Corso di teologia fondamentale

Corso di teologia fondamentale

 

 

 

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Corso di teologia fondamentale

Scrutare il tempo alla luce del Vangelo
Dispense per lo svolgimento delle lezioni

Premessa bibliografica
Questo corso incluso l’esame finale non si basano su un manuale classico di teologia fondamentale ma su di uno strumento attento al contesto teologico in cui i cristiani oggi vivono. H. Waldenfels, Teologia fondamentale. Nel contesto del mondo contemporaneo, Milano 19962 è un libro aperto al fenomeno della non credenza e del pluralismo religioso contemporaneo. Per questo si adatta meglio ad essere un testo base per lo studio della teologia per i laici, i quali necessitano sempre di una teologia pienamente inserita nel mondo contemporaneo.
Questo monumentale saggio che resiste all’usura del nostro tempo risulta inoltre in particolare sintonia con la vocazione stessa della teologia fondamentale, disciplina di frontiera (FR 23). 
La scelta non è tuttavia aliena da inconvenienti. In un manuale classico si trovano infatti tutti quei dati storici e filosofici che rendono il pensiero teologico più facilmente comprensibile. Waldenfels riporta queste parti in corpo più piccolo, a mo’ di approfondimenti, solo nei passaggi fondamentali, mentre in altri la trattazione le considera già note. Ciò può risultare alquanto indispo­nente per un principiante in quanto è facile non riuscire a cogliere il senso di pagine intere, anche a causa della barriera linguistica (dovuta al fatto che il libro è stato scritto in tedesco) non totalmente sormontabile con una se pur buona traduzione.
Occorre quindi ricordare a mo’ di introduzione che fare teologia non si identifica né con lo studio di un ragionamento una teoria della verità (ciò è proprio della filosofia) né col puro sforzo mnemonico di date, luoghi e decreti ecclesiastici (la cosiddetta parte positiva della teologia, per intendersi le “cose da studiare”). Da una parte infatti la teologia richiede una conoscenza, sempre perfettibile, dei dati di base per poter accadere: non è possibile fare teologia ad esempio senza una conoscenza minima della Sacra Scrittura che è come “l’anima della teologia” DV26. D’altra parte la teologia non si esaurisce nei dati ma li supera in una prassi evangelica e in una scelta di vita senza la quale la conoscenza dei dati diventa un inutile appesantimento. Ciò è reso possibile dalle domande che l’uomo porta dentro di se quando si accosta al mistero di Dio: proprio lo studio di queste domande che rendono possibile una teologia, è la parte dell’apologetica che studia i preambula fidei, una delledue anime che si alternano lungo il corso di teologia fondamentale (tra istanza sistematica e istanza apologetica).
Questa dinamica tra componente mnemonica ed esperienza umana, cose da sapere e ragionamenti personali, si presenta così inevitabilmente nel testo come nello spirito delle lezioni e quindi nella loro naturale conclusione.
Il corso, che si conclude con un colloquio finale, consta di tre prove parziali scritte con una parte a risposte multiple (10 domande chiuse), in cui è necessario ricordare alcuni dati, e una parte più discorsiva (5 domande aperte) in cui vi è più spazio per le sintesi personali.
Per la parte di memorizzazione e di dati la prima fonte è sicuramente la Rete: il progetto BBKL rende disponibile un breve profilo biografico e teologico dei più importanti teologi del XX secolo. Per quanto riguarda i Padri della Chiesa e i pensatori del ME o dell’era moderna molte opere si trovano disponibili; anche le traduzioni in lingua italiana (ad es. CEI) del testo biblico possono essere fatte oggetto di ricerca e studio. Nei siti delle università con facoltà teologiche italiane (ad esempio: unigre.it) si possono trovare inoltre strumenti e sussidi vari.
A completamento di queste risorse può essere utile un agevole strumento per la parte dei dati: il breve saggio di  Kern-Niemann, Gnoseologia Teologica, Brescia 20038, pp. 1-192.
Per quanto riguarda invece l’approccio apologetico questo emerge sia dal tono delle lezioni, aperte al dibattito, sia dal testo di Waldenfels. È importante a tal fine tener presente, nella lettura, prima, ma soprattutto nello studio, poi, del Waldenfels, la struttura a doppio cerchio che lo stesso autore premette all’edizione italiana. Questo particolare ci mostra come l’autore fosse consapevole della difficoltà iniziale del lettore (soprattutto causata dalle frequenti note con riferimento ai titoli  in lingua tedesca o le frequenti citazioni della Bibbia in lingua greca) nell’affrontare la lettura del testo. In questi due cerchi l’autore esprime il problema del principio di fronte alla circolarità dell’esistenza. L’invito è pertanto a un atto di fiducia iniziale perché entrando nella Teologia possiamo mantenere il giusto rigore ermeneutico. Il costo del volume e il coraggio che ci vuole per non arrendersi nella lettura è ampiamente ripagato dal fatto che questo è un vero e proprio libro per la vita destinato ad avere una longevità già più che ventennale.
Abbreviazioni
CEI     Conferenza Episcopale Italiana
FR       Fides et Ratio
DV      Dei Verbum
BBKL Bio-Bibliographishcen Kinchen-Lexicon
ME      Medio Evo
NA      Nostrae Aetate
GS       Gaudium et Spes
DTF    Dizionario di Teologia Fontamentale


PARTE II
Il dato di base: « Dio parla »
Prima di iniziare il nostro discorso sulla rivelazione occorre fare una premessa che si riallaccia alla prima parte del libro: la teologia e il suo contesto.
Siamo abituati a parlare di Dio. Iniziando lo studio della teologia ci si attende forse che se ne parli. Tuttavia potrebbe essere sorprendente scoprire che di Dio si può parlare in modo scientifico.
Il contesto interreligioso nel quale viviamo non aiuta ad avere una idea univoca di Dio: si pensa comunemente che ogni religione affermi un aspetto di Dio che tutto sommato può conciliarsi con le altre ipotizzando che vi sia un unico Dio del quale sia lecito parlare solo ai credenti. Lo studio delle grandi religioni ci pone di fronte a un problema: il Dio del Corano e dell’Islam non potrebbe mai avere un Figlio unigenito; le divinità indù non potrebbero mai tollerare di incarnarsi; il Brahman del buddismo non ha un carattere personale. Tanti esempi potrebbero confortare questo dato di fatto. Non è un caso che per intraprendere l’arduo cammino del dialogo interreligioso la dichiarazione Nostra Aetate inviti a iniziare il percorso dagli “oscuri enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo e a cui gli uomini delle varie religioni attendono la risposta” (NA 1); questo fondamento antropologico del discorso su Dio spinge inevitabilmente il dialogo verso una “idea di Dio” che è sempre oggetto di conversione. Ciò non accade invece quando la teologia parte da una rivelazione; nel qual caso il fondamento è teologico e non certo antropologico. L’invito fatto dalla dichiarazione conciliare non consiste però in una apertura incondizionata al soggettivo relativismo: se infatti la fede nella Rivelazione non può non riconoscere in essa un carattere obiettivo e universale non risulta sempre possibile porre questo carattere al centro di un approccio al discorso su Dio che sia sensibile al dialogo con le religioni e le culture ed evidenzi la dimensione apologetica.
Non possiamo poi ignorare un altro aspetto, culturalmente emergente dal progresso scientifico, che qualcuno definisce la “disumanizzazione della conoscenza”. Ciò che nel pensiero occidentale era considerata l’espressione massima dell’umanità, l’emergere dello spirito dalla materia mediante la ragione umana, è divenuto oggi strumento di potere mediante lo sviluppo della tecnica. La ragione e, in particolare, la logica sono divenute così l’ambito proprio della meccanizzazione del mondo contemporaneo. In questo contesto non solo l’idea di Dio ma anche la stessa filosofia dei principi primi è stata dichiarata aliena alla vita pratica e relegata all’ambito dell’opinabile. Dice L. Wittgenstein “Di ciò di cui non si può parlare in modo chiaro è meglio tacere”. In questo approccio tutto ciò che riguarda l’uomo vieneprogressivamente messo da parte e si instauracosì un “dominio delle macchine”. Parallelamente all’umanità anche la divinità viene messa da parte e su questo percorso di marginalizzazione dell’idea di Dio si incontrano tutti quei pensatori che negli ultimi due secoli hanno presentato l’ipotesi dell’assenza di Dio, mediante una teorizzazione dell’ateismo (che nasce di per sé come prassi).
Diventa allora urgente in un corso di introduzione alla teologia dogmatica dedicare un momento all’idea di rivelazione di “Dio” interrogandosi sulla legittimità di un discorso scientifico su “Dio” che si rivela.
Di “Dio” infatti si può parlare sotto tre aspetti che si completano e si cercano:

  • il razionale e lo speculativo;
  • l’affettivo, il mistico e l’attivo;
  • l’istituzionale e il tradizionale.

Tra questi tre aspetti esiste una unità organica e necessaria. Nessun discorso su Dio può ometterne uno senza di fatto pregiudicare la sua riuscita. Quando si iniziasse però a parlare di Dio senza tenere presente la diversità di questi tre linguaggi la “soluzione finale sarebbe quella del teismo o dell’ateismo”.
Per questo motivo occorre partire da ciò che come cristiani possiamo dire di Dio fugando ogni possibile ambiguità su un discorso totalmente misterioso su Dio (teologia apofatica che valorizza solo l’aspetto affettivo, mistico e attivo) cercando un discorso il più possibile scientifico su Dio, evitando però di ridurlo ad una idea troppo semplificata di scienza teologica (ad esempio riducendo il discorso al solo aspetto speculativo e razionalistico).
Come detto questo tentativo si radica da una parte nella fede della Chiesa che diventa una luce per avventurarsi nel mistero di Dio; dall’altra viene legittimata da quel groviglio di attese che troviamo nel cuore di ogni uomo e che Gesù è venuto a sanare. Si noti che in questo modo la teologia rimane al tempo stesso perfettamente cristiana e anche perfettamente aperta ad un dialogo interreligioso, quantunque si pensi che queste due dimensioni siano incompatibili. E’ dunque ragionevole parlare di Dio in un trattato scientifico, perché in esso convergono sia una apertura indefinita dell’uomo in quanto tale, sia la fede che risponde all’annuncio cristiano. L’equilibrio tra questa dimensione confessionale e il modello del pluralismo religioso si trova come vedremo in una concezione antropologicacristiana dell’uomo e della sua ragione. Tenendo presenti e distinti per quanto possibili i tre ambiti e linguaggi su Dio sarà più facile accettare un certo rigore scientifico nella trattazione.
La parola « Dio » è un nome
Il primo passo verso una teologia della rivelazione si deve compiere cercando una risposta riguardo alla domanda su cosa sia «Dio». Una prima definizione del Dio di Gesù Cristo nel panorama della ricerca di “Dio” viene dal genere e numero grammaticale con cui la parola si può utilizzare.Questa analisi del termine evidenzia che ci sono due modi fondamentali:

  • personale: Dio è un Tu al quale è possibile rivolgersi; un soggetto cui si attribuiscono azioni, pensieri e parole; più soggetti cui si attribuisce un genere;
  • impersonale: una qualità presente come attributo, compare e risplende mediante tutto e in tutto; esprime una totale libertà.

Contrariamente a quello che si potrebbe pensare l’uso impersonale è certamente il più antico. Il Dio del NT è invece un Tu, un Lui, cui rivolgersi in termini personali.
Lettura di Waldenfels sulla etimologia della parola «theos»
La prima caratteristica tipica della teologia cristiana anche se non esclusiva consiste nel pensare che Dio si ponga in relazione con il mondo secondo lo stile del dialogo.
Essa deriva e completa una tendenza all’antropomorfismo che troviamo già nel patrimonio biblico monoteistico.
Lettura e commento di alcuni brani dell’AT.

  • Dio appare in forma umana ad Abramo (Gen 12,7; 17,1; 18,1) a Isacco (Gen 26,22) e Giacobbe (Gen 32,23-31)
  • Dio scrive sulle tavole nella teofania del Sinai (Es 19-20)
  • Dio si commuove per il suo popolo (Is 49,15).

Altre caratteristiche del Dio della Bibbia individuabili sono :

  • il Dio dei padri: si mostra vicino al suo popolo e alla sua storia e permette di parlare di una alleanza di appartenenza. (Dt 4-9; Ez 11).
  • il Dio della predicazione di Gesù: è il Padre al quale Gesù si rivolge con una fiducia totale e del quale Egli è immagine unica (Lc 11,13; Col 1,15).
  • il Dio che parla: la parola di Dio è la logicità che si intuisce nel suo agire; il Dio biblico spiega le sue azioni mediante i suoi oracoli e le sue parole compiono ciò che dicono. Ciò è evidente quando si convoca una assise forense per dirimere le questioni tra Dio e il suo popolo (Mi 6).
  • il Dio che nasconde il suo volto: il divieto delle immagini nell’AT si pone in linea con questo primato della Parola. Il divieto di raffigurare Dio secondo immagini naturali si innesta nell’esigenza di porre al centro del culto il suo Nome e la sua Parola; l’immagine di Dio è l’uomo e non un oggetto inanimato (Es 32).

“Chi è Dio?” ovvero la questione su Dio
La fede che emerge dalla Sacra Scrittura ci invita ad alcune riflessioni sulla natura profonda del Dio che andiamo ad incontrare. Oggi si parla di Dio con una consapevolezza acuta della sua problematicità. Non bisogna stupirsi che alcune riflessioni su Dio possano risultare persino banali. E’ fondamentale iniziare da un lessico elementare e aggredire per così dire la montagna un po’ alla volta.
Le questioni che rimangono sullo sfondo come detto sono tutt’altro che banali: si può lecitamente oggi parlare di Dio? In cosa consiste la religione e a quale concezione di Dio porta? Come assecondare l’esigenza di parlarne ignorando la questione di Dio? Come spiegare del resto il fenomeno dell’ateismo?
Per partire dalle cose semplici può essere utile affrontare la questione su Dio lasciandoci aiutare da San Tommaso d’Aquino (Aquino 1224 – Fossanova 1274) che tanti secoli fa avvertì la necessità di rendere in un linguaggio accessibile l’inizio della teologia.
La “Summa Theologiae” è un opera che il nostro autore concepisce all’interno del dibattito teologico del suo tempo. La conoscenza di un metodo rigoroso mutuato mediante il suo maestro Alberto Magno dall’aristotelismo, consente a Tommaso di scrivere un opera accessibile ai principianti ma non banale. In essa il “dottore angelico” risponde in modo sistematico a tutte le domande formulate in modo chiaro da Pietro Lombardo e che fungevano, per così dire, da programma degli studi teologici al suo tempo. (Tommaso può essere ben detto l’inventore delle dispense!). Lo spirito de “La Somma Teologica” (così viene tradotto il titolo di questa opera) è dunque quello di mettere ordine nel patrimonio teologico cristiano che constava allora (figuriamoci oggi!) di una enorme serie di testi, commenti, omelie, discorsi e trattati che quasi rischiavano di nauseare il malcapitato studente.
Tommaso certamente avverte il lettore che tale ordine è da ritenersi una semplificazione; forte della conoscenza di base infatti il principiante sarà poi in grado di affrontare in modo personale le questioni teologiche e i testi classici, senza ritenersi soddisfatto di nozioni così lucidamente illustrate nel suo testo. Tuttavia la potenza dell’autore spinge la Somma ben oltre il semplice manuale per principianti e tocca punte veramente impareggiabili.
Occorre ricordare poi che lo stesso San Tommaso scrisse commenti e trattati di teologia tutt’altro che per principianti, avviandosi nel cammino della contemplazione del mistero di Dio. Proprio questo cammino lo porterà al termine della sua esistenza a giudicare come volgarmente terrene le sue ricerche e i suoi libri, secondo una classica citazione biografica (“quello che ho scritto andrebbe bruciato perché mi pare tutta paglia”). La Somma rimane un tesoro comunque indiscutibile con cui affrontare le questioni in modo scolastico e chiaro; dal XVI al XX secolo è stato il libro sulla scia del quale sono nati i manuali per gli studi teologici.
Riguardo alla nostra questione sulla natura di Dio (De Deo, an Deus sit) la Somma solleva tre questioni precise:

  • se Dio sia per se noto alla ragione umana;
  • se questa presenza sia dimostrabile;
  • come l’uomo possa conoscere qualcosa di Dio .

