Corso Teologia Pastorale

Corso Teologia Pastorale

 

 

 

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Corso Teologia Pastorale

Corso di introduzione alla Teologia Pastorale
Istituto Superiore di Scienze Religiose
Treviso - Vittorio Veneto
Docente: don Giovanni Giuffrida 
INTRODUZIONE

 

1. Che cos’è la Teologia Pastorale (TP)?

Rispondere a questa domanda è lo scopo di un corso introduttivo come quello che inizia. La riflessione teologico-pastorale si può pensare articolata in due livelli: uno più attento alle problematiche fondative e strutturali (fornisce gli strumenti teorici per una lettura critica delle “pratiche cristiane”), l’altro interessato alle dimensioni specifiche della “pastorale” e che vanno a formare le cosiddette discipline pastorali (Omiletica, Catechetica, Odegetica [scienza della guida], Liturgia pastorale, Pedagogia pastorale, Psicologia pastorale, Sociologa pastorale, Missiologia, ecc.). In altre parole si può distinguere fra momento fondamentale e momento speciale della TP. Il corso si muove prevalentemente sul livello fondamentale.
Il corso, per la sua brevità, mostrerà che cos’è la TP raccontandone la storia disciplinare (la TP come si è costruita nei vari contesti storici). Da questo approccio si potrà anche indagare il funzionamento epistemologico (la TP come pensa, con quale metodo);
La risposta alla domanda di partenza intende superare il livello descrittivo, il livello dell’oggetto della comunicazione (TP), per raggiungere quello della referenza: cosa intende operare il discorso ecclesiale, quando utilizza l’aggettivo o il sostantivo “pastorale”? Perché la Chiesa sente la necessità di una riflessione sulle sue “azioni” e sulle sue “pratiche” istituzionali?
In altre parole mentre cercheremo di comprendere che cos’è la TP, vedremo anche come “funziona”.

Per poter avviare una simile riflessione occorre tuttavia soffermarci su alcune questioni iniziali, che ci aiutano a rendere più conosciuto il terreno di incontro che stiamo per abitare e ci permettono di prospettare uno schema del corso. Le questioni riguardano:

  • il nome della disciplina;
  • il metodo;
  • i confini del discorso teologico-pastorale rispetto all’azione pastorale, al Magistero e agli altri campi del sapere (teologico e non).

2. Teologia pastorale o teologia pratica?

Come vedremo, la disciplina che stiamo per conoscere nasce in un passato recente con il nome di teologia pastorale: un nome che ne dice bene la natura, le intenzioni e gli scopi. In campo cattolico si propone ormai da più parti di seguire l’uso del nome prevalso in campo protestante: teologia pratica . Il rinnovamento che interessa da vicino la TP, per sottolineare la novità dello statuto epistemologico della riflessione, ne modifica il nome – quasi una nuova nascita – prendendolo in prestito dalla riflessione delle Chiese della riforma. A partire dagli anni ’60 del XX secolo la TP diventa così teologia pratica: teologia pratica è quella teologia che non si limita alla riflessione sulla figura del ministero ordinato e dei suoi compiti ma allarga il suo campo di interesse all’agire del cristiano in quanto soggetto pubblico ed ecclesiale.
La TP, divenuta teologia pratica, può sentirsi così libera di sviluppare quella riflessione fondamentale su ciò che abbiamo definito nei termini di referenza: una riflessione generale sulla prassi del cristianesimo, sul ruolo delle sue istituzioni, sul modo di abitare la storia e di costruire forme di agire responsabile che ne modificano il cammino.
Se i vantaggi di una simile operazione di cambio di nome sono immediatamente evidenti non lo sono altrettanto i rischi.

  • Ad esempio, il rischio che tutta quella serie di azioni ed esperienze ecclesiali che si riconoscono dentro il termine di “pastorale” resti in questo modo senza riferimento disciplinare specifico, senza riflessione epistemologica, senza un pungolo teologico che ne stimoli il pensiero, la ricerca, il continuo aggiornamento.
  • Inoltre, una definizione nei termini di un generico “teologia pratica” comporterebbe l’estensione del campo della propria referenza sino a settori che ineriscono attualmente ad altre discipline teologiche, quali la teologia morale, la teologia spirituale, il diritto canonico . Con queste discipline la teologia pastorale condivide molta strumentazione epistemologica, ma non l’oggetto immediato di indagine; come evidenziarne la differenza?

Ecco il motivo della scelta di questo corso di mantenere il nome di “teologia pastorale”. Non si intende, con questa scelta, proporre un anacronistico ritorno a figure disciplinari ormai superate ma, facendo tesoro dei più recenti sviluppi della riflessione, si intende riversare tutto questo guadagno dentro i contesti più consueti e ordinari della Chiesa, delle sue riflessioni, delle sue azioni e delle sue istituzioni (la “pastorale”), per dare energia e capacità di futuro alla figura storica che il cristianesimo ha assunto in Italia (“cattolicesimo popolare”).
Un simile modo di ragionare richiede che la riflessione teologico-pastorale si strutturi secondo modalità più complesse: come abbiamo già anticipato,

  • occorre un primo momento, critico e fondamentale, nel quale la TP si struttura come una disciplina chiamata ad aiutare la lettura, la comprensione e la riflessione sulle pratiche del cristianesimo, il loro legame con la memoria e l’identità cristiana (questo è lo scopo del corso di teologia pastorale fondamentale).
  • Occorre immaginare poi lo sviluppo di questa riflessione in tante determinazioni più specifiche e settoriali, capaci così di illuminare le tante dimensioni della pratica ecclesiale, aiutandone una comprensione del loro funzionamento, e favorendo la nascita di un approccio riflesso e progettuale alla pratica ecclesiale (le discipline classiche che compongono l’area della teologia pastorale – omiletica, catechetica, ecc. – unite ad altre introdotte per comprendere meglio il presente ecclesiale).

3. Il metodo

Da qualsiasi parte si voglia affrontare la disciplina, la domanda sul metodo della TP si pone immediatamente.
a) La storia recente della disciplina è un tentativo continuo di fornire risposte a questa ansia epistemologica. Infatti la relativa novità della TP sulla scena teologica espone la disciplina ad una duplice pressione.

  • Da un lato la reticenza più o meno sospettosa nei confronti della sua stessa consistenza che si traduce nella continua richiesta di esibire i titoli ad esistere come disciplina teologica (pena la superfluità nell’enciclopedia teologica) .
  • Dall’altro lato la naturalezza più o meno consapevole con cui discorsi disparati vengono proposti come teologico-pastorali dà l’impressione che non si possa parlare di una teologia cattolica pratica perché non c’è un accordo chiaro e generale su quel che deve essere la teologia pratica.

All’interno del contesto teologico, sotto questa duplice pressione, c’è la volontà di strappare questa disciplina dai pregiudizi abituali che la circondano e che la vogliono come una specie di “teologia applicata”, disciplina di seconda serie, arte più che riflessione scientifica.

b) Vi è poi il tentativo di fare di questa disciplina il luogo in cui predisporre e mettere in esecuzione un confronto tra cultura, religione, cristianesimo. Questi tre termini, soprattutto il loro intreccio, sono essenziali allo sviluppo di un pensiero non “ideologico” ma “ermeneutico” sulle forme storiche attuali del cristianesimo. Questi termini sono stati poco analizzati, soprattutto nel loro intreccio, dallo sviluppo recente della TP, che si è spesso avventurata su sentieri più piani che la vedevano impegnata a ricostruire logiche di riorganizzazione sistematica del pensiero cristiano, logiche non sempre pronte e recettive nei confronti della storia (una TP pronta a giustificare l’esistente). In particolare, la storia del dibattito italiano vede la teologia pastorale in ritardo sull’analisi di questo intreccio.

c) Alla ricerca di un metodo, l’apparizione della triade vedere – giudicare – agire è stata salutata dalla riflessione teologico-pastorale come un dono insperato e allo stesso tempo salutare. Maturato nei contesti dell’esperienza della Mission de France (dentro l’esperienza del movimento operaio Jeunesse ouvrière chrétienne, JOC), questo metodo ha conosciuto un futuro immediatamente glorioso: assunto da parte del magistero conciliare (Gaudim et Spes) , riproposto in continuazione dal successivo magistero papale , si è pure presto diffuso nei vari episcopati nazionali (America Latina, Francia, Italia). Anche la riflessione teologica non è rimasta insensibile al suo fascino: Klostermann , Rahner , Midali , Mette , sono alcuni dei nomi di teologi che si sono rifatti a questo metodo per organizzare la loro riflessione teologico-pratica.
Si tratta quindi di un metodo famoso ma anche di un metodo criticato con forza:

  • lo si accusa di essere troppo critico, nato come metodo per la trasformazione della prassi, metodo rivoluzionario (dal sapore marxista) che sviluppa una lettura solo in vista di un cambiamento, attraverso lo strumento della contrapposizione e della lotta;
  • gli si rinfaccia di sovradeterminare la dimensione sociale nell’analisi e nella comprensione della pratica, correndo così il rischio di un pansociologismo (cfr. le accuse alla teologia della liberazione), che oscura una possibile lettura più complessiva della pastorale (Moioli) ;
  • Si obietta che si tratta di un metodo che ispira una assunzione della pratica ecclesiale secondo il modello tipico dell’ “apprendistato” (l’agire è conseguenza “applicativa” del vedere e del giudicare), più che della riflessione simbolica e teologica che vede l’agire come principio euristico, portatore di un senso-verità contestuato (Audinet) .

Eppure, nonostante queste critiche, questo metodo rimane alla ribalta per gli elementi indubbiamente positivi che contiene: questi ci permettono di costruire il contesto all’interno del quale sviluppare poi un metodo più attento e meno primitivo di lettura delle pratiche cristiane. Gli elementi sono così definibili:

  • il necessario riferimento al linguaggio, alla cultura intesa come quel sistema simbolico espresso attraverso una lingua che custodisce l’identità di un gruppo sociale;
  • la capacità di immaginare un rapporto non complicato tra teoria (linguaggio) e prassi (azione);
  • il riferimento al discernimento, alla necessità di avere strumenti per compiere una “azione ermeneutica”, un’interpretazione di quanto osservato, in riferimento a ciò che è contenuto nella “memoria cristiana viva” cioè attualizzata dallo Spirito Santo . La nostra osservazione non sarà mai avalutativa, ma orientata in senso cristiano.

Dal Documento conclusivo della V Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano,
Aparecida 13-31 maggio 2007.

«In continuità con le precedenti Conferenze generali dell’Episcopato latinoamericano, questo documento utilizza il metodo vedere, giudicare e agire. Questo metodo implica la contemplazione di Dio con gli occhi della fede attraverso la sua Parola rivelata e il contatto vivificante con i sacramenti, cosicché, nella vita quotidiana, possiamo vedere la realtà che ci circonda alla luce della sua provvidenza, giudicarla secondo Gesù Cristo, via, verità e vita, e agire nella Chiesa, corpo mistico di Cristo e sacramento universale di salvezza, per la diffusione del regno di Dio, che si semina su questa terra e dà pienamente il suo frutto in cielo. Molte voci, pervenute da tutto il continente, ci hanno offerto contributi e suggerimenti in tal senso, sostenendo che questo metodo ha contribuito a farci vivere più intensamente la nostra vocazione e la nostra missione nella Chiesa: ha arricchito il lavoro teologico e pastorale, e più in generale ci ha stimolato ad assumerci le nostre responsabilità dinanzi alle situazioni concrete del nostro continente. Questo metodo ci permette di vedere, in modo sistematico, la realtà dalla prospettiva del credente; di assumere criteri che vengono dalla fede e dalla ragione per il suo discernimento e la sua valutazione, con senso critico; e, conseguentemente, di progettare la nostra azione come discepoli missionari di Gesù Cristo, L’adesione di fede, gioiosa e fiduciosa in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, insieme all’inserimento nella Chiesa, sono presupposti indispensabili per garantire l’efficacia di questo metodo» .

4. I confini

Un corso di TP deve subito fissare in modo chiaro alcuni confini, che permettono alla sua riflessione di essere libera e allo stesso tempo di non invadere il terreno riservato ad altre competenze. L’azione della Chiesa, le pratiche cristiane sono un oggetto complesso che si pone al confluire di molte istanze.

  • Il corso di TP, ad esempio, non vuole essere un corso di magistero pastorale mascherato e alternativo. Lo scopo dell’insegnamento non è quello di fornire nuove priorità all’azione, quanto piuttosto quello di aiutare la comprensione dei fenomeni in atto dentro la vita storica della Chiesa, creando, attraverso lo strumento del linguaggio (discorso teologico), quella possibilità di vedere i problemi, senza la quale non ci sarebbe spazio per alcuna decisione episcopale di indirizzo della Chiesa.
  • Allo stesso modo la TP non vuole sostituirsi in modo diretto alla progettazione pastorale concreta, che spetta invece ai vari soggetti implicati nelle pratiche cristiane; piuttosto intende situarsi a monte di questa progettazione, come luogo in cui fornire domande e strumenti che permettano una immaginazione sempre più consapevole e riflessa del presente e del futuro della Chiesa.
  • Così pure, il nostro corso non vuole invadere lo spazio di altre discipline che storicamente hanno sviluppato uno studio di elementi attinenti l’agire cristiano (liturgia, catechetica, diritto, teologia morale, teologia spirituale, ecclesiologia). Di queste discipline rispetta lo spazio di riflessione e gli strumenti utilizzati, rivendicando per il proprio percorso di ricerca come elemento di unicità la prospettiva a partire dalla quale gli oggetti di studio di queste materie teologiche vengono assunti: quello della costruzione della pratica e quindi il volto storico e determinato del cristianesimo .

Più in particolare, il nostro corso di TP si sente naturalmente legato

  • alla dogmatica in genere e all’ecclesiologia in particolare ;
  • per le questioni ermeneutiche ed epistemologiche sollevate si sente in sintonia con le      questioni affrontate al riguardo dai corsi di filosofia;
  • vive con interesse il confronto/scambio attivato con le scienze sociali, con i loro strumenti di lettura e di comprensione della realtà;
  • riconosce all’antropologia culturale e religiosa la funzione di stimolo in vista della costruzione di “esercizi” di osservazione del fenomeno cristiano;
  • al riguardo riconosce la proficuità di un confronto con la teologia fondamentale, per mantenere alto il livello di indipendenza che la TP intende esibire nelle diverse letture e interpretazioni operate .

5. Lo schema del corso di teologia pastorale

I momenti che hanno segnato la breve storia della TP.
La sua nascita:

  • disciplina sostanzialmente giuridico-applicativa (S. Rautenstrauch; Schleiermacher; la “cura d’anime“);
  • la prima declinazione teologica: A. Graf (una teologia pratica di stampo trascendentale, ripresa da K. Rahner); F. X. Arnold;
  • la “pastorale d’insieme”.

I quattro fattori che nel XX secolo hanno costruito il volto attuale della TP:

  • l’ingresso delle scienze sociali, dell’azione e del linguaggio (in ambito anglosassone, tedesco e francese);
  • la Mission de France (laboratorio ecclesiologico);
  • lo Handbuch der Pastoral Theologie, che colloca la TP all’interno del sapere teologico;
  • il Vaticano II con la sua tematica dell’aggiornamento ecclesiale e la sua idea di pastorale.

6. Bibliografia
Indichiamo una bibliografia essenziale per ordine di data di edizione.

B. Seveso, Edificare la Chiesa. La teologia pastorale e i suoi problemi, [Collana di teologia pratica - 1], ELLE DI CI, Leumann (Torino) 1982.
M. Midali, Teologia pratica, I, Cammino storico di una riflessione fondante e scientifica, [Biblioteca di Scienze religiose 159], LAS, Roma 19854.
S. Lanza, Introduzione alla teologia pastorale, I, Teologia dell’azione ecclesiale [= Strumenti 45], Brescia 1989.
S. Pintor, L’uomo via della Chiesa. Elementi di teologia pastorale, Bologna 1992.
P. M. Zulehner, Teologia pastorale, I, Pastorale Fondamentale, Queriniana, Brescia 1992.
B. Seveso – L. Pacomio (cur.), Enciclopedia di Pastorale, I, Fondamenti, Casale Monferrato 1992.
J. Audinet, «Pratique, anthropolologie, théologie», in Penser la foi, a cura di J. Doré- C. Theobald, Cerf-Assas, Paris 1993.
V. Grolla, L’agire della Chiesa. Lineamenti di teologia dell’azione pastorale, Messaggero, Padova 1995.
Angelini G.- Vergottini M. (cur.), Invito alla teologia III, Glossa, Milano 2002.
A. Wollbold, Teologia pastorale (PBT 10), Eupress, Pregassona (Lugano) 2002.
G. Trentin – L. Bordignon (cur.), Teologia pastorale in Europa. Panoramica e approfondimenti, Messaggero di Sant’Antonio Editrice, Padova 2003.
S. Lanza, «Teologia pastorale», in La teologia del XX secolo. Un bilancio, III, Prospettive pratiche, Città Nuova, Roma 2003, pp. 393-475.
T. Špidlík T. – M. I. Rupnik (cur.), Teologia pastorale. A partire dalla bellezza, Lipa, Roma 2005.
L. Bressan, «La prospettiva dell’engendrement come stimolo alla teologia pratica», Teologia 3 (2007) pp. 382-391.
C. Torcivia, La parola edifica la comunità. Un percorso di teologia pastorale, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2008.
G. Villata, L’agire della Chiesa. Indicazioni di teologia pastorale, EDB, Bologna 2009.
B. Seveso, La pratica della fede. Teologia pastorale nel tempo della Chiesa, Glossa, Milano 2010.
S. Lanza, La Teologia pastorale secondo la “scuola lateranense”, [i Laterani 1], Lateran University Press, Roma 2010.
M. Midali, Teologia pratica,V, Per un’attuale configurazione scientifica, [Biblioteca di Scienze religiose 200], LAS, Roma 2011.

Altri testi saranno indicati durante lo svolgimento del Corso.

 

Le ragioni della disciplina teologico-pastorale
raccontate dalla sua storia

 

In quanto disciplina teologica, la TP conosce una storia molto recente. Questo non significa che il cristianesimo non abbia mai elaborato un pensiero sulle sue pratiche e sulle sue azioni . Ancora più a monte, il mondo ebraico conosce già una riflessione critica sulle modalità di organizzazione del popolo di Dio, sul modo di gestire il legame con Dio e la relazione religiosa, sul modo di vivere i propri impegni etici, ecc .
I Padri della Chiesa conoscono delle riflessioni molto pregnanti al riguardo (si pensi alla Regola Pastorale di Gregorio Magno) , tuttavia tutte queste riflessioni non spingono mai il contesto ecclesiale ad organizzare il pensiero intorno a queste materie in una disciplina specifica, con il suo oggetto materiale e formale, un suo metodo, le sue competenze e i suoi obiettivi .
L’organizzazione in questo modo della riflessione teologico-pastorale avviene sotto la spinta di motivazioni esterne, alla fine del XVIII secolo. Si struttura una figura ben definita di TP, che continuerà senza grandi interruzioni fino al secolo XX, quando quattro grandi fattori faranno la loro comparsa dentro la storia della disciplina, influenzandone e modificandone in modo davvero pregnante lo sviluppo.
I quattro fattori sono:

  • l’ingresso delle scienze sociali nella riflessione teologico-pastorale (l’arrivo attraverso l’Olanda del Pastoral Care Mouvement e dell’epistemologia delle scienze dell’azione);

 

  • l’esperienza della Missione di Francia come laboratorio pastorale (il coraggio di mettere in discussione i principi fondamentali di socializzazione sui quali si fonda il corpo ecclesiale);
  • il Concilio Vaticano II nel ruolo di propulsore di una riflessione forte a livello pastorale e carica di rinnovamento (di riforma: la sua impostazione legata all’idea di un aggiornamento della figura della Chiesa e della sua presenza nella società);

 

  • la collocazione della TP dentro l’universo delle discipline teologiche (la pubblicazione dello Handbuch der Pastoraltheologie,quale primo luogo di apertura della teologia classica a questa nuova comprensione della storia e della società)

Prima di prendere in esame questi quattro fattori si dedica un primo capitolo al periodo che va dagli inizi della TP (1774-1777) alla prima metà (circa) del XX secolo.  

 

 

1. Dagli inizi alla prima metà del XX secolo
1.1. Franz Sthephan Rautenstrauch (1734-1785)
In seguito alla soppressione della Compagnia di Gesù un abate benedettino, Franz Sthephan Rautenstrauch (1734-1785), si vede consegnato, da Maria Teresa d’Austria e Giuseppe II, il compito di organizzare il percorso degli studi teologici per il clero. All’interno del ripensamento della figura della teologia prende spazio un insegnamento inizialmente abbastanza casuale (all’interno del Progetto per un miglior ordinamento delle scuole teologiche del 1774), in seguito organico e organizzato (l’istituzione del Corso pratico nel 1777) dei «doveri del ministero pastorale e della loro attuazione», secondo lo schema dei tria munera (sacerdotale, profetico, regale).

  • Anzitutto il dovere dell’insegnamento, intendendo qui non tanto l’insegnamento delle verità dogmatiche, quanto l’insegnamento del vangelo in chiave morale, cioè come regola di vita che porta alla felicità;
  • in secondo luogo il dovere dell’amministrazione e dispensazione dei sacramenti, con le relative indicazioni liturgiche e operative;
  • infine il dovere dell’edificazione, corrispondente alla formazione non solo del buon cristiano ma anche (nell’ottica della riforma degli studi) del buon cittadino (il pastore era anche funzionario statale).

In realtà ci si concentra sul pastore – che si vuole giustamente più preparato – ma ciò è spia di un disagio ben più profondo, inerente al rapporto stesso tra cristianesimo e società messo da tempo in crisi. Già dopo il Concilio di Trento era infatti fiorita tutta una letteratura, volta a concretizzare il progetto di riforma di cui il Concilio si fa portatore, focalizzata appunto sui doveri del clero in cura d’anime; questo perché si pensa di rispondere alla crisi determinatasi, dedicando particolare attenzione al ministero pastorale (l’obbligo di residenza dei vescovi e dei parroci, l’istituzione dei seminari ecc.) . In effetti i decreti tridentini de reformatione (sessione 23 e 24) dischiudono nell’insieme un disegno coerente, volto a rifondare l’iniziativa ecclesiale – messa appunto in crisi.
Se la concezione di TP appare riduttiva, in quanto configurata unicamente sul ministero pastorale, bisogna tuttavia riconoscere che, attraverso la figura del pastore, essa si apre inevitabilmente al confronto con il dato storico, che le condiziona entrambe – figura del pastore e identità della TP. Il progetto tridentino e quello di matrice giuseppinista – pur nella diversità assai profonda e quindi nella differente legittimità – fanno ambedue leva sul ministero del pastore e sulla figura “ideale” ad esso presupposta per rispondere alle istanze del tempo, che di conseguenza entrano quale componente (non tematizzata) della riflessione e della proposta pastorale.
Emerge pertanto, già in questi inizi, che anche là dove si circoscrivesse – impropriamente – il discorso teologico-pastorale all’identità/formazione/esercizio del ministero del pastore, non si potrebbe formularlo se non a partire dal dato storico, ecclesiale e sociale. Le proposte tentano pertanto di rispondere ad una situazione, che mette in posizione interrogativa, immediatamente la pratica pastorale, più profondamente ruolo e identità del pastore, ad un livello ancora precedente – coscientemente non avvertito – la Chiesa nel suo insieme, in rapporto al Vangelo da annunciare e al mondo (non più quello di una volta) cui annunciarlo.
Il mondo accademico si vede, così, costretto ad interessarsi allo studio analitico e scientifico dei meccanismi di costruzione sociale del corpo ecclesiale: emerge un nuovo campo di interesse e di studio per la teologia. Seppure l’approccio risulta pregiudicato dall’impostazione giuridica e amministrativa che guida la richiesta di una teologia pastorale ,  rimane l’istanza di confronto con il proprio tempo.
Inoltre emerge da subito come problema evidente la difficoltà di strutturare questa disciplina sia nel suo oggetto formale che nel suo oggetto materiale: come far sì che questa disciplina arrivi a cogliere la dinamica teologica celata dietro le forme sociali dell’annuncio del Vangelo, o quella racchiusa nell’immagine comunitaria e sociale della chiesa?
Nel periodo immediatamente successivo all’istituzione delle cattedre di TP compare una serie di manuali, alcuni in più volumi, dedicati all’argomento e variamente influenzati dalla riforma viennese. La produzione può essere indicata come la «prima manualistica» di TP si veda l’approfondimento più avanti). Tra questi manuali vi sono quelli di orientamento «biblico-teologico». Il rappresentante principale di questo orientamento è il teologo della scuola di Tubinga Johann Michael Sailer (1751-1832). Egli tenta di dare una fondazione biblica all’azione del pastore d’anime e di conferire, per questa via, un carattere teologico alla disciplina pastorale, superando l’impostazione di altri manuali che la riducono a sintesi ordinata di insegnamenti per il parroco o il prete in cura d’anime .  

1.2. Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher (1768-1834)
Diverso è il modo con cui reagisce il mondo delle Chiese della Riforma a questa ristrutturazione del sapere teologico. Lo schema che si impone è quello legato alla riorganizzazione operata da Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher (1768-1834) che è considerato il padre della teologia pratica. Si ricollega alla riflessione di Lutero (per il quale «vera teologia est practica»), e nella sua opera Breve presentazione dello studio della teologia, redatta al fine di lezioni introduttive (1810) si propone di dare un fondamento scientifico alla disciplina.
Il punto di partenza è una concezione di teologia come «scienza positiva», di second’ordine rispetto alla «scienza pura» (che secondo Schelling è oggetto della filosofia): l’una rivolta al raggiungimento di finalità concrete proprie dell’esistenza umana, l’altra alle verità assolute. L’articolazione che egli dà al sapere teologico è tripartita:

  • c’è anzitutto la «teologia filosofica», che riguarda la natura del cristianesimo;
  • poi la «teologia storica», che dall’essenza risale alle origini storiche;
  • infine la «teologia pratica», definita un sapere relativo all’attività di conduzione della comunità cristiana ecclesiale.

Il sapere teologico è dunque tripartito nel momento storico, sistematico e pratico sul modello dell’ermeneutica pietista delle Scritture, (subtilitas intelligendi, explicandi, applicandi), tipico del secolo XVII nelle chiese della riforma.
L’idea di TP che ne deriva è quella di una disciplina teologica a tutto tondo, per Schleiermacher addirittura la «corona» della teologia (vedendovi in essa principalmente la teologia morale). L’orientamento pratico è, secondo Schleiermacher, fondamentale per tutta la teologia.
In questo modo essa assume un carattere essenzialmente funzionale:

  • è una scienza positiva a servizio di un sapere pratico;
  • si occupa della «conduzione della Chiesa» (come strategia teologica applicata alla Chiesa reale o empirica).
  • L’ambito preciso di competenza della teologia pratica è la determinazione delle procedure o norme operative da mettere in opera per l’attuazione effettiva dei compiti ecclesiali (in  questo senso è una «tecnica»), la cui definizione è invece competenza della teologia filosofica e storica.

Anche se nella seconda edizione della sua opera Schleirmacher specifica che l’espressione «conduzione della comunità» va intesa in senso largo, l’antitesi che egli pone tra una élite – cui è appunto affidata la conduzione della Chiesa – e una massa – che vi appartiene, senza una competenza propriamente teologica – sembra denunciare un restringimento clericale del discorso teologico in genere e teologico-pastorale in specie. E tuttavia si deve anche riconoscere che «tale interpretazione è dovuta a una rilettura parziale del pensiero di Schleiermacher, che attribuisce un proprio peso a tutti nella circolarità del rapporto élite-massa» .
Anche la categoria «tecnica» con cui viene definito il compito della teologia pratica è sorgente di difficoltà, perché troppo esposta ad essere interpretata in senso prevalentemente applicativo, nonostante la differente intenzione di Schleiermacher. Infatti

  • da una parte egli precisa come la TP non sia semplicemente una prassi bensì “teoria della prassi”;
  • dall’altra però egli attribuisce compiti teoretici alla teologia filosofica, che invece sarebbero propri della TP, risolvendola pertanto in senso pratico-applicativo. In questo modo rimane imprecisato lo statuto epistemologico della teologia pratica.

Ancora, non avendo determinato come questa disciplina è «corona dello studio teologico», apre la strada ad un bipolarismo nella sua definizione:

  • su un versante essa si trova a disagio nel giustificare la propria scientificità e, in pratica, è ridotta ad applicazione dei risultati delle altre discipline teologiche;
  • su un altro versante, invece, il carattere teoretico che essa rivendica fa difficoltà all’atto di formulare un suo rapporto accettabile con la prassi.

1.3. Anton Graf (1811-1867)
Nonostante molte affinità, Anton Graf (1811-1867), appartenente alla scuola di Tubinga e discepolo di Johann Adam Möhler , prende decisamente le distanze da Schleiermacher nella sua concezione di TP. Egli mette in evidenza il rischio che Schleiermacher, concentrando la teologia pratica sui problemi della conduzione ecclesiale, «riduca l’intera teologia a un puro mezzo, escludendo del tutto il puro interesse scientifico».
Secondo Graf, Schleiermacher riesce certamente a superare una pastorale prescientifica, senza però realizzare la costruzione di una teologia pratica scientifica. Al contrario: egli «lasciò la teologia pratica nella condizione precedente, meramente pratica, come semplice ammaestramento per il servizio nella chiesa, e abbassò a quel livello la teologia teoretica, eliminandone l’essenziale e autonoma scientificità».
Graf percorre la strada opposta. Egli nell’opera del 1841, Presentazione critica dell’attuale situazione della teologia pratica, tenta di elevare la teologia pratica al livello teoretico. Per questo rovescia la comprensione di teoria e prassi: «La teologia pratica non esiste perché c’è un prevalente interesse pratico nella teologia, ma quella e questo sono presenti perché la Chiesa è una realtà che edifica sé stessa». Reagendo ad un certo empirismo pastorale afferma che l’interesse pratico è certamente presente nella TP – in misura più rilevante rispetto alla teologia dogmatica – in quanto si occupa dell’ “autoedificazione” della Chiesa e di «essere attivi» in essa, ma ciò non significa che abdichi all’interesse scientifico, pena il suo scadere e non essere più teologia.
La centralità teologica dell’idea di Chiesa, pensata nel suo insieme organico come soggetto attivo del proprio essere e del proprio sviluppo, si riflette sulla concezione di teologia dalla quale si muove la proposta di Graf.
La teologia, secondo Graf, deve concepire sé stessa come «autocoscienza scientifica della Chiesa» (non soltanto della guida della Chiesa, e meno che mai dei metodi e delle tecniche della guida), per cui oggetto della teologia è appunto la Chiesa. Ora la dimensioni presenti nella Chiesa sono tre e fanno riferimento al suo passato, all’essenza divina e immutabile che la costituisce, al futuro nel quale è chiamata a costituirsi. Da qui derivano le tre diramazioni della teologia:

  • la teologia biblica e storica, che mette a tema l’aspetto storico della Chiesa;
  • la teologia sistematica (dogmatica e morale), che studia l’aspetto teorico, ovvero l’essenza immutabile della Chiesa;
  • la teologia pratica che si occupa dell’aspetto pratico, ovvero del farsi dinamico della Chiesa, della sua autoedificazione.

Se la teologia può essere definita «il sapere attraverso la chiesa e circa la chiesa», la teologia pastorale si pone deduttivamente come «scienza e teoria della chiesa che si forma, si muove, si costruisce nel futuro».
Alla luce di questa impostazione ecclesiologica che recupera il soggetto globale dell’azione ecclesiale, Graf tenta anche di superare la prospettiva clericale della TP (indicativa in questo senso è la dizione di teologia pratica e non di teologia pastorale). Di fatto, quando poi articola la materia, Graf propone una TP per chi ricopre l’ufficio ecclesiastico. Rimane tuttavia il valore dell’impianto ecclesiologico, che fa per lo meno intravedere una prospettiva più ampia: si tratta di imparare a leggere come un avvenimento teologico la dinamica di costituzione e di sviluppo della Chiesa. Perciò, prima di pensare alle mansioni di alcune categorie all’interno del corpo ecclesiale (i compiti del prete), occorre interrogarsi sullo sviluppo globale dell’intero corpo ecclesiale. L’edificazione della chiesa del futuro è materia teologica allo stesso livello dello studio delle fonti della Rivelazione e dell’impostazione teoretica del pensiero cristiano; ed è dalla natura trascendentale della Chiesa, intesa come simbolo, che si possono dedurre le caratteristiche della Chiesa storica.
Un simile modo di pensare la TP rimane tuttavia isolato, sia per la fatica di una sua declinazione storico-fattuale, sia per la mancanza di prosecutori di questo modo di riflettere. Un simile pensiero appare 

  • da una parte troppo radicale e oneroso per una disciplina vista ancora come un prontuario, un’appendice applicativa dell’ecclesiologia classica;
  • e dall’altra parte ancora troppo poco capace di leggere la storia come luogo teologico manifestativo del senso ultimo della pratica cristiana e quindi luogo epifanico della Chiesa.

Il pensiero di Graf rimarrà in oblio sino alla sua ripresa da parte di K. Rahner. La TP torna ad essere, da Graf in poi, un prontuario giuridico-amministrativo dei compiti del pastore in «cura d’anime».

