità e attirare coproduzioni dall'estero. Il Messico divenne un luogo a buon mercato per le produzioni statunitensi di successo e la sexycomedia, un nuovo genere ispirato ai fumetti popolari, cominciò ad attirare gli spettatori.
Molti dei registi sostenuti dallo Stato all'inizio degli anni ‘70 nel decennio successivo divennero i capisaldi della produzione di qualità: Hermosillo realizzò con "Doña Herlinda e suo figlio" (Doña Herlinda y su hijo, 1984), il primo film messicano esplicitamente omosessuale; Leduc attrasse il pubblico di tutto il mondo con "Frida" (1984) - biografia della pittrice messicana Frida Kahlo - in cui il regista elimina i dialoghi e riduce l'intreccio al minimo con notevole audacia. Gli episodi della vita di Frida, inoltre, sono stravolti nel loro ordine cronologico e presentano inquadrature che riprendono i motivi delle sue opere.

Cuba
In quanto Stato comunista, Cuba aveva in questo periodo un'industria cinematografica più centralizzata e stabile, ma la sperimentazione formale scomparve quasi del tutto. "Canto del Cile" (Cantata de Chile, di Humberto Solas, 1976) era un emozionante spettacolo musicale che rifletteva su scala epica le tecniche teatrali ma era ancora meno audace delle opere della fine degli anni ‘60 e inizio anni ‘70. "L'ultima cena" (La ultima cena, di Tomás Gutiérrez Alea, 1977), una critica all'aristocrazia schiavista, è molto più trasparente e lineare nella costruzione di "Memorie del sottosviluppo" (Memorias del subdesarrollo). I registi cercarono uno stile più accessibile e si dedicarono a film di genere, come gli intrighi spionistici e i noir.
Il numero dei film cubani fu superato dalle produzioni provenienti dal Giappone, dal blocco sovietico e dai Paesi latino-americani. Il prodotto nazionale riuscì comunque ad accumulare una percentuale sostanziosa degli incassi, anche perché lo spettatore cubano medio andava al cinema di frequente.
Cuba rimase anche al centro del terzomondismo latino-americano. L'Havana cominciò a ospitare, nel 1979, il Festival Internazionale del Cinema Latino-Americano, che si sviluppò fino ad accogliere centinaia di film provenienti da tutto il continente. Nel 1985 Cuba creò la Fondazione per il Cinema latino-americano che diede vita alla Scuola Internazionale di Cinema e Televisione diretta dall'argentino Fernando Birri.
La situazione economica era precaria, dipendendo dal commercio della canna da zucchero e dalla liberalità dell'URSS. Gli Stati Uniti, inoltre, spingevano affinché i Paesi occidentali evitassero i rapporti commerciali con Castro. La scarsità dei raccolti alla fine degli anni ’70 causò un inasprimento ideologico ed economico. All'inizio degli anni ‘80, l'ente cinematografico statale ridusse i budget e nel 1987 fu riorganizzato secondo le linee del sistema di produzione unitario dell'Europa orientale, con un regista importante a capo di ogni squadra.
Il cinema latino-americano politicizzato trovò spazio in altri Paesi. In El Salvador, dove un governo militare oppressivo terrorizzava il popolo e lottava contro i movimenti di guerriglia, apparvero collettivi cinematografici clandestini. Il Nicaragua, da lungo tempo governato da Anastasio Somoza, fu conquistato dai sandinisti. L'embargo stabilito da Reagan nei confronti del nuovo regime, oltre alla guerriglia dei Contras, finanziati dagli Stati Uniti, spinse il Nicaragua più vicino a Cuba. Con la fondazione, nel 1979, dell'Istituto Cinematografico del Nicaragua si cercò di dar vita a una nuova cultura cinematografica che acquisì importanza con "Alsino y el condor" (Alsino e il condor, 1982) dell'esule cileno Miguel Littín.