Riguardo alla prima domanda Tommaso affronta la questione del significato della parola “Dio”. Questa parola è universalmente utilizzata; essa può essere spiegata secondo l’intuizione di Sant’Anselmo.
La prova elaborata da Anselmo sull’esistenza di Dio, nota come “prova ontologica”, è stata poi ripresa e giudicata positivamente da Descartes e da Hegel, criticata invece da Tommaso d’Aquino e da Kant. Essa si articola nel Proslogion in tre riflessioni: a) Necessità di una purificazione interiore e di un forte impegno personale (Proslogion, 1) « Orsú, omuncolo, fuggi per un poco le tue preoccupazioni, sottraiti un poco ai tuoi tumultuosi pensieri. Liberati ora dalle pesanti cure, e lascia da parte le tue laboriose distrazioni. Dedicati un pochino a Dio e riposati in Lui. “Entra nella stanza” del tuo spirito, cacciane fuori tutto all’infuori di Dio e di ciò che ti aiuta a cercarlo, e, “dopo aver chiuso l’uscio”, cerca Lui. Di’ ora, o mio cuore, tutto intero, di’ a Dio: “Io cerco il tuo volto, ricerco il tuo volto, o Signore” (Ps., 26, 8) »; b) Credo ut intelligam (Proslogion, 1) « Riconosco, o Signore, e te ne ringrazio, che hai creato in me questa tua immagine, affinché, memore, ti pensi e ti ami. Ma l’immagine è cosí cancellata dall’attrito dei vizi, è cosí offuscata dal fumo dei peccati, che non può fare ciò che dovrebbe, se tu non la rinnovi e la riformi. Non tento, o Signore, di penetrare la tua profondità poiché in nessun modo posso metterle a pari il mio intelletto; ma desidero comprendere in qualche modo la tua verità, che il mio cuore crede ed ama. Non cerco infatti di comprendere per credere, ma credo per comprendere. Poiché credo anche questo: che “se non avrò creduto non potrò comprendere” (Is., 7, 9) »; c) La prova ontologica (Proslogion, 2-3) « L’argomento a priori: l’idea di ciò di cui non si può pensare nulla di piú grande, presente nella mente dell’uomo, comporta la necessità logica dell’esistenza di un Essere che corrisponda a questa idea. 1) Ora crediamo che tu sia qualche cosa di cui nulla può pensarsi piú grande. O che forse non esiste una tale natura, poiché “lo stolto disse in cuor suo: Dio non esiste”? (Ps., 13, 1 e 52, 1). Ma certo, quel medesimo stolto, quando sente ciò che io dico, e cioè la frase “qualcosa di cui nulla può pensarsi piú grande”, capisce quello che ode; e ciò che egli capisce è nel suo intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro infatti è che una cosa sia nell’intelletto, altro intendere che la cosa sia. Infatti, quando il pittore si rappresenta ciò che dovrà dipingere, ha nell’intelletto l’opera sua, ma non intende ancora che esista quell’opera che egli non ha ancor fatto. Quando invece l’ha già dipinta, non solo l’ha nell’intelletto, ma intende che l’opera fatta esiste. Anche lo stolto, dunque, deve convincersi che vi è almeno nell’intelletto una cosa della quale nulla può pensarsi piú grande, poiché egli capisce questa frase quando la ode, e tutto ciò che si capisce è nell’intelletto. 2) Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare il maggiore non può esistere solo nell’intelletto. Infatti, se esistesse solo nell’intelletto, si potrebbe pensare che esistesse anche nella realtà, e questo sarebbe piú grande. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste solo nell’intelletto, ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Il che è contraddittorio. Esiste dunque senza dubbio qualche cosa di cui non si può pensare il maggiore e nell’intelletto e nella realtà. 3) E questo ente esiste in modo cosí vero che non può neppure essere pensato non esistente. Infatti si può pensare che esista qualche cosa che non può essere pensato non esistente; e questo è maggiore di ciò che può essere pensato non esistente. Perciò, se ciò di cui non si può pensare il maggiore può essere pensato non esistente, esso non sarà piú ciò di cui non si può pensare il maggiore, il che è contraddittorio. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste in modo cosí vero, che non può neppure essere pensato non esistente. 4) E questo sei tu, o Signore Dio nostro.
L’intuizione di Anselmo viene riassunta da Tommaso così: Dio è un essere di cui non si può indicare uno maggiore. Inoltre essendo Dio la causa della verità non si può negarlo poiché allora ancora si affermerebbe in modo categorico una verità.
Tuttavia la Scrittura ci insegna che alcuni dicono che Dio non c’è e possiamo chiederci da dove nasca questo fenomeno.
Tommaso opera allora una distinzione terminologica (la prima di una lunga serie!): una cosa può essere evidente in se stessa e anche per noi; può però essere evidente in se e non a tutti. Se io dico che “le cose che non sono materiali non occupano spazio”  questa affermazione può essere evidente in se a tutti, ma certamente più di uno non la riterrà evidente per lui medesimo perché non ha chiaro cosa possa essere immateriale. Similmente accade all’espressione Dio esiste, visto che il predicato si identifica con il soggetto. Ciò non toglie qualche oscurità riguardo a Dio che può essere illustrata solo dallo studio degli effetti della sua presenza.
Riguardo alla seconda domanda Tommaso osserva come in genere si pensi che fede e conoscenza certa siano due cose incompatibili. Anche nella Scrittura si dice che la fede e fondamento di cose che non si vedono. Se poi la nostra conoscenza parte dalle cose che si vedono si può intuire l’oggetto della fede solo per analogia. Ma San Paolo scrivendo ai Romani dice che le perfezioni invisibili di Dio sono diventate visibili nella creazione. Ciò spinge Tommaso a distinguere due modi di dimostrare le cose: uno è quello analitico/deduttivo che esamina la catena causale illustrando le deduzioni. Uno è quello sintetico/induttivo che parte dalla condizione di ignoranza delle cause. In questo caso ci si può appigliare a ciò che appare più accessibile a noi cioè gli effetti. L’esistenza di Dio è infatti più che una verità conoscibile mediante la fede una realtà che la precede; proprio gli effetti della sua presenza ci inducono a intuire che esista anche se non possiamo procedere ad una dimostrazione analitica.
Quali sono dunque gli effetti infallibilmente divini nel mondo? Tommaso, affrontando la terza domanda,  nota acutamente che ve ne sono alcuni che lo escluderebbero: l’esistenza del male innanzitutto e poi la libertà umana e l’inesorabilità della natura.
La rivelazione biblica pone però l’esserci alla radice del nome stesso di Dio. YHWH infatti in ebraico è derivato dal verbo HWH/HYH “essere”.
Tommaso nota come vi sia un segno inconfondibile nel mondo dell’opera divina nel mondo e lo spiega attraverso alcune riflessioni successive che diventeranno nella letteratura teologica le “cinque vie”.  La questione si può riassumere nella concezione dell’infinito come realtà presente e assente nel mondo. Utilizzando un concetto caro alla matematica analitica potremmo dire che “al limite” Dio c’è.
L’esposizione magistrale di Tommaso non chiude il discorso sull’esistenza di Dio ma tocca certamente tutti i temi classicamente collegati al problema di Dio e che tornano in diversi autori anche se chiaramente con diverse sfumature ancora oggi.
Tommaso propone soprattutto di parlare di Dio. Parlandone da credente avverte come implicitamente legata l’idea di Dio al suo essere religioso. La dimensione di mistero che avvolge l’infinito di Dio non impedisce alla ragione umana di intuire ed addentrarsi nel mistero anche senza comprenderlo in modo totale.
L’idea di poter dimostrare l’esistenza o l’idea di Dio ha tuttavia affascinato molti filosofi moderni sulla scia di San Tommaso. Questi si sono cimentati nella ricerca di una formula perfetta il cui risultato fosse Dio, anche se spesso lontani da Tommaso riguardo alla conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa, considerati sempre più, in ambito filosofico, testi non “scientifici”,  si sono cimentati nella ricerca di una formula perfetta il cui risultato fosse Dio. Lo sviluppo di questo pensiero moderno su Dio è ritenuto alla base del fenomeno dell’ateismo del xix secolo: venne naturale rifiutare una idea di Dio che risultava troppo razionalizzata, troppo astratta. Già nel xvii secolo Pascal lo affermava con forza identificando nell’opera di Cartesio la radice del fenomeno del deismo, riduzione del Dio cristiano al solo aspetto razionale. A questa forma di teismo va forse imputata la risposta romantica di F. Schleiermacher e la veemente reazione dell’ateismo del xix secolo: Feuerbach , Freud , Marx e Nietzsche .
Nell’opera di René Descartes (1596-1650) si è invalsi identificare una cesura netta tra pensiero su Dio e concezione tradizionale (violando così l’inscindibilità dei tre aspetti del discorso su Dio identificati da Buckley). L’intuizione fondamentale di Cartesio è tutt’altro che razionalista al contrario invece di una certa sua posterità. Dopo aver rifiutato l’ipotesi del genio maligno il filosofo, da molti ritenuto giustamente il padre della modernità, affronta la questione del metodo anche riguardo al discorso su Dio. Nel tentativo di identificare una idea chiara e distinta di Dio il pensatore francese è costretto a isolarsi da tutto ciò che è materiale, fino a intuire la presenza di Dio nell’essere stesso dell’uomo ovvero nel suo stesso pensare.
Per quanto impeccabile sia il pensiero di Descartes fu immediata la reazione di Blaise Pascal (1623-1662): l’accusa è quella di aver costruito un Dio asettico, razionale, dei filosofi che non ha più nulla a che fare con il Dio di Gesù Cristo, il Dio presente in mezzo al suo popolo, accanto ai patriarchi di Israele e al fianco di Mosè. Il rischio paventato da Pascal troverà poi nel deismo una piena realizzazione: il Dio rifiutato poi dagli atei era un Dio necessario solo come postulato per spiegare l’inizio del mondo. Se la scienza spingeva a pensare il cosmo come un “perfetto orologio” a Dio era lasciato come unico compito quello di dare la carica iniziale lasciando che poi tutto andasse avanti da sé.
Lettura da Waldenfels delle citazioni di Descartes e Pascal.
Si potrebbe allungare la serie dei pensatori europei che dal XVII secolo ad oggi hanno affrontato la questione dell’esistenza di Dio. L’esempio dei due filosofi francesi è paradigmatica di una progressiva separazione tra pensiero e tradizione del discorso su Dio. Di altro tenore sono i testi magisteriali che la Tradizione della Chiesa ci consegna.
Innanzitutto la dottrina cristiana ha sempre diffidato la ragione umana dal presumere troppo di se stessa. Già il concilio Lateranense IV affermava in modo lapidario che “inter creator et creaturam non potest similitudo notari, quin inter eos maior sit dissimilitudo notanda
Sulla base di questo assioma di Teodicea si è sviluppata la dottrina dell’analogia entis. Essa è la risposta cattolica, cioè universalmente accettabile, alle obiezioni dell’apofatismo e di quel pelagianesimo filosofico che oggi è chiamato positivismo i quali sono come le due tentazioni della ragione umana circa la questione di Dio. Da una parte la rassegnata posizione di una certa teologia negativa che fa capo ad alcuni esponenti della mistica renana e si radica nelle affermazioni dello Pseudo Dionigi ; secondo la teologia apofatica la dissimilitudine tra creatore e creature porta ad un semplice silenzio contemplativo, rispettoso di una alterità radicale di Dio. La somiglianza tra Dio e uomo tuttavia è ribadita dalla Scrittura oltre che da tutta la teologia dell’incarnazione. Forti della carne di Cristo, d’altra parte, alcuni pensatori hanno finito con l’osservare come estremo opposto che nella natura umana vi sarebbe già una possibilità di salvezza, senza che sia necessario un aiuto della grazia divina. In questo caso si può parlare di un pelagianesimo filosofico quando si afferma che tramite il semplice pensiero l’uomo può conoscere il mistero di Dio, rendendo totalmente inutile una sua esplicita rivelazione.
Nel XIX secolo queste due tendenze passano dentro alle due correnti di pensiero del fideismo e del razionalismo. Si definisce fideismo la posizione di coloro che di fronte alle conquiste della scienza si pongono in difesa della dottrina cristiana senza accettare un reale ruolo della ragione oggettiva ma solo appoggiandosi sulla fede soggettiva: una classica posizione fideista condannata dal Concilio Vaticano I afferma che “la rivelazione divina non può essere resa credibile con segni esteriori e che perciò gli uomini devono essere mossi alla fede unicamente dall’esperienza interiore di ciascuno o da un’ispirazione privata” (DS 3033). Questa affermazione rinchiude il pensiero teologico nell’irrazionale e finalmente nell’apofatismo.  Si intende invece per razionalismo la posizione di chi pone il “dubbio positivo come fondamento di ogni ricerca teologica e la ragione come norma primaria e unico mezzo con il quale l’uomo può conseguire la conoscenza delle verità soprannaturali” (DS 2738). Si tratta in questo caso di coloro che partendo dall’idea che il cristianesimo sia una religione razionalmente molto evoluta in essa le verità si possano dedurre con la sola ragione senza il supporto di una rivelazione storica.
Il se pur breve svolgimento del Concilio Vaticano I (1869-70) ha consentito ai padri conciliari di fissare per lo meno il limite cattolico al razionalismo mentre la questione del fideismo fu solo condannata in attesa di un ulteriore approfondimento riguardo alle potenzialità della ragione umana.
“Dio, principio e fine di ogni cosa, può essere conosciuto con certezza mediante la luce naturale della ragione umana a partire dalle cose create; infatti dalla creazione del mondo in poi le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute” (Concilio Vaticano I, Dei Filius. Costituzione dogmatica sulla fede cattolica, DS 3004, corsivo nostro). Il concilio in questa affermazione, ripresa poi anche da Dei Verbum,conia l’espressione “lume naturale della ragione umana” per definire l’uso teologico della razionalità e per rivendicare una concezione più ampia di ragione rispetto a quella logico sperimentale moderna. Oltre a questa concezione sfumata di ragione la dichiarazione sulla conoscenza certa dell’azione creatrice di Dio della Dei Filius è mitigata dal verbo “può” che indica una potenzialità non sempre attuale. La certezza di cui parlano i padri conciliari è quindi esente da qualsiasi accusa di razionalismo perché vi è un ruolo per la grazia di Dio sia come lume all’intelletto sia come presenza santificante (auxilium).
Un passo definitivo in questo senso è da ritenersi il limite che il Concilio Vaticano II (1962-65) ha posto al fideismo sottolineando la portata gnoseologica della fede in Gesù Cristo. “La profonda verità, sia su Dio sia sulla salvezza dell’uomo, per mezzo di questa rivelazione risplende a noi in Cristo, il quale nello stesso tempo è il mediatore e la pienezza dell’intera rivelazione”. (Vaticano II, Dei Verbum. Costituizione dogmatica sulla divina rivelazione, DS 4202). Nella persona di Cristo forma e contenuto della Rivelazione è da intendersi il mistero, o meglio, il paradosso cristiano. Il recupero della terminologia biblica del Concilio Vaticano II da una parte, della dimensione antropologica della fede cristiana dall’altra rendono giustizia all’anima pascaliana della tradizione cattolica moderna, senza cadere nel rischio del fideismo e opponendosi in modo chiaro ad ogni tradizionalismo. Vi è secondo Dei Verbum quindi una dimensione di mistero nella Rivelazione di Dio perché essa non è una rivelazione di una dottrina fatta per mezzo di un intermediario distinto ma il suo contenuto e la sua forma coincidono con la persona stessa di Cristo. Al centro è posta dunque la sua umanità insieme alla sua divinità in una sintesi tra ragione e storia che impedisce ogni semplificazione.
La questione su Dio viene così alla luce dei due ultimi concili inquadrata in modo completo.
Da una parte l’idea di Dio viene descritta in tutta la sua universalità dalla ricerca cristiana. L’idea che l’uomo possa ricercare mediante il lume naturale della sua ragione una conoscenza certa dell’esistenza di Dio conforta il credente ad ingaggiare un discorso su Dio a partire proprio dal piano razionale, universalmente comprensibile; intendendo però per ragione non la sua riduzione semplificata secondo il modello della modernità. Un tale discorso su Dio che parta da una ragione allargata è aperto ad ogni uomo. “Le religioni non cristiane possono – afferma Karl Rahner – essere considerate religioni legittime perché contengono elementi soprannaturali di grazia largiti da Dio a causa di Cristo”. Lo studio dell’uomo e dei suoi interrogativi conduce a riconoscere un orientamento verso Dio in Cristo Gesù. Su questa tesi si colloca la possibilità di approfondire un dialogo reale sia dottrinale che pratico tra il cristianesimo e le altre religioni.
Dall’altra certamente solo l’umano-divinità di Cristo rende giustizia al Dio cristiano che nel mistero dell’incarnazione trova la sua piena Rivelazione. Di conseguenza l’aspetto razionale della conoscenza di Dio non può essere l’unico; è necessaria anche una ricerca sulla storia concreta di Gesù di Nazareth e del popolo cristiano per trovare segni e motivi di credibilità della rivelazione cristiana nella sua globalità. Rimangono così percorribili sia la strada di chi, in ascolto del suo tempo, cerca di esprimere l’idea di Dio in modo comprensibile ai suoi contemporanei; sia la strada di chi attraverso l’originalità del Dio di Gesù Cristo sfida mediante la “parola della croce” ogni teologia e ogni pensiero razionale autonomo. “Comunque – afferma DV – non è da attendersi altra rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo” (DV 4).
L’esistenza di Dio emerge così come un dato indicabile dalla ragione umana; essa tuttavia interpella l’uomo nella sua libertà ponendo la questione della sua esistenza più che un fatto teorico una realtà che pone l’uomo davanti alla questione morale. L’affermazione di una dimensione antropologica nella ricerca di Dio non cade nel rischio del fideismo quando pone l’umanità di Cristo come misura oggettiva di questa dimensione.
“In maniera più chiara che nel Vaticano I Dio viene presentato nella DV come soggetto e come contenuto dell’evento. Scopo della rivelazione non è la comunicazione di una conoscenza superiore, bensì la manifestazione del mistero fondamentale. La rivelazione introduce all’incontro col mistero di Dio, mistero fatto di bontà, sapienza e autocomunicazione per far partecipare l’uomo alla vita divina”.
Sperimentare Dio: il paradosso dell’eterno nuovo
La Somma Teologica ha avuto, come detto, diverse vicende nella storia della teologia. Per secoli fu considerata un’opera monumentale per la consultazione. Dal XVI secolo divenne sempre di più un testo di riferimento per lo studio della teologia cattolica (detta “scolastica” proprio perché debitrice dell’opera scolastica di Tommaso). Papa Leone XIII prima e poi Pio X proposero la teologia tomista come punto di riferimento nei tempi burrascosi dell’esplosione delle scienze umane e naturali (periodo dibattito tra il modernismo e la neoscolastica). Per molti l’opera di san Tommaso è diventata il simbolo della difesa della teologia cattolica da ogni forma di modernità, includendo in essa le scoperte scientifiche e il progresso tecnico.
La teologia contemporanea, soprattutto quella che nasce dal Concilio Vaticano II si identifica come detto con una rinnovata attenzione all’uomo, secondo il motto coniato dall’antropologia della costituzione pastorale Gaudium et Spes che “lo studio del Cristo rivela pienamente l’uomo all’uomo” (GS 22). Questa svolta antropologica si esprime nell’esigenza di una coscienza critica di sé, alla luce delle scienze umane come la sociologia e la psicologia. Essa permea la cultura europea contemporanea e con essa pure la teologia: in questo modo la teologia di San Tommaso è stata frettolosamente scartata e messa da parte proprio perché era stata strumentalizzata per decenni come baluardo contro la sensibilità moderna, quella stessa sensibilità che è entrata poi a pieno diritto nella teologia cattolica in seguito all’aggiornamento di Papa Giovanni XXIII e definitivamente nei testi del Concilio Vaticano II.
La vicenda personale di San Tommaso può aiutarci a capire più a fondo come la teologia si radichi nell’umanità e nella cultura di un tempo. L’opera di Tommaso era infatti stata ritenuta per molti decenni come troppo innovativa; l’applicazione del metodo aristotelico spinse molti del suo tempo a guardare a lui con sospetto. A distanza di secoli con il movimento della neoscolastica la sua opera venne al contrario identificata come il baluardo dell’ortodossia. Questo è paradossale e rende la vicenda di Tommaso paradigmatica per mostrare che nelle vicende della storia restano validi solo quei “frammenti di verità” che la Rivelazione di Dio rende visibili nel corso della storia.
La teologia neoscolastica era detta teologia perenne. Essa si pensava come priva di un elemento antropologico, ma l’ambivalenza della teologia, la sua duplice dimensione, tra eternità e storia, sono irrinunciabili. Risulta paradigmatico il fatto che lo stesso San Tommaso sia stato preso dagli uni per difendere la chiesa dal modernismo nei primi anni del xx secolo, e dagli altri (è questa una tesi del celebre studioso tomista E. Gilson) come iniziatore della svolta antropologica moderna.
Questo accade, osserva Karl Rahner in un interessante articolo sulla posterità di Tommaso, perché la teologia, al contrario delle scienze naturali, coinvolge la vita e il pensiero dello scienziato in un modo molto forte. Mentre molti matematici ignorano i particolari biografici dei grandi pensatori come Newton o Leibniz, concentrando in formule la memoria del loro lavoro, in teologia, come in altre scienze dello spirito, questo risulta praticamente impossibile. Il pensiero di un uomo non può essere consegnato ad una formula sintetica ma è il processo del pensare che bisogna ripercorrere perché un autore fiorisca in tutta la sua genuina originalità.
NB questo non significa che i cultori delle scienze naturali possano effettuare la riduzione legittimamente. Anche in queste scienze la riduzione alle formule produce storture e problemi anche se meno evidenti che nelle scienze cosiddette umane. Proprio confrontandosi con l’orgoglio delle scienze naturali nel loro primo fiorire e con l’illusione positivista che negava un ruolo all’antro­polo­gia nelle scienze cosiddette esatte era nata l’illusione della teologia perenne.
La teologia cristiana si nutre quindi oltre che della Sacra Scrittura anche delle figure dei Padri della Chiesa; ritornando agli scritti e mediante questi alle figure di grandi cristiani dei primi secoli è possibile scavare nel deposito della rivelazione ottenendo sempre una nuova esperienza dell’unico Dio che si rivela.
Da San Tommaso come da altri impariamo che la teologia è una disciplina sistematica che richiede applicazione e memoria ma che essa conduce al mistero; che si può usare un linguaggio preciso e chiaro senza perciò ridurre il proprio oggetto a sottili cerchi concettuali. La vita di Dio e dell’uomo sfuggono alle semplificazioni che le rendono troppo oggettive. Proprio l’umanità di ogni teologia cristiana ci permette di renderla attuale anche se questa traduzione richiede uno studio non solo della dottrina teologica ma anche del contesto e della vita del suo autore. Karl Rahner ha tentato in questo modo di riproporre l’intuizione delle 5 vie di Tommaso in un linguaggio pienamente moderno. Proprio questa rilettura ci aiuterà ulteriormente a capire cosa concretamente sia l’originalità della disciplina teologica e consentirà di evidenziarne la paradossalità. Il legame tra teologia tomista delle cinque vie e l’intuizione di Rahner della teologia trascendentale è costituito dalla somiglianza concettuale di orizzonte asintotico con il “non est procedere in infinitum” di Tommaso. La presenza di Dio come condizione di possibilità delle catene causali/finali viene espressa da Rahner in modo sintetico attraverso l’idea di orizzonte atematico. Chiaramente la terminologia rahneriana risente degli sviluppi della filosofia contemporanea.
Lettura: la teologia trascendentale di Rahner dal Grundkurs des Glaubens, pp.81-104.
Il discorso su Dio è la riflessione che rimanda ad una conoscenza più originaria, atematica e irriflessa di Dio. Questa è l’esperienza trascendentale di Dio, esperienza del fondamento come di un orizzonte atematico presente in ogni atto di conoscenza categoriale umana. Questa descrizione di Dio e della sua rivelazione attraverso l’esperienza trascendentale manifesta la portata della svolta antropologica del secolo xx. Innanzitutto la rivelazione non può essere intesa come una semplice comunicazione di una dottrina. Secondo il pregiudizio dell’autonomia illuminista il cristianesimo è stato visto da alcuni come al risposta più razionale alle questioni fondamentali della vita. Scartando ciò che allora appariva una inutile sovrastruttura di esso si mantenne solo una struttura dottrinale fredda e astratta, appunto razionale. Ma questa visione non rende ragione del carattere trascendentale della rivelazione cristiana così come descritta da Rahner. Successivamente il pensiero moderno abbandonando la prospettiva deista ha proposto una riduzione della rivelazione alla sola dimensione etico/religiosa.
La teologia di esponenti del romanticismo come F. Schleiermacher pur intuendo il radicamento antropologico della rivelazione presenta a sua volta una riduzione del cristianesimo alla dimensione spirituale dell’uomo. In termini rahneriani è come se ci limitassimo a prendere come rivelazione solo le sue condizioni di possibilità iscritte nell’uomo.
Solo una visione che tenga insieme la dimensione storico/antropologica e quella razionale/dottrinale risponde alla rivelazione di Dio in Gesù Cristo.
Miracoli: mito o realtà?
Contrappunto alla teologia tomista da sempre è quella agostiniana. Gli storici della teologia trovano in questi due autori, così diversi, quella doppia anima della cultura greco-occidentale che gli storici della filosofia trovano in Aristotele e Platone. In effetti il parallelismo è tutt’altro che improprio: sant’Agostino vive proprio una stagione culturale segnata da un neo-platonismo, che in ambito cristiano viene chiamato medio platonismo. San Tommaso invece insieme ai filosofi Avicenna e Averroè il responsabile della riscoperta del metodo aristotelico in Europa. Come detto l’applicazione del metodo analitico alla rivelazione cristiana lasciò in molti l’impressione di una profanazione della teologia. Certamente di fronte alla teologi medievale gli scritti di Sant’Agostino spiccano per la loro tensione affettiva e il linguaggio scientifico di Tommaso contrasta con quello ricercato e pieno di pathos di Agostino.
Lettura: Introduzione delle Confessioni
Nell’introduzione alle confessioni troviamo un modo molto diverso per introdurre il concetto di rivelazione, più attento all’uomo. Proprio l’attenzione al soggetto che identifichiamo nell’approccio agostiniano ci aiuta a cogliere secondo la visione biblica i segni della presenza di Dio.
La svolta antropologica della modernità, osserva Waldenfels, ha mutato la natura della stupore umano. Ciò che prima destava meraviglia era fuori dall’uomo; oggi la meraviglia si prova per ciò che è dentro l’uomo. Da questo nasce una diffusa avversione dell’uomo moderno ai segni esteriori di credibilità della presenza di Dio. Nei racconti biblici di miracolo invece questa dimensione dell’interiorità è sempre legata all’aspetto esteriore; non è difficile individuarla nella categoria simbolica di segno che nella scrittura forma con miracolo un binomio inscindibile (soprattutto negli atti degli apostoli troviamo spesso questi due termini accostati. Una concezione trascendentale di Dio aiuta del resto la teologia a richiedere in ogni elemento esteriore una condizione di possibilità interiore nell’uomo. Non ha dunque senso parlare dei miracoli come semplici elementi esteriori della rivelazione. Essi vanno presi in considerazione, sia quelli dell’AT sia quelli della vita di Gesù, sia quelli nella vita della Chiesa, non solo come fatti che si oppongono o superano le leggi della natura ma anche come eventi simbolici.
Lettura: Waldenfels “Segni e miracoli” pp 194-197
Comprendiamo allora in un modo nuovo anche la questione riguardo alla dimostrazione dell’esistenza di Dio. Una dimostrazione dell’esistenza di Dio che non parta dalla condizione dell’uomo come simbolo di Dio diventa una pretesa autofondativa. L’uomo non può dimostrare l’esistenza di Dio a partire dai dati a sua disposizione, come si dimostra un teorema. Questo significherebbe infatti attribuire all’uomo la capacità di “creare” Dio. La “dimostrazione (dal lat. de-monstratio) dell’esistenza di Dio si colloca invece sempre nel riconoscimento di una dimensione simbolica del reale: è più un mostrare le conseguenze dell’esistenza di Dio, i segni con cui egli liberamente decide di manifestarsi. Senza la capacità di vedere nella sua interiorità un rimando simbolico alla realtà, l’uomo si trova a cercare un rifugio nel non-pensiero, nell’analisi parossistica della tecnica e nella ricerca del dominio.
Rivelazione come autocomunicazione di Dio
La costituzione dogmatica sulla divina rivelazione ha le sue radici nei decreti del Concilio di Trento sul canone biblico e sull’uso e l’interpretazione della Sacra Scrittura. La ricezione del tridentino aveva di fatto allontanato la Bibbia dalla vita della Chiesa. Solo la riscoperta degli studi biblici e archeologici verso la fine del xix secolo ha stimolato una riflessione su questa lacuna durata secoli.
Il peso di questa storia insieme alla vivacità dei documenti magisteriali e delle scoperte scientifiche in questo campo resero il dibattito conciliare molto acceso su un tema che risultò per dominare l’intero svolgimento del concilio. Furono cinque le successive redazioni, frutto di estenuanti dibattiti e lunghi lavori di mediazione.
Al concilio si arrivò con tre tipi di attese:

  • ci si interrogava fortemente sulla pretesa inerranza della Bibbia, dopo che molte scoperte archeologiche e filologiche indicavano scenari nuovi sulla formazione del testo;
  • era necessario un chiarimento sul valore dottrinale della Scrittura accanto ai dogmi e alle espressioni del Magistero e della tradizione;
  • infine ci si interrogava su quali fossero i criteri per una corretta interpretazione della scrittura.

Per rispondere a queste richieste la commissione preparatoria elaborò un testo dal titolo De fontibus revelationis, nel quale si descrivevano il ruolo della Bibbia e degli insegnamenti della tradizione come complementari nello sviluppo della rivelazione cristiana. Ben presto tuttavia ci si rese conto che questo modo di presentare le questioni circa il rapporto tra Scrittura e vita della chiesa lasciavano molte ambiguità insolute. L’idea di una duplice fonte della rivelazione non chiariva il rapporto tra Tradizione, Magistero e Bibbia, limitandosi a porli l’uno a fianco dell’altro.
Proprio a causa di questo disagio si pervenne alla illuminante decisione di concentrare il testo su una categoria sintetica, appunto quella di “divina rivelazione”. Solo cercando di descrivere in modo armonico e unitario la rivelazione di Dio agli uomini era possibile superare il dualismo tra rivelazione scritta e rivelazione orale . Un contributo determinante fu dato dal segretariato per l’unità dei cristiani che in modo autonomo aveva curato e diffuso tra i padri conciliari un testo sul medesimo tema che elaborato in ambito ecumenico presentava una visione più organica ed elaborata: il titolo di questo testo De Verbo Dei richiama in modo significativo quello definitivo della costituzione.
Un elemento fondamentale per la comprensione di questo testo si trova al n.2 del testo. Nel descrivere la divina rivelazione affiora una terminologia moderna che non può passare inosservata. La rivelazione di Dio avviene infatti mediante gesti e parole intimamente connessi. L’introduzione dell’idea di rivelazione mediante un gesto è significativamente nuova nell’insegnamento della chiesa. Il concilio Vaticano I parlava di decreti rivelati all’uomo. La ripresa di uno studio biblico invece aveva posto i padri conciliari davanti all’evidenza che il ministero pubblico di Gesù non era fatto solo di insegnamenti e discorsi ma anche di gesti profetici e taumaturgici.
La descrizione di una divina rivelazione che comprendesse tutta la storia della salvezza doveva inevitabilmente coinvolgere anche le opere salvifiche poste da Dio a favore del suo popolo. Naturalmente questi gesti richiedono la spiegazione verbale così come ne rafforzano l’argomentazione. Emerge con chiarezza dal testo di DV2 l’interdipendenza di queste due dimensioni della rivelazione che viene per la prima volta inquadrata nel suo sviluppo storico.
Un secondo elemento di originalità di Dei Verbum è l’idea di rivelazione come autocomunicazione di Dio. Accanto alla dimensione storica della rivelazione l’accento è posto sulla sua dimensione relazionale. Il rapporto tra Dio e l’umanità non è quello di un distacco o di una neutralità ma una storia di comunione profonda e di relazioni intense. L’approfondimento cristologico tipicamente moderno consentì ai padri conciliari di mostrare come più che di una rivelazione di una dottrina religiosa, in Cristo si compì una vera e propria autocomunicazione di Dio, nella quale Dio stesso in persona si è consegnato all’umanità, come compimento di una dinamica di comunione.
Senza entrare nel dettaglio appare già da questi due elementi la novità del Concilio Vaticano II. Alle parole di Giovanni XXIII nei suoi discorsi introduttivi, che invitavano la Chiesa ad intensificare il dialogo con il mondo contemporaneo, succedettero quelle di Paolo VI, il quale cercò di sfruttare le conquiste del pensiero cattolico del xx secolo per illustrare in modo comprensibile all’uomo moderno l’identità cristiana senza cadere nelle banali riduzioni dell’era del modernismo.
Come detto questo processo non fu affatto indolore e sicuramente richiese l’intuizione di un papa e la tenacia e l’acutezza dell’altro. Assieme a questi due grandi pastori certamente svolsero un ruolo altrettanto importante tutti i vescovi presenti in concilio. Per la prima volta nella storia, paesi così distanti e diversi, professarono nell’unica fede una profonda esperienza di comunione. Proprio questo clima di fraternità e di lavoro intenso creò quell’entusiasmo tra i padri conciliari che si è soliti chiamare l’evento del concilio.
Un esempio di come la dottrina teologica elaborata soprattutto in Francia e Germania consentì di ridire in modo moderno la dottrina cristiana è il rapporto tra rivelazione e creazione. La storia particolare della salvezza (da Abramo a Gesù) si inserisce nella storia dell’umanità (Adamo) in modo armonico; da questo si deve dedurre che la creazione è già un inizio di rivelazione. L’idea che Dio si sia rivelato in Gesù Cristo come compimento di un cammino di progressiva comunione con l’umanità, lascia aperta la strada ad intendere questi stadi primitivi della rivelazione come cammini di salvezza. L’unica rivelazione che trova quindi il suo perno nella chiesa sarebbe un fenomeno che si estende anche oltre i confini di essa. In questo modo l’antropologia cristiana può affermare che ogni uomo, come dice il prologo del vangelo di Giovanni è creato in vista del Verbo; questa chiamata cristiana di ogni uomo spinge il cristianesimo a porsi in dialogo con ogni uomo di qualsiasi appartenenza religiosa. Fu proprio Karl Rahner insieme ad altri teologi cattolici a fondare questa visione organica di fede e rivelazione, fornendo gli strumenti concettuali adatti ad esprimere il carattere universale della rivelazione in Cristo. Proprio sull’universalità della mediazione di Cristo ci dobbiamo ora soffermare.