Approfondimento: La prima e la seconda manualistica

 a) L’approccio ‘operativo’

Nel periodo immediatamente successivo alla istituzione della cattedra di teologia pastorale il compito di dare esecuzione pratica al programma indicato è assunto da una serie di manuali preparati come supporto didattico per l’insegnamento. Le norme che davano inizio al «corso pratico» prevedevano che nella compilazione dei testi si tenesse presente l’Abbozzo di Rautenstrauch. Nel giro di una ventina d’anni sono pubblicati ben undici manuali, con più riedizioni. Si giunge anche alla prescrizione ufficiale di un manuale per tutte le facoltà teologiche.

Questi manuali presentano un impianto sostanzialmente comune. La produzione può essere indicata come la prima manualistica teologico-pastorale. Essa copre un arco di tempo che va dal 1780 al 1850. Vi è di fatto disegnata una precisa figura di teologia pastorale, che, a prescindere da alcune variabili legate alla cultura dell’epoca, si ripropone come una lettura determinata dell’intento teologico-pastorale. Caratteristiche portanti di questa idea di teologia pastorale sono la polarizzazione sulla persona del pastore come soggetto dell’attività pastorale e quella che potrebbe essere detta la «rinuncia alla scientificità». A queste si aggiunge la particolare finalità attribuita alla pastorale, connotabile in termini di uso «civile» della pastorale. Le prime due caratteristiche individuano la figura di teologia pastorale; la terza dice i condizionamenti socioculturali cui è soggetta la pastorale.
La prima manualistica pastorale pone il baricentro nella figura del pastore. Nella scia della proposta di Rautenstrauch, è in primo piano l’esigenza di dotare la chiesa di pastori adeguatamente formati. In nessun manuale la questione del soggetto della pastorale è sentita come problema. Risulta ovvio ed incontestato che il «pastore» debba essere considerato come soggetto unico ed esclusivo dell’attività ecclesiastica. La riduzione dell’azione della chiesa alla azione del pastore è pacifica e senza riserve. È quindi assente la preoccupazione di una fondazione teologica del servizio pastorale del prete e prevale la descrizione delle sue funzioni all’interno della struttura civile e nella chiesa.
La descrizione dei doveri connessi con l’ufficio pastorale esaurisce la trattazione pastorale. La sua esecuzione è inevitabilmente influenzata dallo spirito illuministico dell’epoca. Il pastore «cura le anime, cioè si preoccupa di condurre le anime alla felicità eterna e, nella misura del possibile, anche alla felicità temporale». Il pastore d’anime è il «maestro di religione», che si sforza di raccomandare con motivazioni religiose, che negli uomini producono una impressione sempre più profonda e durevole, quei comportamenti che lo stato deve invece ottenere a forza con leggi e sanzioni penali. Se la preoccupazione etica connota da vicino il pastore d’anime e i suoi doveri, vi è pure una certa intuizione della riduttività di una concezione soltanto moralistica della religione: «Noi non siamo soprattutto maestri del popolo o semplicemente maestri precettati della sapienza e della virtù (anche se noi sotto un certo profilo potremmo essere detti maestri della più vera sapienza e della più nobile virtù)... Invece noi siamo annunciatori della rivelazione divina, come mezzo ottimale di formazione ed educazione alla moralità e alla religione». La teologia pastorale, allora, non solo è incentrata sul pastore, ma ha come suo esclusivo destinatario il prete. Essa «insegna all’ecclesiastico come sviluppare opportunamente e fedelmente il proprio ufficio e con ciò educare gli uomini ad una sempre più grande perfezione dello spirito e del cuore».
La trattazione pastorale si colloca a livello di ripresa descrittiva dell’esperienza. Si cerca una migliore organizzazione dell’attività ecclesiastica esistente, senza eccessiva preoccupazione per una sua discussione critica. Sono perciò passate in rassegna le incombenze del pastore d’anime così come sono vissute secondo i modelli del tempo, che vengono riproposti. Di fatto il manuale riprende la materia che già era oggetto della letteratura pastorale precedente. Relativamente nuova è invece la ricerca di una catalogazione ordinata di tutta la materia pastorale. Ma anche l’assunzione dello schema tripartito sembra rispondere ad esigenze di tipo descrittivo e di riorganizzazione della prassi corrente di cura d’anime, piuttosto che ad un interesse autenticamente teoretico di comprensione dell’articolazione che sottende questa pratica pastorale.
A questa finalità di completezza materiale nella presentazione dei doveri pastorali sembra rispondere lo spostamento di contenuti relativi al terzo di questi doveri. Mentre inizialmente, sulla scorta delle indicazioni di Rautenstrauch, la terza parte della trattazione pastorale rimane il luogo ove vengono a tema le considerazioni relative alla persona del curatore d’anime e all’etica professionale («de officio boni exempli»), successivamente in essa vengono collocate tutte le tematiche relative ai destinatari della cura pastorale. Cambia anche la denominazione del terzo dovere, che diventa «cura d’anime» (Seelsorge), «guida della comunità», «ufficio pastorale». Contestualmente, le tematiche relative alla persona del pastore sono fatte passare in un momento preliminare, come introduzione generale alla teologia pastorale.
La finalità della trattazione e dell’insegnamento è puramente pratico-operativa. Si tratta di un «avviamento» del pastore alla attuazione corretta dei suoi doveri di cura d’anime. Ci si colloca sul piano prettamente tecnico delle istruzioni per l’esecuzione dei compiti pastorali. La «scienza della cura d’anime» o «Pastoral-Theologie» è perciò «l’indicazione ragionevole per condurre convenientemente l’ufficio pastorale» o l’avviamento ad espletare convenientemente i doveri di cura d’anime. Per questo insegnamento risulta perciò impropria la dizione «teologia pastorale». Si dovrebbe meglio dire «istruzione pastorale», dal momento che in essa si fornisce al chierico l’avviamento alla conduzione dell’ufficio per una conformazione ottimale della sua comunità secondo re leggi e prescrizioni divine, ecclesiastiche e civili locali.
Ne risulta perciò banalizzato il carattere teologico della disciplina, che pure Rautenstrauch aveva cercato di affermare. Per il suo carattere tecnico, questo insegnamento non costituisce una dimensione essenziale del cristianesimo o della chiesa. Non gli inerisce perciò la qualità teologica. Ciò è dovuto al suo oggetto, che non è teologico: «Si è detta questa disciplina anche pratica o applicata o Pastoral-Theologie. Ma tutte queste denominazioni sono indeterminate, in quanto la professione dell’ecclesiastico non costituisce uno specifico ramo della teologia, ma l’applicazione della teologia globale. Si dovrebbe piuttosto chiamarla ‘Pratica teologica’». Che non sia di natura teologica dipende anche dal carattere pratico dell’insegnamento, che non può pretendere la dignità teorica della scienza teologica. L’insegnamento pastorale è in effetti una esposizione dei doveri e dei compiti dell’ufficio pastorale, insieme con una istruzione per la loro corretta esecuzione. Perciò, per quanto riguarda il suo rapporto alla «teologia dottrinale», «non è una specifica disciplina della scienza teologica, ma è l’istruzione sul come la scienza teologica è da portare ad applicazione ed esercizio nel modo più fruttuoso. Essa introduce nella vita pratica il candidato già familiarizzato con le discipline teologiche e gli mostra come può servirsi, nel modo più funzionale allo scopo, di ciò che la scienza gli ha dato per amministrare con santa efficacia l’ufficio pastorale. Essa ha come scopo di abilitare il candidato alla professione pastorale. Per questo essa ha bisogno di tutte le altre discipline teologiche; ma ad essa rimane estranea ogni speculazione». La qualità teologica dell’insegnamento è perciò accidentale: «Poiché si è data questa istruzione in forma di sistema e se ne è fatto una parte della teologia, allora la si chiama secondo la denominazione recepita di ‘teologia pastorale’».
La successiva letteratura teologico-pastorale è unanime nel sottolineare l’impostazione ateologica della prima manualistica. Se ne danno, peraltro, interpretazioni differenziate. Per un aspetto essa può essere fatta risalire alla polarizzazione sulla figura del pastore e al mancato accertamento del suo profilo. Per altro verso può essere attribuita al prevalere di un antropocentrismo che estenua di fatto il riferimento cristologico. Di fatto è senza tentennamenti la dichiarazione di estraneità della pastorale rispetto alla teologia, in conseguenza della sua natura tecnico-operativa. Vi interviene una determinata precomprensione epistemologica, caratterizzata da una precisa configurazione dell’insieme complesso di «teoria» e «pratica». Vi gioca un ruolo non indifferente il presupposto della autosufficienza della teoria teologica, che non sopporta accanto a sé se non una traduzione sul piano tecnico. L’insegnamento pastorale si autocensura perciò rispetto alla teologia e si comprende come «tecnologia» pastorale.

b) La deriva ‘applicativa’

Nell’arco di tempo che va dalla metà del secolo scorso fino agli anni Sessanta di questo secolo la teologia pastorale vive una situazione di sostanziale omogeneità di prospettiva. Pur se distribuita su un periodo tanto ampio, è giustificata l’individuazione di una struttura unitaria. Le variazioni intervenute nel tempo non modificano significativamente l’impianto di base. Ne risulta una immagine di teologia pastorale contrassegnata dalla funzionalizzazione alla dogmatica, quale suo momento applicativo. I contenuti teorici della teologia pastorale sono predisposti dalla dogmatica e la teologia pastorale ne cura l’applicazione al caso concreto. Sul presupposto che l’agire consegue l’essere si conclude dalla conoscenza della natura della Chiesa alla possibilità di una determinazione del suo agire. Vi agisce una precisa concezione dei rapporti di teoria e prassi, che prevede un percorso a senso unico dalla teoria alla prassi. E, anche se in modo confuso e pre-riflesso, vi opera una concezione dei rapporti di universale e singolare che vede il particolare come caso dell’universale.
La ricostruzione storica può individuare in questo spazio di tempo tre stagioni successive, in cui la medesima figura di teologia pastorale è ripresa e sviluppata nella diversa temperie ecclesiale e teologica: il periodo che va dalla metà dell’Ottocento alla prima guerra mondiale; il periodo fra le due guerre; il secondo dopoguerra. La seconda metà dell’Ottocento è caratterizzata da una ripresa della produzione manualistica. Vengono pubblicati nuovi manuali, che prendono il posto di quelli precedenti nell’insegnamento e nello studio universitario, con una impostazione mutata, corrispondente alla nuova comprensione di teologia pastorale. Possiamo indicare questo momento come «seconda manualistica». È il momento della rifusione e messa a punto della figura di teologia pastorale, che sarà poi di fatto unanimemente recepita. Il periodo fra le due guerre si apre con l’interrompersi della produzione di manuali e l’esplorazione di altre strade di elaborazione della pastorale. È il momento del rimescolamento delle carte, sia per quanto riguarda la strutturazione della teologia pastorale sia per quanto attiene alle modifiche intervenute nel contesto di riferimento. Il secondo dopoguerra è dilatabile, sotto il profilo teologico-pastorale, al di là degli stretti confini storiografici, fin dentro gli anni Sessanta e probabilmente anche fin oltre il Vaticano II. Si tratta di un momento interlocutorio e sostanzialmente di attesa, che vede impulsi diversi fiancheggiarsi senza spingere a fondo il confronto reciproco. Da un lato la «scolastica» teologico-pastorale ripete in modo inerziale e sistematizza il modello ormai consolidato e lo assume come base pacifica ed incontestata per parlare di pastorale. Dall’altro nella pastorale prendono vita nuovi linguaggi, nella fattispecie la «pastorale d’insieme», sui quali deve misurarsi la comprensione teologico-pastorale.
Il manuale di teologia pastorale della seconda metà dell’Ottocento nasce in un contesto ecclesiastico caratterizzato da un mutamento di clima rispetto al periodo immediatamente precedente. Cambia il panorama teologico con l’affermarsi della neoscolastica. La presa di distanza nei confronti della cultura dell’epoca, con forti connotazioni apologetiche, fa registrare un certa perdita di contatto con i fenomeni storici e un ripiegamento della Chiesa su una autosufficienza ecclesiastica. Per una motivazione complessa, dove fattori storico-civili si mescolano a richiami religiosi, nel corso del secolo assume contorni più marcati nella Chiesa anche il riferimento alla sede romana. Prende corpo in questo contesto la figura del «Magistero», nel senso di un esercizio con autorità della funzione di insegnamento. Con questa figura si intende normalmente il Magistero del Papa, e non ancora dei Vescovi.
Il mutamento del quadro culturale e pastorale si riflette nella rielaborazione teologico-pastorale. Nel manuale questa è solitamente consegnata nelle prefazioni, cui è affidato il compito di tracciare l’impianto teologico-pastorale. Vi ritornano, sia pure con sottolineatura diversificata, le due costanti della scientificità e della teologicità, che differenziano questo manuale dalla prima manualistica. Le variazioni nella declinazione di queste due costanti segnano altrettante varianti del modello teologico-pastorale di base.
La teologia pastorale si definisce nel contesto della teologia e come componente necessaria della teologia. A sua volta la teologia è definita in riferimento al «Regno di Dio», figura che è vista come intercambiabile con «Chiesa»: «Teologia è la scienza del Regno di Dio, come è qui la Chiesa, che da diciotto secoli sta davanti agli occhi dei popoli come fatto innegabile». Ai tre aspetti del «Regno di Dio» corrispondono le tre branche della teologia: storico e biblica, dogmatica e morale, pratica.
La figura di teologia pastorale è rintracciata con riferimento al fine e ai mezzi per il fine. Fine della teologia pastorale è «la costruzione e il completamento del Regno di Dio sulla terra o la autoedificazione della Chiesa e il suo continuo formarsi dentro il futuro». La Chiesa sta «tra cielo e terra», facendo da ponte fra gli uomini e il trono di Dio. Mezzi per il fine sono «l’ufficio profetico, l’ufficio sacerdotale e l’ufficio regale» di Cristo. Il «triplice ufficio» è esercitato da Cristo mediante la Chiesa e la Chiesa deve esercitarlo «attraverso i preti in vivente collegamento con le comunità». Oggetto della teologia pastorale è «l’attività divino-umana della Chiesa». Dunque non del prete in quanto individuo, ma del prete in quanto «organo di Cristo e della Chiesa». Il «ceto ecclesiastico» è «rappresentante e mediatore del permanente ufficio mediatore di Cristo sulla terra».
L’impianto metodologico è governato dal rapporto istituito fra sapere, proprio della teologia teoretica, e agire, proprio della teologia pratica. Il sapere passa necessariamente nell’agire e l’agire deve svilupparsi a partire dal sapere: «la prassi deve essere copia della teoria». Dal canto suo, il sapere, e dunque la teoria, ha come oggetto l’essenza e non il contingente. La teologia pastorale non segue i tempi e le culture, ma è sempre identica a se stessa in ogni tempo e in ogni luogo. Nel caso specifico, il «principio conduttore» è costituito dalla volontà di Cristo e della Chiesa. Per una migliore traduzione dei principi si deve certo ricorrere all’aiuto dell’esperienza: «Gli assiomi veri rimangono incontestabili, ma la modalità di attuazione è opportunamente sostenuta e propiziata da una solida esperienza». Si tratta, in ogni caso, non dell’esperienza individuale, ma di quella della Chiesa.
La prima guerra mondiale segna l’esaurirsi del manuale. Non si tratta soltanto di un mutamento di formula editoriale, ma di un cambiamento che risente di una messa in discussione dell’assetto teologico-pastorale. Il dato più clamoroso è offerto dalla dissoluzione del quadro globale di organizzazione dei contenuti. Si lascia perdere l’impresa di una teologia pastorale globale e si dà spazio alla trattazione delle singole discipline pastorali: «cura d’anime speciale» o «odegetica», «catechetica», «omiletica», «liturgia». Le motivazioni addotte parlano della dilatazione ormai ingovenabile della materia pastorale e di diversità metodo logiche fra le discipline. La strategia vincente per il futuro sviluppo della riflessione pastorale è prospettata nello sviluppo separato dei singoli ambiti della pastorale.
Viene denunciata anche l’incapacità dell’impianto manualistico a tenere conto della situazione storico-culturale. La critica non investe però la struttura epistemologica soggiacente. Si riconosce ancora la presenza nella pastorale di elementi fondamentali e duraturi in cui hanno spazio i principi assoluti e immutabili della scienza pastorale. Il disagio si appunta sulla insufficiente articolazione delle concrete modalità di applicazione dei principi, così che l’esposizione appare scontata e aproblematica. La denuncia riguarda la sostanziale irrilevanza del fattore «tempo» nell’azione pastorale, sulla base del presupposto ritenuto ovvio e non discusso che le regole d’oro della pastorale siano già sempre disponibili e necessitino solo di una messa in opera tecnicamente perfetta. L’accelerazione delle problematiche pastorali esige perciò strumenti più flessibili di analisi e di discussione per affrontare in modo tempestivo e rigoroso le questioni sollevate dall’impatto della «cura d’anime» con le nuove situazioni umane.
La separazione fra le discipline pastorali consolida, inoltre, la tendenziale sovrapposizione di «pastorale» e «teologia pastorale». Quello che in una concezione globale era un settore della pastorale passa ora a rappresentare l’intero della pastorale. Ma il mutamento di denominazione porta con sé anche uno spostamento di significato: la «pastorale» appare di nuovo altra rispetto alla «teologia». Il rapporto della pastorale alla teologia è fatto passare attraverso la persona del pastore: la teologia, cioè, serve alla pastorale mediatamente, attraverso la corretta preparazione teologica del pastore d’anime. Compito della pastorale, allora, è quello di desumere dalla dogmatica quella teologia che serve immediatamente alla salvezza delle anime. Rispetto alla teologia, la teologia pastorale, o pastorale, semplicemente, è solo realtà didattica. O è assunta come corollario. La pastorale è corollario della dogmatica, da cui riceve i principi in base ai quali costruisce la propria esposizione: essa si preoccupa di sviluppare le conseguenze pratiche degli asserti dogmatici. La mentalità teologica dominante, che riconosce l’egemonia della dogmatica fino a identificare dogmatica e teologia riserva alla «pastorale» un riconoscimento teologico solo in senso derivato e secondario.
Nel secondo dopoguerra vengono alla luce i fermenti diversi presenti nella pastorale e in campo teologico-pastorale. Da un lato si riscontra un ritorno di interesse per lo statuto scientifico e teologico della disciplina, che intende però anche assumere tematicamente la nuova sensibilità per la realtà storica. Accanto a questo lavoro in certo modo accademico, si sviluppa l’impegno della «pastorale d’insieme», portatrice di nuovi impulsi per la comprensione della pastorale. 
La sistemazione della teologia pastorale, ridotta ormai alla «odegetica» o «pastorale in senso stretto», utilizza con continuità il supporto concettuale fornito dalla epistemologia aristotelico-scolastica. La concezione del sapere come sapere a partire da principi e la distinzione fra scienze che procedono da principi evidenti e scienze «subalternate» che mutuano i loro principi da scienze superiori permettono di definire il carattere scientifico e teologico della teologia pastorale a partire dal possesso di un principio proprio, universale e necessario, e dalla possibilità della argomentazione deduttiva. I contenuti sono desunti dalla letteratura manualistica. Il principio proprio è individuato nel comando missionario di Gesù agli Apostoli in Mt 28, 19-20, che funge da articolo di fede. Il comando missionario dice sia riferimento alle verità universali e necessarie sia attenzione agli uomini cui sono da comunicare i beni salvifici. Essa ricopre perciò tutta l’area tematica della pastorale.
L’articolazione del principio svolge il complesso teorico della teologia pastorale. I guadagni conoscitivi della riflessione teologico-pastorale assumono la forma di «conclusione teologica», in una argomentazione deduttiva in cui la premessa maggiore è istituita dal principio di fede specifico della teologia pastorale e la minore è data da un’altra proposizione di fede o può essere costituita da una proposizione di natura razionale.
L’assunzione della «conoscenza della vita degli uomini» è affidata alla «utilizzazione» dei risultati delle scienze profane, in particolare psicologia e sociologia. L’uso di queste scienze «ausiliarie» deve però avvenire in «subordine» alle leggi fondamentali della teologia pastorale, che sono date dai principi superiori rivelati. Sociologia e psicologia offrono le loro conclusioni alla teologia pastorale, ma entro limiti rigorosamente tracciati: l’oggetto di indagine è proposto loro dalla teologia pastorale, i risultati non sono immediatamente operativi; l’analisi stessa non è adeguata perché non può tener conto dei fattori soprannaturali.
Teologia pastorale e scienze ausiliarie costituiscono dunque due blocchi conoscitivi distinti. La loro integrazione avviene per «traslazione feconda delle scienze umane, condotte al livello della teologia». Il materiale empirico, «ordinato scientificamente, è presentato alla teologia pastorale che lo illumina, lo interpreta, lo usa secondo i principi della Rivelazione». Il luogo di questa operazione è «l’unità spirituale del teologo», in una «compenetrazione in unità superiore» propria della «sapienza». Il metodo teologico-pastorale è perciò insieme «analitico o deduttivo», per quanto riguarda la conoscenza dei principi teologici, e «descrittivo o induttivo», per quanto attiene alla raccolta e sistemazione del dato empirico. La teologia pastorale si costituisce nel «giudizio composito» in cui i due aspetti sono coniugati.
La riaffermazione della scientificità della disciplina ripropone la questione della sua «praticità». Poiché in quanto scienza essa è dottrina dei principi, a colmare la distanza fra principi della scienza ed esperienza del pastore d’anime è introdotta la figura intermedia dell’ «arte» pastorale, come «recta ratio» dell’attività pastorale. La figura è legittimata con la constatazione della sua costante presenza nella tradizione pastorale. La sua comprensione si muove nel contesto della virtù della «prudenza» e la sua funzione è ripresa dall’analisi scolastica dell’atto umano. Scienza come conoscenza di principi e pratica pastorale come prodotto di esperienza sono in tal modo salvaguardate nella loro specificità e raccordate fra loro dalla capacità intermediatrice dell’«arte».

1.4. La «cura d’anime»
Il tema teologico-pastorale viene svolto, sia nella «prima manualistica» (nel periodo immediatamente successivo all’istituzione delle cattedre di teologia pastorale) come nella manualistica che inizia verso la metà del sec. XIX («seconda manualistica») , in chiave di «cura d’anime». Alla base di questa concezione – ancora ristretta al pastore – sta da una parte una visione ecclesiologica astorica e dall’altra un’antropologia spiritualista (e individualista).

  • L’immagine di Chiesa, delineatasi nel confronto con la cultura illuministica e dall’assunzione delle istanze apologetiche dell’epoca successiva, è sovrastorica in quanto non si tratta di una comunità dinamicamente inserita nella storia umana, ma di una realtà (anzi, di una societas) già ben definita e conclusa, collocata tra Dio e i cristiani. Di essa si sottolinea l’aspetto visibile emergente nella struttura gerarchica, che diviene unico soggetto attivo dell’agire ecclesiale a fronte di un popolo ridotto a semplice recettore.
  • L’immagine di uomo si rifà all’antropologia modellata sul duplice fine naturale e soprannaturale (esito delle discussioni circa il rapporto tra natura e grazia) per cui il referente dell’azione pastorale è l’anima, alla quale vanno comunicati i beni eterni della vita soprannaturale, anzi la singola anima nella sua individualità.

Anche il prete, come la Chiesa, è posto nello spazio tra Dio e la comunità, ed è attraverso lui che la Chiesa si fa presente e attiva nei confronti delle anime. Di fronte al pastore sta il gregge a lui affidato, di conseguenza ogni problematica pastorale è letta attraverso lo schema pastore/gregge. La riflessione e l’opera pastorale sono rivolte al soggetto (il pastore) della cura d’anime e insieme al suo oggetto (il gregge): per quanto riguarda il soggetto si tratta di garantire disposizioni oggettive (la consacrazione, l’investitura ufficiale, l’obbedienza canonica) e soggettive (lo zelo per le anime motivato da una tensione interiore); per l’oggetto si tratta di favorire i rapporti dell’anima con Dio e con la salvezza.
La TP, che diviene pertanto l’esposizione delle attività del pastore, cerca di darsi una fondazione teologica accostando l’ufficio pastorale del prete al “triplice ufficio” di Cristo e della Chiesa, partecipato ai pastori in forza della consacrazione e della missione canonica. I tria munera, profetico, sacerdotale e regale, costituiscono pertanto l’orizzonte in cui s’inserisce e la riflessione teologico-pastorale e il suo momento attuativo. Infatti il modello metodologico prevede che si elaborino per via deduttiva i principi fondamentali della «cura d’anime», per poi applicarli al caso singolo; questo perché la teologia pastorale assume la struttura argomentativa della teologia, che nell’epoca si presenta come «scienza delle conclusioni».
La TP è scienza applicata, in quanto applica i principi elaborati alle attività ecclesiali, di fatto trascrivendo il dato dottrinale nell’area pastorale (e divenendo corollario della dogmatica). Si afferma pertanto una visione di TP con rilevanti caratteri di astoricità, entro la quale emerge quale criterio interpretativo del “farsi” della chiesa la comprensione teorico-pratica (identità da cui dipendono i compiti) del pastore.

1.5. Franz Xavier Arnold (1898-1969)
Questa visione ristretta sia del soggetto della TP (il pastore) sia dell’oggetto (la «cura d’anime») trova già in Graf un tentativo di superamento, che si àncora tuttavia ad un recupero fortemente e innovativamente cristologico solo con la riflessione di Franz Xavier Arnold (1898-1969), pastoralista tedesco, salito nel 1942 sulla cattedra di Graf a Tubinga.
La sua intenzione è di dare una solida fondazione teologica al discorso pastorale, collocando la disciplina teologico-pastorale non più a mo’ di corollario della dogmatica, ma evidenziandone le dimensioni teologali proprie. Egli pone riflessione e azione pastorale nell’orizzonte della salvezza, distinguendo quale momento primo e fondamentale il «processo di salvezza» - cioè l’incontro salvifico tra Dio e l’uomo, nella libera risposta di fede – e quale momento secondario la «mediazione di salvezza», operata dalla Chiesa all’interno dell’evento salvifico. Questi due momenti sono distinti, in quanto non va confusa la causalità principale propria dell’intervento divino con quella strumentale propria della mediazione ecclesiale; sono peraltro anche correlati.
Arnold propone quale principio formale di natura teologica, che permette di tenere in correlazione – nella riflessione e nell’azione pastorale – ambedue le realtà, che intervengono nel processo salvifico, il principio «divino-umano», modellato sulla realtà teandrica di Cristo stesso. Si ha pertanto una visione cristocentrica della TP, che non si configura più come «cura d’anime» ma come servizio alla fede (e del resto una solida centratura cristologia non può non superare anche la visione antropologica di stampo spiritualista e assestata sulla teologia del duplice fine, dal momento che solamente il principio cristologico può far uscire l’antropologia teologica dalle secche di un’impostazione astorica e pericolosamente schizofrenica).
A livello metodologico, la mediazione della Chiesa si determina in rapporto alla mediazione di Cristo, per cui anche in ambito operativo il riferimento è alla figura di Gesù buon pastore; si ha peraltro uno spostamento di soggetto nell’istituire questo rapporto, in quanto la correlazione non è in primo luogo con la figura del pastore – con un restringimento “clericale” tipico della manualistica – ma con le forme di azione della Chiesa nel suo insieme. Questo anche perché è fortemente sottolineato da Arnold il sacerdozio comune dei fedeli, fondamento del fatto che soggetto dell’azione pastorale è la comunità tutta: «Tutti i battezzati sono di per sé soggetto dell’agire ecclesiale e attori responsabili delle forme di azione della Chiesa» .
Quanto all’oggetto proprio della TP, il riferimento è a Graf e alla sua tripartizione: la teologia storica in relazione al passato della Chiesa, la teologia sistematica in relazione all’essenza divina immutabile, la teologia pratica in relazione alla Chiesa che si costruisce nel futuro. Dal momento che la realtà pastorale si pone entro la duplice direzione che va da Dio e la sua rivelazione all’uomo nella sua concreta situazione, anche il pensare teologico-pastorale è riferito a ciò che è essenziale e correlato al tempo. Ne deriva che non ci può essere una theologia pastoralis perennis, ma il valore veritativo degli asserti teologico-pastorali sarà limitato nel tempo e la realtà pastorale chiederà soluzioni che variano con il variare delle situazioni, con grande libertà e apertura alle istanze che ne vengono.
In sintesi possiamo dire che il recupero cristologico di Arnold, attraverso il principio divino-umano, supera in modo chiaro la concezione di TP letta in chiave di «cura d’anime», sullo sfondo di una ecclesiologia statica e ricondotta quasi esclusivamente all’elemento gerarchico. La supera perché

  • la realtà della Chiesa viene collocata nell’ambito della storia della salvezza, dinamicamente inserita in essa e responsabile di una mediazione svolta non una volta per tutte in forma immutabile, ma interpella continuamente la storia;
  • perché ad essere chiamato in causa non è solamente il pastore di fronte ad un gregge passivamente recettivo, ma tutto il popolo dei battezzati in forza del sacerdozio comune (avendo la mediazione di Cristo come referente non la mediazione del ministero ordinato posto tra Lui e la comunità, ma la mediazione dell’intero popolo di Dio);
  • perché la stessa realtà teandrica di Gesù Cristo mette in questione la terminologia spiritualista che fa riferimento all’anima, in quanto da essa ne deriva un’antropologia non più dualistica né soprannaturalistica – di cui l’espressione «cura d’anime» era di fatto figlia.

Secondo il teologo Mario Midali: «Pur riconoscendo questi meriti, occorre dire francamente che la riflessione di Arnold non va oltre una dichiarazione di intenti e non offre un modello operativo di pensiero teologico-pastorale. Valgono per la sua impostazione i rilievi critici formulati a proposito del progetto di Graf: l’intelligenza teologica dell’azione pastorale che offre può essere ricondotta ad una variazione dell’ecclesiologia sistematica; riguarda ancora la natura o il senso teologico dell’azione pastorale, non il suo realizzarsi storico attuale in prospettiva di futuro, compreso in una visione di fede» .
Il pensiero teologico-pastorale di Arnold è accolto e approfondito dal domenicano Pierre-André Liégé (1921-1979), teologo francese schierato sulle tesi della scuola di Tubinga, che insegna presso l’Institut catholique di Parigi negli anni ’50-’70. Ponendo alla base della sua riflessione un’ecclesiologia viva, cioè attenta a situarsi, può descrivere la TP come «scienza teologica dell’azione ecclesiale situata nell’oggi» della Chiesa colta come «il luogo permanente della Parola che l’atto teologico ha il compito di scrutare e di attualizzare riflessivamente». Di conseguenza la TP viene ad avere come oggetto del proprio argomentare l’azione della Chiesa nella sua totalità di pastori e fedeli, e il dinamismo storico in cui tale azione si realizza .
1.6. La «pastorale d’insieme»
In questo cammino di superamento di una concezione di pastorale legata al pastore e alla «cura d’anime», va sottolineato il contributo di un movimento nato in Francia nel secondo dopoguerra (dagli anni ’40), con influssi anche in ambito italiano e tedesco: la «pastorale d’insieme». Vanno ricordati al riguardo

  • i movimenti di Azione Cattolica che furono i primi a scoprire la rottura tra Chiesa e mondo;
  • le iniziative della JOC (fondata in Belgio da Cardijn nel 1924) miranti all’evangelizzazione delle masse operaie largamente scristianizzate;
  • il movimento dei preti operai sorto per rispondere ad esigenze analoghe;
  • le ricerche socio-religiose di Gabriel Le Bras su Gli effetti del Cattolicesimo nelle varie regioni di Francia (1931).

All’origine della riflessione critica si è soliti collocare una trilogia di contributi, che seppero leggere criticamente l’azione pastorale in riferimento a tre «ambienti» nei quali, in misura diversa, si osserva il graduale distacco dalla Chiesa e dal suo messaggio:

  • l’opera dell’abate Henry Godin e di Yvan Daniel, La France, pays de mission (1943), sulla situazione della Chiesa nel mondo del proletariato operaio;
  • la ricerca sull’ambiente religioso rurale del canonico Fernand Boulard, Problèmes missionaires de la France rurale (1945);
  • le osservazioni di Georges Michonneau, Paroisse, communauté missionaire (1945), sulla parrocchia urbana.