1969-1990
Contrariamente all'America Latina, l'India mantenne una forte industria cinematografica locale. Grazie a controlli severi sulle importazioni da parte del governo, il prodotto indiano dominava il mercato, lasciando poco spazio a Hollywood. "Fiamma del sole" (Sholay, di Ramesh Sippy, 1975), il film più famoso dell'epoca, fondeva la tradizione dei film sui fuorilegge con il western all'italiana per creare quello che venne definito il "curry western".
Ciò nonostante, la produzione continuò a essere caotica e rischiosa: i distributori, gli esercenti e le star controllavano il mercato, e il cinema continuò a essere un mezzo per riciclare il denaro sporco. Il mercato internazionale dei film indiani si allargò durate gli anni ’70; in India, le star diventavano rappresentanti parlamentari e persino capi di Stato. Il cinema era al nono posto tra le industrie del Paese e costruiva la principale forma di cultura popolare indiana.
La lingua nazionale ufficiale era l'hindi, il che rafforzava il cinema "esclusivamente indiano" di Bombay. Le cinematografie regionali, tuttavia, si stavano espandendo: Madras, il centro di produzione del Sud, divenne la capitale del cinema più prolifica del mondo. A causa delle numerose lingue parlate in India, la distribuzione era territoriale, e i produttori finanziavano i film con le prevendite ai distributori regionali.
L'accanita competizione dell'industria commerciale con trame romanzesche, generi consolidati, canto e danza lasciava poco spazio a un cinema alternativo. Alla fine degli anni ‘60, il governo creò un cinema "parallelo" incoraggiando la Film Finance Corporation (FFC) a spostare il suo sostegno dai film commerciali verso il cinema d'arte a basso costo. Il successo di "Bhuvan Shome" di Mrinal Sen (1969) permise ad altri registi di ottenere prestiti per i loro progetti. Il "cinema parallelo", che aveva sede a Bombay, offuscò il cinema bengalese che era stato per lungo tempo associato alle produzioni prestigiose di Satyajit Ray. Alcuni governi regionali, inoltre, aiutarono i registi di film a basso costo: il governo comunista del Kerala, per esempio, incoraggiò la realizzazione di film politici.
Sebbene molti dei film del nuovo cinema fossero realizzati in hindi, nessuno offriva la spettacolarità o la musica vivacissima del cinema commerciale. Nella maggiore parte dei casi si trattava di pacati commenti sociali, influenzati dal realismo umanistico di Ray, dal neorealismo italiano e dai nuovi cinema europei.
Altri registi del nuovo cinema usavano i loro film per fare della critica politica. In "Intervista" (Interview, di Mrinal Sen, 1971), il protagonista, un uomo in cerca di lavoro, è interpretato da un vero disoccupato; "Calcutta '71" (1972) mostra cinque casi di povertà tratti da quarant'anni di storia della città; "Chorus" (Coro, 1974) attacca le corporazioni multinazionali. Nei suoi film Sen sperimentò lo stile recitativo stilizzato, l'autoriflessività brechtiana, il rivolgersi direttamente al pubblico e altre tecniche del cinema politico moderno.
Altrettanto metanarrativo è l'ultimo film di Ritwik Ghatak, "Ragione, discussione su un racconto" (Jukti, Takko aar Gappo, 1974), un'opera frammentaria in cui l'anziano pioniere del cinema politico interpreta un intellettuale alcolizzato ucciso da giovani rivoluzionari. Shyam Benegal contribuì alla tendenza politica del nuovo cinema con "Giovane pianta" (Ankur, 1974), un dramma sociale in cui un giovane proprietario terriero sfrutta un servitore e sua moglie, e "Facendo il burro" (Manthan, 1976), storia di una cooperativa rurale del latte, finanziata da 50.000 membri della cooperativa stessa.
Non tutti i film del nuovo cinema sottolineavano il tema politico. Sebbene Kumar Shahani e Mani Kaul avessero studiato con Ghatak all'Istituto cinematografico di Pune, nessuno dei due abbracciò la critica radicale. Shahani studiò anche all'IDHEC di Parigi; in India, realizzò "Lo specchio delle illusioni" (Maya darpan, 1972), storia di una donna aristocratica che sogna di scappare dalla villa signorile di campagna del padre, ormai in rovina. "Lo specchio delle illusioni" usa sottili cambiamenti del colore e solenni piani sequenza; l'opera fu lodata in tutto il mondo, ma non fu mai distribuita in India.
Anche Mani Kaul, ammiratore di Bresson, Tarkovskij e Ozu, creò un film essenziale e duro con "Il pane di un giorno" (Uski roti, 1970), studio di alcune ore della vita di una donna di paese oppressa da un marito insensibile, in cui i minimi gesti, la recitazione sottotono e lunghe inquadrature vuote comunicano la sua infinita attesa dell'autobus del coniuge. Pur ricordando i film europei, l'opera di Kaul si proponeva di essere l'equivalente cinematografico della musica classica indiana, in cui il tempo è come sospeso.
I nuovi film, che rifiutavano apertamente le formule del cinema popolare, dipendevano completamente dai finanziamenti del governo, ma presto emersero dei problemi. La censura si fece più rigida nei confronti di molti registi; "Venti caldi" (Garam hava, di M. S. Sathyu, 1975), rievocazione della divisione forzata dell'India dal Pakistan, fu bloccato per un anno. La FFC, inoltre, non era riuscita a creare una rete alternativa di distribuzione e proiezione dei film. A causa della mancanza di un cinema d'arte, non c'erano in India spazi per i film sperimentali o politici e la maggior parte di questi non riuscì a ripagare i prestiti erogati dallo Stato.
Nel 1975, la politica indiana fu scossa dall'annuncio che l'elezione di Indira Gandhi non era valida a causa di irregolarità nella campagna elettorale. Indira Gandhi reagì dichiarando lo stato d'emergenza su tutto il territorio e ordinò arresti in massa dei suoi avversari, che comprendevano quasi tutti i leader dei partiti di opposizione. Lo stato di emergenza terminò nel 1977, quando l'opposizione vinse il confronto elettorale, ma con le elezioni del 1980 Indira Gandhi ritornò al potere.
Durante lo stato di emergenza, le difficoltà con la censura e con i finanziamenti aumentarono: si cercò di scoraggiare il dissenso politico e film controversi sottoposti alla censura a volte scomparvero; lo Stato, che raccoglieva fondi con tasse elevate sulla proiezione e con il monopolio sulle importazioni, decise di sostenere il cinema commerciale.
Dopo le elezioni del 1977, tuttavia, in Bengala ci fu un'esplosione di film di critica politica. Il regista di film commerciali Shyam Benegal lanciò lo stile che fondeva la critica sociale con l'intrattenimento.
Nel 1980 il governo trasformò la FFC nella National Film Development Corporation (NFDC), che si prefiggeva di sviluppare un cinema di qualità che si distinguesse dai prodotti commerciali. La NFDC finanziò concorsi per le sceneggiature, promosse i film indiani all'estero e contribuì al finanziamento dei film attraverso prestiti e accordi di coproduzione.
La NFDC era l'unica associazione che aveva il permesso di importare film stranieri, comprare pellicola vergine e attrezzature, distribuire titoli stranieri in videocassetta. I costi erano rimborsati anche attraverso la partecipazione coproduzioni internazionali, in particolare "Gandhi" (Id., di Richard Attenborough, 1984).
Sotto gli auspici della protezione governativa, nacque una nuova generazione di registi; Alcuni proseguirono la tradizione intimista di Ray: Aparna Sen, la più famosa regista indiana, fu paragonata a Ray grazie a "36 Chowringhee Lane" (1981), un film in lingua inglese; Asha Dutta realizzò "La mia storia" (My Story, 1984), un racconto tragicomico sulla gioventù viziata.
L'opera di Ketan Mehta, che utilizzò le tecniche stilizzate del teatro popolare e dei primi film sonori di Bombay, fu più sperimentale. "Racconto popolare" (Bhauni bhavai, 1980) usa un narratore familiare al dramma popolare e offre al pubblico finali alternativi, mentre "Hero Hiralal" (1988) è una satira sull'industria cinematografica.
I registi più anziani trovarono nuova energia sotto la politica della NFDC; Ray, Sen e Benegal ottennero il finanziamento negli anni ‘80; Shahani, che non realizzava film da dodici anni, ricominciò a lavorare con "Tarang" (1984), uno studio di tre ore sulla borghesia industriale, e poi con "Kasba" (1990), un'analisi čechoviana di una famiglia in lotta nella campagna. "Kasba" si affidava alla presenza di star: un dato significativo e uno dei molti segnali della necessità che il cinema d'arte diventasse più commerciale.
Con lo sviluppo della televisione negli anni ‘80 il governo centrale, che aveva il monopolio sul nuovo mezzo, chiese ai registi più importanti di realizzare dei telefilm. Nello stesso tempo, l'espansione delle videocassette e della televisione via cavo attirò il pubblico della classe media e rese l'industria cinematografica ancora più mutevole e precaria. I film campioni d'incasso e le grandi star iniziarono a decadere: i registi cominciarono a preparare film destinati ai negozi di videocassette e alle loro salette.
La produzione miracolosamente non diminuì; come in tutto il resto del mondo le coproduzioni promisero nuovi mercati: i registi dei film di qualità lavoravano con compagnie olandesi, sovietiche, francesi e statunitensi.
All'inizio degli anni ‘90 si potevano vedere i segnali che l'Occidente stava finalmente entrando nel mercato indiano. Per dieci anni la MPEAA aveva tenuto nel cassetto i suoi film più forti esportando solamente vecchi film a basso costo. Nel 1992 questa strategia diede i suoi risultati: il governo indiano mise termine al monopolio sull'importazione dei film della NFDC, e titoli nuovi affluirono in gran numero. Sebbene gli spettatori indiani rimanessero fedeli al prodotto nazionale, la nascita della televisione via cavo e la disponibilità di film hollywoodiani recenti erano segnali che l'industria cinematografica avrebbe affrontato nuove crisi nel corso del decennio.

1975-1993
Nel 1975, la metà dei film prodotti in tutto il mondo proveniva dall'Asia. Sebbene la maggior parte fosse realizzata in India e in Giappone, Paesi più piccoli contribuivano con un numero di titoli sorprendente. La Malaysia, per esempio, sviluppò un'industria cinematografica di notevole importanza grazie all'incoraggiamento del governo. Anche il cinema indonesiano trasse benefici dalle leggi protezionistiche che permettevano alle compagnie nazionali di produrre mediamente 70 film l'anno, molti dei quali appartenenti al genere horror dei "coccodrilli mannari". La Thailandia divenne un'altra grande forza. Sebbene la produzione diminuì con il boom del video che decimò il numero degli spettatori a metà degli anni ‘80, questi Paesi produssero alcuni titoli significativi come "Mementoes" (Indonesia, di Teguh Karya, 1986) e "Lo sfregio" (Prae kaow, Thailandia, di Cherd Songsri, 1978). La Corea del Sud, che vantava un'industria fiorente alla fine degli anni ‘60, attirò finalmente l'attenzione dei festival con film meditativi come "Perché Bodhi Dharma è partito per l'Oriente? " (Dharmaya tongjoguro kan kkadalgun?, di Bae Yong-kyun, 1989).