PARTE III
La via: « per Gesù Cristo nostro Signore »
La questione del Dio che si rivela ci porta inevitabilmente a riflettere sulla figura di Gesù Cristo. Come afferma Dei Verbum in lui si realizza una parola definitiva di Dio; proprio sulla pretesa di Gesù però la teologia fondamentale trova un secondo punto critico.
Ci siamo a lungo soffermati sul concetto di rivelazione per comprendere come sia ammissibile che un Dio si riveli all’uomo. Lo studio della rivelazione cristiana ci ha condotti verso una idea personale di rivelazione. L’autocomunicazione di Dio all’uomo si realizza nella sua pienezza nell’uomo Gesù di Nazareth.
Non deve però sfuggire la problematicità di questa affermazione. Come è possibile che in un uomo si realizzi la piena rivelazione di Dio?
La questione si manifesta nella sua estensione appena sottolineiamo la pretesa universale, letteralmente cattolica, del cristianesimo. La rivelazione cristiana si presenta come rivolta a tutta l’umanità: “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla piena conoscenza di Lui” (1 Tm 2,4). Essa inoltre ha un carattere spiccatamente universale anche nel messaggio dell’amore: “Dio è amore chi sta nell’amore dimora in Dio ed egli in lui”. Hegel, riflettendo su questi passi, parla addirittura del cristianesimo come di una religione assoluta sintetizzando questa pretesa: il mandato universale di predicare il Vangelo fino agli estremi confini della terra discenderebbe secondo il filosofo da una intrinseca assolutezza del messaggio evangelico.
Per contro la religione cristiana, la rivelazione di Dio in Gesù Cristo, si trova legata in modo molto stretto alla storia. Essa infatti accade in un contesto culturale ben preciso; la storia di Gesù di Nazareth poi si colloca in un periodo storico e in un popolo, quello di Israele, definito dalla scrittura il più piccolo tra tutti i popoli (anche di Nazareth, come di Betlemme, non si fanno grandi apprezzamenti nella Bibbia). Non è facile affermare l’assolutezza (assoluto i.e. non legato, sciolto) del cristianesimo rispetto alla storia anche se è vero che le sue radici non toccano certamente i protagonisti della storia antica.
Più che di assolutezza del cristianesimo si preferisce parlare di insuperabilità, di compimento o di pienezza, di definitività. Queste parole si adattano meglio al contesto biblico contrariamente al termine “assoluto” di estrazione più filosofica. L’aporia cristiana dell’universale nel concreto, del tutto nel frammento diviene così una questione centrale per la cristologia fondamentale, che nasce proprio dalla conoscenza di Dio mediante un mediatore. Queste espressioni rimandano al prezioso lavoro teologico del gesuita Hans Urs von Balthasar.
Gesù storico: una cronologia
Gesù Cristo è indubbiamente il personaggio storico sul quale si sono scritti più libri. Di lui si affermano tante cose, a volte anche difficilmente armonizzabili. Per fare chiarezza in teologia si possono distinguere quattro approcci alla figura storica di Gesù classificandoli a seconda del significato che si attribuisce al titolo Cristo, al quale il nome di Gesù è spesso così unito da diventare quasi parte del nome.
Il prologo del Vangelo di Marco accosta a questo titolo un altro tipico della teologia cristiana: Figlio di Dio. Questo secondo titolo frutto di un ebraismo si è specificato nei concili dei primi secoli come “della stessa natura” di Dio; Dio da Dio. Parlare di Gesù il Cristo in questa accezione significa parlarne a partire dalla sua natura divina. Gesù, nato da Maria, è il Verbo eterno del Padre che ha posto la sua dimora in mezzo a noi. Si parla in questo caso di una Cristologia dall’Alto: esempio tipico è la riflessione cristologica del IV vangelo (Gv 1,1-18).
Un’altra parte di letteratura cristiana attribuisce in modo primario a Gesù i connotati profetici del “banditore del regno di Dio”: sulla scia dei personaggi biblici Gesù è descritto come il Figlio dell’Uomo, come Colui_che_deve_venire ; in lui si riconosce la grandezza di un ministero terreno nel quale, fino alla morte sulla croce, ha inaugurato i tempi nuovi ricevendo dal Padre la conferma della risurrezione. Sottolineando la vicenda umana di Gesù si è soliti contrapporre quest’approccio al precedente definendolo una Cristologia dal Basso: la riflessione dei vangeli dell’infanzia (es. Lc 1-2) viene incontro a questa esigenza ponendo in parallelo Gesù con la figura di Giovanni il Battista .
La presenza continua di Gesù all’interno della comunità credente – costituita dai discepoli prima della risurrezione e dalla chiesa dopo – pone un terzo modo di intendere la professione di fede in lui come nel Cristo. In quest’ottica Cristo è considerato il mediatore di una sapienza divina. Questa si comunica solo mediante la vita della comunità che si può legittimamente dire depositaria di una nuova conoscenza o gnosi (dal greco gnosis). Per gnosi si intende quella serie di fenomeni insiti al cristianesimo che esprimono il tentativo di armonizzazione tra rivelazione cristiana e ragione umana. La vera gnosi illustrata per la prima volta nelle opere di Clemente Alessandrino (III secolo d.C.) comporta una visione trasfigurata delle cose e del mondo. Il ruolo centrale assegnato alla vita della comunità cristiana ha consentito che all’interno del movimento cristiano si sviluppasse anche il fenomeno eretico dello gnosticismo. La sapienza o mistica cristiana che si sviluppa nella storia della chiesa è detta Cristologia dal di dentro.
Può essere però altrettanto interessante considerare come si parla di Cristo nei contesti della filosofia e delle religioni. A Gesù Cristo infatti si sono interessati anche uomini che non professano la fede in lui aderendo alla comunità dei credenti: ciò nonostante il rispetto e la passione con cui parlano della figura di Gesù di Nazareth non lascia dubbi che in un certo senso anche loro vedano in Lui il Cristo, attribuendo a questo titolo però, di volta in volta, sfumatura certamente originale, anche se non sempre scorretta o estremamente di parte. Si può parlare in questo caso di una Cristologia dal di fuori.
Lettura delle pagine su Ernst Bloch.
L’armonia di voci che emergono da questi approcci contribuisce certamente a chiarire il contesto e la storicità dell’esistenza di Cristo: in questo ambito gli studi biblici dell’ultimo secolo hanno sicuramente aiutato a leggere ed interpretare i testi su Gesù sia biblici che extrabiblici.
Il dato innegabile della prospettiva pasquale è il primo punto sul quale occorre riflettere prendendo in considerazione le fonti bibliche che ci permettono un accesso alla figura “storica” di Gesù. Non è possibile attingere allora ai dati evangelici sulla vita di Gesù prescindendo dalla professione di fede in Gesù Risorto. Gli studi sul processo di formazione dei vangeli attestano che proprio i racconti della risurrezione sono i più antichi e i primi a formarsi nelle prime comunità cristiane, mentre l’interesse alla vita storica di Gesù è successivo alla necessità di raccontare della sua risurrezione.
Un esempio eclatante di tale inversione cronologica nel NT è rappresentato dai racconti di guarigione che troviamo nel vangelo di Marco, forse il più antico dei quattro testi. In questi passi l’atteggiamento di Gesù e sistematicamente impostato secondo quello che una certa esegesi chiamava il segreto messianico, il fatto cioè che Gesù si opponesse ad un pubblico riconoscimento di lui come messia. Il silenzio chiesto ai suoi discepoli e alle persone che guarisce viene sì spiegato dal rischio di essere fatto oggetto di interessi politici; volevano farlo re. Allo stesso tempo però l’insistenza con cui si presenta questa richiesta di Gesù tradisce il desiderio dell’evangelista di non arricchire di anacronismi il racconto su Gesù che per essi non poteva non essere già il Cristo, il Risorto.
Come detto l’avvio di studi biblici a partire dal secolo xix ha cambiato notevolmente l’approccio alla Sacra Scrittura. Lo sviluppo del metodo storico critico in ambito protestante e il nascere del movimento biblico in ambito cattolico hanno modificato sostanzialmente il modo con cui si accostano i testi del Vangelo.
La Formgeschichte sviluppatasi poi in Redaktionsgeschichte è una scuola di approccio alla Sacra Scrittura che parte come reazione alla teologia liberale dei secoli xix e xx. Rappresentante della teologia liberale tipico è lo storico e teologo protestante tedesco Adolf von Harnack (1851-1930). Questi accostandosi a Gesù Cristo con una ragione ormai divenuta refrattaria all’invisibile e al trascendente, lo riconsegna spogliato della divinità — e quindi della fede nella Trinità — e ridotto a maestro di morale. In opposizione a questa lettura semplificata della figura storica di Gesù si sviluppa una storia/critica delle forme, detta anche metodo storico critico, che colloca il suo inizio negli studi di Hermann Gunkel sulla bibbia ebraica; attraverso uno studio critico filologico il metodo storico critico poggiando anche sui dati storico archeologici formula ipotesi sulla formazione dei testi biblici. Tipico di questo approccio alla Scrittura è la descrizione del contesto vitale di formazione di un testo (Stiz-im-Leben) e del conseguente genere letterario. Le varie ondate di studi critici a partire dai testi evangelici hanno tuttavia prodotto risultati contrastanti. Nata in contesto tedesco, la Leben Jesu Forschung(=LJF) risponde all’esigenza di saperne di più sulla figura storica di Gesù. Le tante ipotesi fatte su di lui, le biografie scritte, riempiendo le lacune cronologiche dei testi evangelici, durante il xviii e xix secolo non furono una novità. Già i vangeli gnostici si erano avventurati su questa strada. La novità di questo lavoro consisteva nella rivendicazione di una pura scientificità. Non passarono molti anni tuttavia che questo approccio alla vita del Gesù terreno si manifestò in tutta la sua debolezza. Delle tante biografie scritte su Gesù di Nazareth non era possibile fare una raccolta coerente perché sembrava che il tentativo di attualizzazione che era sotteso ad ognuna di queste opere si rivelasse troppo violento nei confronti del dato storico. Chi Gesù fosse rimaneva piuttosto oscuro: in queste biografie emergevano invece con forza le idee e le convinzioni dei loro autori. La prima dichiarazione di fallimento della LJF, ad opera di Albert Schweitzer nel 1906, tuttavia invece che mortificare stimolò notevolmente gli studi biblici che approfondirono il contesto biografico dell’esistenza di Gesù; alcuni studiosi pochi decenni dopo dimostrarono che le peculiarità del testo evangelico rispetto all’ambiente storico dovevano essere accettate come verosimili vista l’impossibilità morale di pensare una improbabile invenzione. Il criterio della discontinuità con il contesto giudaico del suo tempo mostrò ben presto una figura di Gesù storicamente credibile e il progresso degli studi filologici e archeologici portò gli esegeti a riprendere in considerazione la veridicità storica dei fatti raccontati nei vangeli. Anche il vangelo considerato più teologico, Giovanni, conterrebbe secondo recenti studi notevoli notizie storiche attendibili su Gesù e sul contesto. L’affermarsi del metodo storico critico, non è tuttavia esente da limiti come emergono anche dalle difficoltà di sviluppo incontrate nel versante cattolico.
Il movimento biblico cattolico ha avuto inizi difficili nella seconda metà del xix secolo; tappe importanti del suo nascere sono la fondazione dell'École Biblique a Gerusalemme di studi biblici e archeologici per opera del domenicano p. J.-M. Lagrange (1890); l'istituzione della Pontificia Commissione Biblica (1902) ad opera di Leone XIII e la fondazione del Pontificio Istituto Biblico in Roma (con succursale a Gerusalemme) per volere di Pio X (1909). Promuovendo la nascita di un tale movimento, nel 1893 papa Leone XIII, parlando degli studi della Sacra Scrttura, cercò con una lettera enciclica di « stimolarli e raccomandarli» e anche di «orientarli in una maniera che corrispondano meglio ai bisogni dei tempi». Intervento moderatore ma anche stimolante del magistero, successivo alla enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII (1893), fu la Divino afflante Spiritu di Pio XII (1943) che accompagnò il movimento biblico fino alla sanzione positiva e alle nuove forme d'impulso ricevute dal Concilio Vaticano II. Nel 1993 la Pontificia Commissione Biblica rese omaggio al centenario dell’enciclica Providentissimus pubblicando un testo sull’“Interpretazione della Bibbia nella Chiesa” che risulta molto importante per orientarsi in questo secolo di sviluppi ed accoglie non senza riserve e correzioni le più importanti conquiste del metodo storico critico.La recente opera di Joseph Ratzinger Gesù di Nazareth contiene nella lunga prefazione una rilettura del valore e dei limiti del metodo storico critico.
Grazie agli studi e alle ricerche storiche sul tempo di Gesù è possibile oggi giungere ad una cronologia approssimativa dei fatti riguardanti Gesù e della redazione dei testi del NT. In questo quadro di insieme sarà dunque possibile descrivere in modo più preciso cosa si intenda per storicità dei vangeli e quali conseguenze vi siano per la fede in Gesù il Cristo.
Lettura di Waldenfels, 307-308
La prima cosa che notiamo tuttavia è che questa cronologia presenta tre cesure. Di fronte alla crisi galilaica, alla tragica morte di Gesù e alla conclusione della fase redazionale del NT ci troviamo sprovvisti di una lente scientifica che possa oltrepassare queste soglie senza includerle nell’osservazione come categoria interpretativa del testo. Vedremo a proposito della risurrezione come Bultmann approfitti di questo dato ermeneutico per insinuare un dubbio radicale sulla LJF questione del Gesù storico. Occorre tenere conto di questi tre momenti salienti della nascita della fede cristiana per evitare affermazioni superficiali sulla storicità quasi da cronaca dei testi del NT.
Alcuni punti possono aiutarci a delineare la figura di Gesù prima della pasqua:

  • Innanzitutto è innegabile che Gesù sia apparso ai suoi contemporanei come un profeta. I suoi gesti così carichi di simbolicità e così in tensione con il patrimonio cultuale dell’AT ci spingono a riconoscere in lui un profeta sui generis. In effetti la definizione di profeta sta un po’ stretta a quel Gesù che noi diciamo Figlio di Dio.
  • Riconoscendo una dimensione profetica nel ministero di Gesù è lecito chiedersi di quale parola sia stato portatore il “più che profeta” Gesù. Troviamo all’inizio del Vangelo di Marco una indicazione programmatica: la predicazione di Gesù è sintetizzata in un vangelo a proposito del regno di Dio. In effetti i discorsi e gli insegnamenti di Gesù riportati nel vangelo trovano nel riferimento al regno di Dio una chiave di volta.
  • Questo regno appartiene ai poveri in spirito, coloro che sanno superare la giustizia dei farisei e degli scribi, portando a compimento la legge data agli antichi. In esso Dio rivela agli uomini il suo vero volto di padre misericordioso e provvidente.
  • Infine è necessario considerare come di fronte alla predicazione di Gesù monti un rifiuto sempre più radicale da parte dei giudei. La parola sul regno di Dio sembra essere difficile da capire e “quelli di fuori non intendono”; questa è la motivazione che troviamo nei vangeli al parlare di Gesù in parabole. L’annuncio del Vangelo dunque non è un semplice annuncio di una nuova dottrina, né di una nuova legge. Le parole di Gesù ci fanno entrare in una prospettiva nuova e inattesa.