Il punto di partenza di questa proposta pastorale va cercato appunto nella constatazione di avere a che fare con un contesto sociale segnato dalla scristianizzazione, non solamente a livello individuale ma di vasti ambiti sociali, nei confronti dei quali l’azione cristiana sembra non avere incidenza. Per questo il nodo del problema pastorale è colto nel rapporto (che va riattivato) tra vita ecclesiale e ambiente o gruppo sociale – visto che la mentalità del singolo è fortemente condizionata dal milieu cui appartiene, e inoltre la persona si ritrova ad appartenere a più ambienti.
Di fronte alla difficoltà di incidere socialmente, la comunità cristiana molto spesso si chiude in se stessa, formando un «milieu parrocchiale» separato e non comunicante con l’ambiente in cui dovrebbe agire. Non si tratta, di fronte a questa constatazione, di liquidare la struttura parrocchiale (cf. Boulard), ma di innovarla facendola diventare una comunità missionaria, in grado di penetrare e animare cristianamente il gruppo umano in cui è inserita. La risposta alla scristianizzazione, infatti, non può che essere la «cristianizzazione» non solo dei singoli ma dei gruppi sociali – che diviene quindi anche il fine dell’azione pastorale – intesa tuttavia non come un ripristinare una situazione storica di cristianità, che non ci può più essere, ma come fedeltà alla missione di condurre a Cristo tutti gli uomini (il riferimento biblico è alla «folla» destinatario privilegiato dell’annuncio evangelico).
Partendo da queste convinzioni, viene elaborata una proposta pastorale, che prende avvio dalla individuazione di quella unità sociale elementare, chiamata «zona umana». «Essa comprende, da un punto di vista formale, la rete di rapporti intercorrenti tra gli individui di un territorio sufficientemente esteso per permettere lo sviluppo di tutte le dimensioni maggiormente significative dell’esistenza umana» . Alla «zona umana» deve corrispondere, a livello ecclesiale, la «zona pastorale», luogo in cui l’azione ecclesiale può affrontare i problemi umani e religiosi di un’unità sociale di base e quindi essere realistica ed efficace.
La pastorale che può rispondere a queste esigenze è appunto una «pastorale d’insieme», dove il termine ha valenza da una parte sociologica e dall’altra ecclesiologica.

  • Sociologica perché la «pastorale d’insieme» privilegia l’attenzione al contesto sociale – data la sua rilevanza in ordine alla mentalità e all’accoglienza o meno del messaggio cristiano – che va conosciuto obiettivamente attraverso serie ricerche socio-religiose (uscendo dall’empirismo di troppa azione pastorale),
  • ecclesiologica perché, secondo la natura stessa della pastorale, si tratta di attivare la dimensione comunitaria dell’azione pastorale, mettendo in opera tutti i meccanismi di corresponsabilizzazione e collaborazione. Soggetti attivi, infatti, in questa opera di cristianizzazione sono tutti i cristiani, anche se ai preti (e al Vescovo in particolare) va affidata la coordinazione – non il coordinamento organizzativo – dell’azione pastorale.

Per non rimanere in un vago e poco incisivo invito alla partecipazione, ci si preoccupa tuttavia di indicare metodi concreti perché avvenga questo lavoro pastorale: si tratta di lavorare in équipe e di entrare come lievito nella massa attraverso una élite di cristiani militanti, caratterizzati da capacità di iniziativa e disponibilità all’impegno (anche in questo caso il modello biblico si rifà ai rapporti Gesù-discepoli-folla).
La proposta della pastorale d’insieme ha avuto notevoli influssi sia in Italia (l’opera di Grazioso Ceriani) sia in Germania. Qui si è avuta la rilettura fatta da Viktor Schurr, con la sua proposta di «pastorale d’ambiente». Contro l’individualismo e lo spiritualismo pastorale, egli sostiene che la «cura d’anime» deve accompagnarsi alla «cura d’ambiente»; dal momento che il Regno di Dio riguarda non solamente la santità delle singole anime ma la trasformazione del mondo, scopo della pastorale deve essere la cristianizzazione (cosa diversa dalla ecclesiasticizzazione) degli ambienti: famiglia, quartiere, mondo del lavoro, mezzi di comunicazione sociale. Ciò si può fare con un protagonismo del laicato e con un’azione pastorale di tipo esistenzialista, cioè capace di iscriversi nella situazione data e nel suo evolversi storico.
Di questa proposta va rilevata la corretta valorizzazione del ministero ordinato, compreso anzitutto nella sua funzione eminentemente pastorale e chiamato ad essere non il “tutto” dell’azione pastorale, ma il centro di unità. Naturale quindi che il pastore debba ripensare la sua identità e il suo ruolo

  • sia a partire da una concezione ecclesiologica ricondotta alla sua natura comunitaria (non in termini puramente nominalistici, ma nella concretezza di strutture ecclesiali collegiali che la esprimono),
  • sia in relazione alla mutata situazione socio-religiosa: «Il presbitero, di conseguenza, non limita la propria azione alla cura individuale delle “anime”, ma si fa animatore e promotore di comunità vive e missionarie, capaci non solo di gesti considerati tradizionalmente come “religiosi”, ma di incidere nelle strutture della società» .

La figura del pastore, pertanto, emerge da un radicamento teologico – cui si attinge l’identità/ruolo specifici – ripensato fecondamente entro le coordinate storiche (per cui si tratta né di dedurre, né di indurre, ma di attivare la circolarità ermeneutica tra dato dottrinale e dato storico).
La «cura d’anime» non può più essere l’oggetto della riflessione e dell’impegno pastorali appunto perché la prospettiva individualistica e spiritualistica sottesa a tale visione antropologica è superata dalla visione storico-salvifica, che colloca l’azione pastorale (nei suoi soggetti e nel suo oggetto) in relazione al Regno di Dio e alla comunità credente, che ne è sacramento.

Questa è la scelta del teologo Mario Midali (Cf. M. Midali , Teologia pratica, I, Cammino storico di una riflessione fondante e scientifica, [Biblioteca di Scienze religiose 159], LAS, Roma 19854, pp. 16-17.

Cf. M. Midali, Teologia pratica, pp. 440-473.

Sembra superflua anche in campo ecclesiale perché scarsa e poco significativa sembra l’incidenza della produzione teologico-pastorale sul vissuto ecclesiale. In sintesi vi sono alcune precomprensioni facili che snobbano la teologia pastorale o perché non sufficientemente teologica o perché non concretamente pastorale. Per un approfondimento dei fattori che costringono la teologia pastorale in una situazione aporetica: cf. B. Seveso, «La pratica e la grammatica. A proposito dell’insegnamento di teologia pastorale», Teologia 3 (1986) pp. 226-251, qui 226-230.

Ciò è rilevabile in maniera particolare nello sforzo compiuto dal Concilio nel cogliere e valutare i «segni dei tempi». (Cf. M. Midali, Teologia pratica, pp. 139-143).

Ad esempio le encicliche di Giovanni Paolo II Sollecitudo rei socialis e Evangelium vitae.

Cf. B. Seveso, Edificare la Chiesa. La teologia pastorale e i suoi problemi, [Collana di teologia pratica - 1], ELLE DI CI, Leumann (Torino) 1982, pp. 166-167; M. Midali, Teologia pratica, pp. 206-207.

Cf. B. Seveso, Edificare la Chiesa, pp. 194-198.

Cf. M. Midali, Teologia pratica, pp. 403-404.

Cf. M. Midali, Teologia pratica, pp. 272-277, p. 399.

Cf. ad esempio G. Moioli, Scritti sul prete, Glossa, Milano 1990, pp. 299-300.

Cf. J. Audinet, «Dispositif du transmettre et confession de foi», in Essais de Théologie Pratique. L’institution et le transmettre, a cura di Institut Catholique de Paris, Beauchesne, Paris 1988, pp. 167-205, pp. 170-172.

Cf. M. Tenace, «La tradizione, memoria e “laboratorio di risurrezione», in Teologia pastorale. A partire dalla bellezza, a cura di T. Špidlík - M.I. Rupnik, Lipa, Roma 2005, pp. 353-399.

Cf.  Il Regno 15 (2007), p. 508, n. 19.

Può essere utile a questo punto ricordare che la teologia stessa è in sé sapere plurale. La letteratura parla di ‘enciclopedia teologica’ connessa con la specializzazione del sapere teologico. Ma si pone anche la domanda se questa specializzazione risulta necessità o, meglio, convenienza ultimamente solo ‘economica’, cioè didattica e in vista dell’insegnamento oppure se è esigenza posta dall’oggetto teologico stesso: se, dunque, la pluralità del sapere teologico è strutturale, promanante intrinsecamente dall’oggetto teologico e quindi intrinseca al sapere della teologia, o, non piuttosto congiunturale, dovuta alla diversificazione di fatto in più discipline anche per l’intervento di condizionamenti storici e culturali. La pluralità di saperi/discipline in teologia ripropone nell’universo teologico le istanze già connesse con il sapere plurale dell’uomo: più profili di sapere in corrispondenza con una pluralità ultimamente non riducibile di profili dell’oggetto teologico stesso. Con ciò è detta anche la pertinenza di ogni profilo particolare rispetto all’intero dell’oggetto, la qualità sintetica di ogni approccio particolare, la necessità per ogni profilo particolare di mantenere consapevolezza della propria particolarità precisamente in riferimento all’intero dell’oggetto. Nella storia effettiva, però, le cose non sono andate così: è da registrare piuttosto un’egemonia della dogmatica. Di essa rimane, nuovamente, da discutere la natura: se congiunturale o strutturale.
A partire dalla concretezza dello sviluppo storico delle varie discipline si può affermare che l’unità si dà nella differenza e a partire dalla differenza. Non sta all’inizio: non può che risultare alla fine dalla considerazione della problematica reale di ciascuna disciplina. Il riposizionamento delle singole discipline nella loro specifica competenza e, contestualmente, la loro apertura sull’orizzonte dischiuso dall’oggetto teologico sono premessa per superare le rigidità della compartimentazione disciplinare e per riconoscere gli scambi che intervengono tra le discipline, in ordine ad un intellectus fidei più profondo e più adeguato. In ciascuna disciplina l’oggetto teologico viene a tema nella sua interezza, ma precisamente sotto la specifica angolatura della disciplina stessa. L’apertura di ciascuna disciplina all’intero del mistero cristiano mantiene desta l’intenzione unitaria del sapere teologico. La specificità dei singoli profili di approccio rende conto della molteplicità dei percorsi lungo i quali il mistero cristiano si dà a conoscere nella condizione umana.
In questo lavoro di ricomposizione del sapere teologico il primo passo è rappresentato dalla tematizzazione dei distinti profili disciplinari mostrandone l’articolazione a partire dai profili diversi della realtà cui fa riferimento: quell’oggetto teologico che ha nella rivelazione la sua origine e nella fede il suo riconoscimento, adesione ed espressione. Vi si affaccia un profilo ‘testuale’: la rivelazione giunge in un testo la cui lettura richiede l’impegno della teologia biblica ad articolare nella loro intrinseca coappartenenza indagine esegetica e orizzonte teologico della testimonianza. Se ne evidenzia un profilo ‘celebrativo’: la rivelazione si attua nella celebrazione liturgica di cui si occupa la liturgia o teologia della liturgia. Ne emerge un profilo ‘fondativo’: la rivelazione si dà in contestuale continuità e discontinuità rispetto all’esperienza fondamentale dell’uomo, da indagare nel modo della teologia fondamentale. Se ne coglie il profilo ‘dottrinale’: la rivelazione si propone in un insieme articolato di verità, la cui esplicitazione ed articolazione è propria della teologia dogmatica o sistematica. Vi si delinea il profilo ‘pratico’ per cui la rivelazione interpella la libertà dell’uomo e la provoca in modo differenziale all’agire: alla luce del ‘buono’ e del ‘giusto’, di cui si occupa la teologia morale; con attenzione al contesto ambiente e quindi al ‘conveniente’ e ‘opportuno’ nella determinata congiuntura storica, quale è elaborato dalla teologia pastorale; in presa diretta con le modalità soggettive di appropriazione dell’esperienza credente, come è inteso dalla teologia spirituale. Ne sporge un profilo ‘normativo’: l’accoglienza della rivelazione innesca un processo di istituzionalizzazione, di cui si prende cura la canonistica. Vi compare un profilo ‘storico’: la rivelazione si iscrive nella storia e produce storia, nel modo che è investigato dalla storia della chiesa. (Cf. B. Seveso, Identità personale ed identità cristiana. Crisi e ricomposizione dei processi di aggregazione cristiana nel mondo globale, dispense del corso di Teologia pastorale fondamentale tenuto alla FTIS nell’a.a. 2002-2003, p. 3; B. Seveso, La pratica della fede. Teologia pastorale nel tempo della Chiesa, Glossa, Milano 2010, pp. 749-750).

«L’apporto di altre discipline teologiche, dogmatica in genere ed ecclesiologia in particolare, non può essere fatto valere nel senso che conferiscono ‘dati’ che la riflessione teologico-pastorale non avrebbe che da registrare o a partire dai quali dovrebbe costituirsi. I diversi contributi disciplinari, e in specie i risultati dell’indagine ecclesiologica, intervengono, piuttosto, nell’esperienza che l’esistenza fa di sé e contribuiscono alla rifusione ed intensificazione dell’orizzonte interpretativo entro il quale si attua la specifica tematizzazione teologico-pastorale. Certamente in ogni definizione di ‘pastorale’ è implicita una concezione determinata di ‘chiesa’ ed è all’opera una ecclesiologia implicita, ma, appunto allo stato di implicazione. L’istituzione di ‘pastorale’ è necessariamente influenzata dalle condizioni che concorrono alla precomprensione del campo d’esperienza cui essa rimanda; non è però giustificato concludere ad una sua predeterminazione, proprio perché in proposito si ha a che fare con una decifrazione di tipo ermeneutico di un determinato ambito di esperienza» (B. Seveso, La pratica e la grammatica, p. 231).

Cf. M. Midali , Teologia pratica, pp. 310-324, pp. 440-473.

Cf. B. Seveso - L. Pacomio (cur.), Enciclopedia di  pastorale.I. Fondamenti, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1992, pp. 37-137.

Per un approccio teologico-pastorale alla Scrittura: Cf. L. Pacomio, Scrittura, in Enciclopedia di  pastorale, pp.256-263. Sulla presenza nella Scrittura della tematica pastorale: L. Pacomio, Teologia Pastorale e azione pastorale, (Manuali di base n. 35), Piemme, Casale Monferrato (AL) 1992; G. Villata, L’agire della Chiesa. Indicazioni di teologia pastorale, EDB, Bologna 2009, pp. 12-17.

Cf. G. Magno, La regola pastorale, (Collana dei testi patristici n. 28), Città nuova, Roma 1981²; G. Villata, L’agire della Chiesa, pp. 22-23.

Per una panoramica sull’evoluzione storica del termine “pastorale” dalla Chiesa primitiva al post-concilio: cf. G. Villata, L’agire della Chiesa, pp. 17-34.

Tra le pubblicazioni, che vedono la luce in questo contesto, si possono ricordare: l’Enchiridion theologiae pastoralis (compendio di teologia pastorale) pubblicato dal Vescovo ausiliare di Treviri Pietro Binsfeld nel 1591, che si propone di esporre la dottrina necessaria ai sacerdoti che gestiscono la cura d’anime (cura animarum); l’opera di Ludwig Engel – Manuale parochorum del 1661 – uno dei più diffusi manuali di pastorale del sec. XVIII; il manuale Pastor bonus di Johannes Opstraet, del 1698, tradotto successivamente in tedesco e consigliato da Rautenstrauch come testo base (Cf. M. Midali, Teologia pratica, pp. 25-26).

Larghissimo spazio, nella riforma austriaca degli studi, è dedicato all’etica sacerdotale, delineata su regole spirituali e scarsissimamente fondata sulla Scrittura (Cf. G. Villata, L’agire della Chiesa, p. 35).

Al tempo della riforma si nutriva anche il sospetto che tutta l’operazione fosse guidata dall’ideologia giuseppinista di asservimento della Chiesa allo stato e di subordinazione della teologia agli interessi statali. (Cf. H. Windisch, «La pastorale come l’autorealizzazione della Chiesa. La riflessione in area tedesca», in Teologia pastorale in Europa. Panoramica e approfondimenti, a cura di G. Trentin – L. Bordignon, Messaggero, Padova 2003, pp. 147-186, qui 149-153.

Cf. M. Midali, Teologia pratica, 31; H. Windisch, La pastorale come l’autorealizzazione della Chiesa, pp. 153-155; G. Villata, L’agire della Chiesa, pp. 35-36.

M. Midali, Teologia pratica, p. 75.

Professore di storia ecclesiastica, passa da una ecclesiologia di ‘struttura’ a una ecclesiologia di ‘vita’, dopo un inizio nella linea della contro-riforma o bellarmiana. Egli uscirà dall’impostazione di ‘sistema’ tramite la riscoperta patristica.

Cf. B. Seveso, Appunti per il corso di introduzione alla teologia pastorale, dispense del corso di Teologia pastorale fondamentale tenuto alla FTIS nell’a.a. 2000-2001, pp. 67-71.

Cf. M. Midali , Teologia pratica, pp. 29-31.

Cf. Idem,pp. 37-44.

Cf. Idem, p. 56.

Idem, pp. 57-58. 

Per approfondire il pensiero di Liégé: Cf. idem, pp. 211-221; B. Seveso, Edificare la Chiesa, pp. 153-162; G. Villata, L’agire della Chiesa, pp. 38-40.

Joseph-Léon Cardijn (Schaerbeek, 18 novembre 1882 – Lovanio, 25 luglio 1967). Nacque a Schaerbeek il 18 novembre 1882. Divenuto sacerdote, ebbe modo di accostarsi alla realtà dei giovani operai, che si allontanavano dalla Chiesa, e decise che la sua opera di evangelizzazione si sarebbe orientata verso di loro. Nel 1924 fondò la Jeunesse Ouvrière Chrétienne (JOC), che in Italia diventò la Gioventù Operaia Cristiana, adottando la metodologia della Revisione di Vita, facendo cioè riflettere i giovani sulla loro vita usando il metodo del vedere, giudicare e agire. L’originalità del metodo stava nel consentire ai giovani, riuniti in gruppi, di prendere coscienza della loro situazione, organizzarsi per migliorarla tramite l’azione e nello scoprire, tramite il confronto col Vangelo, la presenza di Gesù nella loro storia. In pochi anni il movimento diventò una realtà internazionale, con sedi e gruppi in tutto il mondo; in molte nazioni, come Francia e Italia, la diffusione della Joc si legò all’esperienza dei preti operai. Cardijn passò quindi gli ultimi anni della sua vita viaggiando per seguire l’evoluzione del suo movimento nei cinque continenti, e Papa Paolo VI lo elevò al rango di cardinale nel concistoro del 22 febbraio 1965. Morì a Lovanio il 25 luglio 1967 all’età di 84 anni.

M. Midali , Teologia pratica, p. 62.

Cf. G. Ceriani, Introduzione alla teologia pastorale, Roma 1961.

S. Lanza, Introduzione alla teologia pastorale, I, Teologia dell’azione ecclesiale [= Strumenti 45], Brescia 1989, p. 65.

 

2. Ascoltare il vissuto ecclesiale: l’ingresso delle scienze umane

Dagli anni ’40 del XX secolo il contesto francese e quello anglosassone si trovano a confrontarsi con il medesimo problema: come ascoltare veramente la Chiesa, come cogliere il suo volto reale, leggere le sue pratiche, costruire un’ identità non ideale ma capace di intercettare i tratti e i contorni della sua figura concreta e storica.
In ambito francese la domanda emerge all’interno dell’esperienza della Mission de France (Michonneau vuole sviluppare una riflessione che parta dal vissuto; Boulard lo corregge sulla scientificità, affidandosi alla sociologia quantitativa; il tutto avrà come esito quello che è stato definito come il déplacement de la théologie dalla dogmatica all’ “ermeneutica” e alla “pratica” come «nuovo luogo teologico»).
In ambito anglosassone, la ricerca di un ascolto reale della prassi ecclesiale prende avvio dal mondo olandese, che durante gli anni della seconda guerra mondiale viene in contatto con la riflessione statunitense del Pastoral Care mouvement (movimento della «cura pastorale») e con il suo fondamento epistemologico (S. Hiltner e il metodo circolare di riflessione sulla prassi).  Tale movimento esercita un influsso che sconvolge il modo abituale di rapportarsi alla pratica, all’azione. D’ora in poi la prassi non può essere studiata se non a partire dalla prassi, con regole che vengono costruite dentro questo campo d’azione. La teologia accademica tradizionale scopre improvvisamente di essere prigioniera di un deduttivismo formale che non può che allontanarla sempre più dalle forme vissute della pratica cristiana.
Il dibattito coinvolge in fretta il contesto della riflessione teologica tedesca, che nel frattempo si trovava a confrontarsi con gli influssi del pensiero marxista e con i suoi sviluppi a livello di teoria critica portati avanti dalla Scuola di Francoforte (la TP intesa come teoria critica in senso stretto, secondo il «paradigma della secolarizzazione»).

2.1. L’ingresso delle scienze psicologiche e sociali
Già dopo la metà del XIX secolo si fa sentire, particolarmente in ambito protestante, l’influsso delle nuove scienze positive: l’attenzione alla costruzione sistematica, centrata su un’idea-guida, lascia il posto all’interesse per il dato fattuale nella sua singolarità e osservabilità.
Tuttavia è solo a partire dagli anni 1930 che negli Stati Uniti si sviluppa un movimento pastorale orientato a prendersi carico in modo metodico delle difficoltà del pastore nei suoi contatti con i destinatari del suo ministero, specialmente con quelli che si trovano in situazioni critiche («cura pastorale», pastoral care). Le origini remote della cura pastorale vanno ricercate nella tradizione della seconda manualistica protestante e cattolica degli inizi del secolo XX, caratterizzata dalla cura animarum, formula con cui, come abbiamo visto, si designavano le tecniche usate dai pastori d’anime per aiutare le persone in crisi di fede o con difficoltà nella crescita della loro vita cristiana.
Il movimento nord-americano passa sotto il nome di Clinical Pastoral Training o anche Clinical Pastoral Education i cui precursori riconosciuti (dalla fine degli anni ‘20 alla fine degli anni 30’) sono il teologo Antonio Boisen e il medico Richard Cabot . Sul terreno incerto e insidioso di approcci psicoterapeutici (Consulenza pastorale, Pastoral Counseling negli anni ’50 sotto l’influsso della psicologia di Carl Ramson Rogers ) si colloca l’opera notevole dello psicologo e teologo presbiteriano, alunno di Boisen, Steward Hiltner (anni 60’) che assume come prospettiva generale della TP «l’attenzione pastorale» (fascio di relazioni tra soggetto-pastore e referente-persona) 
Al diverso oggetto delle discipline teologiche, (teologia incentrata sull’azione che riflette sulla vita cristiana vissuta e teologia incentrata sulla logica che si occupa della fede contenuta nei testi scritti biblici, dottrinali, morali), Hiltner fa corrispondere un diverso itinerario metodologico:

  • storico-critico per le discipline logiche e
  • empirico-critico per quelle incentrate sull’azione.

In questo quadro, trova posto il rapporto della teologia pastorale con le scienze umane (psicologia e sociologia): «come le discipline teologiche logiche, dovendo tener conto del rapporto tra fede e cultura in determinati periodi storici, sono ricorse alle scienze profane corrispondenti (l’analisi linguistica, l’archeologia, la paleografia, la storia), così le discipline teologiche operative, dovendo analizzare e valutare la fede vissuta della Chiesa nel contesto culturale contemporaneo, ricorrono alle scienze profane corrispondenti (la psicologia e la sociologia)» .
La TP si inserisce a pieno titolo nel novero delle discipline teologiche, in quanto la sua elaborazione «incomincia con questioni teologiche e conclude con risposte teologiche» .
Nelle discipline operative, a differenza di quelle logiche che «hanno il loro punto focale in qualcosa che è soprattutto logico e necessario come la Bibbia, l’interrelazione delle dottrine, lo sviluppo della storia, il significato morale […], le conclusioni teologiche, la teoria, i principi fondamentali emergono primariamente dalla riflessione su azioni o eventi o funzioni, condotta a partire da una prospettiva particolare» .
L’apporto indispensabile delle scienze profane non ne insidia la qualificazione teologica, ma ne garantisce il carattere di praticità: praticità che esige quella sistematicità che è caratteristica del sapere teologico scientificamente organizzato. Notiamo che l’opera di Hiltner, pur costituendo un apporto significativo, finisce con il circoscrivere la TP alla figura del pastore .

Negli anni successivi si diffonde rapidamente il metodo circolare di interpretazione della prassi già prospettato da Hiltner: si parte dalla prassi (attenzione pastorale) (fascio di relazione colto dalle scienze umane), per farne una valutazione critica a partire dalla utopia (idea guida del massimo comandamento dell’amore) tradotta in norme e principi di trasformazione con i quali confrontarla e ritornare così ad una prassi modificata.
Dopo un primo momento di semplice euforia, si accende in TP (in teologia pratica visto che il confronto avviene soprattutto nel mondo tedesco e nord-americano) un serrato lavoro di confronto epistemologico, da cui derivano modi diversi di intendere il confronto e l’assunzione dell’epistemologia delle scienze umane, in particolare quelle sociali, in teologia pratica. Gli sforzi e i tentativi possono essere raccolti grazie ad una griglia, organizzati e strutturati attorno a tre grandi nuclei paradigmatici: un modello di ascolto empirico, critico, ermeneutico .

2.1.1. Prima tendenza: il paradigma empirico
Si fa strada negli anni 1960-1970, soprattutto in campo protestante, la cosiddetta «svolta empirica» con autori come Wolfgang Herrmann, Gerd Lautner, G. Krause . Per definire caratteristiche e metodo della teologia pratica, questi autori fanno riferimento all’impostazione propria delle «scienze dell’azione», improntate ad una revisione del movimento unidirezionale (di stampo idealistico) che va dalla teoria alla prassi, recuperando il movimento inverso in quanto anche la prassi viene riconosciuta quale produttore e modificatore di significati. Lo schema usato è quello, già visto, del circuito di regolazione. Questo circuito innesca un movimento circolare, che ha come suo punto di partenza la prassi così com’è e quale punto di arrivo una prassi ricompresa ed eventualmente corretta, in riferimento a valori esplicitati nella teoria e proposti quali regolatori dell’azione.
Con la convinzione che la pratica ecclesiale debba  essere non soltanto oggetto materiale ma anche formale della riflessione teologico-pratica, si strutturano una serie di metodi di teologia pratica che assumono come principio di confronto i metodi di verificazione del discorso e della prassi tipici della filosofia linguistica: Wittgesnstein, Popper. Vale la pena per noi riferirsi, in ambito cattolico, in modo esplicito al progetto molto più epistemologico e filosofico di J. van der Ven, a quello decisamente più pastorale del Quebec (Montreal) e a quello linguistico di A. Piette.

a) Nel metodo di Johannes A. van der Ven (anni ‘90) il punto centrale è il collegamento tra la dimensione intellettuale della riflessione e la sfera pratica dell’azione attraverso quello che viene definito come ciclo empirico di interpretazione della prassi: il primato va dato alla prassi vissuta che deve rimanere l’orizzonte di riferimento anche per la successiva riflessione teorica. Per poter eseguire un simile progetto di osservazione occorre aiutare a riconoscere i pregiudizi che sono all’opera in qualsiasi lavoro di lettura e di analisi, e che possono essere colti in questi passaggi ermeneutici:

  • riconoscere le proprie precomprensioni da cui si parte;
  • ricordarsi che abitiamo la stessa cultura che intendiamo osservare;
  • occorre infine concentrarsi molto, nella lettura della prassi, sulle figure dei soggetti che intervengono nell’azione (dai loro racconti, dai testi prodotti dalle loro azioni noi possiamo cogliere dati utili all’analisi).

Chiarito tutto questo preliminare di purificazione, si può passare alla determinazione del metodo vero e proprio di studio e di comprensione della prassi.

  • Esiste un primo momento che tocca il polo della comprensione (percezione), momento che oscilla tra punte di intuizione sintetica e dispiegamento analitico delle idee emerse:

      + presentazione e sviluppo del problema teologico;
+ momento dell’induzione teologica [immersione del ricercatore dentro la cultura di un
gruppo sociale per vedere il tipo di gente, di conoscenze, di azioni e di processi] e
+ successiva deduzione teologica [riorganizzazione di quanto sperimentato dentro una 
teoria, una ipotesi da verificare attraverso la ricerca]).

  • Segue poi un momento più analitico (sperimentazione), di ricerca empirica, secondo i metodi quantitativi o qualitativi messi a punto dalle scienze sociali che verificano l’ipotesi fatta, per approdare ad
  • un ultimo momento (valutazione) ancora sintetico di comprensione e rilettura conclusiva di tutto il percorso: è il momento in cui la teologia torna a giocare il suo ruolo determinante di spiegazione del fenomeno analizzato.

Il metodo empirico-critico è dunque omogeneo alla spirale teoria-prassi-teoria e la teologia pratica è concepita come teologia empirica .

b) La prospettiva di «prassologia pastorale» è stata assunta dai pastoralisti dell’università di Montréal i quali, a partire dagli anni 1970, l’hanno configurata come approccio qualificante la loro riflessione teologico-pratica, che hanno denominato studi pastorali (Pastoral Studies) .
Il metodo della Praxéologie Pastorale (detto anche metodo della recherche/action/formation cioè della ricerca socio-religiosa sul campo con cui si modificano le proprie precomprensioni) è meno complesso dal punto di vista epistemologico ma molto più attento alle dinamiche della pastorale e al contesto di trasmissione della memoria cristiana. Suddiviso in quattro tappe, questo metodo si propone come un metodo di ricerca/azione, di ascolto e di intervento.

  • Si parte con il primo momento (osservazione), di individuazione di una pratica che fa problema attraverso le “storie di vita”;
  • ci si addentra in un secondo momento (problematizzazione) in cui con diversi strumenti elaborati per il confronto con le scienze sociali si cerca di comprendere meglio la pratica in oggetto.
  • Un terzo momento (interpretazione) vede impegnato il gruppo di ricerca in un confronto serrato tra la pratica rilevata, le sue dinamiche e le sue tensioni con il bagaglio della memoria cristiana (Tradizione, Parola di Dio, teologia), per ricavarne elementi di lettura e interpretazione.
  • Un quarto e ultimo momento (invenzione e pianificazione) vede tutti impegnati nella ricerca di possibili soluzioni.

Il percorso richiede di essere fatto assieme, da ricercatori e persone impegnate direttamente nella pastorale, perché emerga quel sensus fidei che è frutto di tutti gli elementi del tessuto ecclesiale.
Scopo del metodo delineato è quello di sviluppare una interpretazione critica dell’azione cristiana alla luce della storia della salvezza, una interpretazione che si vuole quindi situata nella prospettiva della fede e quindi teologica. Questa lettura dovrà pertanto

  • da un lato presentare i caratteri della scientificità (riflessione critica, attenzione epistemologica),
  • dall’altro non dimenticare che il suo obiettivo rimane la prassi cristiana (attenzione all’articolazione teoria/prassi, attenzione alla cultura come strumento di significazione di queste pratiche, capacità analitica di descrizione di questa prassi, capacità di progetto e di verifica);
  • da un terzo lato dovrà permettere al Vangelo, alla memoria cristiana di continuare ad essere l’elemento determinante della storia, il punto focale di interpretazione e di conversione.

c) La pragmatica linguistica fa da sfondo e punto di partenza per la riflessione di Albert Piette che, contro quella che lui definisce la dogmatica delle scienze sociali (un mito in negativo), intende sviluppare una strumentazione per l’osservazione del fenomeno religioso così come si dà nel quotidiano. Punti di riferimento per la sua analisi sono:

  • il carattere ordinario dell’esperienza religiosa, che si struttura sempre a partire da forme elementari di sacralizzazione;
  • la fede come strutturazione linguistica e attribuzione di nuovi significati all’esperienza religiosa, in un processo in continuo divenire che vede la forma del credere/non credere come regola;
  • una forte insistenza sul carattere «minore» delle credenze, quelle che veramente modificano il quotidiano strutturando nuovi spazi linguistici dentro i quali gli individui possono attingere strumenti per comprendere l’azione di Dio e la sua irruzione nel quotidiano (il superamento del principio dell’ateismo metodologico delle scienze sociali)

Da questi tre metodi di sviluppo della teologia pratica possiamo derivare questi punti fermi:

  • la necessità di incontrare la prassi reale, superando lo schema che la nostra rappresentazione costruisce nel riferirsi alla prassi;
  • un confronto che va inevitabilmente aperto con le scienze sociali;
  • la capacità di sviluppare letture dinamiche e non ideologizzate dei processi sociali;
  • la ricerca del religioso e del cristianesimo attraverso i legami sociali che questa esperienza è in grado di ristrutturare;
  • il bisogno di una continua verifica dell’impianto teorico del processo di analisi.

Emerge anche un punto di debolezza:

  • la poca capacità di questi metodi di strutturare letture complessive dei processi globali di significato che il cristianesimo è in grado di attivare, come fenomeno culturale;
  • le letture avviate si rivelano così come micro-interpretazioni, molto utili nel contatto diretto ma poco capaci di ermeneutiche solistiche e generali.

Dunque un lavoro di analisi che si rivela frammentato e poco capace di grandi interpretazioni culturali sintetiche.