Hong Kong
Nonostante l'aumento della produzione cinematografica in molti Paesi asiatici, a dominare questa parte del mondo erano ancora i film di Hong Kong, dove il prodotto locale superava nettamente le importazioni al botteghino. I generi e le star di Hong Kong, inoltre, erano famosissimi in tutta l'Asia e oltre i confini continentali.
Diversi erano i fattori grazie ai quali Hong Kong riusciva a conservare la sua posizione egemonica: le compagnie a concentrazione verticale come la Shaw Brothers e la Golden Harvest mantenevano bassi i costi di produzione e, contemporaneamente, distribuivano nelle sale i prodotti più importanti; potendo beneficiare, inoltre, di parametri di censura meno rigidi, i film puntavano sulle stesse caratteristiche dei film hollywoodiani, a costi inferiori.
Alcuni registi continuarono la tradizione delle arti marziali, ma in generale la produzione di film sugli spadaccini e sul kung fu diminuì notevolmente. Negli anni ‘80 i generi di maggior successo erano i thriller polizieschi, le commedie contemporanee e il film d'azione sulla malavita. Anche la lingua usata, il cantonese di Hong Kong, segnò un cambiamento rispetto ai film degli anni ‘70, dove a dominare era il mandarino della Cina continentale.
Le star che stavano emergendo erano un segnale ulteriore della grande energia di una regione in crescita: il comico televisivo Michael Hui creò una sua compagnia per dare vita a una serie di slapstick di successo ("Giochi da giocatori d'azzardo", Games Gamblers Play, 1974; "Pollo e papera parlano", Chicken and Duck Talk, 1988).
Il successo delle commedie di Hui accelerò l'ascesa di un altro attore, Jackie Chan. Chan cominciò la sua carriera come imitatore di Bruce Lee prima di girare "Serpente nell'ombra dell'aquila" (Snake in the Eagle's Shadow, 1978), "Iena senza paura" (Fearless Hyena, 1979) e "Ventaglio bianco" (Young Master, 1980), dove l'acrobatico kung fu si mischia con la commedia slapstick. Presto L'attore, che si rifiutava di usare controfigure, eseguiva acrobazie straordinariamente rischiose e creò sullo schermo un personaggio che ricordava Keaton e Harold Lloyd, l'uomo medio pieno di risorse e invincibile. Chan cambiava generi rapidamente: sentendo che le arti marziali pure stavano perdendo popolarità, accostò questo genere e lo slapstick all'intrigo storico, al thriller poliziesco e all'avventura rocambolesca sul modello de "I predatori dell'arca perduta" ("Scudiero di Dio", Armour of God, 1986).
Con la nascita del festival del cinema di Hong Kong (1977), di riviste serie e di corsi universitari, emerse una nuova cultura cinematografica. Diversi registi, che avevano studiato all'estero e avevano cominciato lavorando per la televisione locale, ottennero riconoscimenti internazionali; altri rimasero indipendenti, mentre altri ancora divennero presto punti di riferimento centrali per l'industria, come i "movie brats" hollywoodiani negli anni ‘70.
Dopo aver lavorato per la televisione, Ann Hui cominciò la sua carriera cinematografica con "Il segreto" (The Secret, 1979), un giallo alla cui realizzazione hanno contribuito, per la prima volta nella storia del cinema di Hong Kong, un numero considerevole di donne. Il suo "Il mucchio spettrale" (The Spooky Bunch, 1980) contribuì a riportare in auge il genere dei film di fantasmi, mentre "Storia di Woo Viet" (The Story of Woo Viet, 1981) anticipava il filone noir. La fama internazionale di Ahn Hui è legata a drammi più cupi che riflettono la storia dell'Asia nel dopoguerra: "Profughi" (Boat People, 1982) descrive in che modo l'oppressione politica ha spinto i vietnamiti a emigrare a Hong Kong; "Canto dell'esilio" (Song of the Exile, 1990) racconta come una giovane donna arriva a comprendere il difficile passato della madre, una giapponese mandata in Cina durante la guerra a fare la prostituta.
Altri registi lavorarono nell'ambito della New Wave: "Sigillato con un bacio" (Sealed With a Kiss, 1981) di Shu Kei descrive la relazione amorosa fra due adolescenti handicappati. Allen Fong si specializzò in drammi umani intimistici: rifiutando lo spettacolo sfavillante del cinema commerciale ed essendo spesso obbligato a girare in 16mm, Fong adottò temi agrodolci che ricordano Truffaut.
La sobrietà di queste opere portò all'identificazione della New Wave di Hong Kong con la critica sociale e l'analisi psicologica; questo aspetto, tuttavia, fu presto schiacciato da un rapido rinnovamento dei generi popolari. Centrale, in questo sviluppo, è la figura di Tsui Hark, lo Steven Spielberg di Hong Kong.
Tsui Hark, un vietnamita emigrato a Hong Kong da adolescente, aveva studiato cinema negli Stati Uniti prima di cominciare a lavorare per la televisione. Come per Ann Hui, la sua carriera cinematografica iniziò con un film di genere, "Le farfalle assassine" (The Butterfly Murders, 1979); dopo alcune satire violente, tornò improvvisamente all'intrattenimento per famiglie. Mescolò fantasy e kung fu in "Zu: i guerrieri della montagna magica" (Zu: Warriors of the Magic Mountain, 1982) e divenne famoso con "Shanghai Blues" (1984) e "Peking Opera Blues" (1986): queste opere abbaglianti e frenetiche, che fondono le arti marziali, la commedia e il melodramma prendono apertamente spunto dalla nuova Hollywood. Le scene di Tsui Hark sono un continuo e inarrestabile movimento: la macchina da presa si precipita sugli attori, i grandangoli si moltiplicano rapidamente e i duellanti si librano in aria vincendo la forza di gravità.
Come Spielberg e Lucas, Tsui Hark divenne un potente produttore. La sua compagnia, la Film Workshop, incoraggiava i registi a coltivare uno stile personale e, contemporaneamente, a rivolgersi al pubblico di massa. Suoi sono alcuni dei più grandi successi della storia di Hong Kong: il cruento "A Better Tomorrow" (Id., di John Woo, 1986), per esempio, rese celebre l'attore televisivo Chow Yun-fat e diede spunto a un ciclo di film eroici che avevano come protagonista gangster sensibili e romanticizzati. Tsui Hark produsse anche "Storia di fantasmi cinesi" (A Chinese Ghost Story, di Ching Siu-tung, 1987), unendo ancora una volta fantasy e arti marziali con risultati fantasmagorici. Sia "A Better Tomorrow" che "Storia di fantasmi cinesi" diedero vita a numerosi sequel, alcuni dei quali diretti dallo stesso Tsui Hark.
Il successo dei film d'intrattenimento spettacolari determinò la fine della New Wave. I giovani registi furono incoraggiati a realizzare commedie popolari e film d'azione. Le nuove compagnie rilevarono i vecchi circuiti di proiezione, cercarono nuovi talenti e diedero vita a mode passeggere. Nonostante i danni provocati dalla televisione via cavo e dalle videocassette, il pubblico di Hong Kong rimase fedele alle sale cinematografiche, sostenendo in questo modo la produzione della colonia. "Profughi" incassò più di "E.T."; "Storia di fantasmi cinesi, Parte Seconda" (A Chinese Ghost Story, Part Two, 1990) di Tsui Hark superò "Batman"; "C'era una volta un ladro" (Once a Thief, di John Woo, 1991) andò meglio di "Terminator 2". La cosa più sorprendente è forse che, alla fine degli anni ‘80, gli intellettuali occidentali e gli appassionati di cinema fecero del cinema di Hong Kong un oggetto di culto. Le compagnie europee e nord americane distribuirono "The Killer" (Id., di Woo, 1989), in cui il genere dell'eroe gangster raggiunge la sua massima espressione. Fra carneficine quasi ininterrotte e celebrazioni dell'amicizia maschile, le conversazioni sono condotte armi in pugno e i ricordi sono resi con esplosioni di immagini semi-astratte. Nel 1993 Woo cominciò a dirigere film d'azione hollywoodiani con "Senza tregua" (Hard Target, 1993). Insieme all'energia frenetica di Chan, Tsui e Woo, il pubblico dei frequentatori dei cineforum occidentali scoprì i film più sommessi; la fine della New Wave coincise con il crescente apprezzamento internazionale del cinema di Hong Kong.