Sembra infatti che il regno di Dio non si possa identificare con un intervento divino sull’umanità che riporta giustizia e pace un giorno. Sebbene ciò possa destare incredulità Gesù afferma che il regno di Dio è già presente nel mondo anche se i segni della sua presenza sono deboli e contraddittori.
Studi recenti sulla categoria di Regno di Dio ci invitano a pensare che esso non solo è annunciato da Gesù ma è realizzato anche se in modo germinale nella sua persona. Il regno di Dio annunciato è in un certo senso il suo stesso destino. Le opere compiute da Lui e i suoi insegnamenti non sono un semplice segno che indica il regno che deve venire ma sono simbolicamente manifestazioni di un regno che già c’è anche se non pienamente.
Nell’annunciare il Regno quindi Gesù in un certo senso annuncia anche se stesso: il Padre opera in lui e le opere da lui compiute sono solo quelle del Padre, ma questo significa che il Padre ha un rapporto di figliolanza tutto speciale con questo rappresentante del regno. Si comprendono in quest’ottica tutti i passi del vangelo in cui Gesù si ritira in preghiera, o la stessa frase alla Maddalena il giorno di Pasqua in cui si distinguono due paternità di Dio nei confronti del Figlio unigenito e nei confronti dei discepoli.
Certamente Gesù si è rivolto in modo tutto speciale a Dio impiegando l’appellativo di ‘Abba’, in cui emergono tutta la sua tenerezza e provvidenza. Recenti studi hanno cercato di mostrare anche come questo possa aiutare a descrivere la coscienza che Gesù aveva della sua figliolanza divina.
La consapevolezza che alcuni brani del racconto evangelico contengono parole o gesti che risalgono con una buona probabilità a Gesù e non sono solo una rilettura della comunità credente sulla vita di Gesù si poggia come detto su di un secolo di studi storico-biblici.
Tra il Gesù banditore e rappresentante del regno di Dio e il Cristo della fede si pone però come cesura fondamentale la sua morte.
Gesù storico: il mistero pasquale
Un discorso a parte merita la trattazione della pasqua, del mistero di morte e risurrezione di Gesù. In esso infatti troviamo il centro della professione di fede cristiana.
È doveroso chiedersi come Gesù abbia visto la sua morte: è lecito infatti chiedersi se i riferimenti alla dimensione salvifica della sua Croce siano da intendersi come una rilettura pasquale effettuata dalla comunità credente alla luce della risurrezione. Il carattere espiatorio e di dono con cui viene arricchita la morte di Gesù nella rilettura del nuovo testamento lasciano apparentemente aperta una questione circa la libera e consapevole adesione al progetto di Dio su di lui.
Da una parte suona incongruente con il NT l’affermazione che la morte di Gesù debba essere considerata come una tragica conclusione e sia stata vista da lui stesso come un fallimento della sua missione. Questa inquietante ipotesi descritta da Bultmann come una possibilità che non si può tacere prende spunto da alcuni passi dei racconti evangelici della passione/morte. Nel processo Gesù non si difende; durante la morte emette un forte grido in cui parla di abbandono da parte del Padre; i discepoli scappano; sotto tanti punti di vista la morte di Gesù è tutt’altro che un passaggio dell’esistenza di Gesù.
La morte per ogni uomo è il momento in cui si fa senso di una intera esistenza; anche per Gesù in essa è dunque possibile ricercare un messaggio in linea con il ministero terreno di Gesù profeta escatologico del regno. Questo non significa svuotare la morte di Gesù del suo tono drammatico; tuttavia sembra che gli stessi testi del Vangelo ci aiutino a cogliere una profonda continuità, pur nella discontinuità tra la vita pubblica di Gesù e la sua morte.

    • Innanzitutto la causa della morte è individuata nella controversia con i Giudei: al processo di Gesù si raccolgono tutte quelle dinamiche di contrapposizione che emergono lungo il racconto evangelico. Nel Vangelo di Marco già al capitolo 3 i farisei si raccolgono per trovare un modo per farlo fuori.
    • Come abbiamo visto anche il successo della predicazione trova un momento di crisi, in cui sembra che anche i discepoli facciano fatica a seguire Gesù. Forse è da identificare nella crisi galilaica una prima presa di coscienza della futura morte: non a caso proprio nel vangelo di Marco dopo la professione di fede di Pietro a Cesarea Gesù inizia un ripetuto insegnamento per i suoi discepoli riguardo alla sorte del Figlio dell’uomo.
    • La salita di Gesù a Gerusalemme è accostata nei vangeli con la morte dei profeti: proprio nella direzione decisa che Gesù intraprende verso Gerusalemme troviamo un secondo elemento interpretativo della sua morte. Lo scontro con le autorità del tempio non era più procrastinabile anche se prefigurava un probabile esito drammatico.
    • Solo però nell’ultima cena troviamo un segno evidente di novità riguardo alla interpretazione della morte di Gesù. Troviamo infatti in questi racconti alcuni riferimenti espliciti al regno di Dio e alla nuova alleanza che aprono non solo ad una lettura consapevole della morte di Gesù  ma anche la collegano alla dimensione salvifica del dono. Nell’Eucaristia Gesù si consegna alla morte spargendo il suo sangue per i molti, e inaugurando il tempo nuovo del regno che viene.

Un discorso a parte meritano invece i racconti della risurrezione di Gesù.
Come già ricordava Schweitzer nella sua storia dello studio sulla vita di Gesù:
«L’indagine storica sulla vita di Gesù non è partita dal puro interesse storico ma ha cercato il Gesù della storia come colui che poteva aiutarla nella lotta di liberazione dal dogma»
Il dubbio sistematico sulla tradizione di fede e interpretazione del Nuovo Testamento porta la teologia cristiana all’assurdo. Le tecniche interpretative e le manipolazioni della teologia non possono permetterci di saltare tutta la storia della fede e delle interpretazioni sulla vita di Gesù. Questa consapevolezza guidò alcuni teologi protestanti a  concludere che questi limiti della ricerca umana  non fanno che esaltare la potenza di Dio. La teologia dialettica, e con essa il suo maggior esponente, Karl Barth, formulò l’idea che proprio sulla parola di Dio occorreva scommettere la propria fede e non tanto sulla base di dati storici forniti dalla scienza. L’unico scopo dello studio storico critico nonpotrà mai essere quello di fornire fondamenti alla fede, ma quello di spaventare i credenti di fronte alle apparenti contraddizioni che il vangelo mostra agli occhi incapaci di fede degli storici. Altri esponenti della teologi dialettica giungono ad affermare che la ricerca storica su Gesù è illegittima. Nasce in questo contesto la lettura di Rudolf Bultmann dei racconti evangelici e in particolare della risurrezione, o meglio del sepolcro vuoto e delle apparizioni ai discepoli.
Per comprendere il lavoro teologico di Bultmann occorre introdurre due distinzioni che egli opera nella lingua tedesca. Innanzitutto egli parla di due tipi di storia. Vi è una storia che effettivamente descrivibile nel suo decorso oggettivo; vi è anche però nella storia un valore che essa riveste per l’uomo e quindi per lo storico stesso. Si dirà allora che un evento può essere historisch (cioè può essere raccontato come cronaca) ma non necessariamente geschichtlich (cioè dotato di un significato per me). Allo stesso modo vi può essere un fatto che ha una portata esistenziale per chi lo racconta o per chi lo ascolta, e tuttavia non può essere ricostruito secondo i canoni della cronaca moderna. In questo senso Bultmann distingue i prodigi dai miracoli, attribuendo al primo termine un carattere storiografico e al secondo uno storico-critico.
Una seconda distinzione terminologica è quella tra mito e storia. Mutuando una definizione degli studi comparati delle religioni Bultmann parla di mito come di un modo umano, figurato, di esprimere l’intervento divino nella storia: rimane aperta la possibilità che questa figura sia veramente un segno di una azione diretta di Dio oppure sia un insegnamento, una dottrina, una morale che Dio vuole comunicare all’uomo.
Forte di questo lessico Bultmann non ebbe paura di affermare con forza il carattere mitico dei racconti del nuovo testamento, così come quelli dell’antico.
Interrogandosi su come rendere comprensibile l’intervento di Dio che, secondo l’assunto di Bultmann rimane necessariamente distinto dallo svolgersi della storia e dalla materia, l’autore individua i racconti della risurrezione di Gesù come delle interpretazioni figurate del significato della Croce di Gesù. I punti forti della sua argomentazione sono:

  • tutta la tradizione liturgica della Chiesa afferma che vi è una profonda unità del mistero pasquale di passione morte e risurrezione: il risorto è il crocifisso;
  • la risurrezione in quanto tale è un fatto che sfugge dalla cronaca, e quindi anche dalla storia in senso stretto; il corpo glorioso di Gesù non appartiene a questo mondo ma al Padre. Il fatto della risurrezione può quindi essere definito metastorico.

La tesi di Bultmann allora si può esprimere così: Gesù è risorto nel kerygma. La risurrezione di Gesù non dovrebbe intendersi in modo letterale ma sarebbe una lettura mitica del significato profondo della morte in croce di Gesù. Come abbiamo visto questa morte non si può considerare solo un momento finale della vita di Gesù ma contiene in se stessa un messaggio profondo; la libera accettazione e il dono di sé che Gesù fa nella sua morte sarebbero sufficienti per intuire la redenzione, la salvezza che viene da Lui.
Dire che Gesù è risorto nel kerygma presuppone che il kerygma stesso sia « un evento escatologico; e afferma che Gesù è realmente presente nel kerygma, che è la sua parola  a colpire l’orecchio dell’uditore nel kerygma. Se le cose stanno così tutte le speculazioni sul modo di essere nel Risorto, i racconti del sepolcro e le leggende di Pasqua sono indifferenti, per quanto possano contenere elementi riferentisi ai fatti storici e per quanto vero possa essere il loro contenuto simbolico. Il senso della fede pasquale è credere nel Cristo presente nel kerygma ».
La conclusione di Bultmann è lapidaria. Tra il Gesù della storia e il Cristo della fede c’è un salto che la comunità primitiva ha fatto e nessuno può ometterlo. Paradossalmente la riflessione di Bultmann cerca di aggirare il problema dell’incertezza che emerge dalla questione del Gesù storico. La scelta di concentrarsi sull’annuncio del Cristo della fede consente a Bultmann di ritenere marginale ogni dato “storico” su Gesù eccetto il fatto che sia realmente esistito.
L’applicazione sistematica della demitizzazione ai testi del Vangelo però apre una voragine senza limite tra il Cristo della fede, cioè la professione di fede in Cristo come Verbo di Dio incarnato, salvatore del mondo, alfa e omega della storia, e il Gesù della storia, rabbi del tempo di Augusto, morto in croce. Il confine tracciato da Bultmann infatti per la demitizzazione può essere sorpassato da altri che accolgono la sua tesi; la marginalità della dimensione storica può ben presto trasformarsi in una scettica negazione di ogni storicità dei Vangeli.
Per quanto il pensiero di Bultmann sia sfumato e attento alle derive estreme possiamo intuire nelle sue stesse tesi un rapporto di tensione tra la fede dei credenti e la storia, secondo una sensibilità tipica della riforma protestante. Uno studio accurato dei testi del Nuovo Testamento suggerisce anche un’altra pista percorribile che collochi il rapporto tra Cristo della fede e Gesù della storia in una armonia feconda.
I testi riguardo alla risurrezione possono come detto essere classificati in:

  • racconti circa il sepolcro vuoto;
  • racconti di apparizioni ai discepoli.

Si noti innanzitutto che sebbene la risurrezione di Gesù possa considerarsi un evento metastorico entrambi i racconti hanno a che fare con la storia.
Da una parte era impossibile raccontare la storia del sepolcro vuoto al tempo in cui ancora i testimoni oculari erano in vita; il fatto storico del sepolcro vuoto sembra quindi indubitabile. L’interpretazione di questo fatto è lasciata libera dai testi evangelici (Cfr. la storia raccontata dalle guardie in Mt 28 circa il furto del cadavere) ma non si può tacere della storicità della lastra sepolcrale trovata vuota.
Anche riguardo alle apparizioni occorre notare che vi è un fatto storico identificabile. Il cambiamento di atteggiamento dei discepoli che passano dalla sconfitta/dispersione all’annuncio del Cristo Risorto non appare giustificabile da un semplice ragionamento sulla morte di Gesù, ma deve risalire ad un fatto realmente accaduto.
Altrettanto chiare sono le riletture della comunità credente.

  • I racconti del sepolcro vuoto possono essere rivestiti di una necessità cultuale. Proprio la lastra sepolcrale, unita alla tavola dell’ultima cena contribuisce a formare la tradizione cultuale dell’altare cristiano. E’ probabile che fin da subito il luogo verso il quale Pietro e l’altro discepolo corrono il mattino di Pasqua sia divenuto meta di pellegrinaggi e luogo di culto per la prima comunità di Gerusalemme.
  • Le apparizioni di Gesù vengono descritte secondo i canoni delle teofanie dell’AT. In questo modo di raccontare le apparizioni emerge l’intenzione dell’autore di identificare Gesù con volto del Dio dei padri, che nella storia del suo popolo si era manifestato molte volte e in diversi modi (Eb 1,1).

La presenza di queste “riletture”, di queste interpretazioni non autorizza certamente a ridimensionare la portata storica dei racconti evangelici che stanno alla base della fede cristiana.
L’analisi del nuovo testamento porta a considerare il resoconto di Paolo in 1 Cor 15, 3b-8 la forma più antica di annuncio pasquale.
Vi rendo noto fratelli, il vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo manterrete nella forma in cui ve l’ho annunciato: Altrimenti avreste creduto invano! Vi ho trasmesso anzitutto quello che anche io ho ricevuto: che (‘oti) cioè Cristo mori per i nostri peccati secondo le Scritture, (‘oti) fu sepolto ed (‘oti) è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che (‘oti) apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo tra tutti apparve anche a me come ad un aborto.
Waldenfels sottolinea che la struttura quadripartita grammaticalmente suggerita dalla particella greca  oti aiuta a cogliere i quattro punti fondamentali dell’annuncio cristiano (kerygma): ognuna di queste parti mostra in uno stretto parallelismo la vicenda di Gesù e quella della Chiesa primitiva. Sembra quindi contro lo stesso Nuovo Testamento contrapporre la vicenda storica di Gesù con la fede dei discepoli.
Siamo quindi ad un punto conclusivo riguardo alla questione del Gesù storico. Come diceva Schweitzer l’intenzione di chi aveva sollevato la questione era quella di indurre uno iato tra la vita di Gesù, il suo ministero, la sua predicazione, e la fede in Cristo così come si presenta a noi oggi. Nel cercare di staccare la persona di Gesù dal dogma della fede il punto nevralgico su cui concentrarsi sono appunto le tre cesure identificate nella ricerca storica su Gesù e in particolare quella della Pasqua. Uno studio accurato dei racconti evangelici però sembra rendere impraticabile questa strada. Proprio la stessa ricerca del Gesù storico si conclude oggi con un fatto che è esattamente l’opposto di quello che si voleva dimostrare. Tra il Gesù della storia e il Cristo della fede, tra la comunità dei primi discepoli e la Chiesa di oggi vi è certamente una discontinuità ma nella continuità. Certamente non si può dimostrare in modo storico ogni passaggio e rimangono elementi di discontinuità legati ai dati reperibili oggi riguardo alla storia; tuttavia la continuità tra Gesù della storia e Cristo della fede per quanto non storicamente dimostrabile rimane sicuramente verosimile anche al vaglio dell’approccio storico critico di questo secolo di studi biblici.
Appurato che tra dogma e storia non ci può essere contrapposizione rimane da chiarire come nella storia si sia sviluppato il dogma di fede e quali vie ci consentano di intuire una continuità tra Gesù e noi attraverso vicende complesse come quelle che hanno segnato i primi duemila anni di storia della Chiesa.
Proprio sulla trasmissione della divina rivelazione compiutasi in Gesù Cristo si concentra lo studio della prossima parte.