2.1.2. Seconda tendenza: paradigma critico
Una seconda tendenza comporta l’assunzione della «teoria critica della società» (Cf. T. W. Adorno, Max Horkheimer, ecc.) , quale metodo di interpretazione della prassi cristiana, aggiungendo alcuni indici teologici d’analisi. Nasce quindi un paradigma critico di sviluppo della teologia pratica.
Questo paradigma è decisamente impegnato a superare il limite della frammentazione tipico dei tentativi precedenti. Sua intenzione infatti è la realizzazione di un ascolto e di una lettura della pratica cristiana che superi il livello dispersivo della superficie per impegnarsi invece nella comprensione delle grandi strutture che presidiano e guidano l’azione collettiva.
Questa comprensione è sviluppata sia in negativo che in positivo, seguendo il percorso di lettura dell’azione sociale sviluppato nello stesso periodo dai grandi movimenti di pensiero che si vedevano impegnati in quella che può essere definita come una teoria della storia e dei suoi dinamismi (l’arcipelago della riflessione marxista e i suoi sviluppi, soprattutto nella versione della Scuola di Francoforte).
Il tramite e lo strumento di una possibile sintonia tra queste teorie della storia e il metodo della teologia pratica pensata come scienza critica dell’azione ecclesiale (H.D. Bastian , G. Otto , N. Greinacher ) è l’assunzione degli assiomi della «teologia dialettica» (Cf. K. Barth) come principio di interpretazione cristiana  della prassi:

  • svalutazione dell’elemento religioso nell’esperienza cristiana (contrapposizione fede-religione, la religione come nevrosi della cultura [H. Cox] );
  • svalutazione dell’elemento istituzionale (anche a livello ecclesiale), visto come sovrastruttura che limita la libertà dell’individuo;
  • concentrazione esclusiva sull’elemento esistenziale, sociale e politico come migliore elemento di interazione con la realtà (deriva intellettuale e sociale nel declinare la fede e l’azione cristiana).

Il risultato è una teologia che ha come obiettivo l’analisi critica della prassi cristiana (secondo Otto la teologia pratica deve essere una «teoria critica della prassi mediata religiosamente nella società») per favorire lo sviluppo di percorsi di liberazione e di maturazione della libertà umana in prospettiva del cammino verso il Regno . Questo modo di immaginare la teologia pratica fa presto perciò a collocare questa corrente in quello che viene definito il «paradigma della secolarizzazione», come modo di sviluppare il pensiero teologico.

Personaggio testimone di questa corrente è Norbert Mette (anni ’80), la cui produzione copre tutto l’arco di sviluppo di questo paradigma. Per questo autore, l’ascolto della pratica cristiana coincide con la capacità di sviluppare una lettura, non condizionata da strutture di potere (anche legittimo e istituito), delle  forme e dei contenuti che la proposta della memoria cristiana assume dentro il contesto sociale.
Una simile lettura richiede una necessaria e insuperabile

  • pars destruens, impegnata nella denuncia e nello svelamento di tutte le deformazioni di ciò che cristiano non è. In questo momento il metodo di lettura si avvicina molto a quello che in ambito tedesco è stato definito come il «paradigma della secolarizzazione», e in ambito francese è stato sviluppato da forme di pensiero quali quelle dello storico e filosofo francese Michel de Certeau: occorre aiutare il cristianesimo a sviluppare quella rupture instauratrice,quella frattura creatrice che gli permette di tornare ad ascoltare la sua memoria profonda e originale (il suo passato remoto) grazie allo smantellamento di tutto ciò che è passato prossimo in termini di istituzione, ritualità, simboliche, rappresentazioni, forme di esercizio del potere . A questa pars destruens segue la
  • pars construens, che fa proprio il principio paradigmatico dell’ «agire comunicativo» (Cfr. J. Habermas, H. Peukert) come principio di ricerca e di ascolto dentro la pratica cristiana, (prassi comunicativa ovvero interazione tra le persone) e più in generale dentro il tessuto sociale complessivo, delle tracce che rivelano la nascita e l’affermazione di forme sociali nuove per dire la fede cristiana oggi. La «teoria (teologia) dell’agire comunicativo» diviene così lo strumento epistemologico per lo sviluppo dell’ascolto e della progettazione della pratica cristiana.

 I due elementi fondamentali:

  • operare sul contesto vitale (la Lebenswelt) che custodisce gli elementi di significato dell’esperienza e ne permette l’interpretazione (elemento linguistico), decidendone il senso;
  • orientare il funzionamento paradigmatico (simbolico) dell’azione verso un valore antropologico fondamentale (elemento intenzionale: da un agire strumentale e strategico ad uno comunicativo).

Il concetto guida della pastorale, secondo Mette, è la comunicazione del vangelo nelle condizioni sociali del presente; il primo aspetto perciò da indagare è quello che riguarda l’accesso alla fede da parte dei contemporanei. Si tratta poi di individuare quali sono le possibilità di innesto, di correlazione tra la comunicazione della fede cristiana e l’uomo contemporaneo. Non si tratta semplicemente della fides quae, di riformulare con un linguaggio nuovo i contenuti vecchi della fede, ma, molto più, si tratta di  indagare i presupposti della fides qua, «se e come gli uomini di oggi sono disposti in generale a partire dalle loro condizioni di vita ad aderire a qualcosa come la fede oppure più generalmente considerato la religione» . Quali sono le possibilità – si chiede Mette – dell’esistenza pensata come fede, speranza, amore? Che cosa è cambiato in rapporto alle condizioni, ai presupposti della comunicazione in generale, e in particolare della fede o del vangelo? 
Ultimo dato, non secondario: nella seconda parte della sua produzione, Mette associa lo sviluppo di questa sua teoria al metodo vedere-giudicare-agire .
2.1.3. Terza tendenza: paradigma ermeneutico
Si tratta dello sviluppo di un modello ermeneutico di comprensione della pratica, e di articolazione del rapporto epistemologico teoria /prassi, nonché di quello teologia pratica/memoria cristiana.
Il paradigma critico, se da un lato superava la frammentarietà del paradigma empirico, consentendo in questo modo un primo approccio ad una lettura delle pratiche che conducessero fino alla scoperta delle identità che celano e che le istituiscono, dall’altro lato per raggiungere questo traguardo pagava il prezzo di una imposizione dall’esterno di queste possibili figure sintetiche di identità. Sviluppava cioè una lettura e un metodo di interpretazione non liberi della situazione; e questo modo non libero di articolare il rapporto con le scienze sociali (alle fine erano queste scienze a determinare i quadri di comprensione e gli obiettivi) condizionava anche il momento della riflessione teologica.
Rassegnarsi all’alternativa frammentazione/ideologia nello sviluppo dell’ascolto da parte della teologia pratica non era però possibile. Ecco il progressivo affermarsi di un terzo modello, quello ermeneutico. Debitore di molto alla riflessione epistemologica sviluppata da Paul Ricoeur, (che già alla fine degli anni ‘60 del XX sec. aveva aperto questa breccia ermeneutica nel confronto con quello che ritiene uno dei metodi più audaci e capaci di comprensione, quello strutturale, affermando la necessità di passare da una ricerca delle economie dei segni ad una invece che mira a scoprire le intenzioni di significare), il modello ermeneutico legge le azioni (gli attori che le generano, i fini che perseguono, il campo sociale che strutturano, il contesto simbolico che le decodifica e che contribuiscono a modificare) come un sistema di significato, che può essere studiato secondo le regole di analisi di un testo.
In questa linea si muove la proposta di Jaques Audinet che immagina l’esercizio di lettura che ogni riflessione teologico-pratica non può non svolgere come un esercizio di comprensione ermeneutica delle continue interazioni che si creano tra Tradizione (memoria cristiana) e cultura dentro la quale questa tradizione abita e che con le sue simboliche contribuisce ad approfondire (secondo la logica di GS 44).
Il metodo immaginato da Audinet può essere descritto in questo modo.

  • Si tratta di cominciare a descrivere la realtà sociale, il suo funzionamento, per tentare un primo approccio interpretativo, che aiuta a leggere e a comprendere le costanti in azione, le eventuali leggi, i ruoli, simboli, i valori messi in gioco (momento ermeneutico, sociologia funzionale).
  • Un secondo momento porterà invece alle prime domande, farà emergere i primi grandi perché, che condurranno a ragionare del ruolo, del senso e del significato di tali azioni alla luce del religioso (sociologia e antropologia della religione), così come è vissuto dentro le diverse culture, come le trasforma e come a sua volta ne viene influenzato.
  • Si giunge così al momento finale dell’analisi, in cui si cerca di comprendere le strutture fondamentali dell’identità umana singola e collettiva, come questa identità struttura le istituzioni e quindi forma ed influenza le culture.
  • È a questo livello che diviene possibile dal punto di vista di una teologia cristiana fondamentale interrogarsi sulla maniera in cui la Tradizione cristiana, a partire dalle sue Scritture (la novità apparsa nel movimento di Gesù e più in generale il cristianesimo che ne è uscito), hanno costruito questa identità.

Si tratta di rendere conto dell’operazione che istituisce il cristianesimo, che  si inserisce come parte fondamentale e quindi critica nella struttura dell’identità collettiva. L’ascolto sviluppato permetterà così di vedere il cristianesimo come il risultato di un affioramento, di una «emersione» dall’interno delle trame che permettono la costruzione e la trasmissione delle identità .
Decisamente interessante appare la prospettiva inaugurata da alcuni lavori di dottorato, quelli del teologo gesuita francese Ètienne Grieu e del teologo gesuita brasiliano Pedro Rubens . Sviluppando una lettura in parallelo e in sovrapposizione della riflessione di Paul Ricoeur e della ricerca esegetica di Paul Beauchamp, questi due autori mettono in atto un metodo teologico che fa della pratica dell’ascolto il punto centrale della loro costruzione teorica: non c’è possibilità di annuncio se non si realizza questo momento reale dell’ascolto come momento in cui entrano in relazione di fatto e in modo globale delle identità.
Il concetto di identità (sia singole che collettive) è il punto chiave della loro riflessione: per leggere l’azione e comprenderla come elemento esterno non posso prescindere dal racconto di coloro che in qualche modo in questa azione si sono sentiti coinvolti, a varie ragioni.
In questo modo io posso ascoltare allo stesso tempo, come identità capaci di testimoniare e raccontare azioni, racconti di persone, descrizioni di eventi, testi biblici che trasmettono la grande azione di Dio dentro le tante azioni che istituiscono la storia del popolo di Dio.
A questo punto entra in gioco il momento ermeneutico: posso cercare di comprendere queste azioni, di entrare dentro la loro logica, attraverso l’utilizzo del concetto di intrigo (Ricoeur) letto in modo ancora più profondo, almeno dal punto di vista cristiano, dal concetto di figurazione (Beauchamp).
Si sviluppa così la possibilità di articolare un ascolto della Rivelazione e del presente che mi permette di cogliere l’unicità dell’orizzonte dentro il quale a mia volta sono chiamato non solo a vedere, ma con il mio stesso atto di pensiero a giocare a mia volta la mia identità.

 

 

 

3. Ascoltare il vissuto ecclesiale: la pastorale come laboratorio della Chiesa di domani
Un secondo elemento segna lo sviluppo e la nascita della TP come la conosciamo oggi: l’evento di quel grande momento, di cui si è già parlato, che fu la Mission de France . La Chiesa francese come laboratorio da cui trae molto anche la nostra Chiesa nazionale.
La maggior parte dei termini utilizzati per dare un volto alle riforme in atto oggi nella chiesa italiana ci rimandano del tutto naturalmente alla esperienza della Mission de France:non solo il termine Unità Pastorali ma anche le altre formule linguistiche impiegate («pastorale d’insieme», pastorale missionaria, parrocchia comunità missionaria) hanno tutte la loro origine in quel contesto e in quella esperienza ecclesiale.
Un ecclesiologo di quel periodo (Yves Congar) ha sintetizzato in modo molto lucido gli aspetti fondamentali di quell’esperienza, quasi pensasse già al nostro modo di guardare oggi a quel momento della vita della Chiesa: la missione di Francia si consegna a noi come un laboratorio dal quale trarre idee, riflessioni, provocazioni e prospettive per la costruzione di una riflessione seria sulla pastorale.
Soprattutto la Missione ci insegna che, nel cambiamento culturale in atto, è obbligatorio sviluppare una riflessione sulle azioni attraverso le quali il cristianesimo abita la storia e che, di conseguenza, è doveroso trovare i perni, gli elementi fondanti di questa riflessione. La Missione identifica questo perno nello strumento del lien (legame), della relazione: il cristianesimo è un grande “trasfiguratore” dei legami sociali attraverso i quali l’uomo e la società elaborano e strutturano la loro identità. Il lien, la relazione, viene analizzata e “trasfigurata” dal cristianesimo grazie a tre “strumenti”. L’esperienza della missione, sostiene Congar, ha portato la Chiesa francese a misurarsi con tre grandi temi, da quel momento in poi divenuti un elemento ineludibile del volto attuale della chiesa:

  • la questione del soggetto di queste relazioni, e di conseguenza l’emersione della figura dei laici, quali nuovi soggetti all’interno del campo d’azione della Chiesa;
  • la questione del modello ideale a cui ispirare e da cui immaginare il funzionamento di questi legami, quindi la figura delle comunità cristiane delle origini come nuovo passato fondatore a cui ancorare l’immagine della Chiesa dei nostri giorni;
  • la possibilità di individuare dei sistemi, dei paradigmi a partire dai quali l’azione ecclesiale ordina e struttura le relazioni, e di conseguenza l’urgenza di un nuovo modello sociale quello comunitario, da affiancare a quello gerarchico tradizionale come ulteriore principio paradigmatico dal quale dedurre il funzionamento della chiesa come società oggi nel nostro mondo.

Come il progetto missionario declina e mette in funzione i tre temi, i tre nodi portanti della pastorale?

a) Primo tema: un ruolo nuovo per i laici. I laici, il loro ruolo, la capacità di pensarli come un soggetto attivo persino dentro l’istituzione ecclesiale e non più soltanto come un semplice oggetto delle cure della gerarchia, furono la prima grande scoperta di questa esperienza della chiesa francese.
Su questa specifica questione giustamente Congar mostra come l’esperienza francese della missione sancisca un punto di non ritorno nel modo di immaginare la loro figura e il loro ruolo nella Chiesa (e di conseguenza nel modo di immaginare lo stesso volto della chiesa): d’ora in avanti sarà necessario pensare il laico come un soggetto con parte attiva nel corpo sociale dell’istituzione ecclesiale, con ruoli e competenze specifiche, complementari ed insostituibili rispetto a quelle più tradizionali dei preti e più in generale del corpo gerarchico della chiesa.
La storia convulsa della chiesa francese degli anni 1950è appunto la storia di un corpo ecclesiale che si cimenta con i primi esperimenti di questa nuova collaborazione sinergica tra preti e laici; che si cimenta con le modificazioni profonde che questa collaborazione ha inevitabilmente prodotto nella conduzione della vita istituzionale della chiesa, modificazioni così profonde da arrivare a segnare perfino la sua stessa figura simbolica e la sua natura profonda, la stessa immagine che l’istituzione ecclesiale aveva generato di sé stessa: in una parola la sua autocoscienza, il suo modo di costruire la propria identità .

b) Secondo tema: un nuovo modello sociale di Chiesa. Una simile audacia ed una simile libertà nell’immaginare per i laici uno spazio e un ruolo fino a quel momento inconcepibili non può essere pienamente compresa, ci spiega ancora Congar, se non alla luce del disegno più globale che stava ispirando la riflessione ed il progetto della corrente riformatrice del cattolicesimo francese di quel tempo.
Il progetto missionario intendeva infatti arrivare a realizzare nel presente una figura sociale di chiesa che riuscisse infine a distaccarsi dal modello tradizionale territoriale e gerarchico, per costruire al suo posto una istituzione ecclesiale molto più semplice e provvisoria, più impegnata socialmente e più dimessa nel gestire l’ambito del sacro e del bisogno religioso, capace di dare maggiore rilievo e importanza alla vita delle comunità locali, e quindi pronta a diminuire il peso e l’ingerenza di una tradizione e una autorità ecclesiastiche che percepiva come esterne alla propria idea di fede.
Una chiesa meno parrocchiale e più comunitaria, una struttura meno verticistica e più orizzontale, una istituzione meno normata e più aperta alle singole esperienze.
La realizzazione di un simile progetto avrebbe causato più di un trauma all’interno del tessuto ecclesiale tradizionale. Tuttavia, lungi dal provare un benché minimo senso di paura o di timore per il clima di contestazione e di critica montato nei confronti della figura tradizionale dell’istituzione ecclesiale, il progetto missionario al contrario si sentiva pienamente a proprio agio nell’avviare in prospettiva un simile lavoro di revisione del funzionamento istituzionale della Chiesa e delle immagini (bibliche, teologiche, sociali) utilizzate per descriverla.
Era infatti convinto che un progetto di quel genere sarebbe servito alla chiesa per avviare una salutare riforma della propria struttura istituzionale, divenuta troppo distante e troppo difforme dal modello originale a cui ogni immagine di chiesa avrebbe dovuto fare riferimento: la comunità cristiana delle origini .

d) Terzo tema: un nuovo passato fondatore. Ecco quindi il terzo luogo caratteristico e dell’esperienza francese e della missione: il rimando all’esperienza della prima chiesa come al fondamento della propria identità, e quindi alla propria memoria.
È questo passato fondatore la vera novità sulla quale il progetto missionario pensava di poter fare forza, ispirandosi ad esso come al proprio modello di riferimento ed utilizzandolo al contempo anche come una autorità in grado di certificare la bontà del cammino intrapreso. Forte di questo suo nuovo passato fondatore il progetto missionario era pronto a realizzare anche nel presente una nuova figura di chiesa, molto più vicina a quella chiesa delle origini raccontata dal Nuovo Testamento di quanto lo potesse essere la fredda ed anonima struttura gerarchica che era diventata la chiesa del tempo. Il nuovo ruolo previsto per i laici era dunque soltanto un tassello del nuovo volto di Chiesa che ben presto il cattolicesimo francese avrebbe potuto conoscere.

Una nuova figura di Chiesa, dunque, che sul modello delle comunità cristiane primitive sarebbe stata un luogo accogliente, capace di generare un’esperienza veramente fraterna di condivisione, con una liturgia in grado di far entrare nel mistero, con una dinamica missionaria affascinante e coinvolgente, con una attenzione al povero reale e non di facciata. Il racconto della vita quotidiana delle prime comunità apostoliche utilizzato nella funzione di racconto fondatore avrebbe prodotto infatti, almeno stando all’intenzione di questi riformatori, un nuovo sogno utopico verso il quale indirizzare la Chiesa del presente e sul quale disegnare la figura sociale dell’istituzione ecclesiale del futuro: in questo modo il progetto missionario pensava di avere finalmente trovato il linguaggio e gli strumenti sociali giusti e adatti per poter raggiungere l’obiettivo di dare origine ad una Chiesa diversa . Inoltre il nuovo linguaggio e le nuove figure sociali adottate avrebbero permesso alla Chiesa di presentare una figura istituzionale veramente al passo coi tempi: anch’essa, come la cultura marxista che si stava facendo strada tra i nuovi poveri (le masse operaie delle grandi periferie urbane) si sarebbe impegnata per una società più giusta, per il trionfo dell’uguaglianza, per una nuova solidarietà. Il modello della Chiesa delle origini, a cui ci si stava ispirando, si prestava davvero bene a fornire alla Chiesa l’attenzione sociale e gli strumenti di intervento necessari a sostenere il confronto con la cultura operaia dominante in quel periodo; e permetteva dunque lo sviluppo di un buono spirito apologetico in grado di mostrare le vere capacità del cristianesimo anche in ambiti e settori (le grandi periferie operaie) dove la cultura atea sembrava aver conquistato terreno. Riconquistare le masse, altrimenti perdute al cristianesimo, sembrava ai promotori del progetto missionario un obiettivo ormai raggiungibile proprio grazie ai cambiamenti linguistici e sociali introdotti nel nuovo passato fondatore adottato. Un nuovo passato per un nuovo futuro, una nuova memoria per una nuova istituzione: così funzionava il pensiero della missione. La Missione di Francia si pone dunque come uno spartiacque che apre gli occhi e la mente dell’azione ecclesiale su queste problematiche.
Osservando il modo con cui vengono svolti questi temi si intravede la grande questione (teorica) che soggiace alla rilettura del cristianesimo come una forma di relazione: la questione del rapporto fede cristiana – esperienza religiosa (In che modo è possibile ipotizzare una relazione tra cristianesimo e religione popolare ? Ha senso una simile relazione? E’ utile/necessario un simile incontro?)
Dalla domanda sul rapporto cristianesimo (Scritture, Tradizione, liturgia, magistero, dogmi, teologia, ecc.) – esperienza religiosa (le forme storiche, pratiche, vissute del cristianesimo) nascono due grandi risposte, che la critica ci presenta in questo modo: il «paradigma della secolarizzazione» e il «paradigma della religione forte» .

Il cristianesimo tra forma e figura.

«Nel suo significato ultimo ‘pastorale’ intende il darsi storico della chiesa, l’agire della Chiesa in quanto si iscrive entro coordinate storico-civili, che ne condeterminano significato e rilevanza […]. Nella economia cristiana di salvezza, la ‘relatività’ della Chiesa chiede di essere congiunta con la ‘necessità’ della chiesa stessa. In particolare, nella concreta attuazione della testimonianza di fede è in questione la forma di chiesa.
D’altra parte, la forma Ecclesiae non è momento soltanto ideale, ma si dà nella concretezza delle determinazioni storiche della figura di chiesa. Non esiste la forma ‘perfetta’ di chiesa, né storicamente potrebbe esistere: sono esistite ed esistono figure di chiesa che nella storia hanno riproposto nella determinatezza dei propri elementi la ‘forma’ di chiesa. Le forme storiche della chiesa si costruiscono al punto di incontro di fattori molteplici e a volte anche estemporanei. In ogni caso portano in sé le tracce dell’impatto della fede vissuta del gruppo credente con la situazione storica determinata. In esse si esprime la fede della comunità cristiana di fatto esistente nella storia. La loro ricognizione critica diventa perciò comprensione delle modalità secondo cui la fede cristiana è vissuta nel momento storico determinato da una determinata comunità cristiana o dalla chiesa universale. La fede cristiana ha la sua origine normativa nella testimonianza apostolica consegnata alla Scrittura. Ma essa conosce contestualmente una concretizzazione nella situazione cristiana di fatto data. Nella condizione storica degli uomini la “fede vivente della chiesa” non è grandezza a sé, ‘astratta’ nel senso banale del termine, ma si rifrange in azioni, istituzioni, iniziative definite, che per un aspetto costringono la fede entro i limiti umani ma per altro aspetto danno attuazione alla fede nella condizione umana» .
«Il rendersi visibile della economia cristiana nella storia manifesta l’inaggirabilità del riferimento ecclesiale. D’altra parte, le condizioni storico civili dell’esistere del mondo e degli uomini non sono mera apparenza, forme neutre, fantasmi indifferenti sotto il profilo della economia di salvezza, ma entrano per parte loro a costruire la configurazione della vita cristiana»
«Ci  si interroga sulla ‘giusta’ forma di chiesa, nella consapevolezza del contestuale ‘perdersi’ della forma di chiesa nella concretezza e finitezza delle proprie configurazioni storiche e del ‘tendere’ del molteplice configurarsi storico di chiesa verso il proprio ‘centro’, che traluce e muove incontro dalla ‘forma cristiana, che è Gesù Cristo. E’, insieme, tenere alla ‘periferia’ le concrete determinazioni storiche e cercare con passione il ‘centro’ cristiano, rifondere le situazioni concrete e dare configurazione definita all’elemento cristiano» .

3.1. Il paradigma della secolarizzazione
In ordine cronologico, il primo modello a cui il cristianesimo europeo occidentale si rifà, nella seconda metà del secolo scorso, per ridisegnare la sua figura, l’immagine e le funzioni delle sue istituzioni, è quello che è stato definito come «paradigma della secolarizzazione» .
La storia di quegli anni può essere benissimo raccontata come la storia del deciso imporsi dentro le Chiese di questo paradigma: di fronte ad una società che aveva fatto della secolarizzazione il manifesto e la bandiera della sua azione culturale, il cristianesimo reagisce adottando a sua volta una simile strategia, facendola propria, nella convinzione di aver finalmente individuato lo strumento capace di elaborare una figura istituzionale capace di esprimere, di rendere visibile quel messaggio evangelico di cui è portatore, e che spesso nel passato è invece risultato oscurato da pratiche ed istituzioni inadeguate e oppressive.
La Mission e il confronto con la cultura operaia e marxista in area francese, le traduzioni pastorali, ecclesiali e sociali di una teologia dialettica riletta alla luce della filosofia esistenziale prima e della teoria critica della Scuola di Francoforte poi in area tedesca, possono essere indicati come gli episodi più salienti capaci di evidenziare l’assunzione e la presenza di questo paradigma dentro le diverse confessioni cristiane. A questi luoghi e a queste esperienze guardano un pò tutte le diverse realtà cristiane (cattolicesimo italiano incluso), convinte di vedere in esse l’anticipazione di quello che sarà il volto della fede del domani, una fede finalmente più libera e matura, purificata da quelle incrostazioni tradizionali e sacrali che segnano il volto delle Chiese storiche.
L’impiego di termini chiave – i concetti di riforma e di missione – diviene il segnale per indicare l’avvio dentro le rispettive Chiese di una grande operazione di revisione delle strutture, delle figure, delle azioni sociali e rituali per mezzo delle quali esprimere l’identità cristiana, i suoi spazi e le sue funzioni dentro la società.
Da questa revisione esce una immagine di cristianesimo ben differente da quella tradizionale e classica, una figura di cristianesimo tutta centrata attorno al primato della evangelizzazione e al compito – antecedente o conseguente, in ogni caso intrinsecamente annodato all’annuncio cristiano – di liberazione e di emancipazione dell’umanità da ogni possibile forma di dominio e di asservimento che ne impedisca la maturazione e l’affermazione della propria identità libera e creatrice . Da ciò si pensa a

  • delle comunità cristiane povere e solidali, capaci di esibire come testimonianza la qualità dei legami tra i propri membri, tutte intente a ridare vita nel presente al proprio mito fondatore tramite forme di annuncio ed esercizi di rilettura ideologica della realtà;
  • delle comunità pronte a rifiutare forme di visibilità sacrale e di esposizione sociale del proprio potere, e tese invece a confondersi dentro la massa per lavorare alla sua trasformazione, in sintonia con i movimenti sociali di protesta e di rivoluzione, come il lievito che fa maturare la pasta: questa è la Chiesa immaginata e progettata dal paradigma della secolarizzazione.

Una Chiesa che fa della rupture instauratrice (per usare ancora il linguaggio di M. de Certeau) la propria regola fondatrice: soltanto una positiva frattura creatrice operata nei confronti della propria tradizione può permettere ad un nuovo modello istituzionale di cristianesimo di vedere la luce e di sviluppare le potenzialità della fede in Gesù Cristo.
Il luogo di questa frattura creatrice è individuato in modo spontaneo: si tratta del rapporto che il cristianesimo ha istituito con la religione, con le forme religiose che man mano ha assunto nella sua evoluzione storica; il luogo di frattura è quindi individuato nella figura del cristianesimo popolare. Avendo fatto proprio il giudizio che la secolarizzazione dà di ogni forma religiosa – vista come una forma di «nevrosi della cultura», un residuo primitivo di un bagaglio antropologico che il progresso e la crescita del sapere permette di superare – questo modello di Chiesa adotta nei confronti di ogni atteggiamento religioso, nei confronti di ogni figura religiosa istituita, lo stesso atteggiamento di sospetto e il medesimo atteggiamento di superiorità che la Scuola di Francoforte aveva teorizzato nei confronti della cultura popolare, vedendo in essa solo uno strumento di asservimento delle masse, tenute prigioniere dentro un sistema di potere che aveva fatto dell’ignoranza superstiziosa e della potenza sacrale della sapienza popolare le basi della propria autorità e del proprio prestigio. Il cristianesimo non può che agire, secondo questa logica, come operatore di quel «disincanto» di cui l’umanità ha bisogno per giungere finalmente ad una conoscenza piena della sua identità e ad un utilizzo libero e maturo delle proprie potenzialità, conoscenza che affranca dalla religione e fonda un nuovo rapporto con Dio e col mondo .
La proposta, profetica, di una chiesa distaccata dai legami sociali primari (luogo, famiglia, cultura paesana...) e riorganizzata a partire dalle relazioni sociali secondarie (consapevoli e frutto di scelta) sociali e culturali (un cristianesimo motore di trasformazione della storia, della società, delle sue ineguaglianze, fonte di identità utopica con il suo passato originario) è una provocazione lanciata direttamente alla teologia (alla ecclesiologia), perché immagini forme alternative di realizzazione della chiesa: una provocazione di metodo (il rapporto con la lettura della realtà fatta dalle scienze sociali) e di contenuti (la ricerca di nuove forme sociali sulle quali organizzare la Chiesa). L’utilizzo di un rimando forte (e semplificato) al NT introduce dentro il cristianesimo uno strumento di lettura delle istituzioni e dello spazio sociale: il rapporto luogo-identità-memoria (l’organizzazione sociale è un veicolo costruttore di memoria e quindi d’identità). Il passato non è più un’evidenza, ma un compito.
Il cattolicesimo popolare, una figura popolare del cristianesimo – e, più in generale, ogni forma di religione popolare – viene vista proprio come la cultura popolare: forme di sapere volte non alla maturazione dell’uomo ma al suo dominio; forme di sapere da cui affrancarsi, per poter invece vedere l’emersione della genuina fede cristiana. Un cristianesimo adulto e maturo, un cristianesimo che davvero lavora al suo futuro non può che immaginare le sue istituzioni e le sue azioni in aperta discontinuità rispetto a questa dimensione religiosa diffusa e poco critica.
Una fede finalmente liberata dalla religione è il progetto e insieme il sogno di questocristianesimo, convinto in questo modo di essersi attrezzato in modo adeguato contro il rischio di una sua esclusione da una società e da una cultura che si ritengono adulte e libere dagli influssi di quel mondo poco logico e così primitivo che è la sfera del religioso. Un cristianesimo secolarizzato è la sola via per evitare quel destino di ex-culturazione a cui sembrano invece condannate tutte le sue forme religiose .
3.2. Il paradigma della religione forte
Impegnatasi con molto entusiasmo su questo duplice fronte, interno ed esterno, di confronto e di rinnovamento dell’istituzione ecclesiale (la nascita dei concetti di missione, comunità,ma soprattutto quello di chiesa locale: cf. il prete e teologo belga Joseph Comblin e il teologo domenicano Hervé Legrand) , la riflessione missionaria sembrava incapace di cogliere le ingenuità e i punti deboli del progetto avviato (anche Roma dovette intervenire a più riprese dal 1953 al 1959 sulle questioni riguardanti i preti operai). Eppure proprio questo suo atteggiamento poco valutativo e poco autocritico sarebbe stato all’origine del rapido decadimento e del fallimento dei vari esperimenti avviati, a partire dal famoso episodio della missione operaia.
In particolare il progetto missionario sembrava ignorare la reale portata e il possibile effetto traumatico che alcune sue scelte avrebbero provocato nel tessuto ecclesiale più tradizionale:

  • la forte esaltazione dell’impegno sociale, vissuto come luogo di visibilità del cristianesimo, avrebbe ad esempio operato un discredito delle più tradizionali forme di espressione del bisogno religioso individuale, giudicate superate e di conseguenza svalutate;
  • l’enfasi data alla dimensione comunitaria dell’esperienza cristiana avrebbe portato le singole comunità a concentrarsi sul presente della loro esperienza, dimenticando il passato della tradizione ecclesiale e l’universalità della fede (elementi tuttavia essenziali alla costruzione della chiesa);
  • l’esaltazione del valore della militanza come unica forma di manifestazione della propria fede avrebbe man mano tolto ogni spazio di sopravvivenza a forme di appartenenza alla chiesa vissute con minore entusiasmo e partecipazione, svalutando in questo modo l’immagine di un cristianesimo più diffuso e popolare, in favore di un cristianesimo vissuto in modo minoritario ma più motivato, convinto e attivo (da una religione di chiesa a una religione di scelta).