Taiwan
Nel 1982 il cinema di Taiwan non prometteva molto: produceva film di intrattenimento a basso costo, propagandistici e spesso mediocri dal punto di vista tecnico; pochi anni dopo era diventato fra i più interessanti nel panorama culturale mondiale.
A lungo occupata dalle forze militari giapponesi, dopo la seconda guerra mondiale Taiwan si trasformò in uno Stato autoritario; inizialmente il cinema era sotto il controllo del governo, soprattutto attraverso la Central Motion Picture Corporation (CMPC), la cui produzione, come quella di altri enti, era incentrata su documentari anticomunisti. Le compagnie commerciali copiavano le opere in costume, le commedie e le storie d'amore da Hong Kong.
Durante gli anni ‘60 il successo dei film di arti marziali importati dall'estero spinse i produttori taiwanesi a imitarli e, a volte, a persuadere registi di Hong Kong come King Hu a lavorare a Taiwan. La produzione aumentò vertiginosamente e l'affluenza al cinema si intensificò notevolmente.
Il boom, tuttavia, fu seguito da un crollo: le nuove star e i nuovi generi di Hong Kong attiravano il pubblico taiwanese, e i profitti derivanti dai prodotti nazionali precipitarono; in molti disdegnavano i film d'azione e le avventure amorose che erano i prodotti principali di Taiwan.
In questo periodo nacque una nuova cultura cinematografica: nel 1979 il governo creò una cineteca nazionale e, tre anni dopo, un festival cominciò a presentare opere nuove; apparvero nuove riviste e film classici europei furono proiettati nelle università e in piccole sale. Un pubblico istruito e costante era preparato per un cinema d'arte nazionale. Anche l'industria era pronta: nel 1982 il calo degli incassi al botteghino spinse la CMPC e i produttori commerciali a reclutare giovani registi, spesso preparati in Occidente. Il successo di film a episodi come "Ai nostri tempi" (In Our Times, 1982) e "L'uomo sandwich" (The Sandwich Man, di Hou Hsiao-hsien e Ren Wan, 1983) e di un'ondata di nuovi film dimostrò che opere a basso costo potevano attirare gli spettatori e guadagnare prestigio ai festival. Come molti altri nuovi cinema, la New Wave taiwanese trasse vantaggi da una crisi dell'industria che stimolò la produzione di film economici e realizzati in poco tempo dai nuovi arrivati.
Gran parte di questi film si opponeva allo stile da studio, caratteristico del cinema taiwanese. Come il neorealismo, la Nouvelle Vague e altri movimenti precedenti, questi registi portarono la macchina da presa in esterni per filmare storie dall'andamento casuale, spesso interpretate da attori non professionisti. Molti di questi film erano storie autobiografiche o studi psicologici; la critica sociale, invece, era espressa in maniera implicita dato che il governo bandiva ogni commento politico aperto. I registi adottarono un approccio ellittico alla narrazione, attraverso l'uso di flashback, sequenze fantastiche e inquadrature statiche, tecniche, che si rifacevano al cinema d'arte europeo degli anni ‘60. Fra questi registi spiccano due nomi: Edward Yang e Hou Hsiao-hsien.
Il primo aveva studiato cinema negli Stati Uniti per qualche tempo, ma era tornato a Taiwan perché le prospettive di lavoro erano poche. Dopo aver scritto alcune sceneggiature e aver lavorato in televisione come regista, ebbe l'occasione di dirigere un episodio di "In Our Times" a cui seguì il suo primo film, "Quel giorno, sulla spiaggia" (That Day, on the Beach, 1983). Il successo di quest'opera lo portò a dirigere "Taipei Story" (1985) e "I terrorizzatori" (The Terrorizers, 1986). Con questi film Yang individuò il suo centro d'interesse nel disorientamento e nella frustrazione dei giovani professionisti delle città. I suoi personaggi, che si vestono alla moda e abitano in moderni appartamenti, cadono preda di forze misteriose che si propagano in tutta la metropoli. "I terrorizzatori", per esempio, alterna due storie: quella di una donna euro-asiatica implicata con un gruppo di terroristi e quella di una giovane scrittrice di romanzi che riesce alla fine a separarsi da suo marito. Appassionato di fumetti, Yang si affida a immagini di grande effetto, a un montaggio discontinuo e a un dialogo ridotto al minimo.
Hou Hsiao-hsien sviluppò uno stile più assorto. All'inizio degli anni ‘80 realizzò alcuni film musicali ma, dopo aver girato un episodio de "L'uomo Sandwich", si dedicò a un cinema più personale e contemplativo. I suoi film più importanti nell'ambito della New Wave - "Un'estate dal nonno" (A Summer at Grandpa's, 1984), "Tempo di vivere, tempo di morire" (The Time to Live, the Time to Die, 1985), "Polvere nel vento" (Dust in the Wind, 1986) – fanno ricorso a una narrazione ridotta al minimo. Sono storie di ambiente rurale sul raggiungimento della maggiore età e richiamano la trilogia di Ray su Apu nella costruzione di un ritratto complesso della vita di tutti i giorni, pur soffermandosi su aspetti banali della quotidianità. La storia non emerge attraverso climax drammatici, ma da dettagli osservati con un ritmo accurato e lento.
In "Polvere nel vento" e "Città dolente" (City of Sorrow, 1990) Hou applica questa de-drammatizzazione allo stile cinematografico attraverso campi lunghissimi, piani sequenza, inquadrature stati che e un montaggio quasi senza campi-controcampi, subordinando l'azione dei personaggi a un campo visuale di grande respiro. Lo sguardo dello spettatore vaga nello spazio inquadrato in profondità, a volte fino ai limiti del visibile. Hou alterna queste lunghe scene con inquadrature di paesaggi o oggetti alla maniera di Ozu.
Hou e Yang, che collaborarono in diversi progetti, divennero famosi in tutto il mondo con le opere che realizzarono a metà degli anni ‘80. Cercarono di fondare una cooperativa di produzione e una rete di distribuzione alternativa, ma i problemi dell'industria taiwanese bloccarono i loro tentativi. Il successo colossale delle videocassette a Taiwan (uno dei principali centri di pirateria) provocò perdite ingenti, mentre a dominare il mercato erano le importazioni da Hong Kong. Nel 1987 il nuovo cinema aveva ormai finito di esistere.
Contemporaneamente, tuttavia, la legge marziale fu soppressa, la censura allentata e quei registi che ancora lavoravano poterono toccare con franchezza argomenti delicati della storia e dell'identità taiwanese. "Città dolente" di Hou, che vinse il Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia, descrive con uno stile pacato come gli eventi del 1945-1949 lacerano una famiglia, un tema che nessuno avrebbe potuto trattare solo qualche anno prima. "Un luminoso giorno d'estate" (A Brighter Summer Day, di Yang, 1991), realizzato con finanziamenti giapponesi, segue ottanta personaggi attraverso un racconto di delinquenza giovanile negli anni ‘60. Anche i registi di una generazione ancora più giovane, infine, stavano cominciando a esplorare nuovi modi per definire la cultura taiwanese.