PARTE V
La conoscenza: « alla luce del vangelo »
Premessa: Il metodo della correlazione e fides quae/qua
Il fenomeno umano della traduzione/trasmissione sottende una forte ambiguità nel contesto culturale odierno. La presenza di un punto di riferimento scritto rende il pensiero umano più facilmente oggettivabile. Questa apparente facilitazione però spesso si accompagna, nell’era della stampa con una svalutazione della mediazione umana nella comunicazione: avanza il pregiudizio che si possa recidere il legame tra soggetto comunicante e oggetto comunicato. Nel caso delle culture orali invece il ruolo del soggetto è più chiaramente individuabile e rilevante.
La cultura odierna dopo il lungo periodo della rivoluzione della stampa sembra ritornata, anche a causa delle nuove forme di comunicazione ad una certa «oralità».   In questo contesto gli studi di M. McLuhan sulla comunicazione ci aiutano a capire che la trasmissione della conoscenza è un problema ben più complesso del semplice fenomeno del trasmettere una nozione.
La consapevolezza che oggi abbiamo sulla ambiguità del fenomeno traduzione/trasmissione ci spinge a dubitare del semplice modello dualista che distingue la forma dalla materia. Secondo questo schema, diffuso soprattutto nelle culture influenzate dalla stampa, un contenuto (materia) sarebbe esprimibile in tanti modi (forma): la comunicazione tuttavia avviene preservando una distinzione, in linea di principio sempre possibile, tra il contenuto materiale e il rivestimento formale. È chiaro che la scelta della forma di comunicazione in questo modello è ritenuta in fondo marginale ; si può ipotizzare quindi il caso (per assurdo!) di assenza di una forma e cioè di una comunicazione diretta, immediata.
Proprio gli studi di McLuhan e prima ancora di Max Weber ci aiutano a comprendere quanto questo modello sia falso e specialmente non adatto al nostro tempo. La consapevolezza che spesso lo strumento di comunicazione inerisce al contenuto stesso della comunicazione spinge i sociologi a studiare il fenomeno della comunicazione; allo stesso tempo anche le scoperte scientifiche nell’ambito dell’infinitamente piccolo hanno accertato che l’ipotesi di un osservatore neutro della realtà è un ipotesi limite e pressoché assurda. Ma se nessuno può collocarsi fuori da un orizzonte culturale e rivendicare un punto di vista “oggettivo” allora la questione della trasmissione della fede cristiana che rivendica un principio di autorità e verità deve essere fatta oggetto di studio dalla teologia fondamentale. Il coinvolgimento del soggetto sulla questione della rivelazione è infatti molto alto. Anche la comunicazione della fede deve prestarsi ad un’approfondita analisi critica che porti a cogliere la natura e il fine di questo fenomeno che è la Chiesa, l’evangelizzazione.
La rivelazione, come abbiamo visto nella prima parte, non può essere considerata come una semplice raccolta di proposizioni da credere (fides quae creditur) ma vi è un’eccedenza rispetto alla dimensione verbale. In teologia si è sviluppato il concetto di fede (analisys fidei) proprio nel tentativo di spiegare questa eccedenza che coinvolge il soggetto credente in un modo unico; il dramma dell’esistenza cristiana porta spesso alla fede attraverso un forte abbandono fiducioso in Dio.
Sarebbe già identificabile in Gesù questo atteggiamento, per quanto per lui non si possa parlare in senso proprio di fede, visto che lui aveva una conoscenza diretta delle cose del Padre. Come abbiamo visto leggendo DV2 le parole di Gesù che vanno a formare la fede cristiana (fides quae) sono tuttavia inscindibilmente legate ai fatti che la costituiscono, ai gesti di Gesù.
Accanto alla fides quae si può allora identificare una fides qua creditur cioè la fede intesa come atteggiamento credente. Mentre però la trasmissione della fede si applica bene alla fides quae, questa distinzione richiede una riflessione più approfondita riguardo alla fides qua.
E’ possibile, si chiedevano i teologi negli anni ’70, studiare o addirittura insegnare teologia senza credere in ciò che si insegna? La teologia, in altre parole, può essere considerata al pari delle altre materie di insegnamento? Inoltre cosa conduce l’uomo a credere? In cosa consiste la fede? Essa è una conoscenza di fatti rivelati? La fede di un credente può essere esaurita negli articoli del suo credo? E’ chiaro che se si riduce la fede cristiana alla sola fides quae la risposta a queste domande non può non essere affermativa.
D’altra parte l’ammissione di un ruolo alla fides qua e l’inclusione di un ambito per la tradizione richiede anche una definizione dei limiti di questo ruolo e della portata oggettiva della rivelazione.  La conoscenza alla luce del vangelo è da ritenersi una conoscenza oggettiva della Verità o riguarda solo i credenti? In altre parole, la Rivelazione cristiana può essere compresa solo con la fede o anche con la ragione?
Fides quae e fides qua non sono quindi due realtà separabili, così come abbiamo visto non si possono separare una forma da una materia dell’atto di fede: vi è per così dire una intrinseca connessione tra le due. Nel xx secolo il ruolo della fides qua è stato molto rivalutato evitando il rischio di un razionalismo della fede; d’altra parte una enfatizzazione eccessiva di questa porta alle derive del fideismo.
Il fenomeno della Sacra Tradizione
Parlare della Sacra Tradizione coinvolge due dimensioni tipiche della vita umana: da una parte la dimensione della ragione, della comprensione, dell’intelligenza; dall’altra quella della cultura, della vita e quindi delle tradizioni.
L’uomo moderno che si pone in modo radicalmente critico nei confronti di questa seconda dimensione oggi si trova impigliato in un passaggio alla post modernità che dimostra tutta l’importanza della cultura e della tradizione; solo lo scontro odierno tra le civiltà e quindi tra ragione e cultura ha aiutato a riconoscere un punto nodale. Siamo infatti abituati a parlare nel dialogo tra le culture di «ragione» e di «individuo» senza tener in debito conto che questi concetti sono nati in un preciso contesto culturale, i.e. la cultura greca occidentale europea, e non sono così facilmente esportabili in altri orizzonti culturali. Proprio interrogandosi sul proprium dell’umanità la teologia contemporanea ha potuto riscoprire il valore positivo della tradizione e della cultura che emerge, in un contesto multiculturale, con molta forza.
Non è possibile dunque studiare il cristianesimo cercando di definire la credibilità per un soggetto razionale, senza doverne cogliere anche la portata ecclesiale e tradizionale. La fede in altri termini è un modo nuovo di conoscenza che non tocca solo la conoscenza ma tutta la vita. Da una parte non le si può negare un aspetto razionale, e quindi anche ragionevole; è questo che viene facilmente fatto oggetto di riflessione scientifica. Appare chiaro tuttavia a noi oggi che l’atto di fede è composto anche dalle dinamiche della vita della Chiesa che sono situate in un contesto culturale e tradizionale preciso.
La Sacra Scrittura come “tradizione”
La formazione degli scritti biblici ci insegna lo stile teologico. La Bibbia nasce da tradizioni orali che solo in un secondo tempo furono fissate per iscritto. La fissazione nei libri canonici tuttavia non pone fine ma è concomitante a un procedimento orale di trasmissione della fede, che continua anche dopo. Questo è evidente, ad esempio, nel fenomeno delle riletture, così presenti nel Nuovo Testamento: tra tutte possiamo citare le numerose «citazioni di compimento» di passi dell’Antico Testamento che si trovano nel Vangelo di Matteo (Cfr. la prima e più famosa in Mt 1,22-23). Questo stile che riscontriamo nel Nuovo Testamento risale certamente alla tradizione ebraica, la quale presenta uno sviluppo notevole di traduzioni e interpretazioni: tra le altre si possono citare il testo dei LXX , la tradizione legata alle interpretazioni sinagogali dei Midrash , la fissazione degli usi e costumi dei vari giudaismi tradizionali giunte a noi nelle forme dei Talmud Gerosolimitano e Babilonese.
La linea di sviluppo dei testi della tradizione ebraica mostra come all’interno di una continuità forte stabilita dall’identità della comunità vi sono percorsi non sempre logicamente conseguenti (o almeno difficilmente comprensibili). Occorre soffermarsi allora sulla natura di questo sviluppo della fede della comunità credente per comprendere a fondo il fenomeno della sua trasmissione e il ruolo della comunità credente.
Questo stile tipicamente ebraico della trasmissione vitale della fede emerge in tutta la sua criticità scontrandosi con il contesto greco, nel quale si sviluppa la vita delle prime chiese cristiane. Proprio la mescolanza tra cultura ebraica e cultura greca conferisce come è noto una identità originale alla vita della Chiesa.
L’era apostolica e patristica: le tradizioni fondative
Il fenomeno della trasmissione della fede coinvolgendo diversi soggetti e il cammino della storia presenta fin da subito tensioni dovute al pluralismo di soggetti e quindi di tradizioni. Emerge con forza allora la questione della comunione nella Chiesa: già fin dal primo raduno di Gerusalemme descritto in Atti 15 possiamo individuare uno stile di pluralità nell’unità; nei primi secoli questo stile è descritto dall’interazione tra il senso della fede del popolo di Dio e il servizio episcopale: il rapporto di profonda comunione tra vescovi e fedeli consente uno scambio fecondo tra la vita di fede dei credenti e il ruolo di guida dei pastori.
Le questioni sollevate sono diverse ma tra tutte spicca la questione sul battesimo dei bambini. Mentre si diffonde la prassi battesimale non mancano momenti in cui questa pratica è soggetta a critica a volte anche radicale. A partire dalla volontà di Gesù, tramandata per iscritto nel Vangelo, non era chiaro il motivo e il fondamento di questa consuetudine, la quale venne messa in discussione più volte; alcuni interventi autorevoli di vescovi come Agostino e Ambrogio tuttavia sciolsero le controversie promovendo una accettazione generale della prassi battesimale ancora oggi utilizzata. Un’altra questione piuttosto calda fu la decisione della data della Pasqua; per alcuni non era chiaro il mese, per altri era bene rimanere in collegamento con la tradizione ebraica del computo del giorno; alcuni sottolineavano la novità della domenica. Anche in questo caso la situazione di fatto ha condizionato i molti ragionamenti addotti a difesa dell’una o dell’altra possibilità; contrariamente alla questione sul Battesimo tuttavia in questo caso si giunse ad una accettazione della pluralità delle tradizioni, che si riscontrano ancora oggi nelle chiese bizantine. Si pensi infine alla varietà dei riti liturgici delle prime chiese, testimoniataci dai rituali che sono giunti fino a noi, alla grande controversia sul culto delle immagini risolta dopo secoli dal Secondo Concilio di Nicea (787).
Il richiamo alla vita della comunità cristiana, sia dei primi discepoli, che in generale dei primi secoli è stato ben presto accettato con una dimensione normativa . Spesso lungo il corso della storia della Chiesa si è ricorsi a questa vita per dirimere le questioni dottrinali.
Alcune espressioni dei vescovi del IV secolo come detto divennero decisive riguardo alle problematiche che emergono dalla trasmissione della fede e della sovrabbondanza esistenziale rispetto alle tradizioni scritte. Il primo è San Basilio (detto Magno – il Grande) il quale nel suo trattato sullo Spirito Santo propone di accettare che gli insegnamenti e le definizioni che la chiesa custodisce con un medesimo vigore per la pietà siano ricevuti sia come istruzioni scritte sia da una catena di tradizioni che risalgono agli apostoli.
Una seconda affermazione celebre è quella di Sant’Agostino che di fronte all’ennesima controversia in seno alla sua comunità nota come il giudizio sulle cose di fede e di morale che sia generalmente sostenuto dal Corpo di Cristo, cioè universalmente accettato, deve essere ritenuto come sicuro (securus iudicat orbis terrarum). Questo criterio che sta poi alla base dell’idea stessa di Concilio Ecumenico venne espresso da Vincenzo di Lerins nella sua formulazione di dogma: id teneamus, quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est; hoc est etenim proprieque catholicum (cattolico significa che si deve tenere ciò che in ogni Chiesa, sempre e da tutti è stato oggetto di fede). Sulla medesima linea il Concilio Vaticano II nota che il popolo di Dio può considerarsi dotato di un sensus fidei capace di intuire la vera fede .
L’accezione di unanimità espressa nel Commonitorum non va tuttavia letta nel senso democratico del termine, come di un assenso esplicito offerto dai membri del corpo ecclesiale ad una domanda precisa. Essa si rifà piuttosto all’immagine di comunione espressa in At 2. La manifestazione di ciò che di per sé è vero non è facilmente descrivibile mediante un assenso ecclesiale esplicito e il fenomeno stesso della fede condivisa è un segno della presenza dello Spirito. Negli scritti di Vincenzo di Lerins come visto troviamo per la prima volta l’idea di un corpo dottrinale al quale si applica il concetto “pagano” di dogma inteso come decreto fissato. L’idea di dogma si sviluppa accanto al fenomeno della tradizione e al principio comprende tutta intera la dinamica della rivelazione. Non siamo ancora ad una concezione parcellizzata della Rivelazione.
Le prime controversie hanno condotto ad ammettere che per quanto completa fosse la fissazione dei termini essenziali del cristianesimo esso non poteva essere racchiuso in una serie di norme o di regole; la rivelazione di Dio in Gesù Cristo fissata nei libri rivelati richiedeva tuttavia un contesto di fede per leggerli e per emergere in tutta la sua estensione .
La fine dell’era patristica: i due «magisteri»
Durante il medioevo si profilano tuttavia due grandi cambiamenti: l’emergere del ruolo del papato e il conseguente rapporto problematico con l’idea di concilio; il nascere delle università e delle questioni accademiche sulla fede cristiana. Questi due poli si presentano al cristiano del tardo medioevo come due fonti di insegnamento autorevole, due magisteri. Da una parte l’autorità dei pastori sempre più concentrata nel ruolo del vescovo di Roma; dall’altra la crescente autorità delle scuole teologiche all’interno delle università. Per un lungo periodo tra questi due magisteri vi fu una certa armonia ma il criterio di antichità entrò in crisi con la svolta moderna e la riforma del xvi secolo.
La riscoperta dei classici e il ritorno alle fonti dell’umanesimo creò innanzitutto un certo sconcerto nella Chiesa del cinquecento a causa della scoperta di alcuni falsi storici come quello del Constitutum Constantini . Da più parti il dubbio sulle tradizioni cattoliche, spinse ad un ritorno alle uniche fonti certe. Fu Lutero a cavalcare questa tensione proponendo un ritorno all’unica fonte scritta autorevole la Sacra Scrittura. Implicitamente ciò significò un rifiuto di ogni forma tradizionale di trasmissione della fede cattolica. Da una parte il conciliarismo fomentava una idea democratica e consultiva della rivelazione; d’altra parte l’autorità del papa non riscuoteva più quel primato di onore che stava alla base della sua guida dottrinale, soprattutto in seguito alle tristi vicende dei secoli xiv e xv.
La contrapposizione luterana tra Bibbia e ciò che non è dato biblico che emerse durante il xvi secolo spinse così i teologi a rielaborare la questione della trasmissione della fede in modo credibile all’uomo moderno.
Mentre il concilio di Trento si espresse a riguardo riesponendo la dottrina già di San Basilio, in alcuni ambiti cattolici la distinzione tra Scrittura e Tradizione, più per contrapposizione alla posizione luterana, venne sempre più formalizzata come se accanto alla Sacra Scrittura vi fosse una Sacra Tradizione, come parte distinta nel contenuto, all’interno dell’unica Rivelazione .
Nelle università si andava affermando un’idea di corpus dottrinale organico e gerarchicamente strutturato come autorità alternativa alle dinamiche della vita della Chiesa dei primi secoli. Lo stile accademico divenne quello prevalente su quello prettamente pastorale e la dottrina cristiana, divenuta sinonimo di dogma, mutò decisamente il suo ambito semantico; all’idea tradizionale di rivelazione come depositum fidei affidato, secondo l’espressione paolina, alla trasmissione di un incontro personale con Cristo, si sostituisce progressivamente un’idea proposizionale.
In un tentativo di mediazione tra modernità e fede cattolica, il teologo spagnolo Melchior Cano scrive nel xvi secolo un’opera dal titolo de Loci Theologici in cui cerca di raccogliere le fonti che stanno alla base della fede cristiana e quindi anche della riflessione teologica: accanto alla Sacra Scrittura viene collocata la tradizione degli apostoli; come luoghi interpretativi si considerano i decreti della Chiesa Cattolica e i Concili Ecumenici; la Chiesa di Roma e il Papa; i Padri; i teologi della scolastica. Infine Cano annette alla questione della trasmissione della fede anche il pensiero umano, soprattutto espresso nella Storia della Filosofia.
L’era della manualistica: Tradizione e Magistero
Si può così individuare proprio nella teologia del xvi secolo una rottura dell’equilibrio tra storia della rivelazione e dottrina cristiana. Non vi è nulla di sbagliato certamente nel cercare di enucleare una dottrina cristiana a partire dalla vita della comunità cristiana. Il fatto è che non si può pensare ad un sistema di verità sganciato dal contesto della rivelazione che include in sé il fenomeno della Scrittura e della Tradizione, cioè della vita della Chiesa. Secondo una fraintesa lettura dell’opera di Cano la crescente attenzione nei confronti dell’insegnamento autorevole dei pastori portò ad un primato del Magistero ecclesiastico nell’ambito della teologia della rivelazione. La teologia manualistica del xvii-xviii secolo applica il termine «dogma» al solo aspetto dottrinale e, infine, anche solo ad indicare una singola dottrina. Oggi con la parola dogma si intende « una (1) verità rivelata, (2) espressa mediante una proposizione dottrinale (3) infallibile, (4) che richiede obbedienza della fede ma (5) legata ad un contesto storico che ne ha determinato lo sviluppo ».
L’introduzione di un elenco chiuso di fonti della Rivelazione indusse poi la manualistica ad una formalizzazione scolastica della dottrina cristiana e quindi anche della Tradizione. Verso la metà del xix secolo si afferma, come detto, un modo tipicamente moderno di intendere la dottrina cristiana come un insieme di “dogmi”. Questa idea parcellizzata di dogma pone alcune questioni importanti.
Da una parte è evidente che non tutte le verità rivelate hanno avuto nella storia una espressione dottrinale infallibile; occorre allora chiarire quale ruolo abbiano i cosiddetti dogmi all’interno del più ampio spazio della rivelazione.
D’altra parte gli interventi dei papi o dei concili o anche di singoli vescovi sono andati a costituire un patrimonio dottrinale notevolmente esteso: proprio dall’idea di mettere ordine nelle espressioni dottrinali autorevoli del magistero ecclesiastico è nata l’opera di Denzinger. Di fronte alla mole di questa raccolta sorse spontanea la questione delle note teologiche, ovvero del livello di autorità da attribuire ad un testo. Su questa scia la teologia rischiò di essere ridotta ad un semplice calcolo di gradi di autorità a partire dai dogmi e dalle espressioni del magistero. In secondo piano era la natura pastorale degli interventi dell’autorità ecclesiastica mirati ad evitare che la fede si affaticasse inutilmente nei rivoli dell’eresia. Non ci volle molto tempo per capire che non è poi così facile determinare in modo univoco le note teologiche di testi, che spesso non rivendicano in modo esplicito un preciso livello di autorità; inoltre questo modo di pensare portò implicitamente a pensare che alcuni interventi del magistero che non rivendicassero un grado alto di autorità potessero non essere autorevoli, non avere come obiettivo una verità oggettiva.
Questa deriva ha sicuramente spinto a convogliare nell’idea di «infallibilità nell’insegnare» il massimo livello di autorità del Magistero. Comunemente si parla di indefettibilità, di inerranza e di infallibilità come doni dello Spirito di cui gode la Chiesa nella sua interezza. La teologia manualistica considera come coloro che svolgono il ruolo di guide del popolo possano rivendicare questa autorevolezza definitiva nell’insegnare, poiché è lo Spirito che presta la sua assistenza nella vita della Chiesa. Ultima istanza rispetto alla Scrittura e alla Tradizione nella trasmissione della divina rivelazione è il servizio dell’insegnamento autorevole nella Chiesa.
La concentrazione della rivelazione sull’aspetto dottrinale ha posto al centro il ruolo dell’autorità di fronte alla questione della verità. La questione dell’infallibilità del Magistero ha trovato il suo chiarimento nella dichiarazione dogmatica Pastor Aeternus del Concilio Vaticano I. Questa costituzione inizialmente fu pensata come primo capitolo, e scelta come tale poiché ritenuta più urgente, di un testo sulla chiesa che non fu mai pubblicato a causa della brusca interruzione che il concilio subì in seguito ai fatti della storia italiana.
In questa costituzione troviamo per la prima volta formulata in modo accurato l’autorità infallibile del vescovo di Roma. Gli elementi di questa definizione che si possono sviluppare sono tre.