Contro questo lato eccessivamente ed ingenuamente radicale della riforma avviata dal progetto missionario, si era già levata , non molto ascoltata a dire il vero, la critica lucida e acuta di Congar. È però solo a partire dagli anni ‘80 del ventesimo secolo che si fa strada una seconda maniera di rileggere il rapporto cristianesimo-esperienza religiosa. Reagendo agli evidenti segni di logoramento manifestati dalle pratiche e dalle istituzioni ecclesiali, volendo operare per contrastare l’indebolimento dell’identità di molti luoghi abituali di visibilità e di presenza del cristianesimo, ampi settori delle diverse Chiese cristiane sentono il bisogno di rilanciare la propria figura e il proprio ruolo dentro la società e la cultura. Questo rilancio viene attuato operando una nuova e diversa lettura della situazione culturale, una nuova comprensione del processo di secolarizzazione in atto e riaffermando in positivo un ruolo pubblico e forte della religione, al quale riagganciare l’immagine del cristianesimo: in un momento in cui dentro le società occidentali si sente nuovamente il bisogno di una identità forte attorno alla quale raccogliersi per far fronte alle incertezze e agli indebolimenti dei miti e delle ragioni che stanno alla base della nostra cultura, a parecchi cristiani non pare vero poter rivendicare nuovamente per il cristianesimo il ruolo e la forma di una religione pubblica. Un fenomeno, questo, che sicuramente interessa il cattolicesimo, italiano e non solo (il pontificato di Giovanni Paolo II viene infatti letto in questa chiave); un fenomeno che attraversa tutte le confessioni cristiane .
Al cristianesimo viene assegnato il ruolo di punto identitario certo, il ruolo di serbatoio del senso collettivo del tessuto sociale, di custode della memoria; al cristianesimo, alle sue pratiche, ai suoi valori, ai suoi simboli e ai suoi riti, viene chiesto di garantirci dal rischio di vedere dissolta la nostra identità specifica dentro una società che, proprio per la moltiplicazione degli spazi di significato, sta togliendo valore e importanza a molti tradizionali punti di appoggio.
Di fronte a questa domanda di identità e di memoria, il cristianesimo si sente da più parti spinto ad assumere e fare proprio questo compito di rappresentanza dell’identità collettiva dell’occidente, della sua memoria, dei suoi valori. Il cristianesimo in soccorso al tessuto sociale indebolito e in crisi; il cristianesimo come antidoto al logoramento dell’identità occidentale: è questo il nuovo modo di rivendicare un ruolo e un futuro alla religione cristiana, intesa come religione dell’occidente .
In questo contesto, l’idea di cristianesimo e di comunità cristiana viene declinata rifacendosi alla logica della religione: mentre rilancia i temi della presenza e dell’identità, mentre crea attorno al principio del sacro nuove forme di separazione che fungano da rinforzo della nostra identità specifica, questo nuovo modo di intendere il cristianesimo lascia scivolare sullo sfondo temi quali quello del dialogo e della condivisione; così come, sottolineando l’importanza simbolica della relazione di appartenenza, sembra privilegiare logiche che rafforzano dinamiche di identificazione e di esclusione, generando forme di pensiero nella linea del noi/voi, dentro/fuori, sacro/profano, che riducono tutti gli spazi di confine che spesso nel passato il cristianesimo ha abitato come luogo dell’incontro e dell’annuncio.
Declinata con gradi diversi di accentuazione, questa logica della religione forte a partire dalla quale reistituire l’identità cristiana ha dato origine a forme diverse di intendere l’istituzione religiosa:

  • c’è chi, di questo paradigma della religione forte, sottolinea la dimensione emozionale e affettiva (una Chiesa sullo stile delle nuove comunità, dei grandi movimenti);
  • chi al contrario ne sottolinea il tratto culturale, la sfida etica e sociale che essa comporta (una Chiesa fondata sul ruolo magisteriale delle sue autorità, una Chiesa tutta concentrata nella sua funzione di custode della verità dell’uomo);
  • chi ne esalta la dimensione istituzionale, riorganizzando la propria esperienza attorno a strutture ecclesiali capaci di esibire meglio e con più forza la dimensione di visibilità del cristianesimo (una Chiesa pronta a ritentare il modello di conquista della società e della cultura, una Chiesa che lavora per il ritorno di una societas christiana).

Queste diversificazioni di modelli ecclesiali hanno conosciuto – stanno conoscendo – diversità anche a livello di gradazione e di intensità, che hanno dato origine a derive di stampo fondamentalista pure dentro la galassia delle confessioni cristiane .
Che ne è del cattolicesimo popolare, che ne è più in generale di una figura popolare di cristianesimo in un contesto simile, è presto detto: ritenuta troppo debole e sincretista, incapace di difendere l’identità cristiana dalle contaminazioni con la cultura ambiente e le sue debolezze, un simile modo di vivere il cristianesimo non può che essere sopportato, additato come uno dei nemici contro i quali condurre la buona battaglia della riaffermazione della genuina religione allo stato originario, quella cristiana.

3.3. Punti comuni e limiti dei due paradigmi
Nonostante le forti differenze che manifestano – e nonostante l’opposizione polare che li anima, rendendoli complementari – i due paradigmi appena descritti sembrano condividere il medesimo atteggiamento strutturale di funzionamento: sembrano infatti due paradigmi fondati sulla convinzione della perfetta autosufficienza del cristianesimo rispetto alla cultura e alla società che è chiamato ad abitare. Entrambi i modelli immaginano il rapporto che il cristianesimo istituisce con la cultura come un rapporto di semplice inserzione, di semplice sovrapposizione. Immaginano cioè l’esperienza cristiana come un sistema già completo in sé, un sistema pienamente istituito ed organizzato – con i suoi linguaggi, i suoi valori, i suoi riti, le sue figure di autorità, le sue simboliche e le sue rappresentazioni, le sue leggi e i suoi codici di  comportamento – che necessita soltanto di una pura e semplice inserzione nel contesto sociale che intende abitare. L’operazione di evangelizzazione, l’annuncio della memoria cristiana, in questo schema è pensata come una operazione unidirezionale, di semplice ed immediata comunicazione di questo sistema completo e chiuso che è l’esperienza cristiana al destinatario del momento, che è la cultura chiamata a riceverla.
Una simile operazione, binaria, non rende ragione però della complessità dell’operazione di trasmissione del cristianesimo; non rende ragione in ultima analisi della complessità dell’operazione di evangelizzazione. Non ne rende ragione anzitutto ad un

  • livello strategico, perché l’operazione di annuncio del messaggio cristiano non può essere spiegata in un modo così semplice e poco elaborato (la storia dell’evangelizzazione ci mostra che le cose non sono mai andate così);
  • ma soprattutto non ne rende ragione ad un livello più profondo e strutturale, perché non riesce a raggiungere il nocciolo del problema, la posta in gioco che custodisce, l’intenzione originaria che la rende attiva e che la fa funzionare. Il cristianesimo non può essere trasmesso come qualcosa di già definitivamente istituito, come una esperienza già realizzata e definita, completa e chiusa in se stessa. Nella sua identità profonda, il cristianesimo non è riducibile alle forme istituite che lo rendono presente e visibile nelle nostre culture e società. Potremo sì osservare queste forme, potremo cogliere i veicoli sociali attraverso i quali il cristianesimo è trasmesso – gesti, parole, testi, edifici, istituzioni, assemblee, cerimonie, fedi, luoghi, tempi, persone, gruppi: tutto può designarlo, senza tuttavia fissarlo in modo definitivo – per studiarli e comprenderne le modalità di trasmissione, arrivando anche a darne un giudizio. Ma non potremo permetterci di pensare che queste forme coincidano ed esauriscano in se stesse la totalità dell’esperienza cristiana, la profondità della sua memoria e della sua identità.

Per sua natura il cristianesimo dall’origine si presenta come un “composto”, come il risultato di una prima ed originaria operazione di inabitazione dentro una cultura determinata – e in evoluzione, in seguito alla riflessione sviluppata al suo interno e ai contatti e agli scambi con altre culture – di quell’esperienza unica ed originaria che è stata la progressiva rivelazione del Dio di Gesù Cristo dentro la storia degli uomini. Questo “composto” è inseparabile dalla prospettiva che lo anima, la prospettiva della evangelizzazione, e incredibilmente instabile.
I due paradigmi ci permettono così di cogliere meglio quello che vedremo nel prossimo punto, ovvero come il Concilio affronti la questione del rapporto cristianesimo-cultura dando strumenti per una sua istruzione (cf. in part. GS 44).
3.4. Conclusione
Le domande suscitate dal progetto missionario possono così essere riprese, private del loro potenziale anti-istituzionale, perché erano state capaci di risvegliare l’attenzione e la sensibilità della Chiesa del tempo su di alcune dimensioni della sua tradizione ultimamente un po’ dimenticate e poco attive all’interno del corpo ecclesiale. In particolare di questo episodio si sarebbe dovuto ritenere il bisogno avvertito di maturare un linguaggio e delle figure sociali più complesse e più capaci di rendere visibile e di tradurre nel contesto socio-culturale più ampio e generale gli elementi del mistero profondo della chiesa che la riflessione teologica stava via via riscoprendo (la sua costituzione, la sua Tradizione, il suo passato fondatore, il senso profondo della sua figura istituzionale, il suo carattere comunitario ed ecumenico). A quel laboratorio che è stata la Chiesa francese va così riconosciuto il merito di aver sollevato l’esigenza di elaborare un’immagine di chiesa la cui struttura istituzionale e il cui funzionamento pastorale (fino al suo livello più quotidiano e locale) fossero all’altezza della tradizione e dei contenuti del mistero ecclesiale riscoperti.
Pur denunciando i limiti già evidenziati di questo progetto missionario, a Congar sembravano troppo importanti le domande suscitate dal progetto missionario perché queste fossero lasciate cadere, svalutate e screditate dal tipo di risposte che avevano fino a quel momento prodotto. Le domande espresse con molta lucidità da Congar hanno continuato ad attraversare il passato recente della tradizione ecclesiale sino a trovare una risposta molto chiara nella riflessione ecclesiologica sviluppata dal Concilio Vaticano II: una risposta così chiara e determinata da riuscire a sua volta ad intensificare la spinta verso un rinnovamento del modo di pensare, di progettare e di vivere l’istituzione ecclesiale.

  • Da un lato è il dibattito conciliare a sancire e ad offrire il riconoscimento più meritato ai grandi passi compiuti dalla riflessione ecclesiologica di questo periodo, assumendone i risultati raggiunti come un punto di confronto col quale dialogare e misurarsi;
  • e dall’altro è sempre il concilio a riuscire ad integrare e ad armonizzare questi passi col tesoro della tradizione che la chiesa incessantemente si tramanda.

I testi dei diversi documenti, soprattutto se letti a partire dallo loro storia redazionale, ci mostrano in un modo molto chiaro come la riflessione compiuta dai padri conciliari si sia nutrita degli apporti sviluppati dal grande fermento in atto nella vita della chiesa del tempo; apporti letti e reinterpretati in un modo altrettanto chiaro alla luce di tutta la più ampia tradizione della Chiesa.

 

 

4. Un Concilio pastorale
Il Vaticano II si rivela per la Chiesa cattolica come un cantiere istituzionale, la cui portata si dischiude via via che l’evento si sviluppa, ma soprattutto grazie a tutto il processo di recezione (ancora ampiamente in atto, di cui si possono iniziare ad intravedere alcune tappe, e che continua a portare frutti: cf. la lettura del teologo Gilles Routhier apparsa su «La Scuola Cattolica» e gli studi del teologo Christoph Theobald ).
Il Vaticano II è diventato un luogo in cui la Chiesa ha appreso a rimettere in gioco tutta la sua struttura e la sua identità (linguaggio [SC], memoria [DV], istituzione [LG], confini [GS]). In una dinamica di ritorno alla tradizione in profondità, il Concilio ha permesso alla Chiesa di ricostituire un contatto vivo con la propria eredità e di riprenderne possesso in maniera vitale. Secondo Giovanni XXIII (cf. Discorso di apertura del Concilio) i padri conciliari dovevano radicarsi nella tradizione bimillenaria della Chiesa riscoprendone alcuni aspetti (grazie anche ad una forte ripresa del movimenti biblico, patristico e liturgico che avevano segnato il XX secolo e ai contatti più stretti instaurati con i cristiani d’oriente); insieme però dovevano volgersi al tempo presente e alle nuove situazioni del mondo. La sfida consisteva dunque, almeno in Occidente, nell’iscrivere l’esperienza cristiana nella nuova forma della cultura che stava emergendo e che s’intuiva senza poterne ancora delineare chiaramente i contorni. La tradizione allora non viene più considerata semplicemente come un «prezioso tesoro» o un «deposito» da «custodire come se ci preoccupassimo unicamente del passato», ma come un processo vivente, come l’atto di colui che trasmette e che ci porta a dedicarci «con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la nostra età esige, proseguendo così il cammino che la chiesa compie da quasi venti secoli». Insomma il compito di questo Concilio è pastorale ma non per questo meno dottrinale: si tratta di rinnovare la presentazione della dottrina, l’espressione della fede e l’esperienza cristiana .
Si comprendono perciò le fatiche, le incertezze di una simile operazione, come tutta la letteratura critica dedicata a questo evento ha saputo mostrare. Varie tensioni accompagnano il fenomeno della recezione:
- l’«ermeneutica della discontinuità e della rottura» che contrappone una Chiesa preconciliare e una chiesa postconciliare (cf. Alberigo e l’Istituto di scienze religiose di Bologna) ;
- il concilio come “evento” più che un preciso momento della storia ecclesiale (cf. Rhaner) ;
- lo spirito del concilio contro la materialità delle sue prese di posizione e le pluralità dei suoi indirizzi (i testi conciliari);
- il Concilio viene considerato come una specie di Costituente che deve dare una nuova costituzione alla Chiesa (cf. P. Hünermann criticato da C. Theobald) .
Papa Benedetto XVI, nel discorso del 22 dicembre 2005 alla curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, fissava alcuni criteri di interpretazione del Concilio :
- negava ogni discontinuità tra il Concilio e la precedente tradizione della fede;
- rifiutando una lettura del Concilio “secondo lo spirito conciliare” o come “evento” chiedeva una attenta ermeneutica dei testi;
- proponeva una «“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino»;
- osservava come la Chiesa riceve la sua costituzione dal Signore Gesù e non opera su mandato di un popolo.
Il teologo canadese Gilles Routhier fa notare che i dibattiti attuali si focalizzano generalmente o troppo esclusivamente sull’insegnamento del Vaticano II, la sua interpretazione e la sua recezione e riservano senza dubbio scarsa attenzione allo «stile» dei documenti e del Concilio stesso che non solo esprime l’originalità di questo concilio e ne testimonia il progetto, ma permette ugualmente di percepirne il senso e di coglierne un’interpretazione coerente. Egli mostra come la questione dello forma e del contenuto dei documenti interagiscono e non possono essere isolate le une dalle altre (un certo modo [mezzo] di esprimere la dottrina [il contenuto-messaggio] non è senza conseguenze sulla dottrina [sul contenuto-messaggio] stessa). Ciò che oggi è messo in causa, a questo punto della recezione del Vaticano II, non è semplicemente la fedeltà materiale agli enunciati del Concilio, ma la fedeltà al modo in cui i Padri conciliari li hanno enunciati. Una nuova maniera – stile è insieme un metodo di lavoro, un atto comunicativo ed una forma letteraria – di proporre la dottrina e di annunciare il Vangelo gravida di un’altra maniera di pensarsi della Chiesa nel mondo e nel disegno di Dio, come pure un’altra maniera di pensare le relazioni fra i battezzati, tutti membri del popolo di Dio. Il

movimento attuale di ritorno ai testi conciliari non può dirsi riuscito se si prescinde da una riflessione sull’atto di lettura che ciò implica e sullo stile proprio del Vaticano II. In effetti il solo ritorno al testo compreso come somma di enunciati, dimenticando lo “stile” particolare di questi testi potrebbe condurre a conflitti ermeneutici più importanti ancora delle opposizioni osservate nelle prese di posizione a proposito del concilio nel momento in cui si discuteva della sua recezione. Si potrebbe anche arrivare ad invocare il concilio e i suoi testi per dire altro rispetto al concilio, dal momento che la ripresa materiale di alcuni dei suoi enunciati non ne garantisce la recezione. La rinnovata attenzione oggi rivolta all’ermeneutica dei testi del Vaticano II è nel contempo promettente e rischiosa. È promettente perché, nel momento in cui l’esperienza del concilio si allontana sempre più da noi, essa ha ciò che il concilio ci ha lasciato, principalmente i suoi testi. Questo ritorno è rischioso se serve come pretesto per ridurre i testi del concilio ad una massa di enunciati particolari, autonomi rispetto al loro contesto letterario, indipendenti dal loro atto di enunciazione, staccati dal loro mondo di riferimento, troncati dalla tradizione che li porta, indipendenti dal loro stile, enunciati particolari che potrebbero essere messi in contraddizione gli uni con gli altri. In questo lavoro di interpretazione, non si è al riparo da certe manipolazioni; soprattutto la nostra lettura dei testi del Vaticano II mette in opera un metodo d’analisi dei testi, sviluppato specialmente nel quadro della neo-scolastica, cioè in un quadro intellettuale che è in fondo estraneo ai testi conciliari che si offrono alla nostra interpretazione. Col rischio evidente di pervertirne il senso: non si può interpretare un insegnamento che non è formulato in termini giuridici o nel quadro delle categorie scolastiche, applicandogli un metodo di analisi che non è omogeneo al suo oggetto .
4.1. L’obiettivo: il carattere pastorale, nuova attenzione per tutta la Chiesa

Quale allora lo “stile” conciliare?Essosembra reperibile nel carattere pastorale del Concilio.Al Concilio Giovanni XXIII chiede di superare il tradizionale rapporto chiesa-società (cultura) per svilupparne uno nuovo, sconosciuto, basato su di una diversa articolazione del rapporto contenuto-forma nell’annuncio del messaggio cristiano. La concordanza tra ciò che si vuol comunicare (contenuto) e il modo di comunicarlo (forma) dà origine ad un nuovo modo di presentarsi della Chiesa al mondo (un nuovo “stile”):


Dalla rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto l’insegnamento della chiesa nella sua interezza e precisione, quale ancora splende negli atti conciliari del Tridentino e del Vaticano I, lo spirito cristiano, cattolico e apostolico del mondo intero, attende un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze; è necessario che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo. Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata. Bisognerà attribuire molta importanza a questa forma e, se sarà necessario, bisognerà insistere con pazienza nella sua elaborazione; e si dovrà ricorrere ad un modo di presentare le cose che più corrisponda al magistero, il cui carattere è preminentemente pastorale. (Giovanni XXIII, Discorso di apertura del Concilio, n. 55)

L’intenzione di Giovanni XXIII viene confermata da Paolo VI


Se noi, venerabili fratelli, poniamo davanti al nostro spirito questa sovrana concezione: essere Cristo nostro fondatore, nostro capo, invisibile, ma reale, e noi tutto ricevere da lui così da formare con lui quel “Christus totus” di cui parla sant’Agostino e la teologia della chiesa è tutta pervasa, possiamo meglio comprendere gli scopi principali di questo concilio, che per ragione di brevità e di migliore intelligenza Noi indicheremo in quattro punti: la conoscenza o, se così piace dire, la coscienza della chiesa, la sua riforma, la ricomposizione di tutti i cristiani nell’unità, il colloquio della chiesa col mondo contemporaneo. (Paolo VI, Discorso di apertura della II sessione del Concilio, n. 148)

Pastorale in questo contesto significa un’attenzione prestata alla forma dell’annuncio, alle forme della proposta del messaggio cristiano e quindi attenzione all’interlocutore, al destinatario del messaggio (il mondo contemporaneo). Una forma che intende dire un nuovo stile di presenza, di azione e di autocoscienza della Chiesa, un nuovo atteggiamento:

  • un atteggiamento basato sul dialogo e non sul confronto apologetico col mondo;
  • capace di leggere la realtà della Chiesa cogliendone la dimensione istituzionale, storica, sociale;
  • imparando un modo diverso di abitare la Scrittura, come fonte per una comprensione della storia e dell’uomo, ma soprattutto del disegno di salvezza di Dio e, più ancora della sua figura;
  • cercando di individuare un metodo di lettura e intervento nella storia (vedere-giudicare-agire, l’idea di “discernimento”).

Pastorale è dunque questa forma di riconfigurazione della Chiesa, non così facile né immediata. Le quattro costituzioni hanno il compito di tracciare i confini e il percorso di questa operazione, che si rivelerà sempre più come un cantiere che si apre, e che chiede a tutta la Chiesa di avviare uno sforzo di riflessione e di auto comprensione davvero imponente. La teologia tutta intera e la TP si trovano chiamate in prima fila in un simile compito che ridefinisce lingua, memoria, figura istituzionale e confini della Chiesa, come la lettura e il lavoro di esegesi dei seguenti testi è in grado di mostrare.

SC 21. Per assicurare maggiormente al popolo cristiano l’abbondanza di grazie nella sacra liturgia, la santa madre chiesa desidera fare un’accurata riforma generale della liturgia stessa. Infatti la liturgia consta di una parte immutabile, perché di istituzione divina, e di parti suscettibili di cambiamento, che nel corso dei tempi possono o anche devono variare, qualora in esse si fossero insinuati elementi meno rispondenti all’intima natura della stessa liturgia, o si fossero resi meno opportuni. In tale riforma, occorre ordinare i testi e i riti in modo che esprimano più chiaramente le sante realtà che significano, e il popolo cristiano, per quanto possibile, possa capire facilmente e parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria.
LG 8. La santa chiesa, che è comunità di fede, speranza e carità, è stata voluta da Cristo unico mediatore come un organismo visibile sulla terra; egli lo sostenta incessantemente e se ne serve per espandere su tutti la verità e la grazia. Ma la società gerarchicamente organizzata da una parte e il corpo mistico dall’altra, l’aggregazione visibile e la comunità spirituale, la chiesa della terra e la chiesa ormai in possesso dei beni celesti, non si devono considerare come due realtà; esse costituiscono al contrario un’unica realtà complessa, fatta di un duplice elemento, umano e divino. Per una non debole analogia essa è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti come la natura umana assunta serve al Verbo divino come vivo organo di salvezza indissolubilmente unito a lui; in modo non dissimile l’organismo sociale della chiesa serve allo Spirito vivificante di Cristo come mezzo per far crescere il corpo. È questa l’unica chiesa di Cristo che nel simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica, e che il nostro Salvatore ha dato da pascere a Pietro dopo la risurrezione, affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida; egli l’ha eretta per sempre come colonna e fondamento della verità. Questa chiesa, costituita e organizzata in questo mondo come società, sussiste nella chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi che sono in comunione con lui, anche se numerosi elementi di santificazione e di verità si trovino anche fuori della sua compagine: elementi che, come doni propri della chiesa di Cristo, sospingono verso l’unità cattolica.
DV 7. Tutto quello che aveva rivelato per la salvezza di tutti i popoli, con somma benevolenza, Dio dispose che rimanesse sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni. Perciò Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta la rivelazione del Dio altissimo, ordinò agli apostoli che l’evangelo – prima promesso per mezzo dei profeti e da lui adempiuto e promulgato di sua bocca – fosse predicato a tutti, come la fonte di ogni verità che salva e di ogni regola morale, comunicando loro i doni divini. Ciò venne fedelmente eseguito tanto dagli apostoli, che con la predicazione orale, con l’esempio e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca del Signore, dalla frequentazione e dalle opere di Cristo, sia ciò che avevano imparato per suggerimento dello Spirito Santo, quanto da quegli apostoli e uomini della loro cerchia i quali, sotto l’ispirazione del medesimo Spirito Santo, affidarono agli scritti l’annunzio della salvezza. Gli apostoli poi, affinché l’evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella chiesa, lasciarono come successori i vescovi, ad essi “affidando il loro proprio posto di maestri”. Questa sacra tradizione e la sacra Scrittura dell’uno e dell’altro Testamento sono dunque come uno specchio nel quale la chiesa pellegrina sulla terra contempla Dio, dal quale riceve ogni cosa, finché sarà condotta a vederlo faccia a faccia così come egli è.
GS 44. (L’aiuto che la chiesa riceve dal mondo contemporaneo). Come è importante per il mondo che esso riconosca la chiesa quale realtà sociale della storia e suo fermento così pure la chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano. L’esperienza dei secoli passati, il progresso delle scienze, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la chiesa. Essa, infatti, fin dagli inizi della sua storia, imparò ad esprimere il messaggio di Cristo ricorrendo ai concetti e alle lingue dei diversi popoli; e inoltre si sforzò di illustrarlo con la sapienza dei filosofi: allo scopo, cioè, di adattare, quanto conveniva, il Vangelo, sia alla capacità di tutti sia alle esigenze dei sapienti. E tale adattamento della predicazione della parola rivelata deve rimanere legge di ogni evangelizzazione. Così, infatti, viene sollecitata  in ogni popolo la capacità di esprimere secondo il modo proprio il messaggio di Cristo e al tempo stesso viene promosso uno scambio vitale tra la chiesa e le diverse culture dei popoli. Allo scopo di accrescere tale scambio, soprattutto ai nostri giorni in cui i cambiamenti sono così rapidi e tanto vari i modi di pensare, la chiesa ha bisogno particolare dell’aiuto di coloro che, vivendo nel mondo, sono esperti nelle varie istituzioni e discipline, e ne capiscono la mentalità, si tratti di credenti o di non credenti. È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, di ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma più adatta. La chiesa, avendo una struttura sociale visibile, che è appunto segno della sua unità in Cristo, può far tesoro, e lo fa, dello sviluppo della vita sociale umana, non come se le mancasse qualcosa nella costituzione datale da Cristo, ma per conoscere questa più profondamente, per meglio esprimerla e per adattarla con più successo ai nostri tempi. Essa sente con gratitudine di ricevere, nella sua comunità non meno che nei suoi figli singoli, vari aiuti dagli uomini di qualsiasi grado e condizione. Chiunque promuove la comunità umana nell’ordine della famiglia, della cultura, della vita economica e sociale, come pure della politica sia nazionale sia internazionale, porta anche non poco aiuto, secondo il disegno di Dio, alla comunità della chiesa, nella misura in cui questa dipende da fattori esterni. Anzi, la chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire dalla stessa opposizione di quanti la avversano o la perseguitano.

I testi riportati sono talmente chiari da non richiedere grandi spiegazioni:

  • il rapporto – “sacramentale” basato sull’analogia con l’unione ipostatica – creato tra vita quotidiana e mistero della Chiesa (LG 8, cf. il commento che ne fa M. Kehl) permette una lettura più complessa della Chiesa (che è multiforme e dinamica [LG 6-7] e delle sue istituzioni a partire dalla sua dimensione visibile (legami sociali) che va studiata teologicamente con il contributo della sociologia non dimenticando, però, che la Chiesa non è riconducibile solo alla dimensione visibile. Un concetto di Chiesa fortemente dilatato soprattutto nella sua dimensione spaziale (dimensione locale): non più un’idea centralizzata, gerarchica e astratta di Chiesa, ma un ventaglio molto differenziato di sue realizzazioni, diverse sia per storia, sia per forma, sia per entità, tenute strettamente unite da un principio dinamico, il principio della comunione (LG 23).
  • Una considerazione più matura della dimensione sociale della Chiesa, del compito affidato a questa dimensione, del rapporto tra annuncio del Vangelo e cultura. L’idea espressa in GS 44, secondo la quale la Chiesa non si limita ad apportare il suo contributo, ma può ricevere anche qualcosa dal mondo di oggi, non riesce a passare facilmente ed è ancora lungi dall’essere recepita. Eppure è la «legge di ogni evangelizzazione»: l’ascolto della cultura, l’utilizzo del suo linguaggio e dei suoi strumenti per dire il vangelo rendono la Chiesa molto più capace di riconoscere le culture e l’influsso che queste esercitano nella costruzione del volto storico del cristianesimo.
  • il fondamento di tutto è DV7, testo che mostra il disegno originario di Dio che può essere ritrovato nella storia dell’uomo attraverso i segni lì posti (Cristo, la Chiesa [tradizione, episcopato, comunità], le Scritture).

Prima ancora che per le idee che sviluppa è, dunque, per lo stile che assume che il Vat. II è diverso dagli altri concili, ed è definito come pastorale: nell’abbandono del linguaggio tecnico e giuridico caratteristico dei concili precedenti e della neoscolastica il Vaticano II giunge a definire il suo carattere proprio e a spiccare nella tradizione conciliare come un insieme coerente. Un linguaggio che attinge alle fonti (Scrittura e Padri), un linguaggio ispirato al dialogo (orizzontale). È dunque nel suo programma teorico più che negli enunciati in se stessi che il Concilio si distingue e manifesta la sua coerenza.
Il Vaticano II segna un’evoluzione significativa della Chiesa cattolica nel suo modo di concepire l’esercizio del magistero e di considerare lo statuto della dottrina. Questa evoluzione deriva da

  • una nuova coscienza del rapporto della Chiesa col mondo, che porta a definire un nuovo atteggiamento nei confronti della famiglia umana, in particolare verso le persone che non appartengono alla Chiesa, come pure uno sguardo nuovo sulle realtà del mondo;
  • deriva altresì da una più viva coscienza che la Chiesa ha del proprio rapporto vivente e dinamico con la Parola di Dio, che la condurrà, al di là delle formulazioni di scuola o di quelle di cui già è in possesso, a scrutare in un modo per certi versi nuovo la Parola di Dio per ricavare da questo tesoro “cose nuove e cose antiche”.

Ciò conduce a considerare il Concilio non solo come luogo in cui si instaura un dibattito tra i Padri conciliari riuniti in assemblea e alla ricerca di un consenso nella fede, ma a comprendere l’attività conciliare in un dialogo costante col mondo e la famiglia umana, con il corpo ecclesiale cui è riconosciuta l’infallibilità in credendo, con la Parola di Dio trasmessa nelle Scritture, intronizzata all’inizio di ogni seduta e proclamata nella liturgia che ogni mattino inaugura i lavori. Avvenimento pneumatico e pentecostale, il Concilio è riscoperto – perché si tratta di una riscoperta più che di una novità – come atto di discernimento o atto interpretativo, che mette in gioco l’attenzione alle questioni del tempo e alle aspirazioni che toccano più da vicino l’umanità, l’ascolto della Parola di Dio da parte della tradizione vivente e dell’insieme del popolo di Dio.
Pastoralità diventa, dunque, una categoria centrale per la riflessione teologico pastorale (o teologia pratica), che ha conosciuto un consistente sviluppo in seguito all’istanza conciliare dell’”aggiornamento” a cui ha fatto seguito il progetto della “nuova evangelizzazione”. Il teologo francese C. Theobald si colloca dentro questo dibattito interpretando la dimensione pastorale secondo l’intenzionalità del Vaticano II, in particolare alla luce della formulazione espressa da Giovanni XXIII in apertura del Concilio Vaticano II. A procedere dalla necessità di esporre in modo nuovo “le eterne verità della fede”, Giovanni XXIII, come si diceva, chiede ai Padri conciliari di tener conto dell’”indole pastorale” del concilio, ovvero dell’esigenza di rendere nuovamente significativo per l’uomo contemporaneo il messaggio evangelico. Dunque “pastoralità” significa annunciare il Vangelo tenendo conto dei destinatari concreti del messaggio nella loro condizione antropologica (linguistica, culturale, religiosa...). Theobald, da teologo, tenta una fondazione teorica di questo assunto esplicitamente pastorale intendendo mostrare l’iscrizione dell’atto di fede nell’esperienza umana come tale . La consapevolezza nuova è che, dice R. Repole, «la verità non esiste se non diventa verità per me e per noi; e che la Parola stessa di Dio non è tale se non c’è chi l’accolga e la recepisce». La verità rivelata «non esiste se non nell’atto stesso in cui viene ascoltata e accolta […]. Ma ciò significa altresì che questa Parola non si ha se non nell’atto stesso dell’interpretazione» (il destinatario dell’annuncio [e il suo contesto] è parte dell’annuncio stesso).

4.2. La costituzione Gaudium et spes come luogo che condensa (esprime) questa nuova attitudine della Chiesa.
La costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo esprime un nuovo modo di abitare la storia, di immaginare la Chiesa e i suoi compiti, di vivere il ruolo di guida e di autorità (magistero).
a) La struttura della costituzione:

  • il proemio e la nota (con la reciproca tensione tra dottrinale e pastorale);
  • lo schema (le 2 parti; l’importanza della prima parte e la novità della seconda che tocca alcuni problemi concreti e urgenti), impostato sul metodo vedere-giudicare-agire.

b) I concetti chiave:

  • «pastorale»: senso di reale e intima solidarietà e messaggio della salvezza da proporre a tutti: (1-2);
  • dialogo con tutti gli uomini sui problemi fondamentali (il fine ultimo delle cose e degli uomini: 3);
  • atteggiamento di servizio della Chiesa verso il mondo: (3);
  • profonda attenzione verso la condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo alla scoperta dei “segni dei tempi” (4-10);
  • «segni dei tempi»:

+ (4, 11) particolari sensibilità ed attenzioni manifestate verso valori e verso fatti, presenti in misura molto diffusa in un determinato momento storico;
+ fenomeni che per la loro generalizzazione e frequenza caratterizzano un’epoca ed attraverso i quali si esprimono i bisogni e le aspirazioni diffuse;
+formano a modo loro un Locus theologicus nel quale il credente deve cercare gli appelli e la sollecitudine divina che tutto prepara e dispone per l’annuncio del Messaggio di salvezza portato da Cristo [è la ripresa da parte del Vaticano II dell’«analisi teologica della situazione» di Rahner];
+ «l’uomo» via della chiesa è il primo grande segno dei tempi, che la GS presenta come punto di partenza per l’annuncio del piano di salvezza di Dio riguardo all’uomo nella sua dimensione personale, sociale, economica.
c) La GS traccia lo schema di questo discorso sull’uomo segno dei tempi:

  • la dignità della persona umana (12-22);
  • la comunità degli uomini e il concetto di società (23-32);
  • l’attività umana nell’universo (33-39).
  • Il cap. IV (40-45) si inserisce come la risposta ecclesiale a questo segno dei tempi e prende in considerazione in modo diretto la Chiesa in quanto si trova nel mondo ed insieme con esso vive ed agisce.

d) Il progetto pastorale:

  • la Chiesa che è insieme società visibile e comunità spirituale cammina insieme con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena ed è fermento e anima della società umana destinata a rinnovarsi in Cristo ed a trasformarsi in famiglia di Dio (GS 40:cf. il rimando a LG 8; ma più in generale GS 41-45).