1975-1993
I registi della quarta generazione cominciarono la loro carriera seguendo la rivoluzione del 1949; il più importante fra loro fu Xie Jin che diresse Due sorelle in palcoscenico. I registi della quinta generazione non cominciarono a lavorare prima del 1982. Il lungo tempo intercorso fra le due generazioni è giustificato dalla rivoluzione culturale (1966-1976), durante la quale furono realizzati pochissimi film e l'Accademia Cinematografica di Pechino venne chiusa.
Con la riapertura nel 1978, una nuova classe di studenti fu ammessa al suo programma di quattro anni: i laureati all'Accademia, insieme ad alcuni registi che avevano fatto la gavetta nei teatri di posa, furono gli esponenti della quinta generazione.
Ci vollero molti anni prima che il cinema cinese si riprendesse. Mentre si ricostruivano le strutture produttive per fornire alle sale film da proiettare, vennero ridistribuite centinaia di opere precedenti al 1966 che erano state proibite. I film stranieri furono nuovamente importati dando ai registi la possibilità di vedere opere appartenenti al cinema d'arte europeo degli anni ‘60 e ‘70.
La maggior parte dei film realizzati subito dopo la Rivoluzione Culturale tendeva a tornare allo stile raffinato da studio. "Il ragazzo del risciò" (Luotuo Xiangzi, di Ling Zifeng, 1982), un melodramma ambientato nel periodo prerivoluzionario, è la storia di un uomo che perde il suo risciò ed è costretto ad affittarne uno dal suo capo, la cui figlia lo assilla affinché la sposi. Nello stesso tempo una giovane donna che vive nello stesso cortile, per riuscire a mantenere i suoi fratelli, non ha altra scelta che diventare una prostituta. Tutti i personaggi del film sono destinati a una fine infelice.
Qualche film, tuttavia, cominciò a prendere spunto dai modelli europei: "Il sorriso di un uomo tormentato" (Kunaoren de xiao, 1979) di Yang Yanjin e Deng Yimin, ambientato durante la rivoluzione culturale, ha come protagonista un giornalista obbligato a scrivere storie imprecise e mostra le influenze del cinema d'arte nell'uso del flashback, di visioni e di altri effetti per esprimere un tono soggettivo. Yang continuò a lavorare realizzando "Il vicolo" (Xiaojie, 1981), un film con tre finali diversi. "Memorie della vecchia Pechino" (Chen nan jiu shi, di Wu Yigong, 1980) è composto da tre storie raccontate per mezzo di flashback e filtrate attraverso una ragazzina. Mentre la rivoluzione culturale aveva privilegiato i film con personaggi semplici e significati chiari, questi film usano la profondità psicologica, il simbolismo e l'ambiguità.
Nel 1982 si laureò il primo gruppo di studenti del nuovo corso. Essi avevano ricevuto una preparazione insolita: non fu loro insegnato che cosa esattamente dovevano pensare. Questi studenti videro molti film stranieri e ne furono influenzati. Nel 1983 le opere dei registi della quinta generazione cominciarono a essere distribuite.
Chen Kaige venne assegnato allo studio di Pechino, ma preferì unirsi a un suo compagno di corso, il direttore della fotografia Zhang Yimou, presso gli studi del Guangxi dove realizzarono "Terra gialla" (Huang tudi, 1984) e "La grande parata" (Da yuebing, 1984). Tian Zhuangzhuang, anch'egli destinato a Pechino, non riuscendo a ottenere alcun film da dirigere, si spostò nel piccolo teatro di posa della Mongolia interna dove girò "La legge del terreno di caccia" (Liechang zhasa, 1985).
Tutti i film della quinta generazione furono, di fatto, realizzati in teatri di posa provinciali. Il più importante era lo studio di Xi'an, una struttura di media grandezza al centro della Cina che aveva lavorato pochissimo prima di essere diretta da Wu Tianming a partire dal 1983. Wu, un attore che nel 1979 aveva cominciato a dirigere film, divenne il patrocinatore della quinta generazione, assumendo giovani registi e dando loro libertà artistica: più di un terzo dei film della quinta generazione fu realizzato a Xi'an. Wu chiese inoltre a Zhang Yimou di lasciare il Guangxi per occuparsi della fotografia di "Vecchio pozzo" (Lao jing, 1986). Zhang accettò a condizione che in seguito gli fosse concesso di dirigere. Il suo "Sorgo rosso" divenne l'opera più famosa della quinta generazione, in Cina e all'estero.
Questo registi, influenzati dal cinema d'arte europeo, si ribellarono alla rivoluzione culturale: mentre i film della rivoluzione usavano stereotipi, i registi della nuova generazione privilegiavano la profondità psicologica; invece di scegliere racconti semplici con significati precisi, adottavano narrazioni complesse, un simbolismo ambiguo e immagini vivaci ed evocative. Pur mantenendo un carattere politico, i loro film si proponevano di analizzare i problemi piuttosto che riaffermare una linea politica sancita.
"Heipao shijian" di Huang Jianxin è una satira amara della democrazia: un consulente tedesco che supervisiona l'assemblaggio di apparecchiature pesanti ha bisogno di un traduttore con esperienza tecnica; il miglior traduttore manda casualmente un telegramma su un "cannone nero", il pezzo di un gioco. I funzionari del Partito, scambiando la frase per un codice, gli tolgono l'incarico e cominciano un'indagine accurata che finisce per danneggiare costose apparecchiature. Huang usa una serie di flashback per seguire l'indagine; il colore serve all'effetto satirico, come nel set stilizzato bianco su bianco dove si incontrano i funzionari.
Anche "Il re dei bambini" di Chen Kaige è un esempio di come alcuni registi della quinta generazione enfatizzassero la finezza narrativa e la ricchezza figurativa: durante la rivoluzione culturale un giovane viene mandato a lavorare nelle campagne dove gli viene improvvisamente assegnato l'incarico di insegnare in una scuola. Nel tentativo di stimolare gli studenti a pensare autonomamente invece di imparare meccanicamente, si scontra con i superiori e viene licenziato. Alla fine, la sua partenza dal villaggio è interrotta da immagini di un incendio che travolge la campagna, con ambiguità tipica del cinema d'arte europeo.
Alcuni film della quinta generazione concedono ancora meno alle forme di intrattenimento popolare: "Daomazei" di Tian Zhuangzhuang segue un ladro di cavalli e la sua famiglia che vagano per il Tibet per un anno. Tian non spiega i rituali e i costumi tibetani: l'interesse del film risiede nel forte esotismo e nelle riprese di pianure aride, montagne e templi.
Gran parte di questi film fu accusata di essere troppo oscura peri contadini, che rappresentavano l'80% della popolazione cinese; mentre di un film popolare potevano circolare cento copie o più, di "Daomazei" ne furono stampate solo sei. Poche opere della quinta generazione incassarono bene; per bilanciare le perdite, Wu Tianming produsse a Xi'an film più vicini al gusto popolare e che potevano essere più facilmente apprezzati all'estero.
Sebbene questi registi diventassero sempre più famosi all'estero, cominciarono a essere ostacolati in patria. Verso la fine del 1986, una serie di proteste da parte degli studenti per riforme politiche più incisive creò un irrigidimento del governo e provocò una campagna contro la "liberalizzazione della borghesia", comprese le influenze straniere. In campo cinematografico, gli organi ufficiali chiesero film accessibili che assicurassero dei profitti. Di conseguenza nel 1987 e nel 1988 alcuni registi della quinta generazione si impegnarono in progetti più commerciali.
La violenta soppressione, nel 1989, del movimento per la democrazia da parte del governo fu la causa della fine della quinta generazione. Alcuni registi andarono in esilio; la maggior parte di coloro che rimasero in Cina si dedicò a film popolari e per la televisione.
I registi che continuarono a lavorare mantenendo il loro stile dipendevano dai finanziamenti stranieri. "La vita appesa a un filo" (Bian zou bian chang, di Chen Kaige, 1991) fu coprodotto da Germania, Gran Bretagna e Cina. Il film racconta la storia leggendaria di un musicista cieco errante e del suo apprendista e contiene ancora più simbolismi e ambiguità delle sue opere precedenti. Zhang Yimou diresse "Judou" (Id., 1990) con finanziamenti giapponesi. "Lanterne rosse" (Da hong deng long gao gao gua, 1991), una coproduzione cino-taiwanese, fu inizialmente proibito in Cina, dove uscì nel 1992. Le sontuose esplorazioni dell'erotismo e della repressione femminile di Zhang portarono il pubblico straniero d'élite a conoscere i suoi film. Nel 1992, il suo "La storia di Qiu Ju" (Qiu Ju da guansi), finanziato da Hong Kong, vincendo un premio alla Mostra del Cinema di Venezia spinse le autorità cinesi a reclamarlo come una coproduzione di cui faceva parte anche la Cina.
All'inizio degli anni ‘90, in Cina cominciò a svilupparsi un cinema transnazionale: i produttori taiwanesi aprirono società a Hong Kong per investire in progetti in Cina. "Lanterne rosse" fu prodotto dalla compagnia che avrebbe prodotto i film di Hou Xiaoxian e Hou divenne uno dei primi registi a girare un film in Cina; "A Brighter Summer Day" di Edward Yang fu una coproduzione fra Taiwan, Giappone, mentre Ann Hui, che era di Hong Kong, diresse "Song of the Exile" con finanziamenti taiwanesi; Chen Kaige, che ormai viveva a New York, girò "Addio mia concubina" (Bawang bieji, 1993) a Pechino e il progetto venne finanziato da Hsu Feng, produttrice taiwanese che negli anni ’70 era statala protagonista dei film di spadaccini di King Hu. Il dato più significativo è forse che i film di Hong Kong hanno cominciato a circolare in Cina; il loro successo al cinema e in videocassetta aumenta le possibilità che l'industria cinese venga dominata dal talento di Hong Kong, adesso che è entrata a far parte della Repubblica Popolare.