  • « Ex sese non autem ex consensu » l’autorità del Papa non discende da un consenso della Chiesa ma dalla promessa del consolatore; la stessa promessa che investe di luce divina tutto il popolo di Dio (sarà solo con il Vaticano II che si parlerà anche di una infallibilità, indefettibilità simile per il sensus fidei);
  • « de fides et mores » l’insegnamento che rivendica una infallibilità è quello che riguarda temi di fede e di morale e non quindi una qualsiasi espressione;
  • « ex cathedra » un insegnamento è da ritenersi infallibile solo quando il Papa rivendica esplicitamente la sua autorità di successore di Pietro.

Il Papa a sua volta fa parte di un collegio, il corpo episcopale che anch’esso ha il compito di insegnare con autorità. Il concilio Vaticano II ha inquadrato l’espressione del Vaticano I sull’infallibile magistero del papa nell’orizzonte più ampio della collegialità del ministero episcopale e dell’intero popolo di Dio. Dopo numerosi e accesi dibattiti fu approvato un testo per LG 25 unitamente ad una nota esplicativa in cui si afferma che la considerazione della natura collegiale dell’episcopato non pregiudica l’autorità stessa del Papa; questa infatti non si ispira a criteri di democraticità, dal basso, ma discende dall’alto, appunto dal dono dello Spirito.
La definizione riguardo all’esercizio dell’infallibilità costituisce l’apice della definizione di Magistero: i pastori che hanno sempre avuto il compito di guidare con sicurezza il popolo di Dio loro affidato nella storia della Chiesa, sono i primi garanti e responsabili della verità della fede, ovvero della sua dimensione oggettiva.
Come abbiamo detto nell’introduzione accanto a questa formalizzazione della fides quae il Concilio Vaticano II testimonia anche un ridimensionamento di questo aspetto. Innanzitutto l’esercizio del Magistero non può mai essere fatto contro la Sacra Scrittura e neppure a fianco di essa, ma sotto la Parola di Dio e al suo servizio (DV 10).
Nel caso in cui i pastori rispettino questo vincolo essenziale allora è ampio il campo degli insegnamenti autorevoli e dei possibili pronunciamenti infallibili. Innanzitutto l’insegnamento autorevole dei vescovi può essere straordinario, cioè fatto in convocazioni o situazioni particolari, ma anche ordinario, cioè esercitato nel comune servizio episcopale. Una forma particolare di insegnamento straordinario sono ad esempio i concili, i sinodi locali; anche i pronunciamenti papali come le encicliche sono da considerarsi come straordinari. Anche l’insegnamento ordinario è da ritenersi autorevole LG 25 parla di un insegnamento infallibile anche se ordinario.
Non tutti gli insegnamenti rivendicano l’infallibilità; in effetti dal 1870 solo una volta è stata impiegata questa dicitura, ovvero per la proclamazione del «dogma dell’assunzione di Maria in cielo» (Pio XII, 1950). Nel caso in cui un insegnamento non rivendichi il carisma dell’infallibilità è comunque da ritenersi autentico, cioè vincolante e degno di fede. Occorre prestare sempre un certo rispetto al Magistero qualora questo sia, come detto, al servizio della Parola di Dio.
Le scuole teologiche: tra autorità e libertà
Di fronte a questa esigenza emerge la questione della libertà di ricerca teologica e di pensiero, nei termini di una contestualizzazione del Magistero. Sappiamo dalla storia che non tutte le espressioni magisteriali infatti entrano poi a far parte del depositum fidei; ma il rispetto per l’autorità della chiesa è un aspetto imprescindibile della comunione. La comune ricerca della “verità nella carità”(Ef 4,15) si inquadra così in una vita ecclesiale che comprende la comunione con Cristo come criterio ultimo. Certamente una verità di fede affermata non può mai cadere; ma può essere meglio compresa.
La ricerca della verità, fatta secondo le regole della scienza teologica, non è impedita dall’esercizio dell’autorità nell’insegnare. Sia i pastori che i teologi infatti attingono alla medesima sorgente della Parola di Dio e quindi con metodi diversi contribuiscono a loro modo alla progressiva comprensione della Rivelazione. Si parla oggi di una necessaria interpretazione dei dogmi come di un compito in cui i teologi devono e possono lavorare liberamente.
Superando ogni forma di dualismo contenutistico tra Scrittura e Tradizione la Dei Verbum inquadra la Tradizione nel più ampio contesto della Rivelazione e quindi anche della Scrittura come forma di tradizione. Il Concilio Vaticano II oltre a ricordare l’essenziale storicità del fenomeno della Rivelazione e quindi della Tradizione parla di un equilibrio all’interno della vita della chiesa e della dottrina cristiana. Innanzitutto nella vita della chiesa vi sono alcuni ruoli che si richiamano reciprocamente. Da una parte i vescovi e il papa, dall’altra le scuole teologiche, infine il popolo di Dio e il suo sensus fidei. In secondo luogo la dottrina cristiana intesa come insieme di verità rivelate ha una sua organicità interna che permette di parlare di una gerarchia delle verità.
Proprio a partire da questi due equilibri si può parlare di interpretazione, e in un certo senso anche di sviluppo dei dogmi, senza cadere in un relativismo storico. Tre teologi negli ultimi 2 secoli hanno contribuito in modo determinante a presentare una corretta idea di dogma e di sviluppo del dogma: J. H. Newman, J. E. Kuhn e K. Rahner. Nell’opera di questi teologi troviamo i criteri per l’interpretazione dei dogmi che poi sono stati accolti dalla Chiesa.
Anche il razionalismo del xix secolo può essere descritto come una forma di intellettualismo della rivelazione che privilegia l’aspetto contenutistico della rivelazione trascurando la portata gnoseologica della fides qua. Contro questa tendenza il Concilio Vaticano II richiama l’espressione paolina «obbedienza della fede» (Rm 16,26), riprendendo l’invito del Vaticano I a prestare il «pieno ossequio dell'intelletto e della volontà» a Dio che si rivela: la viva tradizione non si può ridurre ad una gerarchia di fonti.
È dunque attraverso la vita della Chiesa, nella sua complessità, che la luce del Vangelo illumina il tempo e la storia in cui è immersa, non come altra da sé e non come identica a sé. Vi è dunque una vera e propria forma di conoscenza della realtà ad un tempo stesso ragionevole e credente: la dinamica della tradizione rispecchia il modo con cui l’uomo in quanto tale perviene alla conoscenza della verità.
La fede illumina la conoscenza della verità. La trasmissione della fede ha come punto focale proprio al questione della verità. Ogni approccio scientifico alla rivelazione aiuta a scoprire questo aspetto fondamentale. L’esercizio retto della ragione non è dunque in contrasto con la fede.  Tuttavia il principio agapico della carità impone alla ragione umana alcuni limiti che a volte paiono molto evidenti. La conoscenza per fede è legata alla vita della Chiesa, e quindi anche alle sue dinamiche tradizionali; tra di esse spicca il ruolo dell’insegnamento dei pastori, il Magistero. Solo una vita ecclesiale sana riesce ad unire in modo armonico le esigenze della verità e della carità. Questo è il modello proposto dal Concilio Vaticano II per la Rivelazione.


Pagine del Waldenfels da studiare

Parte II – La rivelazione di Dio
II.6.4. Immagine di Dio e nessuna immagine di Dio................................................................ 127-132
II.8.1-3 Vie di Accesso a Dio, Riflettere su Dio, Dimostrare l’esistenza di Dio...................... 158-170
II.8.4cβ Segni e Miracoli.......................................................................................................... 192-203
II.9.1d-e Rivelazione e illuminismo, Rivelazione e rivelazioni............................................... 212-220
II.9.2 La rivelazione nel capitolo 1 della Dei Verbum............................................................. 220-231

Parte III – La via in Gesù Cristo
III.10.4aβ Troeltsch: « assolutezza del cristianesimo »............................................................ 244-247
III.10.4b-c « Assoluto » e Carattere assoluto in senso cristiano............................................... 247-251
III.11.1a Quattro punti di vista sulla Cristologia...................................................................... 252-256
III.11.2aβ Bloch: Gesù – Figlio dell’uomo............................................................................... 262-264
III.12.1-2 Prospettiva pasquale e Questione della vita di Gesù................................................ 292-311
III.12.3a Il messaggio del Regno di Dio................................................................................... 312-315
III.12.3bβ-γ L’autorità di Gesù: la Legge e il rapporto con Dio............................................... 321-330
III.12.3c Gesù e la sua morte.................................................................................................... 330-338
III.12.4aα Bultmann: la croce come evento salvifico............................................................... 339-343
III.12.4b La risurrezione di Gesù: vie bibliche di accesso........................................................ 350-364

Parte V – La conoscenza per Fede
V.18.1-2 Conoscenza di « fede » e alla « Luce del Vangelo »................................................. 535-544
V.20.1c La tradizione: il concetto secondo la dottrina del Magistero...................................... 578-581
V.20.2 Fasi del processo della tradizione................................................................................. 582-592
V.20.3a Cano: « Loci Theologici »........................................................................................... 593-594
V.20.3bγ Kerygma e dogma..................................................................................................... 603-611
V.20.4b-c Autorità del popolo di Dio e del Magistero ecclesiastico........................................ 618-643
Calendario Lezioni


Settembre Lezioni introduttive (2)
Ottobre    Dio parola
L’odierno contesto del problema di Dio
Via di accesso a Dio I
Via di accesso a Dio II
Novembre La rivelazione di Dio I
La rivelazione di Dio II
Prova scritta (21/11/07)
Gesù Cristo mediatore
Dicembre Il contesto della questione di Gesù I
Il contesto della questione di Gesù II        
Gennaio  Vie di accesso a Gesù Cristo I
Vie di accesso a Gesù Cristo II
Vie di accesso a Gesù Cristo III
Febbraio  Sequela di Cristo
Prova scritta (19/2/08)
La conoscenza di fede
La parola di Dio nella parola umana
Marzo      La tradizione I
La tradizione II
Aprile       La tradizione III
La tradizione IV
Sulla tua parola
Prova scritta ( 21/04/08)


Ogni parte consta di 7 lezioni e 1 prova scritta. per un totale di 24 incontri.


Il problema del principio è tipico del pensiero occidentale. Di fronte ad una apparente circolarità della vita è inevitabile che la presenza di un principio possa risultare arbitraria e quindi ledere il senso di onestà intellettuale. Il carattere pragmatico della teologia impone che si stabilisca un inizio indipendentemente dalla fedeltà ad una circolarità ermeneutica che non si può mettere in discussione. Tale è stata la scelta di Dio nel rivelarsi in un uomo concreto, nonostante il rischio dell’incredulità. “Quando ancora eravamo peccatori Cristo morì per gli empi”; nella Pasqua individuiamo una arbitraria e originaria fiducia di Dio.

Vediamo nell’apertura conseguente al dialogo interreligioso un rifiorire di interessi verso l’ambito dei “preambula fidei”. Cfr. J. Dupuis, « Dialogo interreligioso », DTF 310-317.

Sulla distinzione tra fede nella rivelazione e atteggiamento religioso sono un punto di riferimento gli studi sulla rivelazione di Jean Danielou. La fede cristiana – ha scritto nel libro J. Danielou, La fede cristiana e l'uomo d'oggi, Milano, 1970 – non nasce dal bisogno religioso dell'uomo che cerca di elevarsi verso un Dio che non conosce e che non può conoscere ma da una realtà diametralmente opposta . E' Dio stesso che si è fatto uomo ed ha preso dimora in mezzo agli uomini. Tutta la teologia dialettica sviluppatasi in ambito protestante sostiene che la fede cristiana non può essere considerata un atteggiamento religioso. Vedremo più avanti il senso di questa affermazione.

M. J. Buckley, "Ateismo" DTF 90-91.

Cfr. ad esempio le polemiche sull’istruzione della Congregazione sulla Dottrina della Fede Dominus Jesus (2000).

Le si ritrova in una forma diversa in Waldenfels nel suo libro alle pagg. 113-132.

Alcuni parlano sulla scia di Max Weber di un ritorno al politeismo. In questo contesto si diffonde pure un certo ritorno alla concezione impersonale del divino.

Occorre prestare molta attenzione a questa apparente semplicità che potrebbe essere giudicata, dopo la nostra introduzione alla teologia come una semplificazione eccessiva del discorso su Dio. Ma ciò è evidentemente solo un contrasto apparente. Lungi da noi il contraddire un tale “pilastro” della teologia occidentale. San Tommaso infatti era ben consapevole delle esigenze esistenziali del suo discorso. Non è necessario sottolineare però che non sempre queste esigenze furono considerate da quelli che studiarono la più famosa delle sue opere e se ne fecero paladini nel corso della storia.

Di seguito una sintesi di alcuni articoli (1-3) della Somma Teologica riferentesi alla Quaestio 2 della Pars prima (Summa I, q.2, aa.1-3).

Cfr. Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1966, vol. IV, pagg. 691, 693-694.

Il deismo (dal latino deus) è una filosofia razionalistica della religione sviluppatasi nei secoli XVII e XVIII prima in Inghilterra e, successivamente in Francia e in Germania.Il deismo ritiene che l’uso corretto della ragione consenta all’uomo di elaborare una religione naturale o razionale, capace di prescindere completamente da ogni rivelazione positiva, e quindi basata su alcuni principi elementari, primo fra tutti quello dell’esistenza della divinità, di cui i deisti ritengono indispensabile affermare l’esistenza per spiegare la presenza dell’ordine e della regolarità nell’universo. La concezione deistica, nata in un’epoca fortemente segnata dalle guerre di religione, intende così, mediante il solo uso della ragione, porre fine ai contrasti fra le varie religioni rivelate in nome di quell’univocità della ragione, sentita, in particolare nell’ottica dell’illuminismo, come l’unico elemento in grado di accomunare tutti gli esseri umani. (it.wikipedia.org)

SCHLEIERMACHER, Friedrich (1768 Breslau, 1834 Berlin) . Per farsi un’idea della dimensione romantica della teologia schleiermacheriana, debitrice al lavoro di Spinoza, si possono leggere i Discorsi sulla religione pubblicati nel 1799 che hanno come scopo quello di salvare la religione da quegli illuministi acculturati che la disprezzano; linea del teologo tedesco era tutta tesa a dimostrare che la religione non si basa né su una teoria della conoscenza né su di una morale ma semplicemente sull’intuizione e sul sentimento dell’infinito.

FEUERBACH, Ludwig, (1804 Landshut, 1872 Nürnberg). Feuerbach definisce l'individuo come organismo sensibile caratterizzato da bisogni, polemizza contro il dualismo di anima e corpo e, facendo proprio un punto di vista deterministico, nega l'esistenza del libero arbitrio.

Freud, Sigmund (1856-1939). ???

MARX, Karl Heinrich, * 5. Mai 1818 in Trier - Am 14. März 1885 starb M. in London und wurde dort auch begraben. ???

NIETZSCHE, Friedrich Wilhelm, * 15. Oktober 1844 zu Röcken bei Lützen (Provinz Sachsen), † 25. August 1900 in Weimar. ???

Teodicea è quella disciplina teologico-filosofica che cerca di spiegare come sia ragionevole l’esistenza di Dio anche se la realtà sembra radicalmente segnata dalla presenza del male. L’idea che ci sia un Dio Onnipotente (theos) giusto (dikaios) in un mondo nel quale è indubitabile la presenza dell’ingiustizia, richiede uno sforzo al pensiero umano. Il termine Teodicea risale al tentativo di Leibniz che ipotizzò che il presente sia il “migliore dei mondi possibile”.

Secondo l’etimologia «cattolico» significa “universale”, “che consente una visione di insieme”. Questo aggettivo siriferisce in particolare all’unità/unicità della Chiesa di Cristo. Oggi l’aggettivo che è ancora utilizzato nella professione di fede (credo) ha assunto anche una valenza confessionale per indicare le chiese in comunione con quella di Roma.