4.3. Le fatiche della declinazione del progetto pastorale conciliare
Un simile progetto pastorale lancia tutta una serie di temi e di strumenti: un corpo ecclesiale non più monolitico ma plurimo (le Chiese locali come visibilità della Chiesa tutta intera), l’“inculturazione” come strumento di evangelizzazione (una evangelizzazione per contagio), un nuovo modo di pensare il ministero (il primato dell’annuncio). Le fatiche della recezione di questo progetto si evidenziano già nei testi conciliari:


LG 13. Nella comunione ecclesiale esistono legittimamente le chiese particolari, che godono di tradizioni proprie, salvo restando il primato della cattedra di Pietro che presiede alla comunione universale della carità, garantisce le legittime diversità e insieme vigila perché il particolare non solo non nuoccia all’unità, ma anzi ne sia al servizio. Tra le diverse parti della chiesa si creano legami di intima comunione riguardo alle ricchezze spirituali, agli operai apostolici e alle risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono infatti chiamati a condividere i loro beni; anche per le singole chiese valgono le parole dell’apostolo: “Ognuno metta al servizio degli altri il dono che ha ricevuto, da bravo amministratore della multiforme grazia di Dio”.
LG 28. I presbiteri, pur non possedendo il vertice del sacerdozio, ma dipendendo dai vescovi nell’esercizio della loro potestà, sono tuttavia congiunti a loro nell’onore sacerdotale. In virtù del sacramento dell’ordine e ad immagine di Cristo sommo ed eterno sacerdote, sono consacrati per predicare il Vangelo, pascere i fedeli e celebrare il culto divino, quali veri sacerdoti della nuova alleanza. Partecipando alla funzione di Cristo unico mediatore secondo il grado del loro ministero, essi annunciano a tutti la parola di Dio. Ma esercitano la loro sacra funzione soprattutto nel culto eucaristico o sinassi, dove, agendo in persona di Cristo e proclamando il suo mistero, uniscono i voti dei fedeli al sacrificio del loro capo; e nel sacrificio della messa rendono presente e applicano fino alla venuta del Signore.
AG 21. La chiesa non è realmente costituita, non vive in maniera piena e non è segno perfetto di Cristo tra gli uomini, se con la gerarchia non si afferma e collabora un laicato autentico. L’evangelo infatti non può penetrare profondamente nella mentalità, nel costume e nell’attività di un popolo, se manca la presenza attiva dei laici. [...] Principale loro compito, siano essi uomini o donne, è la testimonianza di Cristo, che devono rendere con la vita e con la parola nella famiglia, nel ceto sociale cui appartengono e nell’ambito della loro professione. In essi infatti deve realmente apparire l’uomo nuovo, che è stato creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità. Questa novità di vita essi devono esprimerla nell’ambito della società e della cultura della propria patria, secondo le tradizioni nazionali. Devono conoscere questa cultura, elevarla e conservarla, svilupparla in armonia con le nuove condizioni, e finalmente perfezionarla in Cristo affinché la fede di Cristo e la vita della chiesa non siano più estranee alla società in cui vivono, ma cominci- no a permearla e a trasformarla. I laici si sentano uniti ai loro concittadini da sincero amore, affinché nel loro comportamento appaia il vincolo nuovo di unità e di solidarietà universale, che si attinge dal mistero di Cristo. Diffondano anche la fede di Cristo tra coloro, ai quali sono legati da vincoli di vita e di professione; questo obbligo è reso più urgente dal fatto che moltissimi uomini non possono né ascoltare l’evangelo né conoscere Cristo se non per mezzo di laici, che sono loro vicini. Anzi, laddove è possibile, i laici, con una collaborazione più diretta con la gerarchia, siano pronti a svolgere una missione speciale per annunciare l’evangelo e comunicare l’insegnamento cristiano per infondere vigore alla chiesa nascente.

Dai testi si nota:

  • il rischio di una ricomprensione dogmatica della struttura della chiesa, a seguito di una mancanza di categorie storiche di autoanalisi;
  • la cultura come prodotto mutevole che riguarda la storicità mondana;
  • la chiesa vista in ruolo prevalentemente attivo (esercita una missione: chiesa soggetto, mondo oggetto);
  • Da cui il rischio di una autoestraneazione della chiesa dal processo culturale e da una sua autocomprensione storica;
  • concetto di pastorale: giudizio che la chiesa elabora sul cammino storico della società moderna;
  • apertura al mondo secondo uno schema dualistico (teoria-prassi; chiesa-mondo);
  • la storicità (qualche volta vista ancora in chiave negativa) attribuita sicuramente al mondo, in modo ambiguo alla chiesa (immutabile).

4.4. La declinazione italiana: una chiesa tra Concilio e mondo
Offrendo il loro contributo di riflessione al Sinodo straordinario del 1985, così i vescovi sintetizzano l’influsso che il Vaticano II ha esercitato sulla Chiesa italiana:


Dal concilio, la Chiesa in Italia ha imparato a fissare il suo sguardo nel mondo contemporaneo, nella società italiana: uno sguardo critico e fiducioso ad un tempo, sempre carico di quello stesso amore con cui Dio ama il mondo (cf. Gv 3,16). Tale presenza al mondo, questa attenzione all’uomo contemporaneo ha portato molti figli della nostra Chiesa a condividere situazioni sub-umane, in patria e all’estero, di fronte alle quali chi crede nel Vangelo non può restare inerte. Riconoscersi, stare e testimoniare dentro la storia: questa la prima scelta fatta dalla Chiesa in Italia in questi venti anni dopo il Concilio Vaticano II; una scelta sempre ispirata alla fede e sempre sintonizzata con il magistero ecclesiastico. [«Rilievi e proposte della Chiesa in Italia» IV.2: ECEI/3 2897]

«Riconoscersi, stare e testimoniare dentro la storia». Stare dentro la storia è il grande imperativo che il Vaticano II consegna alla Chiesa italiana . Stare dentro la storia significa, per la Chiesa italiana, adottare «Uno sguardo critico e fiducioso ad un tempo», ovvero un nuovo atteggiamento nei confronti del mondo, capace di riconoscere (e di fare i conti con le conseguenze di questo riconoscimento) che si è infranta quella simbiosi tra Chiesa e mondo, quella coincidenza tra sfera civile e religiosa un tempo ritenuta naturale, e che vedeva la Chiesa nel ruolo di attore protagonista.
Stare dentro la storia per la Chiesa italiana vuol dire imparare a riconoscere una storia autonoma, una società italiana pronta a camminare anche su sentieri indipendenti e liberi. Da qui il senso dei due altri imperativi: riconoscersi e testimoniare. Di fronte ad una storia, ad una società e ad una cultura che, come ci chiede il Concilio di riconoscere, hanno ormai assunto un ruolo di soggetto, una capacità autonoma di progettazione e di esistenza, anche la Chiesa italiana è obbligata a cambiare passo, a trovare nuove forme di presenza e di azione dentro questo contesto in pieno mutamento. Il termine e il concetto di testimonianza viene assunto per dire questo cambio di passo, questo salto di continuità. La presenza dentro la storia non avviene più attraverso ruoli e azioni abituali, ma grazie allo studio, alla ricerca e alla sperimentazione di vie nuove che permettano alla Chiesa di mostrare la sua identità (riconoscersi) mentre adempie al suo compito di annuncio (testimoniare). Una nuova epoca per la Chiesa italiana si sta aprendo; una nuova operazione di istituzione delle sue strutture e delle sue pratiche le è chiesta: e tutto questo per abitare in modo attivo il cambiamento, per non subirlo semplicemente da spettatori. Come i vescovi affermano già negli anni ‘70 e riprendono poi nei decenni successivi:


Poiché l’uomo vive in una città secolare, i grandi momenti della sua esistenza hanno generalmente poco riferimento alle celebrazioni liturgiche, che egli conosce sempre meno, quando non le consideri nulla più che una pratica socio-culturale, e finisca quindi o con l’abbandonarle o col dar loro assai scarso rilievo nella propria vita. Un significato sempre più grande acquista perciò, nell’azione pastorale, la testimonianza della comunità ecclesiale e, con essa, quella dei singoli cristiani, per ricondurre gli uomini a interrogarsi sul valore della parola di Dio, dei sacramenti e della Chiesa stessa. [EeS 8: ECEI/2 394]

Esistono problemi di metodo e di linguaggio, nella ricerca e nella individuazione delle vie che raggiungono l’uomo contemporaneo, per poterne interpretare, con lucida oggettività, le esigenze più vere. Di qui la necessità di un approfondimento e di una traduzione, in linguaggio moderno, del messaggio cristiano e di una testimonianza di vita, che ne accompagni e quasi ne convalidi l’annuncio. Tutto questo comporterà un serio rinnovamento delle nostre comunità cristiane, chiamate ad essere e a manifestarsi, nella loro vita, come visibile segno di salvezza per gli uomini. [EeS 22: ECEI/2 409]

La Chiesa “in un paese cattolico come l’Italia, ma immerso, talvolta, e minacciato da un’atmosfera ostile, rischia di trovarsi in un complesso di inferiorità e di subire anche, in certo modo, condizioni di ingiustizia e di discriminazione” (GPII, XIII Assemblea CEI, 1980). Da una situazione di “cristianità” che aveva caratterizzato per secoli la nostra presenza e la nostra azione pastorale, occorre passare, senza complessi ma anche senza illusioni, a una pastorale rinnovata nella prospettiva della comunione. [CeC 10: ECEI/3 644]

Oggi in Italia l’evangelizzazione richiede una conversione pastorale. La chiesa, ha affermato il papa a Palermo, “sta prendendo più chiara coscienza che il nostro non è il tempo della semplice conservazione dell’esistente, ma della missione”. Non ci si può limitare alle celebrazioni rituali e devozionali e all’ordinaria amministrazione: bisogna passare a una pastorale di missione permanente [Con il dono della carità dentro la storia 23: ECEI/6149]

I testi riportati mostrano come la riflessione dei vescovi costruisce due modelli anche parecchio diversi di immaginare la presenza e l’azione della Chiesa nel mondo, due modi parecchio diversi perciò di intendere il compito pastorale, di realizzare il rapporto Chiesa-mondo che il Vaticano II ha consegnato loro come strumento. Questi due modelli si traducono anche in due modi diversi di intendere la testimonianza, che si strutturano in riferimento alle due figure principali possibili, legate a questa azione:

  • un primo modello mette al centro la testimonianza intesa come opera, come azione;
  • un secondo invece si struttura attorno all’idea della testimonianza verbale.

Il modello della testimonianza intesa come azione, lanciato con il piano pastorale degli anni ‘70, viene ripreso e rilanciato negli anni ‘90.La testimonianza qui descritta è un impegno perché il messaggio cristiano sia annunciato attraverso le opere, che divengono il luogo di incontro, il terreno comune che permette ai destinatari di riconoscere in modo attivo il mittente profondo e originario di simili azioni. È dunque una testimonianza

  • non gridata, mediata e dialogica, che impegna la Chiesa in una logica di incarnazione dentro la storia, in una azione di trasformazione;
  • è una testimonianza che porta la Chiesa a riconoscere il mondo e la cultura come luoghi dentro i quali cercare e trovare gli strumenti che permettono l’annuncio del messaggio cristiano;
  • è una testimonianza che si ritrova bene nella triade parola-sacramenti-vita;
  • è una testimonianza che chiede all’istituzione ecclesiale non poche modificazioni, a livello di obiettivi, soggetti, azioni pastorali intraprese.

Accanto a questo primo modello di testimonianza si colloca un secondo modo di intendere questa figura, che nella riflessione della Chiesa italiana ha fatto il suo ingresso in seguito al convegno ecclesiale di Loreto. La testimonianza diventa in questo caso immediatamente

  • un’azione di annuncio, una testimonianza verbale;
  • un’azione che vede la Chiesa nel ruolo di soggetto, pronta a ricordare ad un mondo, ricollocato nel ruolo di oggetto, l’identità originaria che ha disperso e da cui si (colpevolmente) allontanato.

La Chiesa interpreta questa sua funzione come un servizio; cambia radicalmente anche il modo di intendere questo compito di annuncio al mondo del messaggio cristiano. Ad integrare il trinomio classico e consueto (annuncio, celebrazione, testimonianza) viene presentato il binomio comunione-missione:

  • comunione per indicare l’azione che la Chiesa è chiamata a vivere al suo interno (intesa come opera di unificazione e raccolta del corpo ecclesiale attorno alla verità cristiana e allo strumento della sua comunicazione, il Magistero);
  • missione per indicare il compito che la Chiesa è tenuta a vivere nei confronti del mondo.

In questa reinterpretazione semantica della figura della testimonianza, la Chiesa esiste per annunciare al mondo la verità che è Cristo; e questo annuncio è il contenuto e la forma della testimonianza. L’azione del testimoniare diventa così primariamente un’azione culturale, definita attraverso la categoria e la figura del “servizio”, un servizio da rendere agli uomini, alla loro cultura, alla loro storia:

  • ponendosi in difesa dei valori primari della vita umana;
  • individuando la questione antropologica come la frontiera a partire dalla quale svolgere il compito affidato di annuncio della verità cristiana (toccando così le dimensioni dell’educazione, della politica, della scienza e della comunicazione);
  • rilanciando una logica identitaria che sappia far fronte all’indebolimento istituzionale che la Chiesa ha conosciuto come conseguenza della contestazione culturale.

Senza soluzione di continuità, l’azione della testimonianza diventa la promozione di quel Progetto culturale orientato in senso cristiano, assunto dai vescovi come l’impegno primario della Chiesa italiana dal 1997 al 2006. Riprendendo la tradizione recente della Chiesa, il Convegno di Verona (2006) rilancia la testimonianza con l’attenzione al “primato dato alla persona” e alla sua “vita quotidiana come alfabeto per comunicare il vangelo” (i ‘cinque ambiti’):

Mostrare il “sì” di Dio tocca le fondamenta stesse della Chiesa, che di quel “sì” è figlia, discepola e responsabile. Per questo, la via della missione ecclesiale più adatta al tempo presente e più comprensibile per i nostri contemporanei prende la forma della testimonianza, personale e comunitaria: una testimonianza umile e appassionata, radicata in una spiritualità profonda e culturalmente attrezzata, specchio dell’unità inscindibile tra una fede amica dell’intelligenza e un
amore che si fa servizio generoso e gratuito. Il testimone comunica con le scelte della vita, mostrando così che essere discepolo di Cristo non solo è possibile per l’uomo, ma arricchisce la sua umanità. Egli quando parla, non lo fa per un dovere imposto dall’esterno, ma per un’intima esigenza, alimentata nel continuo dialogo con il Signore ed espressa con un linguaggio comprensibile a tutti. La testimonianza pertanto è l’esperienza in cui convergono vita spirituale, missione pastorale e dimensione culturale. Le nostre comunità devono favorire l’incontro autentico tra le persone, quale spazio
prezioso per il contatto con la verità rivelata nel Signore Gesù, perché l’esemplarità della vita non sminuisce il dovere di annunciare anche con la parola: ogni cristiano deve saper dare ragione della propria speranza, narrando l’opera di Dio nella sua esistenza e nella storia dell’umanità (da «Rigenerati per una speranza viva» (1Pt 1,3): testimoni del grande sì di Dio all’uomo).

A Verona si fa la scelta di una nuova metodologia pastorale che punta sull’unità della pastorale riconducendola all’unità della persona e non solo, come era l’impostazione del Convegno di Palermo,  al legame tra i tria munera, i tre compiti o uffici della Chiesa (annuncio e insegnamento della Parola di Dio, preghiera e liturgia, testimonianza della carità). Con i “cinque ambiti” si è scelta un’attenzione antropologica nell’impostazione della pastorale che non sostituisce lo schema ecclesiologico dei tria munera ma tende a correggerne il limite «allorchè la missione della Chiesa si sottrae al suo destinatario, pensandosi e realizzandosi in modo autoreferenziale e immaginando il destinatario semplicemente come termine della sua azione» . Un nuovo atteggiamento del cristiano testimone di fronte al mondo: si inserisce l’interlocutore nel movimento dinamico di riappropriazione della propria identità a partire dall’incontro rivelatore con Gesù Cristo. In continuità dunque con lo stile pastorale del Vaticano II l’attenzione al destinatario guida l’elaborazione delle priorità pastorali.
Dentro questo nuovo atteggiamento pastorale della Chiesa italiana verso il mondo si situano le tre grandi azioni che vengono riconosciute come gli strumenti che il Concilio consegna alla Chiesa italiana per il suo rinnovamento: il discernimento, la riconciliazione, l’evangelizzazione.
a) Il discernimento. La struttura della GS (il metodo vedere-giudicare-agire), viene assunta come lo strumento ordinario per una analisi teologica ed ecclesiale della situazione, come il punto di partenza di cui il cristianesimo italiano sente il bisogno per continuare ad abitare da protagonista la storia. La maggior parte dei documenti pastorali della CEI è costruita su questo metodo, precisato nei termini di «discernimento pastorale» a Loreto, e di «discernimento comunitario» successivamente a Palermo:


Come espressione dinamica della comunione ecclesiale e metodo di formazione spirituale, di lettura della storia e di progettazione pastorale, a Palermo è stato fortemente raccomandato il discernimento comunitario. Perché esso sia autentico, deve comprendere i seguenti elementi: docilità allo Spirito e umile ricerca della volontà di Dio; ascolto fedele della Parola; interpretazione dei segni dei tempi alla luce del Vangelo; valorizzazione dei carismi nel dialogo fraterno; creatività spirituale, missionaria, culturale e sociale; obbedienza ai pastori, cui spetta disciplinare la ricerca e dare l’approvazione definitiva. Così inteso, il discernimento comunitario diventa una scuola di vita cristiana, una via per sviluppare l’amore reciproco, la corresponsabilità, l’inserimento nel mondo a cominciare dal proprio territorio. Edifica la Chiesa come comunità di fratelli e di sorelle, di pari dignità, ma con doni e compiti diversi, plasmandone una figura, che senza deviare in impropri democraticismi e sociologismi, risulta credibile nell’odierna società democratica. Si tratta di una prassi da diffondere a livello di gruppi, comunità educative, famiglie religiose, parrocchie, zone pastorali, diocesi e anche a più largo raggio «Con il dono della carità dentro la storia» n. 21: ECEI/6 146).

Il convegno di Verona registra un parziale fallimento dello strumento del discernimento comunitario come detto dal Card. Ruini:

La parola “discernimento” ci richiama ad un obiettivo che ci eravamo dati nel Convegno di Palermo, anche con l’impulso di Giovanni Paolo II, specialmente in rapporto al discernimento comunitario che consenta ai fratelli nella fede, collocati in formazioni politiche diverse, di dialogare e di aiutarsi reciprocamente ad operare in maniera coerente con i comuni valori a cui aderiscono. È diffusa l’impressione che questo obiettivo sia stato mancato in larga misura nel decennio scorso, anche se una valutazione più attenta potrebbe suggerire che esso ha avuto pure delle realizzazioni non piccole

Lo strumento del discernimento appare ancora un’opzione per il futuro piuttosto che un solido pilastro su cui aver costruito il nostro presente ecclesiale. «Il discernimento è per i Vescovi italiani quella attitudine spirituale che consente alle nostre chiese locali di assumere la posizione giusta per imparare “uno sguardo critico e fiducioso a un tempo”, ovvero per imparare un nuovo atteggiamento nei confronti del mondo, per imparare a riconoscere (e a fare i conti con le conseguenze di questo riconoscimento) che è finita, definitivamente consegnata al passato, una immagine classica e tradizionale di Chiesa, con le sue strutture, le sue gerarchie e le sue pratiche; c’è bisogno di immaginare nuove forme di Chiesa, che spingano i singoli cristiani e le comunità a nuovi modi di concepirsi e di operare» .

b) La riconciliazione. È la seconda azione assunta per dare corpo al rapporto Chiesa-mondo indicato attraverso la figura della testimonianza. Un’azione che ha visto la Chiesa impegnata in prima persona anzitutto sul proprio fronte interno: i convegni ecclesiali, in particolare quelli di Roma e di Loreto, sono gli eventi attorno ai quali si è reso maggiormente visibile questo bisogno di riconciliazione.
Questa azione di riconciliazione interna ha reso la Chiesa italiana particolarmente sensibile anche nei confronti di una società, come quella italiana, che presenta molti luoghi bisognosi di riconciliazione:

  • luoghi e spazi sociali (mondo del lavoro, della politica),
  • culturali (il confronto tra diverse culture che spesso si è tramutato in scontro duro e rigido),
  • etnici (il problema della immigrazione e dello straniero),
  • economici (la scelta di ripartire dagli ultimi, il confronto sul divario nord-sud del paese).

Forse, il momento è venuto in cui le ricchezze ereditate dalla millenaria tradizione ecclesiale, che è alle nostre spalle, i frutti dell’aggiornamento conciliare e le fresche energie di rinnovamento spirituale e comunitario fiorite in mezzo a noi possono convergere insieme in un atto concorde d’amore ai nostri fratelli: l’avvio, appunto, di una nuova evangelizzazione che abbia come suo cuore il vangelo della carità (ETC 25: ECEI/4 2743)

d) L’evangelizzazione. È comunque il contenuto prioritario dato dai vescovi alla figura della testimonianza. Assunta come filo conduttore di tutto il magistero pastorale postconciliare (come termine ricorre in quasi tutti i documenti della CEI), questa azione ha conosciuto accentuazioni diverse nel suo utilizzo:

  • è stata introdotta come la via di rinnovamento della Chiesa, capace di ristrutturare l’azione pastorale tradizionale, di fronte ad una società italiana in piena mutazione;
  • è stata declinata in modo transitivo, intesa come il compito che la Chiesa ha ricevuto nei confronti di un mondo che, segnato dal peccato, non è più capace di ricostruire una relazione con Dio;
  • è stata ripresa e rilanciata in modo riflessivo, per ricordare alle comunità cristiane la loro identità originaria, che deve essere nutrita con ogni cura.
  • È stata associata al progetto di «nuova evangelizzazione» di Giovanni Paolo II e grazie ad esso rilanciata (l’aggettivo ‘nuova’ dice, in continuità con lo stile pastorale del Vaticano II, di una forma di annuncio del vangelo adatta al mutato contesto culturale ma dice anche il bisogno che la Chiesa recuperi energie, volontà, freschezza e ingegno nel suo impegno evangelizzatore) .

Con i termini «evangelizzazione» e «evangelizzare» i vescovi intendono alludere al compito di riorganizzazione delle strutture, ripensamento della pastorale e rilancio delle azioni che tocca la Chiesa italiana nel suo insieme. Per rendere udibile e credibile il messaggio cristiano le istituzioni non possono limitarsi a continuare a ripetere l’esistente, limitandosi magari ad aumentare l’ardore immesso nelle azioni compiute; devono invece impegnarsi ad immaginare nuove pastorali, nuove forme che investono tutti i campi della pratica ecclesiale: annuncio, celebrazione, testimonianza. Come affermato in modo sintetico all’inizio degli anni ‘90:


Sulla base della reciproca carità va perseguito il cammino del rinnovamento evangelico delle nostre comunità, valorizzando [...] le dimensioni della pastorale ordinaria, e in particolare la vita delle parrocchie, che costituiscono il tessuto portante della nostra Chiesa. Due sono al riguardo gli obiettivi principali che dobbiamo proporci in questo decennio: far maturare delle comunità parrocchiali che abbiano la consapevolezza di essere, in ciascuno dei loro membri e nella loro concorde unione, soggetto di una catechesi permanente e integrale [...], di una celebrazione liturgica viva e partecipata, di una testimonianza di servizio attenta e operosa; favorire un’osmosi sempre più profonda fra queste tre essenziali dimensioni del mistero e della missione della Chiesa. Se la comunità ecclesiale è stata realmente raggiunta e convertita dalla parola del vangelo se il mistero della carità è celebrato con gioia e armonia nella liturgia, l’annuncio e la celebrazione del vangelo della carità non può non continuare nelle tante opere della carità testimoniata con la vita e col servizio. Ogni pratico distacco o incoerenza fra parola, sacramento e testimonianza impoverisce e rischia di deturpare il volto dell’amore di Cristo. (ETC 28: ECEI/4 2747)

Cf. Institut Catholique de Paris, Le déplacement de la théologie. Recherches actuelles III, Beauchesne, Paris 1977.

Cf. Faber H., Pastoral Care and Clinical Training in America, Arnhem 1961; Midali M., Teologia pratica, pp. 328-329.

Carl Ramson Rogers (Chicago, 8 gennaio 1902 – San Diego, 4 febbraio 1987) è stato uno psicologo statunitense, fondatore della terapia non direttiva e noto in tutto il mondo per i suoi studi sul counseling e la psicoterapia all’interno della corrente umanistica. «Gli individui hanno in se stessi ampi risorse per auto-comprendersi e per modificare il loro concetto di sé, gli atteggiamenti di base e gli orientamenti comportamentali. Queste risorse possono emergere quando può essere fornito un clima definibile di atteggiamenti psicologici facilitanti» (C.R. Rogers, Un modo di essere, Firenze, Psycho 1983).

Alcune opera di valore pubblicate negli anni 1950 da Carrol A. Wise, Paul Tillich: Cfr. Midali M., Teologia pratica, pp. 330-331.

M. Midali , Teologia pratica, p. 334.

Cf. S. Hiltner, Preface to Pastoral Theology, New York 1958.

M. Midali, Teologia pratica, p. 333.

Per approfondire il pensiero di Hiltner si può fare riferimento a: M. Midali, Teologia pratica, pp. 331-335; S. Lanza, «Teologia pastorale», in La teologia del XX secolo. Un bilancio,III, a cura di G. Canobbio – P. Coda, Città Nuova, Roma 2003, pp. 393-475, qui pp. 420-422; Villata, L’agire della Chiesa, pp. 60-61.

Le tracce di questa griglia sono reperibili in: J. Audinet, «Théologie pratique et pratique théologique», in Le déplacement de la théologie, pp. 91-107; L. Bressan, «Pratiche ecclesiali di ascolto e questione del metodo in teologia pratica», in La Scuola cattolica 135 (2007), pp. 557-568.

Cf. M. Midali, Teologia pratica, pp. 227-234.

Per approfondire il pensiero di van der Ven: Cf. M. Midali, Teologia pratica, pp. 284-290; A. Toniolo, «L’anima riflessiva e formativa della prassi pastorale», in Teologia pastorale in Europa, a cura di G. Trentin – L. Bordignon, pp. 369-388.

Per «studi pastorali» si intende il «campo di studi confessionali e interdisciplinari volti a produrre una riflessione critica sulle pratiche pastorali». Cf. J. G. Nadeau (a cura di), La praxéologie pastorale, Montreal Fides, 2 voll.; Id., «Une méthodologie empirico-herméneutique», in Précis de Théologie Pratique, Lumen Vitae, Novalis 20072;  M. Midali, Teologia pratica, pp. 357-369.

Cf. A. Piette, La religion de près, L’activité religieuse en train de se faire, Métaillé, Paris 1999; Id., Le fait religieux. Une théorie de la religion ordinaire, Economica, Paris 2003.

«La teoria critica della società sorge, negli intenti di Horkheimer, per “incoraggiare una teoria della società esistente considerata come un tutto”; ma una teoria che fosse appunto critica, capace cioè di far emergere la contraddizione fondamentale della società capitalistica. In breve: il teorico critico è “quel teorico la cui unica preoccupazione consiste in uno sviluppo che conduca ad una società senza sfruttamento”». (G. Reale – D. Antiseri, La filosofia nel suo sviluppo storico, III,ed. La Scuola, 19887, pp. 493-494).

Cf. M. Midali, Teologia pratica, pp. 235-238.

Cf. Idem, pp. 240-246.

Cf. Idem, pp. 301-304.

In opposizione alla teologia liberale che considerava la rivelazione cristiana come un compimento o uno sviluppo armonico della natura e della ragione umana, la teologia dialettica di Barth ribadì solo l’infinita distanza qualitativa tra l’uomo e Dio, ma addirittura l’opposizione sostanziale tra Dio e tutto ciò che è umano, vale a dire la ragione, la filosofia, la cultura.

Esponente della teologia radicale o teologia della morte di Dio (Stati Uniti), H. Cox ne La città secolare del 1965 esprime il concetto di «secolarizzazione» come «la liberazione dell’uomo anzitutto dal controllo religioso e poi da quello metafisico sulla sua mente e sul suo linguaggio» (Cf. G. Reale – D. Antiseri, La filosofia nel suo sviluppo storico,III, 440).

In questa prospettiva si muove la teologia pratica in area spagnola sotto l’influenza della «teologia della liberazione» di origine latino-americana. In questa area la teologia pratica è intesa come teologia della prassi di liberazione e incorpora la teologia politica come dimensione sapienziale e profetica. Sotto questo profilo si cerca di trovare un fondamento teologico alla pastorale a partire dalla teologia della prassi di liberazione degli oppressi del mondo. La teologia, in generale, ha come finalità non solamente quella di rendere intelligibile il contenuto della fede cristiana, ma anche quella di guidare e di suscitare la prassi cristiana come prassi di speranza e di amore, di salvezza e di liberazione dell’uomo, fin da ora, nel mondo. Il soggetto di questa teologia è la Chiesa come «comunità di base», dove per base qui si intende il popolo che si incontra-scontra con la privazione dell’avere, del sapere, del potere, a causa di qualsivoglia genere di sfruttamento, oppressione e dominio. (Cf. L. A. Maldonado, «La teologia della prassi di liberazione. La riflessione in area spagnola», in Teologia pastorale in Europa, pp. 187-224; S. Galilea, La teologia della liberazione dopo Puebla, Queriniana, Brescia 1979; G. Villata, L’agire della Chiesa, pp. 61-65).

Cf. N. Mette, Theorie der Praxis, Patmos, Düsseldorf 1978; ID., Einfübrung in die katholische Praktische Teologie, Darmstadt Wissenschaftliche, Buchges 2005; M. Midali, Teologia pratica, pp. 272-277; S. Lanza, Teologia pastorale, pp. 441-442.

Cf. M. de Certeau, «La rupture instauratrice», in La faiblesse de croire a cura di M. de Certeau, Seuil, Paris 1987, pp. 183-226.

N. Mette, Einführung in die katholische Praktische Tehologie, p. 45.

Cf. N. Mette, «Sehen -Urteilen -Handeln», in Dk 20 (1989), pp. 23-29; M. Midali, Teologia pratica, p. 399.

Cf. J. Audinet, «Émergence de l’église», in Recherches de Science Religieuse 79 (1991), pp. 337-351.

Cf. J. Audinet,  «Théologie pratique et pratique théologique», in Le déplacement de la théologie, pp. 91-107; Id., «Pratique, Anthropologie, Théologie», in Penser la foi. Recherches en théologie aujourd’hui, a cura di J. Doré-C. Theobald, Paris, Cerf-Assas 1993, pp. 739-752; M. Midali, Teologia pratica, pp. 290-293.

Cf. E. Grieu, Transmettre la Parole. Des jeunes au carrefour du  vivre ensemble et de la foi, l’Atelier, Paris 1998; Id., Nés de Dieu. Itinéraires de chrétiens engagés, Cerf, Paris 2003; P. Rubens, Discerner la foi dans des contextes religieux ambigus. Enjeux d’une théologie du croire, Cerf, Paris 2004.

Fondata ufficialmente il 24 luglio 1941 in seguito ad una decisione dell’assemblea dei cardinali, tra cui il card. Suhard, e arcivescovi con l’intento di creare un seminario interdiocesano per avere un clero con uno spirito missionario che potesse dare risposta alla de-cristianizzazione delle campagne e delle grandi città; sull’onda di questo grande movimento missionario nasce, con l’approvazione di Pio XII, nel 1944 la Mission de Paris, (che avrà un forte sviluppo nel dopo-guerra), con il tentativo di una presenza sacerdotale nel mondo del lavoro a Parigi e in periferia).

Cf. Y. Congar, Vera e falsa riforma  nella Chiesa, Jaca Book, Milano 19942.

Cf. L. Bressan, «La situazione pastorale in Italia e il cammino verso le unità pastorali. Opportunità e sfide», in Unità pastorali. Quali modelli in un tempo di transizione?, a cura di A. Toniolo, Messaggero, Padova 2003, pp. 19-56; qui 32-36.

E. Poulat, Une église ébranlée, Tournai, Castermann 1980.

È la tesi sostenuta da uno dei leader del progetto missionario: L. Retif, Ho visto nascere la chiesa di domani, Jaca Book, Milano 1972.

Per una lettura critica del funzionamento utopico di questo rimando alla Chiesa delle origini si veda: D. Hervieu-Léger, Religione e memoria, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 222-244.

Per religione popolare intendiamo non tanto forme di devozione individuale o privata, quanto piuttosto quei sistemi di credenze, rituali, cerimonie, devozioni e preghiere che vengono praticate in modo diffuso e condiviso da gruppi di persone se non addirittura da intere popolazioni, e che concorrono alla costituzione dell’identità collettiva e simbolica di questo popolo. Queste figure di religione popolare possono essere la sedimentazione di una prima inculturazione cristiana, avvenuta nel passato (il volto storico assunto dal cristianesimo); possono essere invece l’espressione di forme religiose locali; possono essere forme religiose passate al vaglio della critica desacralizzatrice e del processo di secolarizzazione tipico delle nostre società, trasformate così in forme di religione civile.