1970-1992
Durante gli anni ‘70 e ‘80 la politica dei Paesi mediorientali è stata dominata dall'attrito fra Israele e gli Stati arabi; le ostilità sono aumentate nel 1967, dopo la vittoria di Israele nella guerra contro Egitto, Siria e Giordania. Nel 1973 l'Egitto e la Siria attaccarono nuovamente: la cosiddetta guerra dello Yom Kippur spinse i Paesi produttori a quadruplicare il prezzo del petrolio, e gli Stati Uniti e l'URSS cominciarono a fornire armi agli Stati in guerra. L'assassinio del presidente egiziano Anwar al-Sadat nel 1991 e il rifiuto da parte di Israele di cedere il territorio occupato hanno portato nella regione continui conflitti, Gli arabi che abitano nei territori occupati da Israele hanno continuato la lotta cominciata negli anni ‘60 dall'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).
Le cinematografie di questa regione sono molto diverse fra loro: Egitto, Iran e Turchia hanno un'industria su larga scala che esporta commedie, musical, film d'azione e melodrammi; i governi di altre Nazioni hanno dato vita a una produzione che promuove le tradizioni culturali autoctone; alcuni registi si sono allineati con gli sviluppi del cinema del Terzo Mondo, ma dopo la metà degli anni ‘70 molti hanno cercato di allargare il loro pubblico entrando a far parte del cinema internazionale dell'Occidente.

Israele
Israele non era un Paese sottosviluppato, ma aveva un'industria cinematografica molto piccola. Negli anni ‘60, Menahem Golan e suo cugino Yoram Globus cominciarono a produrre musical, film di spionaggio e commedie romantiche conosciute come bourekas. Nel 1979 il ministero dell'Istruzione e della Cultura offrì supporto finanziario al cinema di qualità, stimolando film personali a basso costo o l'inchiesta politica. Il fondo per i film di qualità si trovò in poco tempo a finanziare circa la metà dei titoli prodotti annualmente.
Essendo il Paese mediorientale più vicino all'Occidente, Israele entrò a far parte del mercato internazionale. I film di Moshe Mizrahi e "Eskimo limone" (Eskimo Limon, 1978), una commedia nostalgica sugli anni dell'adolescenza, ebbero successo anche all'estero. I registi israeliani girarono film in lingua inglese con famosi attori americani e la Warner Bros. distribuì "Oltre le sbarre" (Me'achorei hasoragim, di Uri Barbash, 1984), storia di alcuni prigionieri palestinesi e israeliani.
Golan e Globus tentarono di conquistare una posizione internazionale acquisendo nel 1979 il controllo della Cannon Pictures, una compagnia di produzione indipendente. Insieme produssero film d'intrattenimento destinati ad un pubblico internazionale (ad esempio "Delta force", Id., 1985) e film di Altman, Cassavetes, Končalovskij e Godard. Anche se Globus lasciò la Cannon nel 1989 per fondare una società tutta sua, l'industria israeliana continuò ad avere forti affiliazioni occidentali.

Egitto
Altri Paesi medi orientali erano più strettamente legati ai circuiti di esportazione cinematografica del Terzo Mondo e alle oscillazioni del personale. All'inizio degli anni ‘70 la Siria aveva un'industria forte che esportava film in Libano, in Kuwait e in Giordania. Nacquero un nuovo cinema siriano di protesta sociale e il Festival cinematografico biennale di Damasco per la proiezione di film del Terzo Mondo. Anche l'industria libanese era molto forte prima che la guerra civile, scoppiata nel 1975, obbligasse all'emigrazione gran parte degli operatori del settore cinematografico.
Il Cairo era stata la Hollywood del cinema arabo, ma negli anni ‘70 la produzione egiziana diminuìe i registi più importanti andarono in esilio. Negli anni ‘80 l'industria cinematografica egiziana crebbe soprattutto grazie all'ospitalità dei mercati del golfo arabo e al successo delle videocassette. Presto, tuttavia, la pirateria portò il governo e togliere qualsiasi aiuto finanziario ai produttori; i film statunitensi invasero il mercato lasciando la produzione locale senza sbocchi.
Mentre emergevano nuovi registi l'autore più famoso rimaneva il veterano Youssef Chahine. Inizialmente sostenitore del nazionalismo arabo di Nasser, successivamente Chahine esaminò la storia egiziana da un punto di vista critico: "Il passero" (El-ousfour, 1973) analizza le cause della sconfitta egiziana nella guerra del 1967. I suoi film seguenti si fecero più personali e, allo stesso tempo, più adatti a un pubblico internazionale. In "Alessandria, perché? " (Iskenderia leih?, 1978), gli eventi del 1942 sono alternati a film hollywoodiani dell'epoca; ne "La memoria" (Haddouta misriyya, 1982), un regista che deve affrontare un intervento al cuore ripercorre la sua carriera trentennale. Entrambi i film sono autobiografici, ma Chahine si allineò con molti registi dell'epoca schierati politicamente nel rivolgersi a un pubblico più vasto con drammi più intimistici.

Turchia
Il cinema turco si fece conoscere in tutto il mondo alla fine degli anni ‘60 con film come "Speranza" (Umut, di Yilmaz Güney, 1970). La Turchia poteva già vantare il maggior numero di film prodotti nella regione: film erotici, commedie, epiche storiche, melodrammi e persino western attiravano molto pubblico. Quando, però, nel 1980 i militari si impadronirono del potere, la produzione e l'affluenza nelle sale stava già diminuendo.
I registi sospetti agli occhi del regime furono perseguitati. Güney, simpatizzante della sinistra, divenne l'obiettivo principale. All'avvento dei militari al potere, Güney stava già scontando una pena di ventiquattro anni in carcere. Durante la prigionia, scrisse sceneggiature che divennero film girati da altri registi; il più famoso è "Yol" (Id., 1982), storia di cinque prigionieri a cui viene concessa una settimana di libertà per far visita alle loro famiglie; i suoi paesaggi abbandonati alludono all'oppressione della Turchia contemporanea. Nel 1981 Güney scappò in Francia dove girò il suo ultimo film, "La rivolta" (Le mur, 1983), un'accusa amara e piena di disillusioni al sistema carcerario. Il muro della prigione, filmato con luci e condizioni atmosferiche differenti, è una presenza inquietante per tutto il film. Quando, nel 1984, Güney morì, il governo turco cercò di cancellare ogni sua traccia: la polizia bruciò tutti i suoi film e arrestò tutti coloro che possedevano una sua fotografia.
Nonostante la severità della censura, l'industria cinematografica fu gradualmente ricostruita e la produzione aumentò, anche se solo la metà dei film riuscì ad arrivare nelle sale; gli altri furono destinati al mercato delle videocassette.

Iraq e Iran
I registi di due Paesi arabi confinanti, Iraq e Iran, si ritrovarono in una situazione simile. Nel 1979 una rivolta cacciò dall'Iran lo scià Rheza Pahlavi per insediare al potere l'ayatollah Khomeini. Mentre questi consolidava uno stato islamico fondamentalista, il Paese fu attaccato dall'Iraq di Saddam Hussein. L'Iran uscì notevolmente danneggiato dalla guerra e quando, nel 1988, il conflitto cessò, il potere di Khomeini era in parte compromesso, mentre quello di Saddam era rafforzato.
L'andamento del cinema iracheno era stato incostante; il dialetto locale era incomprensibile in altri Paesi mediorientali e non valeva la pena esportare nessuna star o genere. Tuttavia, quando Saddam si propose come leader del mondo arabo, il suo governo lanciò un programma cinematografico patriottico che stabiliva il monopolio dello Stato sulla produzione e che invitava i registi a lavorare a film di alto costo. "Al-Qadissa" (1981), una battaglia epica da 15 milioni di dollari, è il film più costoso mai realizzato nel mondo arabo; diretto da un regista veterano come l'egiziano Salah Abou Seif, vanta uno staff proveniente da tutto il Medio Oriente. Nella celebrazione di una vittoria dell'Iraq sulle forze persiane risalente al settimo secolo, "Al-Qadissa" stabilisce dei legami con la guerra di Saddam contro l'Iran.
Il cinema iraniano, molto più significativo di quello iracheno, conobbe sorti ancora più incerte. Sotto lo scià, Teheran organizzò un importante festival del cinema e aveva un'industria commerciale funzionante. All'inizio degli anni ‘70, al cinema destinato all'intrattenimento di massa si affiancò il nuovo cinema iraniano, rappresentato da film come "La vacca" (Gav, di Dariush Mehrjui, 1970). "La bicicletta" (Dayereh minah, di Mehrjui, 1976) e "Tall Shadows of the Wind" di Bahman Farmanara (1978) criticavano le condizioni sociali del Paese, inclusa la polizia segreta dello scià.
Dopo la rivoluzione di Khomeini nel 1979, molti registi andarono in esilio e la produzione cinematografica subì un forte calo. La censura, che sotto lo scià si occupava soprattutto di temi politici, adesso si concentrava anche sul sesso e sulle influenze occidentali. I film stranieri subirono tagli drastici e i dialoghi furono doppiati.
La teocrazia iraniana condannava molte tradizioni occidentali, ma il governo si rese presto conto che il cinema poteva spingere i cittadini a sostenere il regime. Il governo creò un'industria cinematografica che rifletteva la sua interpretazione della cultura iraniana e della tradizione musulmana sciita. La fondazione Farabi, creata nel 1983, offrì sostegno finanziario governativo ai produttori disposti ad appoggiare le opere prime.
I festival europei e americani accolsero favorevolmente i registi emersi dopo la rivoluzione. Il più acclamato fu Abbas Kiarostami: con il suo "Dov'è la casa del mio amico?" (Khaneh-ye doust kojast?, 1986), che racconta in modo semplice la storia di un bambino che va alla ricerca di un suo compagno di classe in un villaggio lontano, richiamò l'attenzione sul nuovo cinema iraniano. In "Close-up" (Nema-ye nazdik, 1990), il regista si interroga su un bizzarro fatto di cronaca in cui un appassionato di cinema si finge un famoso regista e truffa le persone promettendo di farle lavorare in un film; Kiarostami alterna immagini documentarie del processo del protagonista con sequenze girate in studio in cui i veri protagonisti rimettono in scena gli eventi. In un altro semi-documentario, "E la vita continua" (Zendegi edamé dârad, 1992), Kiarostami mostra l'effetto devastante del terremoto del 1991 mentre un regista e suo figlio cercano il protagonista di "Dov'è la casa del mio amico?" in lontani villaggi sulle montagne. Kiarostami usa inquadrature insolite per sdrammatizzare l'orrore causato dal terremoto, come quando un bambino versa da bere alla madre che sta fuori campo su un veicolo vicino.
I leader iraniani che sono seguiti a Khomeini hanno adottato una politica meno rigida aprendo le porte alla Comunità Europea; alcuni film sono stati distribuiti in Occidente e hanno vinto premi ai maggiori festival. I cineasti israeliani, egiziani e turchi si fecero presto conoscere in tutto il mondo: Yol vinse la Palma d'oro al Festival di Cannes e "La vita davanti a sé", (La vie devant soi, 1977), una produzione francese diretta dall'israeliano Mizrahi, conquistò l'Oscar. Chahine divenne un regista internazionale con "Adieu Bonaparte" (Addio Bonaparte, 1985), una coproduzione franco-egiziana.
Il palestinese Michel Khleifi ritornò dall'esilio per girare il film "Nozze in Galilea" (Noces en Galilée, 1987), coprodotto da Francia e Belgio. Mentre le compagnie statunitensi penetravano nei mercati del Medio Oriente cercando di contenere la pirateria delle videocassette e conquistando potere a scapito di una distribuzione indebolita, i registi mediorientali si introducevano nel circuito del cinema d'essai occidentale.

1965-1992
L'Africa rimaneva la più sottosviluppata delle regioni del Terzo Mondo: dopo il 1980, il debito estero africano era pari al suo prodotto interno lordo complessivo. Il continente, già povero di terre coltivabili, subì anche carestie devastanti. La gente scappava dai villaggi: in questo modo le città africane si ingrandirono a velocità impressionante.
A causa di questa povertà, la maggior parte dei Paesi africani non produsse alcun lungometraggio prima della metà degli anni ‘70. Molte Nazioni erano scarsamente abitate, avevano poche sale cinematografiche e nessuna struttura tecnica. I registi africani cercarono la cooperazione internazionale. Nel 1980 le Nazioni Unite contribuirono a creare una rete di distribuzione che raggiungesse tutto il continente, il Consortium Interafricain de Distribution Cinematographique (CIDC) per assistere la distribuzione dei film africani. Ai festival di Cartagine, in Tunisia (fondato nel 1966), e di Ouagadougou, in Burkina Faso (1969) si aggiunse quello di Mogadiscio, in Somalia (1981).
Grazie a queste iniziative anche gli Stati contribuirono con un supporto minimo: alcuni Paesi nazionalizzarono l'importazione e la distribuzione dei film, altri nazionalizzarono anche la produzione; il Burkina Faso diventò il centro amministrativo del cinema nero africano, dando vita a una scuola di cinema e a una struttura produttiva ben attrezzata.
In generale, tuttavia, le associazioni continentali e il supporto dei singoli Paesi non riuscirono ad aumentare la produzione o le possibilità distributive. Nel 1984 la CIDC interruppe il suo lavoro; il teatro di posa Cinafric nel Burkina Faso rimase l'unica struttura produttiva locale. Il cinema rimaneva un'attività artigianale e i registi erano costretti a raccogliere i fondi, a organizzare la pubblicità e a negoziare la distribuzione.
La fine degli anni ‘80 ha visto una scarsa cooperazione fra gli stati africani. Il Senegal, leader del cinema francofono del continente, ha prodotto in tutta la sua storia una ventina di film, in particolare quelli di Ousmane Sembene. La produzione di cortometraggi e documentari, tuttavia, era più consistente soprattutto nei Paesi anglofoni come il Ghana e la Nigeria, dove il documentario rappresentava un retaggio della colonizzazione inglese.