Quanto segue è preso dal contributo del  prof. Bressan: Cf. L. Bressan, «Un cristianesimo di popolo. La forza del meticciato.I», in La Rivista del Clero Italiano 2 (2007), pp. 86-99.  

B. Seveso, Appunti per il corso di introduzione alla teologia pastorale, p. 35.

B. Seveso, «Sfide e provocazioni attuali per la pastorale», in Teologia pastorale in Europa, pp. 309-342, qui 346.

B. Seveso, La preghiera del cristiano, dispense del corso di Teologia pastorale fondamentale tenuto alla FTIS nell’a.a. 2001-2002, p. 1.

Cf. N. Mette, «Von Säkularisierungs- zum Evangelisierungsparadigma», in  Diakonia 21 (1990), pp. 420-429; S. Knobloch, Was ist Praktische Teologie?, Universitätsverlag , Freiburg (CH) 1995.

Come argomentato da: F.X. Kaufmann – J.B. Metz, Capacità di futuro. Movimenti di ricerca nel cristianesimo, Queriniana, Brescia 1988.

Cf. M. Gauchet, Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, Einaudi, Torino 1992.

Cf.  D. Hervieu-Léger, Catholicisme. La fin d’un monde, Bayard, Paris 2004.

Cf. J. Comblin, Théologie de la ville, Éditions Universitaires, Paris 1968; H. Legrand, «La réalisation de l’Église en un lieu», in Initiation à la pratique de la théologie, III/ Dogmatique 2 a cura di  B. Lauret -  F.Refoulé , Cerf, Paris 1983, pp. 143-344.

Cf. G. Kepel, La rivincita di Dio: cristiani, ebrei e musulmani alla riconquista del mondo, Rizzoli, Milano 1991; R. Stark – M. Introvigne, Dio è tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente, Piemme, Casale Monferrato 2003; G.A. Almond – R. Scoot Appleby – E. Sivan, Religioni forti. L’avanzata dei fondamentalismi sulla scena mondiale, Il Mulino, Bologna 2006.

Cf. G. Lindbeck, The Church in a Postliberal Age, SCM, London 2002; G Weigel, La cattedrale e il cubo. Europa, Amrica e politica senza Dio, Rubettino, Soneria Mandelli 2006.

Cf. G.A. Almond – R. Scoot Appleby – E. Sivan, Religioni forti. L’avanzata dei fondamentalismi sulla scena mondiale, Il Mulino, Bologna 2006.

Cf. G. Routhier, «Il Vaticano II come stile», in La scuola cattolica 1 (2008), pp. 5-32. Ma anche più recenti i suoi contributi su La Rivista del Clero Italiano: G. Routhier, «Sull’interpretazione del Vaticano II. L’ermeneutica della riforma, compito per la teologia», in La Rivista del Clero Italiano, 11 (2011), pp. 744-759; G. Routhier, «Sull’interpretazione del Vaticano II. L’ermeneutica della riforma, compito per la teologia», II, in La Rivista del Clero Italiano, 12 (2011), pp. 827-841.

Cf. C. Theobald, «È proprio oggi il ‘momento favorevole’. Per una lettura teologica del tempo presente», in La Rivista del Clero Italiano, 5 (2006), pp. 356-372. C. Theobald, «Tornare alla sorgente. La recezione del vaticano II», in Il Regno 2 (2012), pp. 27-32.

Cf. Giovanni XXIII, Discorso di apertura del concilio Gaudet mater Ecclesia, 11 ottobre 1962, in AAS 54 (1962), p. 762s.

Cf. G. Routhier, «Pensare oggi la Chiesa di domani», in La Rivista del Clero italiano 6 (2007), pp. 406-425.

Cf. G. Alberigo, Transizione epocale? Studi sul Concilio Vaticano II, Il Mulino, Bologna 2009; A. Melloni – G. Ruggeri, Chi ha paura del Vaticano II?, Carrocci, Roma 2009.

Cf. K. Rhaner, Impulsi dogmatici dimenticati del Concilio Vaticano II, in Nuovi Saggi. X: Società umana e Chiesa di domani, a cura K. Rhaner, Paoline, Roma 1986, pp. 167-181.

Cf. P. Hünermann, Der Text: Werden – Gestalt – Bedeutung. Eine hermeneutische Reflexion, in Herders Theologische Kommentar zum Zweiten Vatikanische Konzil, V, a cura di P. Hünermann – B.J. Hilberath, Herder, Freiburg i. Br. 2005, pp. 5-101, specialmente pp. 11-17; C. Theobald, Mise en perspective, in Vatican II sous le renard des historiens. Colloque du 23 septembre 2005, a cura di C. Theobald, Centre Sèvres – Facultés jésuites de Paris, Médissèvres, Paris 2006, pp. 3-23.

Cf. Benedetto XVI, Insegnamenti di Benedetto XVI. I, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, pp. 1018-1032.

G. Routhier, «Il Vaticano II come stile», pp. 31-32.

Si tratta del famoso discorso Gaudet mater Ecclesia dell’11 ottobre 1962 cap. 5 § 6, citato espressamente in nota da GS 62. 

Cf. M. Kehl, Dove va la Chiesa? Una diagnosi del nostro tempo (Giornale di teologia 255), Queriniana, Brescia 1998, pp. 74-90.

Almeno nell’enunciazione, questo modo di intendere il concetto di “pastoralità” costituisce il cuore della proposta teologica di Theobald, poiché esso si qualifica come un tentativo di pensare come l’universalità sia istanza intrinseca alla fede stessa.

Il cammino che ha portato alla stesura della Gaudium et spes e il successivo cammino di ricezione mostrano le fatiche di declinazione del progetto pastorale conciliare. Alcune posizioni teologiche sono ben sintetizzate in: J.A. Komonchak, «La redazione della Gaudium et spes», in Il Regno 13 (1999), pp. 446-455.

Questo paragrafo segue prevalentemente il contributo apparso su Scuola Cattolica: L. Bressan, «Da fedeli a testimoni. Una lettura del percorso pastorale della Chiesa italiana», in La Scuola Cattolica 2 (2006) pp. 243-261.

La strada che il magistero sceglie per rendere operativo, nel contesto italiano, il progetto pastorale del vaticano II, destinato a segnare un cambio d’epoca nella conduzione della vita ecclesiale, è la formulazione di «piani pastorali». Il primo piano dal titolo Evangelizzazione e sacramenti (EeS) è per gli anni ’70 e vede la celebrazione del Convegno di Roma (1976); il secondo, Comunione e comunità (CeC), per gli anni ’80 vede la celebrazione del Convegno di Loreto (1985); il terzo, Evangelizzazione e testimonianza della carità (ETC), è per gli anni ’90 e vede la celebrazione del Convegno nazionale di Palermo (1995) da cui esce la proposta del Progetto culturale orientato in senso cristiano (1997); il quarto, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, è per il primo decennio del 2000 e vede la celebrazione del Convegno nazionale di Verona (2006); per il secondo decennio del 2000 si è messa a tema la questione educativa con il documento Educare alla vita buone del vangelo. Per approfondire: cf. M. Midali, Cultura postmoderna ed evangelizzazione nuova. La riflessione teologico-pastorale in area italiana, in Teologia pastorale in Europa, pp. 25-98, qui 36-43.

F. G. Brambilla, «La pastorale della Chiesa in Italia. Dai tria munera ai ‘cinque ambiti’?», in La Rivista del Clero Italiano 6 (2011) pp. 389-407; qui p. 398.

L. Bressan, «“Come mai questo tempo non sapete valutarlo”? (Lc 12,56). Stimoli per un discernimento in tempi di nuova evangelizzazione», in La Rivista del Clero Italiano 1 (2012) pp. 20-33;qui pp. 23-24.

Cf. G. Routhier, «Il Vaticano II, riferimento per la ‘nuova evangelizzazione’», in La Rivista del Clero Italiano 6 (2011) pp. 420-441.

A tal proposito la Chiesa universale si è mossa su due fronti: l’Istituzione del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione (Motu proprio Ubicunque et semper del 21 settembre 2010) e la scelta di dedicare a questo tema il sinodo dei Vescovi del 2012 (La Nuova Evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana – Lineamenta del 2 febbraio 2011).   

Questa triade – annuncio, celebrazione, testimonianza – che riprende quella degli anni ‘70 (parola, sacramenti, vita) dice bene il contenuto che il percorso pastorale della Chiesa italiana dà al concetto di evangelizzazione. Una Chiesa che vive quella Parola di cui si nutre, e che fa della celebrazione il momento sorgivo delle azioni attraverso le quali testimonia il vangelo in cui crede, è una Chiesa che evangelizza.


Alla base di tutto deve essere con insistenza ribadito il necessario primato della evangelizzazione, che solleciti una salutare inquietudine di fronte alle mutate condizioni e quindi alle carenze evidenti di certi metodi del passato. Se ci si limitasse ancora a concentrare l’attenzione quasi unicamente sulla prassi sacramentale, si finirebbe col ridurre il sacramento, avulso dal suo vitale contesto di fede, a un puro gesto di pratica esteriore, senza riflessi concreti e fecondi nella vita. Solo una convinzione profonda di tutti gli operatori della pastorale sulla priorità dell’evangelizzazione – convinzione continuamente rassodata nella meditazione, nello studio e nell’impegno quotidiano – riuscirà a superare abitudini e stanchezze, e a imprimere una spinta vigorosa all’azione apostolica della Chiesa in tutti i suoi settori. (EeS 61: ECEI/2 451)

Al centro del concetto di evangelizzazione, secondo il Convegno di Verona, sta “la persona”, sta cioè la relazione, il rapporto che io istituisco con l’altro, rapporto che si fonda sul riconoscimento dell’altro come persona. È questo riconoscimento ad aprire il canale dell’evangelizzazione. Fede, ragione, ma soprattutto discernimento, relazione, carità diventano i contenuti coi quali dare senso, da Verona in poi, al compito missionario della Chiesa italiana, alla sua azione evangelizzatrice, intesa come modo per strutturare relazioni evangeliche tra persone.  Per giungere ad una simile traguardo, la Chiesa italiana è chiamata ad un profondo cambiamento di mentalità: deve invertire alcune priorità, ma soprattutto deve modificare alcune procedure, trasformando in strumento ciò che fino a poco tempo prima era un obiettivo, e in obiettivo ciò che prima era ritenuto soltanto uno strumento (si pensi al rapporto parola-sacramenti, o a quello tra evangelizzazione e promozione umana). Gli ingredienti necessari per intendere la figura della testimonianza che è l’evangelizzazione  (intesa come strumento per raggiungere l’uomo d’oggi con il messaggio di salvezza che Cristo ci ha lasciato) sono i seguenti:

  • radicamento nella Parola di Dio, letta dentro la Chiesa alla luce della Tradizione;
  • ricerca dei semi di verità, dei segni dei tempi sparsi dentro la storia degli uomini (anche quella presente);
  • interpretazione della società e della cultura alla luce della verità che l’evento di Cristo è per noi (e che ci rende capaci di riconoscere le conseguenze del peccato nella nostra storia unite alle tracce dell’opera di redenzione). L’identità cristiana (il primato della persona e della sua testimonianza) è fondata sulla relazione con Cristo ed è riletta dinamicamente a partire dal battesimo (“Io ma non più io” ripreso dal Papa a Verona);

In questo si può dire che Verona abbia fatto sue e ridette le parole con cui i Vescovi sintetizzavano nel 1985 il contributo che il Vaticano II ha apportato alla Chiesa italiana e che già mettevano questo “primato dato alla persona”. Il primato alla persona più che una novità di Verona è una costante dell’azione della Chiesa italiana.

Durante il Convegno tre parole sono risuonate come una triade indivisibile:comunione, corresponsabilità, collaborazione. Esse delineano il volto di comunità cristiane che procedono insieme, con uno stile che valorizza ogni risorsa e ogni sensibilità, in un clima di fraternità e di dialogo, di franchezza nello scambio e di mitezza nella ricerca di ciò che corrisponde al bene della comunità intera. In un contesto sociale frammentato e disperso, la comunità cristiana avverte come proprio compito anche quello di contribuire a generare stili di incontro e di comunicazione. Lo fa anzitutto al proprio interno, attraverso relazioni interpersonali attente a ogni persona. Impegnata a non sacrificare la qualità del rapporto personale all’efficienza dei programmi, la comunità ecclesiale considera una testimonianza all’amore di Dio il promuovere relazioni mature, capaci di ascolto e di reciprocità. In particolare, le relazioni tra le diverse vocazioni devono rigenerarsi nella capacità di stimarsi a vicenda, nell’impegno, da parte dei pastori, ad ascoltare i laici, valorizzandone le competenze e rispettandone le opinioni. D’altro lato, i laici devono accogliere con animo filiale l’insegnamento dei pastori come un segno della sollecitudine con cui la Chiesa si fa vicina e orienta il loro cammino. Tra pastori e laici, infatti, esiste un legame profondo, per cui in un’ottica autenticamente cristiana è possibile solo crescere o cadere insieme. Lo stile di comunione che si sperimenta nella comunità costituisce un tirocinio perché
lo spirito di unità raggiunga i luoghi della vita ordinaria. Il dono della comunione che viene da Dio deve animare, soprattutto attraverso i laici cristiani, tutti i contesti dell’esistenza e contribuire a rigenerarne il tessuto umano (da «Rigenerati per una speranza viva» (1Pt 1,3): testimoni del grande sì di Dio all’uomo).

4.5. Conclusione
Con il suo atteggiamento pastorale, il Concilio ha avviato un processo di riforma della Chiesa, un processo che ha toccato tutti i suoi punti istituzionali fondamentali (memoria, linguaggio, autorità, confini). Questo processo è in atto nel cammino di recezione del Concilio, e conosce fasi anche parecchio differenti (la Chiesa italiana con il suo magistero pastorale è in grado di testimoniare in modo chiaro questa diversità).
La teologia, e in particolare la teologia pratica/pastorale si trova così consegnato un campo incredibilmente ampio e ricco di lavoro: è chiamata ad aiutare la Chiesa a sviluppare strumenti e linguaggio per affrontare le grandi questioni che via via si presentano nel percorso di recezione.
Un elenco provvisorio di queste questioni:

  • un nuovo modo di pensare la Chiesa come soggetto (le Chiese locali, le Conferenze episcopali e le Chiese nazionali);
  • nuovi modi di vivere e di esprimere il proprio essere Chiesa (assemblea, partecipazione, sinodalità);
  • nuovi compiti e campi per la pratica cristiana: discernimento, evangelizzazione (primato della Parola), testimonianza e servizio;
  • la sfida e le fatiche derivate dall’obbligo per la Chiesa di leggersi in un modello culturale totalmente cambiato (la secolarizzazione), e di conseguenza modi diversi di immaginare la presenza del cristianesimo dentro la cultura (lievito, presenza);
  • la sfida e le fatiche derivate dallo sviluppo di una declinazione storica dell’identità ecclesiale (come continuare le intuizioni di LG 8 e GS 44: il carattere profetico delle richieste di perdono da parte della Chiesa sollecitate dalla Tertio millennio adveniente e nei Mea culpa di GPII).
  • Anche l’idea di memoria e di tradizione viene reinterpretata nell’ottica di una memoria fondatrice (il passato come compito di cui si diceva sopra): viene ancorata al suo fondamento che non è un testo scritto, ma la codificazione di un’esperienza, quella del NT, esperienza continuamente riletta e ridetta nelle successive epoche del cristianesimo. Cambia perciò il modo di leggere e di riferirsi alla Tradizione dentro la Chiesa: si tratta di una esperienza che è dello stesso ordine di grandezza della pratica attuale, e quindi comparabile con essa. Sia il NT che l’azione ecclesiale attuale sono fatte di azioni concrete che tramite la loro effettuazione dicono la comprensione simbolica del reale da parte dei cristiani. Si aprono così prospettive del tutto inedite per la comprensione dell’azione ecclesiale, dell’azione pastorale.

Comprensione conciliare della teologia pastorale

La formula teologia pastorale ricorre una sola volta nei documenti conciliari (SC 16), ma la concezione di questa disciplina, del suo ambito o oggetto e dei suoi rapporti con altre scienze è ricavabile da vari testi del Concilio, e viene a tema specialmente nel decreto sulla formazione sacerdotale, dove è presentata naturalmente nel quadro specifico della formazione dei futuri pastori. Va rilevato che il Concilio mette in risalto, in vari documenti, il carattere e lo scopo pastorali di tutta la teologia, ed è in tale contesto che si possono meglio comprendere i suoi pronunciamenti sulla teologia pastorale in senso stretto.

Il carattere pastorale di tutta la teologia
La costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo richiede che tutta la teologia rivesta un carattere «pastorale», nel senso che deve essere una teologia impegnata nella soluzione della problematica contemporanea e continuamente emergente, una teologia sostanziata della Parola di Dio e della fede della Chiesa e a ciò finalizzata, in modo da essere utile agli operatori ed operatrici pastorali e da essi utilizzabile nella loro multiforme attività. La citata costituzione recita così: «È dovere [...] dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, di ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari modi di parlare del nostro tempo, di saperli giudicare alla luce della Parola di Dio, perché la verità rivelata sia percepita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma più adatta» (GS 44b). Essi devono conoscere «gli studi recenti e le nuove scoperte delle scienze e della filosofia, [perché esse] suscitano nuovi problemi che comportano conseguenze anche per la vita pratica ed esigono anche dai teologi nuove indagini. I teologi sono inoltre invitati, nel rispetto dei metodi e delle esigenze proprie della scienza teologica, a sempre ricercare modi più adatti di comunicare la dottrina cristiana alle persone della loro epoca» (GS 62b). Si raccomanda infine che «la ricerca teologica, mentre prosegue nella conoscenza profonda della verità rivelata, non trascuri il contatto con il proprio tempo, per poter aiutare i soggetti umani competenti nei vari settori del sapere a una più piena conoscenza della fede» (GS 62g).
Secondo l’Ad gentes è compito della ricerca teologica aiutare le Chiese locali ad assumere criticamente gli elementi validi presenti nelle consuetudini e tradizioni, nel sapere e nella cultura, nelle arti e nelle scienze dei popoli in cui esse sono radicate. È l’impegno chiamato successivamente inculturazione-acculturazione. Il decreto recita così: «Per raggiungere questo scopo è necessario che, in ogni vasto territorio socio-culturale, come si dice, venga promossa la ricerca teologica, per cui, alla luce della tradizione della Chiesa universale, siano riesaminati i fatti e le parole rivelate da Dio, consegnate nella sacra Scrittura e spiegate dai padri e dal magistero ecclesiastico. Si comprenderà meglio allora secondo quali criteri la fede, tenendo conto della filosofia e del sapere dei popoli, può incontrarsi con la ragione, e in quali modi le consuetudini, la concezione della vita e la struttura sociale possano essere conciliate con i comportamenti morali espressi dalla Rivelazione» (AG 22b)
Lo scopo pastorale dell’intero curricolo di studi filosofico-teologico e degli studi teologici, in particolare, è rimarcato in modo inequivocabile dal l’Optatam totius (OT 14b, 16a). L’orientamento pastorale di tutti gli studi ecclesiastici è collegato con l’esigenza che essi «convergano concordemente alla progressiva apertura delle menti degli alunni verso il mistero di Cristo, il quale compenetra tutta la storia del genere umano, agisce continuamente nella Chiesa e opera principalmente attraverso il ministero sacerdotale» (OT 14a)
Lo scopo pastorale delle discipline teologiche è connesso con l’esigenza che esse «siano insegnate in maniera che gli alunni possano attingere la dottrina cattolica dalla divina Rivelazione, la studino profondamente, la rendano alimento della propria vita spirituale, e siano in grado di annunciarla, esporla e difenderla nel ministero sacerdotale» (OT 16a).
Come appare chiaro, la finalizzazione pastorale degli studi ecclesiastici alla formazione dei futuri pastori è intesa dal decreto non nel senso di un’attenuazione del rigore scientifico che caratterizza tali discipline ed è richiesto da un’adeguata formazione (OT 16a, 16c, 16d), piuttosto nel senso di una riforma dei loro contenuti, in modo che siano incentrati sul mistero di Cristo e sulla storia della salvezza, nel cui contesto si colloca il ministero presbiterale. In altre parole, lo scopo pastorale di tali studi suppone ed esige che le singole discipline abbiano in se stesse una dimensione o una qualità pastorale collegata ai contenuti che presentano.

Qualità pastorale di singole discipline teologiche
Lo stesso decreto, all’atto di illustrare singole discipline teologiche, offre delle indicazioni illuminanti sull’argomento in esame.
La dimensione pastorale dello studio della Scrittura è rapportato all’esegesi e alla teologia biblica per l’importanza che assumono nella vita spirituale e nella predicazione (OT 16b; DV 23, 26a).
La qualità pastorale della teologia dogmatica è messa in relazione con un suo orientamento prevalentemente biblico-patristico e storico-dogmatico, richiesto al fine di penetrare più profondamente i misteri della salvezza e conoscerne il nesso per mezzo della speculazione; inoltre, con una sua attenzione alla presenza di tali misteri nella liturgia e nella vita della Chiesa; infine, con la sua ricerca di risolvere i problemi umani alla luce della Rivelazione, di applicare le verità eterne alla mutevole condizione di questo mondo e di scoprire le modalità appropriate con cui comunicarle alle persone del proprio territorio (OT 16c).
Il carattere pastorale della teologia morale è collegato con una «sua esposizione scientifica, maggiormente fondata sulla sacra Scrittura [e diretta a] illustrare l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo» (OT 16d).
La dimensione pastorale di altre discipline come il diritto, la storta ecclesiastica, la liturgia, l’ecumenismo, le religioni non Cristiane, è connessa con una loro trattazione che sia ispirata dalla rinnovata ecclesiologia conciliare, per quanto concerne il diritto e la storia ecclesiastica, e dalla dottrina e dagli orientamenti dei rispettivi documenti conciliari, per quanto riguarda le altre materie elencate (OT 16def).
A proposito di alcune discipline teologiche, l’Ad gentes ne richiama anche l’aspetto missionario che è ovviamente incluso in quello pastorale e, in certo modo, lo specifica. «Nell’insegnamento delle discipline dogmatiche, bibliche, morali e storiche – dichiara – [si] mettano in luce gli aspetti missionari che vi sono contenuti, al fine di formare in questo modo una coscienza missionaria dei futuri sacerdoti» (AG 39c).

La teologia pastorale
Come si è precedentemente documentato, il magistero conciliare produce, pur nei limiti segnalati, una riflessione teologico-pastorale, generale e di tipo fondante. Nei suoi pronunciamenti esso non offre, invece, testi espliti al riguardo. Ciò è comprensibile se si tiene conto delle vicende storiche che hanno accompagnato questa disciplina e della sua situazione nella Chiesa cattolica alla vigilia del Concilio.
Quello che esso definisce è innanzitutto il campo proprio della teologia pastorale, intesa come teoria dello svolgimento della vita ecclesiale, con chiaro riferimento ai ministri ordinati e alle funzioni degli altri operatori apostolici. A tale riguardo, l’Optatam totius, nella parte dedicata espressamente alla formazione strettamente pastorale, esplicita i seguenti settori che entrano in una teologia pastorale speciale: la catechetica, l’omiletica, la pastorale liturgica, una pastorale dell’assistenza sociale, una pastorale degli erranti e increduli, la direzione spirituale dei fedeli, in generale, e dei membri degli istituti di vita consacrata, in particolare (OT 19a).
Con la formula generica «altri uffici pastorali», il medesimo decreto intende riferirsi a indicazioni contenute in altri documenti conciliari attinenti la conduzione della comunità (LG 28bd; PO 4-10; CD 11-18.28), la pastorale a determinate categorie di persone, una «kairologia» o scienza della situazione (PO 3.22; CD 12bc.16e; GS 4-10.19-21.43-44.62.76.91), la missiologia (Cf AG 26hg.16d.34).
Il Concilio prende inoltre in considerazione un altro compito di una teologia pastorale aggiornata: la conoscenza dei risultati di altre scienze cosiddette umane e il loro utilizzo nell’azione pastorale. L’Optatam totius menziona espressamente le discipline pedagogiche, psicologiche e sociologiche (OT 20 e 2d). E significativo che queste scienze appaiano anche in altri documenti conciliari (GE 1b; CD 14b.16e; AG 34; GS 62b) In essi si parla pure di biologia e medicina (GS 52d) e, nell’Ad gentes, di etnologia, di linguistica, di storia delle religioni e di scienza comparata delle religioni (AG 34). L’Inter mrifica tratta in generale della necessità di formare i sacerdoti, religiosi e laici nelle scienze della comunicazione in vista di un adeguato uso dei mass media a scopi apostolici (IM 15-16).
Da ultimo, l’Optatam totius distingue la natura teorica della teologia pastorale dal carattere operativo e pratico connesso con l’arte pastorale, il cui apprendimento comporta esercitazioni e tirocini appositi a ciò destinati (OT 21-22.12).
Dai richiami fatti a proposito di questa disciplina teologica s’impone spontaneamente una constatazione generale: la comprensione che il Concilio offre della teologia pastorale, del suo ambito e del suo rapporto con le scienze umane recepisce impostazioni della manualistica cattolica e dei tentativi innovatori della metà del nostro secolo. Li supera, in certo modo, in quanto ne amplifica il campo di riflessione, includendovi l’ecumenismo, le religioni, la missiologia.
In ogni caso, il suo apporto innovatore va ravvisato nel fatto che esso con il suo magistero pastorale ricopre un campo di riflessione che coincide con quello ritenuto proprio della teologia pratica, sviluppata negli ultimi secoli.
Va ricercato inoltre più nel modo con cui l’assise ecumenica fa riflessione teologico-pratica, che non nei suoi pronunciamenti espliciti circa la teologia pastorale.

 

5. La teologia pastorale dentro l’universo della teologia: lo Handbuch der Pastoraltheologie

I cambiamenti sociali e culturali, da un lato, e dall’altro lo sviluppo ecclesiologico provocato dal Concilio portano alla luce il disagio e il carattere arretrato di ciò che la Chiesa ritiene e definisce come azione pastorale – improvvisata, pressappochista, segnata dall’attivismo ma spesso anche conservativa – ovvero di quei gesti e quelle pratiche attraverso le quali trasmette la sua identità e il suo messaggio, ovvero, annuncia il Vangelo. La Chiesa si interroga per una revisione della sua collocazione nel mondo e delle sue pratiche avvertendo l’esigenza di una progettazione teologicamente fondata capace di coinvolgere tutti i settori della vita ecclesiale e rispondere all’attuale situazione di Chiesa.
La questione investe la teologia e, in area tedesca, la teologia pastorale. È, appunto, in  questo contesto che nasce il progetto del Manuale di teologia pastorale. La teologia pratica della Chiesa nel suo presente (Handbuch der Pastoraltheologie) .Pubblicato tra il 1964 e il 1969, questo manuale/enciclopedia, curato da F.X. Arnold, F. Klostermann, K. Rahner, V. Schurr e L.M. Weber, viene presentato come un aiuto e una spinta, data nel clima del Vaticano II, affinché la chiesa ripensi le sue azioni identitarie e il suo rapporto con la società (il mondo) in vista della costruzione del suo futuro. Il manuale si propone di affrontare il tema teologico-pastorale dal punto di vista epistemologico, per questo privilegia la trattazione della TP fondamentale. L’opera risponde all’intento di dare esito alle numerose ricerche teologico-pastorali precedenti, riconoscendo ormai come compito specifico di questa disciplina lo studio propriamente teologico della prassi ecclesiale.
Corrispondentemente agli intenti dichiarati, l’opera si articola in tre parti , che sviluppano rispettivamente l’introduzione, la fondazione, la realizzazione della «teologia pastorale come teologia pratica». La proposta teoretica portante è così ripresa ad un triplice livello: allo stato di progetto nell’introduzione, che, sullo sfondo di una ricognizione storica della pastorale e della teologia pastorale, traccia quelle che intendono essere le linee qualificanti del discorso pastorale del manuale (criteri per giudicare, dalla prospettiva pastorale, le strutture della Chiesa e avanzare, al bisogno, nuove proposte); in modo tematico nella fondazione, mediante l’istituzione degli elementi che concorrono a definire il campo della teologia pastorale (premesse ecclesiologiche e presupposti antropologici dell’«autorealizzazione della Chiesa»: ministeri e funzioni ecclesiali nelle attuali situazioni di cambiamento e nei rapporti vicendevoli; interpretazione del presente della Chiesa); come attuazione concreta nella teologia pastorale speciale della terza parte, dove il progetto diventa esecutivo nella elaborazione materiale delle tematiche pastorali («autorealizzazione della Chiesa» dentro i fenomeni convivenza umana nella cultura, nelle forme comunitarie, nelle situazioni fondamentali dell’uomo e in specifiche situazioni di vita; il problema del coordinamento e della programmazione della Chiesa). La conclusione del manuale indica alcune prospettive di probabile evoluzione della Chiesa nell’immediato futuro.    
5.1. Oggetto, metodo, carattere pratico e scientificità della teologia pastorale
Il principio teologico-ecclesiologico, che anima tutto il progetto, è quello proposto da Rhaner, di arrivare a studiare l’autorealizzazione della Chiesa nell’oggi. Principio desunto assumendo e facendo propria, in un contesto epistemologico trasformato, l’intuizione che era di A. Graf, ponendosi come obiettivo il superamento del deduttivismo trascendentale (una ontologia ecclesiologica che decide e domina le forme pratiche dell’ecclesiologia esistenziale) che aveva segnato il progetto originario.
Tale principio ecclesiologico delinea

  • l’oggetto materiale della disciplina (la vita della Chiesa nel suo complesso secondo il Vat. II e non più solamente la figura del pastore d’anime) e anche
  • l’oggetto formale (il presente ecclesiale, cioè la Chiesa nel suo realizzarsi qui ed ora).

Sorge così l’esigenza di immaginare una disciplina che faccia sua, nel campo della teologia, l’idea di sviluppare una ecclesiologia esistenziale e storica, accanto a quella essenziale e dogmatica. Una ecclesiologia che studi la Chiesa mettendo in luce, di questa autorealizzazione storica i soggetti, le funzioni, gli aspetti sociali, i presupposti antropologici, le strutture formali (le dinamiche, i modelli paradigmatici).
La scelta non è esente da rischi – come poi parecchi autori osserveranno – in particolare il rischio di cadere nell’ecclesiocentrismo (e infatti si osserva che nella proposta dello Handbuch la TP finisce con il dipendere dalla dogmatica, in particolare dall’ecclesiologia, in quanto la TP si presenta come una «ecclesiologia esistenziale» in definitiva subordinata alla «ecclesiologia essenziale») e il rischio di ideologizzazione (attraverso la canonizzazione dell’hic et nunc della Chiesa).
Il metodo che rende possibile lo sviluppo di una simile ecclesiologia e allo stesso tempo il superamento del limite di Graf viene rinvenuto nella intuizione rahneriana della «analisi teologica della situazione»: con l’aiuto delle scienze sociali (in funzione ancillare), la riflessione teologica si impegna nello sviluppo di una interpretazione della pratica cristiana alla luce della Rivelazione (e della guida dello Spirito). La procedura immaginata è la seguente:

  • reperimento dei principi teologici a partire dai quali sviluppare l’analisi (prospettiva di fede);
  • passaggio ad un momento di analisi critica (socio-teologica) della situazione e gli interrogativi pastorali che ne derivano;
  • successiva sosta in un momento normativo (si desumono dalla Tradizione gli imperativi per l’azione pastorale in quel contesto),
  • per concludere in una fase strategica (elaborazione di un progetto o piano operativo).