Nord Africa
I Paesi francofoni del Nord Africa, conosciuti come il Maghreb, riuscirono in qualche modo a sviluppare una propria produzione cinematografica. In Marocco i produttori privati realizzarono qualche film d'intrattenimento popolare sul modello dei melodrammi e dei musical egiziani. Il regista marocchino Souhel Ben Barka si fece conoscere con drammi di critica sociale come "Le mille e una mano" (Les mille et une mains, 1972) sull'industria dei tappeti e "Amok" (1982), un film ad alto budget sull'apartheid sudafricano che ha come protagonista la cantante Miriam Makeba. In Tunisia qualche coproduzione fu realizzata grazie ai fondi pubblici e all'investimento privato.
L'industria cinematografica più importante del Maghreb era quella algerina. Dalla fine degli anni ‘60 all'inizio degli anni ‘70 i titoli più importanti furono film drammatici sulla lotta rivoluzionaria come "Il vento delle Aurès" (Le vent des Aurès, di Mohamed Lakhdar Hamina, 1965).
All'inizio degli anni ‘70 il governo algerino si spostò a sinistra e la critica sociale emerse in un nuovo cinema (cinema djidid), come si può vedere ne "Il carbonaio" (Le charbonniers, di Mohamed Bouamari, 1973) e altre opere. Nel giro di due anni, tuttavia, il nuovo cinema scomparve poiché il governo cominciò a finanziare drammi storici molto costosi. Il più famoso, "Cronaca degli anni di brace" (Chronique des années de braise, 1975) di Hamina, narra la storia del Paese fra il 1939 e il 1954. La saga di Hamina della vita nei villaggi durante il colonialismo costò due milioni e mezzo di dollari e fu il primo film africano a vincere la Palma d'oro al Festival di Cannes.
Il cinema popolare si rinnovò attraverso le commedie satiriche e i thriller politici che ricordavano Costa-Gavras, mentre alcuni registi esplorarono la vita quotidiana della gente comune. All'inizio degli anni ‘80 i cineasti affrontarono temi nuovi, come l'emancipazione femminile e l'emigrazione della manodopera in Europa. Nello stesso periodo, tuttavia, il governo rinunciò al controllo sulla produzione cinematografica. Mentre le compagnie private cominciavano a produrre film destinati al mercato di massa, i registi portarono avanti progetti all'estero e lavorarono in coproduzioni francofone che avevano come protagonisti attori europei. Alcuni emigranti algerini ebbero un notevole successo commerciale nell'ambito del cinema francese; a metà degli anni ‘80 divennero popolari i drammi e le commedie appartenenti al genere beur (un anagramma gergale che significa "arabo") con protagonisti ragazzi algerino-francesi.

Africa sub-sahariana
Erano pochi, in confronto, i film dell'Africa nera destinati a un mercato di massa. Il regista nigeriano Ola Balogun diresse film musicali ispirati al teatro di Yoruba; il Camerun produsse thriller polizieschi oltre alle commedie di grande successo dei registi Danial Kamwa e Jean Pierre Dikongue-Pipa; nel Ghana si realizzarono film d'azione, mentre in Zaire "La vita è bella" (La vie est belle, 1986) ebbe un grande successo sfruttando il carisma della star musicale, Papa Wemba.
Opere meno orientate verso un pubblico di massa, che provenivano soprattutto dai Paesi francofoni, attirarono l'attenzione del pubblico internazionale, al quale potevano sfuggire alcuni dettagli e riferimenti specifici, ma le opposizioni tematiche che ricorrevano in questi film - la tradizione contro la modernità, la campagna contro la città, il folclore indigeno contro i costumi occidentali, i valori collettivi contro l'individualità - erano evidenti. Dato che molti di questi registi avevano studiato in Europa ed erano cresciuti guardando film americani, le loro opere mostravano un'interazione dinamica fra le convenzioni del cinema occidentale e l'esplorazione delle tradizioni estetiche africane.
Una delle tradizioni più significative è rappresentata dal racconto orale. In alcuni casi il cantastorie è parte dell'azione: in "Djeli" (Costa d'Avorio, 1981), per esempio, il regista Fadiko Kramo-Lancine ne fa il protagonista del film. Il cantastorie può anche essere usato come narratore onniscente, come in "Jom" (di Ababakar Samb, 1981). Un film può infine prendere dal folclore personaggi caratteristici, come l'imbroglione, o motivi dell'intreccio, come l'iniziazione o la ricerca: "L'exilé" (L'esiliato, di Oumarou Ganda, Nigeria, 1980) unisce le avventure di un ambasciatore con il racconto popolare a episodi, mentre il più recente "Quartier Mozart" di Jean-Pierre Bekolo (Camerun, 1992) accosta elementi della magia popolare con il montaggio di video musicali.
A partire dalla seconda metà degli anni ‘70 il cinema dell'Africa nera ha seguito soprattutto la tendenza della critica sociale, caratteristica del cinema del Terzo Mondo dalla fine degli anni ‘60. I film sul tema dell'esilio erano relativamente pochi, mentre erano più frequenti i film sul conflitto coloniale. In "Indie Occidentali" (West Indies, 1979), Med Hondo descrive in maniera drammatica il commercio degli schiavi all'interno di un grande set costruito in una fabbrica abbandonata di automobili a Parigi. Hondo tornò in Africa per girare "Sourraouinia" (1987), una storia epica sulla ribellione anticolonialista. Dopo un silenzio di dieci anni, Sembene riprese a dirigere film con "Campo Thiaroye" (Camp de Thiaroye, 1987, Senegal), un dramma sullo scontro fra i soldati francesi e senegalesi alla fine della seconda guerra mondiale.
Anche i film sulle condizioni di vita contemporanee continuarono ad essere realizzati: "Il vento" (Finye, 1982) di Souleymane Cissé critica il regime militare attraverso il racconto drammatico della protesta studentesca. Cissé, convinto che troppi film africani fossero carenti dal punto di vista tecnico, usa immagini sontuose per rendere efficace la fusione fra politica e magia.
Uno dei film più visti sulla vita africana contemporanea è "Volti di donna" (Visages de femmes, di Désiré Écaré, Costa d'Avorio, 1985). Sebbene i suoi film precedenti avessero vinto premi prestigiosi a diversi festival, Désiré Écaré impiegò dodici anni per trovare i finanziamenti per questo film. La prima storia di "Volti di donna" è incentrata su due donne di paese che cercano di imbrogliare i loro mariti. Il film passa poi in un ambiente cittadino a presentare una donna di mezza età che cerca di allargare la sua azienda mentre si deve prendere cura di un marito pigro, delle figlie viziate e delle richieste dei parenti che vivono in campagna.
La regista sottolinea la tensione esistente tra la tradizione e la modernizzazione ricorrendo a stili cinematografici contrastanti: un approccio elementare simile a quello del cinema diretto per la storia del villaggio, e una tecnica più raffinata per il racconto che si svolge in città. La prima storia è interrotta da inquadrature di donne che, a una festa, recitano e commentano gli eventi, mentre nella seconda storia è la stessa protagonista a commentare fuori campo. "Volti di donna", commento acuto e ambivalente sulle contraddizioni di un'economia in via di sviluppo, vinse diversi premi ai festival e fu un buon successo dal punto di vista commerciale in Africa e in Europa.
"Ceddo" di Sembene (1977) aveva contribuito alla nascita di un "ritorno alle origini" nel cinema africano. Negli anni successivi, molti registi cercarono di descrivere le diverse radici della cultura africana. In "Il regalo di Dio" (Wênd Kûuni, di Gaston Kabore, Burkina Faso, 1982), un ragazzo muto ritrova la parola ricordando il suo traumatico passato. L'esempio più significativo di questo ritorno alle origini, e forse il film africano più importante dopo "Ceddo", è "Yeelen" (Id., 1989) di Cissé: un giovane ruba i poteri sovrannaturali della casta di maghi a cui appartiene il padre, che si mette sulle sue tracce. Cissé crea un mondo in cui la magia è una potente forza della natura. Il climax del film è rappresentato dal momento in cui il vecchio mago, che usa i poteri a suo personale vantaggio, e il giovane, che vuole dividere questo sapere con gli altri, si affrontano in un duello di luci accecanti.
Il simbolismo elementare dell'intreccio - fuoco e acqua, terra e cielo, latte e luce - crea un equivalente cinematografico del mito orale africano. Cissé girò la maggior parte delle scene di "Yeelen" con la luce del mattino, creando in questo modo sfumature dorate e tonalità accese della terra che corrispondono all'immagine centrale della luminosità; un motivo giallo-arancione suggerisce pace e rinascita. Come in molti film sulla storia prima del colonialismo, tuttavia, Yeelen si rifiuta di ratificare il conservatorismo di tante tradizioni popolari, chiedendo una trasformazione radicale del mito e della sapienza popolare per creare una nuova società.

Tratto da “Cinema del silenzio” www.cinemadelsilenzio.it e “Storia del cinema e dei film” Edizioni Il Castoro

Fonte: http://www.videa.it/STORIA_DEL_CINEMA.doc

Sito web da visitare: http://www.videa.it/

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