In questo modo la TP può assurgere a disciplina teologica tra le altre, con un suo specifico oggetto materiale e formale, pronta a dialogare con le discipline teologiche più classiche. L’intento è quello di collocare questa disciplina nell’universo della teologia, per affidarle quel compito di investimento sul futuro e di formazione che la Chiesa sente sempre più urgente (vedi la richiesta in ambito italiano: da arte a teologia).
Un secondo aspetto fa riferimento al carattere pratico della disciplina, per cui si deve arrivare ad orientamenti operativi che hanno un carattere di «imperatività» (si deve fare così!). A tali imperativi si dovrebbe arrivare tramite un discernimento, che ponga in circolarità ermeneutica i principi fondamentali – attinti dalla riflessione ecclesiologica e, più in genere, dogmatica – con l’analisi socio-teologica della situazione. Ne nasce una duplice serie di imperativi: norme «più alte», derivanti dall’essenza stessa della realtà cristiana, che garantiscono la conformità dell’agire ecclesiale alla propria natura originaria («conformità all’essenza»), e norme di «minor peso», derivanti dall’analisi socio-teologica, che permettono all’agire ecclesiale di situarsi correttamente nei confronti della situazione concreta in cui si colloca.
Si può rilevare come tale procedimento non superi del tutto l’impostazione deduttivistica, perché di fatto non si affronta il nodo problematico che sta alla base: «E’ proprio questo rapporto tra l’aspetto normativo dell’essenza – osserva Lanza – e quello empirico dell’operazione e della decisione, questo rapporto tra imperativo e indicativo o, in termini più moderni, tra teoria e prassi a non essere sufficientemente trattato e illuminato nella impostazione dello Handbuch» .
Anche la pretesa scientificità viene meno, là dove indicando l’opera di discernimento necessaria per correlare i due momenti si fa appello alla coscienza della Chiesa e più ad un orizzonte carismatico (la guida dello Spirito) che ad un criterio di verificabilità proprio del sapere scientifico; ciò non significa che si debba rinunciare al carattere propriamente teologico del sapere pastorale, tuttavia non appare dalla proposta dello Handbuch secondo quali criteri sia di fatto possibile articolare insieme scientificità e teologicità. Per cui è possibile ad alcuni critici misconoscere il carattere di novità della riflessione proposta rispetto al modo precedente di fare TP, in quanto sia nella manualistica classica sia nel nuovo manuale la decisione per l’azione sarebbe sottratta ad un processo conoscitivo teologico-pastorale rigoroso. Ci si affida in definitiva, alla capacità della comunità ecclesiale, come nei manuali precedenti ci si affidava alle capacità del pastore d’anime.
Lo Handbuch supera invece decisamente le precedenti concezioni, che assegnavano alla disciplina teologico-pastorale il compito di preparare il pastore d’anime. Viene affermato chiaramente che il soggetto dell’azione ecclesiale è tutta la comunità, dal momento che «tutti e tutto nella Chiesa sono oggetto della teologia pastorale» . Al di là della terminologia usata – teologia pastorale o teologia pratica – non è più possibile porre l’equivalenza tra TP e teologia dei/sui pastori, quindi nella formazione al presbiterato tale disciplina non può scadere da teologia a tecnologia per introdurre all’esercizio del ministero.
In conclusione si può affermare, dunque, che già nel manuale questo progetto di collocare la TP nell’universo della teologia, rivela alcune fatiche abbastanza evidenti, in particolare su due questioni:

  • la determinazione del principio teologico a partire dal quale montare l’analisi critica (rapporto tra analisi sociologica e interpretazione teologica);
  • la pratica esecuzione di questa osservazione della prassi (l’ecclesiologia esistenziale non è ancora una teologia della prassi cristiana).

I tre principi che già dentro il manuale e nel periodo immediatamente successivo vengono fatti funzionare per dare contenuto al processo di analisi critica sono:

  • il principio cristologico/gesuano: G. Biemer e P. Siller si chiedono in che modo l’evento Gesù può diventare attivo in maniera decisiva nella vita umana e quali sono le modalità con cui la comunità cristiana, con le sue attività, può mediare la fede dell’uomo contemporaneo. Il Gesù storico reso accessibile dalla ricerca storico-critica della tradizione costituisce la norma per la teologia pratica. H. Schuster sostiene che bisogna partire da un’aggiornata comprensione dell’evento Gesù, fondamento dell’esperienza ecclesiale della Chiesa primitiva, esperienza che diventa normativa, nelle sue motivazioni profonde, per la Chiesa dei tempi successivi. L’evento Gesù è normativo per l’intera azione pastorale e quindi per la teologia pratica. Ciò che i cristiani pensano, credono, vogliono, trasmettono e intendono manifestare nelle loro comunità non può essere altro che l’evento Gesù. E la teologia pratica ha il compito di considerare e interpretare tale evento permanente in modo da farlo assurgere a criterio (criteriologia) per vagliare criticamente la prassi cristiana ed ecclesiale e per orientarla in modo costruttivo. In questo modo la prassi dei cristiani, nel confronto con la prassi di Gesù (Gesuologia), si trasforma in un luogo teologico principale per la teologia pratica.
  • il principio antropologico / incarnazionistico: già si è visto come F.X. Arnold ha ravvisato nell’incarnazione (il mistero del Cristo uomo-Dio) il principio fondamentale destinato ad unificare l’intero discorso pastorale. È ripreso da  Josef Goldbrunner come principio necessario per superare le attuali tensioni e gli orientamenti recenti che privilegerebbero la dimensione orizzontale dell’azione ecclesiale a scapito di quella verticale, e per garantire alla teologia pastorale il suo statuto specifico che la distingue dalle altre discipline teologiche. È un principio che consente di collocare nel giusto posto l’aspetto personale dell’esistenza cristiana, ciò che non parrebbe sufficientemente assicurato dalla prospettiva pastorale di H. Schuster che assume come principio ispiratore l’evento Gesù. Pensare,  dunque, una pastorale che si collochi dentro i problemi umani concreti e quotidiani e li assuma come suo spazio proprio di intervento.
  • quello ecclesiologico (Cf. Rahner) e quello comunitarista: Ferdinando Klostermann assume lo statuto scientifico del manuale ma accoglie anche le riflessioni critiche ad esso. Egli pone l’accento sul futuro della Chiesa. L’opera prospetta un progetto di realistica utopia della struttura della Chiesa del domani. L’immagine di Chiesa che esprime è ritagliata sulla comunione e sulla comunità che trova nel Concilio un provvidenziale riscontro. Il principio comunità è inteso come strumento interpretativo della realtà ecclesiale e come schema euristico nella riflessione pastorale. Per raggiungere tale obiettivo si riferisce alla comunità di Gesù, proposta come normativa per ogni successiva configurazione della comunità cristiana. In forza del principio comunità, la teologia pastorale si istituisce come «teologia dell’attuazione vitale della Chiesa» e si costituisce una teologia pastorale fondamentale avente il compito di studiare «l’intera vita della Chiesa come essa deve realizzarsi qui-ora (Kairologia), con un dinamismo che la protende verso il futuro».

In realtà i progetti suscitano più critiche e discussioni che vere e proprie scuole di applicazione (gli influssi di questi metodi in campo italiano sono: il metodo incarnazionista dietro all’impostazione e agli studi di pastorale giovanile di Riccardo Tonelli accolta anche da Sergio Lanza; più in generale il metodo ecclesiologico e “carismatico” di Rhaner dietro al pensiero di Mario Midali, (almeno nella prima edizione del suo manuale).

Approfondimento

La questione della teologia pastorale è affrontata con incisività da K. Rhaner. Nel corso del suo lavoro teologico, egli costruisce un disegno coerente di teologia pastorale, che si precisa in occasione della partecipazione alla progettazione e redazione dello Handbuch der Pastoraltheologie (1964-1969),di cui costituisce la struttura di fondo. L’opera può essere considerata come il vertice dell’impegno di ristrutturazione del sapere teologico-pastorale posto in atto in questo momento. Con riferimento a quest’opera può essere plausibilmente rivisitata la proposta rahneriana di teologia pastorale.
Il ripensamento prende le mosse dalla ridefinizione del campo di ‘pastorale’. Abbandonata la polarizzazione sulla figura del pastore e superata la riduttività del repertorio di ciò che è praticabile nella Chiesa, «pastorale» intende la percezione e assunzione delle possibilità storiche della Chiesa, in ordine alla ripresa e continuazione dell’annuncio cristiano nella storia. In essa, quindi, viene a tema la significatività della situazione storico-culturale per la vita della Chiesa. Una corretta concezione di «pastorale» diventa critica di ogni rappresentazione dell’agire cristiano che in ultima analisi non tenga conto della incidenza della storia, quasi che la peculiarità del momento storico sia teologicamente irrilevante. Poiché, al contrario, il momento storico costituisce «l’unica possibilità rettamente comprensibile e accessibile nella sua ultima intenzione di diventare cristiani e di operarvi da cristiani», si tratta in pastorale di istituire un rapporto strutturato tra situazione storica e agire cristiano. La normatività sempre valida del dogma cattolico non svuota la problematica pastorale. Anzi, dopo che quella è stata riaffermata, si ripropone la questione della coerente presenza dell’agire cristiano alla vicenda storico-sociale.
La posizione della distinzione di «principi» e «imperativi» e il richiamo di una ontologia del singolo permettono di prendere congedo in modo definitivo da ogni modello «applicativo». Il singolo non è caso sussumibile sotto un universale e l’imperativo comprende una eccedenza non più giustificata a partire da principi universali. La differenza intoglibile di fede e realtà storica istituisce uno scarto, da mediare ulteriormente, tra principi del Vangelo e vicenda storica puntuale. La proclamazione dei «principi» incide nella storia solo entro il contesto di «imperativi» di azione, che determinano la posizione della Chiesa e del cristiano nel mondo. Si tratta non solo di enunciare «principi», ma di porre «programmi di azione», risultanti di «imperativi», che soli sono capaci di fare storia. Occorre, fra l’altro, tenere conto della finitezza dell’uomo, quando il confronto con un pluralità invincibile di principi, che all’uomo non è dato in modo connaturale di poter rispettare contemporaneamente, impone che la loro riconciliazione avvenga nella forma della «decisione». «Pastorale», perciò, si dà nella proposta e attuazione di «imperativi» e «programmi di azione», elaborati come dovere esistentivo, a partire dalla assunzione riflessa della situazione in cui la Chiesa si trova a vivere.
Poiché implica un agire libero, «pastorale» esprime una struttura di «decisione». Ciò comporta, sotto il profilo gnoseologico, la indeducibilità dell’azione concreta dai principi, pur rappresentando sempre un principio universale e pur muovendosi nell’ambito di principi universali. Sul piano ontologico, il fatto singolare non è mai semplicemente un «caso» dell’universale, ma possiede una irriducibile specificità. Appare perciò improbabile una concezione di «pastorale» come «applicazione» della dottrina e diventa insostenibile una concezione di teologia pastorale come scienza applicativa del dato dogmatico. Ci si muove piuttosto sul piano della prassi indeducibile, dove la determinazione ultima dell’azione non è il prodotto della razionalità riflettente e la riflessione tende in modo solo asintotico alla determinazione dell’azione.
L’orizzonte della «decisione» non è posto dalla coscienza soltanto naturale dell’uomo, ma è già sempre sostenuto dall’assistenza dello Spirito. In questo senso, l’agire cristiano ed ecclesiale riveste una dimensione «carismatica» o «profetica», che non è possibile emarginare. Inoltre, gli imperativi che rappresentano e promuovono l’azione storica prendono corpo entro la «opinione pubblica» nella Chiesa. Essi possono anche essere enunciati dal Magistero nella Chiesa, procedendo oltre i principi perennemente validi, in quella forma specifica di «Magistero pastorale» che supera la rigidità dell’alternativa di proclamare principi veri, ma storicamente inefficaci o di rappresentare una opinione solo privata. Sotto questo profilo, il «Magistero pastorale» configura una delle possibilità che permettono alla Chiesa di porsi nella situazione storica alla luce dello Spirito creatore di storia.
Il cuore del modello teologico-pastorale rahneriano è costituito dalla proposta di «analisi teologica della situazione». Essa costituisce il nerbo di una struttura argomentativa imperniata sulla esplicitazione di una «adeguatezza all’essenza» e «correttezza sulla situazione», la cui correlazione non è però proponibile nella forma del sillogismo ma solo in una «fedeltà non sminuita alla verità del Vangelo». Il compito pastorale suppone per la sua attuazione tematica una metodologia che risponda al duplice requisito di salvaguardare la natura teologica del discorso, dal momento che l’elaborazione di imperativi avviene nell’orizzonte della fede cristiana, e di fare puntuale riferimento alla situazione storica concreta, dato il carattere «singolare» dell’agire. La possibilità di principio di simile conoscenza è data dalla presenza dello Spirito, la cui assistenza permette di vedere la situazione «con gli occhi della fede» e fa dell’analisi della situazione un momento intrinsecamente teologico. D’altra parte, poiché l’a priori trascendentale si realizza precisamente in riferimento all’a posteriori, l’assistenza dello Spirito non rende superflua, ma esige una riflessione umana. Anzi, la guida dello Spirito diventa efficace solo in e attraverso la conoscenza umana.
L’«analisi teologica della situazione» deve quindi utilizzare «molte e raffinate metodologie». Essa non vuole essere semplice ripetizione delle scienze profane, e in particolare della sociologia, in teologia, né si intende come recezione acritica dei risultati di altre discipline. La sua realizzazione si colloca «nel cerchio dell’agire pratico» ed avviene nella singolare coincidenza di conoscere e agire, propria della conoscenza di ciò che è personale. I suoi esiti rivestono la forma di «esperimento», poiché la conoscenza dell’individuale libero rivela i tratti della anticipazione che si muove fra il «gioco» e il «tentativo». Quanto alle metodiche attuative, l’analisi teologica della situazione prevede un momento preliminare di rilevazione del dato, condotta con lo strumentario dell’indagine sociologica, cui segue una prima interpretazione del dato sociologicamente rilevato entro l’orizzonte di una teologia della storia, in una ermeneutica che coglie valore e significato teologico del dato non teologico. Su questo guadagno ermeneutico si iscrive un secondo livello di interpretazione, dove la situazione, già riletta teologicamente, è reinterpretata entro l’orizzonte di comprensione che la Chiesa ha di se stessa e del proprio realizzarsi. In questa ulteriore ermeneutica si realizza il discernimento della volontà di Dio per la sua Chiesa.
La riflessione pastorale è sempre riflessione in ordine ad una decisione e il modello sul quale si confronta è quello del «discernimento degli spiriti». La sua collocazione è segnata dal superamento della rassegnazione alla arbitrarietà soggettivistica e dell’abbandono al relativismo, da un lato, e dalla presa di distanza nei confronti del «fanatismo deduttivistico», dall’altro. Il luogo occupato dalla riflessione pastorale coincide obiettivamente con lo spazio coperto da quella virtù di cui Rahner parla in uno dei suoi ultimi interventi e che designa provvisoriamente come «anonima»: «E’ la virtù del rispetto attivo del mutuo rapporto tra teoria e prassi, tra conoscenza e libertà, e della contemporanea irriducibilità dell’una all’altra». Tra razionalità riflettente e azione concreta esiste un iato non colmabile razionalmente e che configura l’area dell’agire responsabile del soggetto.

5.2. L’evoluzione successiva
Consiste innanzitutto nel tentativo di fissazione metodologica nell’idea di una teologia pastorale ermeneutica e valutativa (discernimento), suddivisa in fasi diverse, non sempre identiche ma simili nel funzionamento .
Il pastoralista viennese Paul M. Zulehner , rifacendosi al manuale di Rhaner e al progetto di Klostermann, individua tre fasi.

  • Criteriologica: dottrina diretta ad accertare gli obiettivi inerenti alla prassi di Gesù, della Chiesa e dei singoli. Si occupa dei fini (primari irrinunciabili e secondari contingenti) dell’attività ecclesiale e dell’individuazione dei criteri di verifica dei fini. Indaga la “sicurezza dei fini” cioè consapevolezza dei fini perseguiti dalla Chiesa nella storia e assunzione responsabile della congruenza dei fini con il messaggio evangelico e con la missione della Chiesa nella storia.   
  • Kairologica: riflessione sulla situazione in cui è inserita la prassi credente ed ecclesiale  e che la Chiesa stessa concorre a determinare con la propria azione (“adeguatezza alla situazione”). Fa riferimento al Kairòs, assunto nella sua accezione biblica di “tempo salvifico”, tempo opportuno per l’iniziativa ecclesiale. Si tratta di rendere conto dei molti mondi culturali che convivono nella comunità cristiana e nella società, mantenendo sotto controllo rigoroso le triangolazioni che si innescano tra società, persona, religione. In questa fase è importante il dialogo con le scienze umane.
  • Prasseologica: mette a fuoco condizioni e modalità per il cambiamento della prassi ecclesiale (‘riforma della Chiesa’) in ordine al suo miglioramento ed ottimizzazione lungo le due direttrici della “sicurezza dei fini” e della “adeguatezza alla situazione”. L’innovazione della prassi ecclesiale appare compito storico inderogabile, cui far fronte con riconfigurazioni della prassi ecclesiale che rendano conto, insieme e inscindibilmente, della sicurezza dei fini e della capacità di aggancio delle congiunture socio-culturali.
  • Nell’ultimo volume della sua ricerca pone a tema un’altra fase che chiama futurologia pastorale cioè uno studio rigoroso della Chiesa in cammino verso la società di domani .

Il pastoralista italiano Mario Midali  propone un modello metodologico capace di integrare istanze “empiriche” (muove dalla prassi), “critiche” (rigoroso e auto controllato), “teologiche” (in ogni suo momento fa esplicito riferimento a criteri di fede). Il motivo di fondo, che scandisce il modello e ne restituisce l’unità strutturale, è rappresentato dalla progettualità pastorale. Si tratta di mettere nelle mani di quanti sono impegnati nella pastorale uno strumento che abiliti ad un’elaborazione critica e competente degli interventi pastorali. La procedura si distribuisce su tre tappe o fasi.

  • Kairologica: prende in considerazione la prassi vigente e si sviluppa in un’analisi valutativa della situazione data, nell’intento, anche, di far emergere la progettualità germinale che in essa è presente. (Analisi valutativa della situazione),
  •  Progettuale: è momento progettativo della prassi desiderata che segnala le strade che si aprono alla Chiesa a partire dal suo oggi e mette sotto osservazione le mete raggiungibili nel lungo periodo. (Fase progettativa della prassi desiderata),
  • Strategica: segna il tempo della programmazione del passaggio dalla prassi vigente alla nuova prassi. Tiene conto degli obiettivi raggiungibili nel breve e medio periodo e si preoccupa di ricuperare risorse e metodi adeguati.(Fase programmatrice del passaggio dalla prassi vigente alla nuova prassi).

Queste fasi sono a loro volta suddivise in quattro momenti: criteriologico, descrittivo-fenomenologico, ermeneutico-critico-valutativo, kairologico-normativo.
Come si può notare vi è ormai un consenso generale nell’assunzione revisionata di una metodologia che richiama la triade vedere-giudicare-agire. La TP è intesa come

  • la riflessione autocritica (ermeneutica) che il cristianesimo ha avviato ad un livello scientifico sulle forme sociali assunte per rendere visibile in modo pubblico nella società la sua memoria, le forme istitutrici della sua identità;
  • è la riflessione che il cristianesimo ha avviato sui modi (legami sociali) attraverso i quali il suo corpo prende forma, “emerge” all’interno del tessuto sociale più ampio nel quale le sue istituzioni abitano e vivono la loro storia .

Partendo dall’analisi della pratica la TP porta a scoprire le interrogazioni antropologiche fondamentali che queste pratiche veicolano, e le modalità con cui la tradizione cristiana le interpreta e le trasfigura (la TP come “discernimento”; il recupero in chiave ermeneutica del metodo vedere-giudicare-agire).
Una simile impostazione permette alla teologia pratica/teologia pastorale di allargare il campo della sua analisi:

  • non soltanto le azioni pastorali tradizionali sono oggetto della sua riflessione, ma ogni azione che permette l’annuncio/comunicazione della memoria cristiana;
  • non soltanto i tradizionali soggetti della pastorale sono punto di riferimento (il magistero, il clero), ma ogni gruppo, ogni spazio che permette di dare visibilità, di far emergere, di dare corpo al cristianesimo.

È dentro questo contesto che noi svilupperemo la nostra proposta, nella fase successiva del corso.
Più in generale una TP così immaginata per necessità non può che specializzarsi e organizzarsi in discipline più specifiche (che seguono le varie dimensioni del legame: linguistica, identitaria/istituzionale, antropologica/sociale), come anche incarnare tendenze diverse nel modo di immaginare il proprio assetto epistemologico.

 

CONCLUSIONE

Il percorso storico compiuto ci ha permesso di acquisire alcuni punti di non ritorno sul modo di pensare questa disciplina, sulle attese verso di essa e i compiti che le sono assegnati.
Come abbiamo visto la teologia pratica degli ultimi decenni ha speso molte delle sue energie nella ricerca di un metodo di lavoro (di riflessione) che le permettesse un ascolto e un contatto reale con la «pratica cristiana», un metodo che le permettesse il superamento di quel funzionamento deduttivo che ha condizionato gli sviluppi storici di questa disciplina sin dalle sue origini. Un metodo che le consenta una interazione (o «mutua implicazione» ) reale e realizzabile tra teoria e prassi, tra riflessione ed esperienza vissuta, tra teologia e azione ecclesiale, tra discorso e azione.
I modelli di ricerca studiati, attraverso le figure del paradigma empirico, critico ed ermeneutico, permettono uno studio e una riflessione che metta al centro la «pratica cristiana»: da ora in poi la prassi non può essere studiata se non a partire dalla prassi, con regole che vengono costruite dentro questo stesso campo di azione. Il riferimento alla prassi ci ricorda che ogni pratica contiene teorie. Infatti, se la teologia in genere si preoccupa della correlazione fra l’esperienza cristiana originaria (la verità cristologica) e l’esperienza delle donne e degli uomini contemporanei, lo specifico della teologia pastorale – rispetto al resto delle discipline – consiste nel fare della prassi (dell’agire) ecclesiale il punto di partenza: essa è il «luogo teologico» per eccellenza per ascoltare e comprendere tanto la parola immediata di Dio come la risposta ecclesiale più adeguata alla medesima.
Il rigore metodico della nostra disciplina, dunque, incomincia con la puntuale articolazione dell’oggetto che sono le pratiche cristiane. Occorre fare un primo sforzo per intendere il termine “pratica” in vista di un corretto approccio della riflessione teologica. Una lettura del percorso storico e dei modelli metodologici presentati (con preferenza per quello ermeneutico) ci consente di acquisire alcuni punti che diventano anche le basi per una possibile  comprensione della TP:

  • l’esperienza cristiana con le sue pratiche può essere letta e compresa come un sistema di rapporti istituiti nella società e nella cultura, come un legame sociale, a partire dal confronto con un suo modello (il legame religioso) [l’esperienza cristiana come legame sociale di tipo religioso];
  • in quanto tale, il cristianesimo inteso come legame sociale può essere interpretato, scomposto, ricomposto e progettato. Si è passati da una sua comprensione “naturale” (cristianesimo autosufficiente che si inserisce nella storia e nella cultura a volte sovrapponendosi) ad una sua comprensione “costruita” (cristianesimo che si progetta e si costruisce dentro la storia e la cultura) ;
  • in questo campo, della ricostruzione del legame cristiano, si è collocato in modo netto ed esemplare il concilio Vaticano II, fornendo elementi e strumenti, ma soprattutto uno stile .

Così intesa, la «pratica cristiana» è un nuovo campo di investigazione che richiede uno spazio della riflessione ecclesiale (della teologia) che si dedichi al suo studio, alla sua comprensione,

  • mostrando la dimensione teologica dell’esperienza ecclesiale cristiana in quanto esperienza di un gruppo sociale,
  • la qualità epifanica di questa esperienza (sulla scia di LG 8: la comunità visibile e quella spirituale sono una sola realtà; le (rel)azioni umane-ecclesiali manifestano, almeno in parte, l’esperienza spirituale cristiana perché sono già intrecciate con l’azione dello Spirito e da essa sostenute),
  • il suo funzionamento pedagogico e culturale,
  • la sua finalità spirituale (pneumatologica, di indirizzo verso il Regno) .

Questo spazio di riflessione teologica deve avere alcune caratteristiche. Ne individuiamo tre.

A. Deve essere uno spazio ermeneutico inteso come spazio di comprensione critica di come si stanno istituendo i legami sociali attraverso i quali si rende visibile nella storia (passata, attuale, futura) l’esperienza cristiana.
La TP va intesa come una ermeneutica cristiana dell’agire ecclesiale:

  • ermeneutica (comprensione critica operata a partire da un orizzonte di significato ben definito, in grado di fornire strumenti e procedimenti d’analisi);
  • cristiana (l’orizzonte di significato è dichiarato sin dall’inizio, perché non condizioni in modo ideologico la ricerca, ma fornisca in modo pubblico e ufficiale un serbatoio di senso e di significati);
  • dell’azione (l’oggetto della disciplina non è tanto il discorso cristiano, quanto le pratiche, le azioni – la cultura – in quanto strumenti capaci di portare alla luce un significato, soprattutto quel genere di significati necessari a strutturare l’identità collettiva ed individuale dei cristiani);
  • ecclesiale (oggetto di questa disciplina non è ogni tipo di azione, ma quelle azioni specifiche che per i soggetti implicati, i valori e i fini perseguiti, le dinamiche sociali implicate, i campi sociali generati, operano in modo diretto alla costruzione del gruppo cristiano (della chiesa, diciamo noi), ad una identità cristiana individuale e collettiva.

La TP ha come oggetto lo studio di tutte quelle prassi (legami ecclesiali) che generano la comunità cristiana, ai suoi vari livelli: azioni visibili, non sempre (o soltanto) ufficiali, ma sempre pubbliche.

B. In modo molto trasversale, la triade vedere-giudicare-agire ha attraversato tutta la storia recente della disciplina, segnando in modo forte il dibattito metodologico. Questa triade ha subito slittamenti di significato molto forti. Come intenderla?
Nel contesto ermeneutico appena indicato vedere-giudicare-agire vanno visti non tanto come momenti in successione di un metodo da eseguire in modo rigido, quanto piuttosto come dimensioni di un processo ermeneutico che è continuamente in funzione (si potrà quindi cominciare da uno qualsiasi dei tre verbi) e che ci permette di immaginare un rapporto non complicato tra teoria (linguaggio) e prassi (azione). In questo modo il metodo perde sia quella sua tendenza critica e rivoluzionaria (un metodo voluto per la modificazione radicale della prassi), che quella logica apprendistataria che porta a ripetere pratiche in modo mimetico senza porsi domande sull’adattamento di quelle pratiche e sulla loro inserzione dentro la cultura e la storia. Letti come dimensioni, vedere-giudicare-agire ci permettono di costruire il contesto all’interno del quale sviluppare un nostro metodo più attento e meno primitivo di lettura delle pratiche cristiane (il testo). Gli elementi dai quali non si potrà prescindere e che la triade ci indica sono:

  • il riferimento al discernimento, alla necessità di avere strumenti per compiere un’azione ermeneutica, una interpretazione di quanto osservato a partire dalla memoria che la chiesa custodisce e trasmette;
  • il riferimento alla pratica, alla costruzione sociale, all’istituzione come conseguenza delle azioni messe in atto di volta in volta dai vari soggetti o, detto in altri termini, l’assunzione della pratica come momento di istituzione del corpo ecclesiale;
  • il necessario riferimento alla cultura intesa come quel sistema simbolico espresso attraverso una lingua, che custodisce l’identità di un gruppo sociale o, detto in altri termini, il necessario sforzo di abitazione da parte dell’azione ecclesiale della cultura e della storia degli uomini.

 

Vedere-giudicare-agire potrebbe così essere spiegato, nel suo senso generale, con la triade trasmettere-istituire-abitare. Le scienze sociali hanno scoperto che qualsiasi cultura si regge attorno a queste tre dimensioni antropologiche fondamentali, dal cui intreccio nascono le azioni che permettono a questa cultura di esistere, di essere conosciuta, di produrre senso e futuro. Anche l’affacciarsi del cristianesimo dentro una cultura non avverrà, dunque, a prescindere dall’intreccio di queste tre dimensioni antropologiche a cui orienta anche il metodo vedere-giudicare-agire.

M. Midali, Teologia pratica, 157-161.

Handbuch der Pastoraltheologie. Praktische Theologie der Kirche in ihrer Gegenwart, a cura di F.X. Arnold, K. Rahner, V. Schurr, L.M. Weber, F. Klostermann, 4 volI., Herder, Freiburg i.B.-Basel-Wien 1964-1969 (tr. it. parziale Studi di teologia pastorale, 12 voll., Herder-Morcelliana, Roma-Brescia 1969).

Cf. B. Seveso, Edificare la Chiesa, pp. 228; S. Pintor, L’uomo via della Chiesa. Elementi di teologia pastorale, Bologna 1992, pp. 49-50.

 

S. Lanza, Introduzione alla teologia pastorale, p. 100.

K. Rahner, La teologia pratica nel complesso delle discipline teologiche, Nuovi saggi, III, Roma 1969, p. 158.

Cf. M. Midali, Teologia pratica, pp. 193-200; pp. 393-394; G. Villata, L’agire della Chiesa, pp. 48-51; pp. 56-59; Sul pensiero di Klostermann e Rahner: cf. B. Seveso, Edificare la Chiesa, pp. 163-223.

Cf. S. Lanza, Teologia pastorale, pp. 453-456. Tonelli legge tutta la vicenda di Gesù secondo il «criterio dell’incarnazione» (categoria fatta propria anche dal Rinnovamento della Catechesi del 1970). L’Incarnazione è, per Tonelli, «nello stesso tempo, parte dell’evento di Gesù Cristo e suggerimento metodologico, radicato sul mistero di Dio che si rivela in Gesù per la salvezza di tutti, fondamentale per l’esistenza cristiana e la sua realizzazione nel tempo» (F.-V. Anthony – L.-A. Gallo – M. Midali – R. Tonelli (cur.), Pastorale giovanile, Sfide, prospettive, esperienze, LDC (Leumann) Torino, 2003, 169). In base a tale criterio, Tonelli vede come obiettivo della pastorale giovanile l’educazione all’«esperienza di invocazione». L’invocazione sarebbe il luogo esistenziale privilegiato dove il Vangelo può risuonare come una buona notizia per la vita. Egli cerca di mostrare che tra invocazione ed evangelizzazione non vi sarebbe alternativa ma circolarità: «l’evangelizzazione…può scatenare questo processo di maturazione dell’invocazione…ma esige un buon livello di invocazione per risuonare come buona notizia» (Ibid., 177).

Ripreso da: B. Seveso, «Teologia pastorale», in Enciclopedia di pastorale. Fondamenti, I, a cura di B. Seveso - L. Pacomio, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1992, pp. 401-432; pp. 419-421.

Cf. G. Villata, L’agire della Chiesa, pp. 84-93.

Cf. P.M. Zulehner, Teologia pastorale. Pastorale Fondamentale, I, Queriniana, Brescia 1992; M. Midali, Teologia pratica, pp. 277-284; B. Seveso, La pratica della fede. Teologia pastorale nel tempo della Chiesa, Glossa, Milano 2010, pp. 925-927.

Cf. P. M. Zulehner, Teologia pastorale. Futurologia pastorale. La Chiesa in cammino verso la società di domani, IV, Queriniana, Brescia 1992.

M. Midali, Teologia pratica, pp. 403-425; S. Lanza, Teologia pastorale, pp. 444-445; M. Midali, Teologia pratica, V, Per un’attuale configurazione scientifica, LAS, Roma 2011, pp. 79-107.

Cf. M. Midali, Teologia pratica, pp. 379-402.

Cf. J. L. Moral, Giovani e Chiesa. Ripensare la prassi cristiana con i giovani 3, Elledici, Torino 2010.

«La chiesa assume il mondo della storia come specifico interlocutore per poter convenientemente “continuare, sotto la guida dello Spirito Paraclito, l’opera stessa di Cristo” (GS 3). L’istituzione di un  processo di comunicazione fra la comunità credente e l’annuncio di cui è testimone, da un lato, e la realtà storica dell’uomo, dall’altro, si pone in ordine di finalità che la “Verità rivelata” sia “capita sempre più a fondo”, “meglio compresa”, “presentata in forma più adatta” (GS 44). Questo perché l’orizzonte di Chiesa è aperto dalla percezione della presenza di “altro” rispetto alla chiesa stessa: una presenza sentita non come incombente e minacciosa, ma come stimolante e benefica e, dunque, “provvidenziale”. È segnalata in tal modo, sia pure ancora solo in termini di massima e in modo iniziale, la non autosufficienza dell’ambito ecclesiastico, che deve piuttosto comprendersi nel suo rapporto non aggirabile con la sfera dell’umano […]. Sotto il profilo del darsi storico dell’esperienza di fede, tra “fede” e “cultura” intercorre un rapporto intrinseco e non semplicemente accessorio: la fede si dà nella correlazione e differenza con una figura storica di fede, che, in quanto tale, è impregnata culturalmente. La connessione corre in modo bidirezionale: il “credere in Gesù Cristo” ha influenze sulle culture, nel senso che ne valorizza le potenzialità di umanizzazione e sollecita a correggerne le distorsioni (Cfr. EN 20), e le culture rendono servizi al “credere in Gesù Cristo, fornendo i mezzi espressivi e provocandone sviluppi inediti (Cfr. EN 63)» (B. Seveso, «Sfide e provocazioni attuali per la pastorale», in Teologia pastorale in Europa, Panoramica e approfondimenti, a cura di G. Trentin – L. Bordignon, Messaggero di Sant’Antonio Editrice, Padova 2003, pp. 309-342, qui p. 311 e p. 317).

G. Routhier, «Il Vaticano II come stile», in La scuola cattolica 136 (2008), pp. 5-32.

«La pastorale è quindi auto-realizzazione della Chiesa, nella misura in cui essa tende immediatamente alla salvezza divina della persona umana. La chiesa attua il suo essere chiesa non per affermare se stessa, ma per aiutare le persone a incontrare – in modo adeguato a ogni epoca – Dio in Gesù Cristo. La pastorale va perciò intesa ecclesiologicamente, per il fatto che essa è fondatra cristologicamente e pneumatologicamente. In altre parole: la pastorale è formalmente ecclesiologica e casualmente-finalisticamente cristo-teocentrica, nello Spirito Santo» (H. Windisch, La pastorale come l’autorealizzazione della Chiesa. La riflessione in area tedesca, in Teologia pastorale in Europa, p. 168).

 

Fonte: http://www.issr.treviso.glauco.it/ppd_issr_treviso/13/materiale/corso_di_teologia_pastorale_fondamentale-I.doc

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