(Meister Eckart; Pseudodionigi e i nomi divini e l’iper; ???

Contro Pelagio Sant’Agostino afferma che la fede non deve essere considerata una opera buona ma è dono di grazia. Pelagio nacque, intorno al 354, in Inghilterra. Giunse a Roma verso il 384. Era un uomo di grande talento, oratore, scrittore ed esegeta molto apprezzato, rimase "dottore laico e indipendente". Suo scopo era di reagire contro una religione superficiale, quella dei pagani convertiti in massa al cristianesimo. Pelagio era soprattutto un moralista severo e intransigente, predicava infatti: (1) il distacco dalle ricchezze,(2) la povertà e la castità. Combatté con forza qualunque rilassamento, insistendo sull’esistenza dell’Inferno e del Paradiso.Negli ambienti romani, in cui sopravviveva lo stoicismo, il pelagianesimo attecchì facilmente. «Pur avendolo creato debole e inerme esteriormente, Dio creò l’uomo forte interiormente, facendogli dono della ragione e della saggezza, e non volle che fosse un cieco esecutore della sua volontà, ma che fosse libero nel compiere il bene o il male. Se ci pensi bene, ti apparirà evidente come, proprio per questo, la condizione dell’uomo sia più alta e dignitosa, dove sembra e si crede invece più misera. Nell’essere capace di distinguere la duplice via del bene e del male, nella libertà di scegliere l’una o l’altra sta il suo vanto di essere razionale. Non vi sarebbe alcun merito nel perseverare nel bene, se egli non avesse anche la possibilità di compiere il male. Per cui è un bene che possiamo commettere anche il male; perché ciò rende più bella la scelta di fare il bene. Sembra che molti vogliano rimproverare il Signore per la sua opera, dicendo che avrebbe dovuto creare l’uomo incapace di fare il male: non sapendo emendare la loro vita, costoro vogliono emendare la natura! Invece la fondamentale bontà di questa natura è stata impressa in tutti, senza eccezioni, tanto che anche fra i pagani, che non conoscono il culto di Dio, essa affiora e non di rado si mostra palesemente. Di quanti filosofi, infatti, abbiamo sentito dire o visto con i nostri occhi che sono vissuti casti e astinenti, modesti, benevoli, sprezzanti degli onori del mondo e dei piaceri, amanti della giustizia? Di dove vennero loro queste virtù, se non dalla natura stessa? Fa’ dunque che nessuno ti superi nella vita buona e virtuosa: tutto questo è in tuo potere e spetta a te sola, poiché non ti può venire dal di fuori, ma germina e sorge dal tuo cuore» Pelagio, Lettera. L’accentuazione del ruolo della volontà umana porta Pelagio a trascurare l’essenziale aiuto divino nel credere (grazia preveniente) che rende possibile considerare la fede un dono di Dio e non un’opera buona dell’uomo.

Per tradizionalismo si intende una forma di opposizione tra fede e ragione; secondo i tradizionalisti la ragione umana non può giungere con le sue forze naturali a riconoscere Dio, l’uomo, la sua origine, il suo fine, persino la morale e le regole della società civile o domestica. Per limitare questo errore la Congregazione  per la Fede (al tempo detta «dell’indice») ribadì che: “L’uso della ragione precede la fede e a questa conduce l’uom con l’aiuto della rivelazione e della grazia” (DS 2813).

DV sintetizza questa dimensione della rivelazione cristiana nella formula «gestis verbisque»: Dio si è rivelato a noi in Gesù Cristo mediante eventi e parole intimamente connessi.

Waldenfels, 221-222.

L’immagine di un Concilio “spartiacque” è purtroppo stata usata in questi 40 anni come categoria ermeneutica della teologia contemporanea. Sembra che la riforma del XX secolo abbia segnato un profondo solco nell’identità della chiesa cattolica. Si è soliti oggi preferire un’ermeneutica della continuità piuttosto che una della discontinuità che relegava tutto ciò che era prima del Vaticano II come desueto e insostenibile. La riscoperta del paradosso cristiano e della dimensione umana della rivelazione non può infatti far ricadere la teologia cristiana nel baratro di una critica radicale di ogni verità oggettiva. Non si possono ad esempio tacere le citazioni che “Dei Verbum” fa della Dei Filius affermando in modo implicito la profonda continuità tra i due concili. In altre parole l’apertura alle scienze umane promossa dal Vaticano II non può porre l’uomo al centro anche quando manifesti la sua piena debolezza nel peccato. La cosiddetta svolta antropologica richiede allora che si metta a fuoco bene il rapporto tra teologia e storia, individuando l’identità propria della scienza teologica.

Dal greco retta dottrina, insegnamento. Sinonimo di verità rivelata questo aggettivo ha oggi assunto una denotazione confessionale per indicare le chiese in comunione con Costantinopoli.

L’affiorare della verità nella storia della teologia è infatti sottoposto a due vicende apparentemente contrapposte. Da una parte la teologia essendo legata all’uomo e alla sua storia diventa facilmente datata e fuori moda con il passare delle stagioni. Dall’altra è sempre possibile individuare in ogni epoca la bellezza dell’unica eterna verità che in modi diversi si ripresenta perché essa è tutta presente in ogni epoca. L’aspetto antropologico della teologia la lega al suo tempo. Il riferimento a Dio invece la rende eterna.

Sull’idea di Teologia non come dottrina ma come processo si legga il contributo al pensiero teologico del gesuita canadese Bernard Lonergan al quale si può attribuire l’asserzione che la vera teologia si fa in ginocchio.

Nella Chiesa primitiva, con questo nome vennero designati i vescovi, i quali, appunto perché ministri dei Sacramenti e depositari del patrimonio dottrinale della Chiesa, erano ritenuti generatori di quella vita in Cristo di cui parla S. Paolo. A partire dal sec. IV, quando i vescovi primitivi incominciarono a essere considerati testimoni autorevoli della tradizione e giudici nelle controversie dogmatiche, si valutò soprattutto l'autorità dottrinale, e il nome di Padri si restrinse agli assertori della fede, che avevano lasciato testimonianza scritta. Ben presto però questo titolo si estese anche ai non vescovi per opera di S. Agostino, il quale citò a testimone della dottrina cattolica circa il peccato originale il contemporaneo S. Girolamo, semplice prete (Contra Iul., 1, 34; Il, 36). Però non tutti gli scrittori ecclesiastici erano atti a testimoniare la fede della Chiesa, essendo taluni caduti in gravi errori. Perciò gli scrittori ecclesiastici antichi vennero distinti in due categorie; quelli riconosciuti dalla Chiesa come testimoni della fede, e quelli che non lo erano. Il primo esempio di tale distinzione si trova nella decretale De libris recipiendis et non recipiendis del sec. VI, che va sotto il nome di papa Gelasio e che, per conseguenza, costituisce il più antico catalogo di scrittori cristiani riconosciuti come Padri della Chiesa. Tenendo conto delle varie determinazioni a cui andò soggetto questo appellativo, quattro elementi entrano a formarne il concetto: a) dottrina ortodossa; b) santità di vita; c) approvazione della Chiesa; d) antichità. Su questo quarto punto si è alquanto oscillato e, per vario tempo, vennero classificati tra i Padri della Chiesa anche scrittori medievali dell'epoca precedente alla scolastica. Poi prevalse una maggiore severità, ed ora l'evo patristico si fa comunemente concludere, in Occidente, con la morte di S. Isidoro di Siviglia (636), in Oriente con quella di S. Giovanni Damasceno (ca. 750). Praticamente il nome di Padri si estende talvolta, in senso largo, ad alcuni scrittori della prima età che non furono santi, o che, in qualche momento della loro produzione, non furono ortodossi, come, p. es. , Tertulliano, Origene, Eusebio di Cesarea. Gli eminenti servigi resi da tali uomini, per altri motivi, spiegano le eccezioni: a costoro più propriamente si addice il titolo di "scrittori ecclesiastici". La categoria dei Padri della Chiesa si identifica solo in parte con quella dei Dottori della Chiesa, per i quali se non è necessaria la nota dell'antichità, è però richiesta una eminens eruditio e il riconoscimento esplicito da parte della Chiesa.

Cfr. la posizione del filosofo Immanuel Kant descritta nella voce «Esistenza di Dio» di Verweyen all’interno del DTF.

Tra gli interrogativi presenti tra i padri ne spiccavano alcuni. Come sostenere che il mondo avesse solo 6000 anni di storia di fronte allo sviluppo della paleontologia? Come affermare che tutto il Pentateuco ivi incluso il racconto della morte di Mosé avesse lo stesso profeta per autore? Come ignorare il “Fermati o Sole” di Gs 10?

Che giustamente erano stati difesi contro le obiezioni luterane.

Già al Concilio di Trento era stato scartato un dualismo assoluto. Una versione del decreto sul Canone Biblico riportava in fatti l’espressione “in parte” riguardo al rapporto tra rivelazione canone e tradizioni ecclesiastiche; quasi come se la rivelazione cristiana potesse essere divisa in due parti separabili rispettivamente tra dato biblico e dottrine sviluppatesi nei secoli. La prospettiva di una ripartizione contenutistica della rivelazione cristiana tra Bibbia e dogmi fu però scartata a favore di una più generica visione che accostava con “pari pietà e venerazione” sia l’una che l’altra fonte della rivelazione.

Cfr. Waldenfels, 248-250. L’autore a cui dobbiamo la formulazione sintetica è H. U. von Balthasar citato nel manuale.

Cfr. Waldenfels, 248-250.

Titolo messianico diffuso nell’ebraismo della diaspora e probabilmente anche al tempo di Gesù: dal greco ‘erchomenos.

Queste due direzioni ricordano la distinzione classica di Danielou riguardo alla fenomenologia delle religioni: vi sarebbero secondo il teologo francese due fondamentali tipi di religiosità. La prima è quella che parte dall’uomo e va verso Dio; essa manifesta l’anelito di trascendenza che è insito in ogni uomo e che lo spinge a ricercare Dio. La seconda invece nasce dal movimento opposto: consiste nell’accoglienza di una rivelazione che viene da Dio verso l’umanità.

Quando la fede nella presenza di Gesù Cristo viene coltivata in comunità scismatiche, cioè separate, rischia di divenire una dottrina autonoma, perfettamente razionale, ma totalmente sganciata dalla Chiesa di Cristo.

Waldenfels, 262-264.

E’ indubitabile che le fonti extrabibliche su Gesù se pur precise e importanti non dicono molto sulla sua figura storica. Sulla questione cfr. Waldenfels.

Alcuni testi celebri in cui Gesù comanda il silenzio in Mc. “«Guarda di non dir niente a nessuno, ma và, presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro»” (Mc 1,44); “E comandò loro di non dirlo a nessuno” (Mc 7,36); “Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse” (Mc 9,30). Quest’ultimo è significativamente collegato con l’insegnamento ai discepoli sulla sorte di Gesù.

Il più celebre è quello di Tommaso, risalente al II secolo d.C. Le scoperte a Nag Hammadi nel 1945 hanno permesso di conoscere meglio il contesto e l’ideologia che stanno sotto questi testi.

L’espressione “figlio di” è un ebraismo che significa genericamente somiglianza. Per questo motivo anche dire che Gesù è il figlio di Dio rimane una affermazione debole e ambigua finché non si chiarisca il tipo di figliolanza divina. Lo stesso Gesù afferma nel vangelo che tutto il popolo di Israele si può considerare figlio di Dio (Gv 11,34).

Il profeta è il portatore di una parola da parte di Dio, rivolta agli uomini per mezzo di lui.

Dal greco euangelion, buon messaggio.

La categoria « regno di Dio » (greco basileia tou theou)  o nella variante matteana « regno dei cieli » si radica nella letteratura profetica e nei salmi. In essi è descritto come nomen actionis, cioè ponendo al centro l’azione del regnare di Dio sul mondo e sul suo popolo. Gli effetti di questo regno sono straordinariamente descritti dal profeta Isaia e ripresi proprio da Gesù nel suo primo discorso nella sinagoga di Nazareth riportato in  Lc 4,16-30.

Tutto il discorso della montagna è introdotto dalla prima beatitudine in cui si parla di coloro a cui appartiene il regno dei cieli. Cfr. Mt 5-7.

Si pensi alle parabole della misericordia che troviamo in Lc 15.

« A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio; a quelli di fuori invece tutto viene esposto in parabole, perché […] ascoltino e non intendano »: Mc 4,11.

La storia ci insegna che non bisogna abusare dei termini di ipsissima verba e ipsissima facta. Non vi può essere una certezza assoluta riguardo che a pochissimi dati. Tuttavia come detto l’assenza di questa certezza non impedisce di delineare un quadro verosimile della figura storica di Gesù.

Dal greco kerysso, annunciare, la parola kerygma è divenuta una parola tecnica della teologia per indicare il primo annuncio cristiano riguardo alla risurrezione e alla signoria di Cristo. « Cristo è risorto! » (in greco Christos anesti!), saluto pasquale dei cristiani, sintetizza il kerygma in modo essenziale. Fanno parte del kerygma comunque oltre alla fede nella risurrezione, il perdono dei peccati, la comunione dei santi, … tutti gli elementi essenziali del Regno di Cristo.

Cfr. Waldenfels, 342.

Con questa frase si può tradurre la celebre distinzione tra il was (“cosa”) e il dass (“che”) dell’esistenza di Gesù. Importante è che Gesù sia esistito non cosa sia stata la sua esistenza.

È questa, ad esempio, la tesi di Walter J. Ong, Rhetoric, Romance and Technology, Cornell University Press 1971.

Si veda in proposito il concetto di scommessa nei Pensieri di Blaise Pascal.

Si tratta di una questione disputata a lungo in teologia. Ci si è chiesti se si possa parlare di una fides jesu (fede di Gesù) in senso stretto. L’espressione si trova nel Nuovo Testamento (Gal 2,16), ma sembra da tradursi più come un complemento di specificazione (la fede, quella riferita a Gesù) che come un genitivo soggettivo (la fede, quella che aveva Gesù). Se per fede intendiamo l’assenso ad un contenuto rivelato dobbiamo certamente escludere questo atteggiamento in Gesù, per il quale non si può parlare di Rivelazione in senso stretto. La fede tuttavia implica anche una forma di vita che in un certo senso illumina e dona pienezza al contenuto rivelato: è chiaro a questo proposito che possiamo trovare molte assonanze tra Gesù e i credenti. Poiché Gesù è stato il primo a “comportarsi da cristiano” a lui possiamo attribuire senza dubbio una fides qua identificabile nel suo rapporto filiale con il Padre (nel Figlio anche noi siamo figli).

Cfr. DV 2.

Traduzione greca del III secolo a.C. portata a compimento dalle comunità giudaiche della diaspora di Alessandria d’Egitto che contiene sviluppi dottrinali rispetto al testo originale ebraico, probabilmente legati all’identità forte di questa comunità.

Midrash (plurale Midrashim) è un sostantivo derivante da darash (שרד) che significa soprattutto ricercare, scrutare, esaminare, studiare. Nella tradizione rabbinica, midrash designa anzitutto una attività e un metodo di interpretazione della Scrittura che, andando al di là del senso letterale scruta il testo in profondità per attualizzarlo e adattarlo ai bisogni e alle concezioni delle comunità. Il midrash parte sempre, in modo più o meno esplicito, dalla Scrittura, e può essere immesso in forme diverse secondo i generi letterari che lo trasmettono. I risultati di secoli di "ricerca biblica" nelle scuole (beth ha-midrash: cf Sir 51, 23) e nelle sinagoghe, dopo un lunghissimo periodo di trasmissione orale, furono progressivamente messi per scritto per formare le raccolte multiple chiamate midrashim (da wikipedia).

È controversa ad esempio la citazione di Paolo nel discorso agli anziani di Efeso che troviamo in At 20,35. Questa frase di Gesù non si trova infatti nei Vangeli.

In tre ondate successive dal xvi al xx secolo alcuni teologi hanno parlato della necessità di una de-ellenizzazione del cristianesimo per riportarlo alla sua purezza originaria. Questo procedimento tuttavia risulta infelice poiché è proprio nel rapporto tra Giudei e Greci che è nato il cristianesimo: non a caso, ricorda Benedetto XVI nel suo discorso a Ratisbona (2006), i Vangeli sono stati scritti in greco.

Il giudizio sui carismi, i doni dello Spirito, seminati tra i fedeli « appartiene a coloro che detengono l'autorità nella Chiesa; ad essi spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono»: LG 12.

Ciò è evidente nelle chiese bizantine che hanno una vera e propria venerazione per i primi concili ecumenici, così come anche se in maniera minore nella Chiesa Anglicana.

Cfr. LG 12.

È questo ciò che il Concilio Vaticano II intende quando impiega l’aggettivo «vivo» per descrivere sia la fede cristiana sia il Vangelo stesso. È celebre l’espressione « la viva voce dell'Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di questa nel mondo »: DV 8, che si rifà a quella paolina « la lettera uccide, lo Spirito dá vita »: (2Cor 3,6)

La Donazione di Costantino è un documento conservato in copia nelle Decretali dello Pseudo Isidoro (IX secolo). Prodotto di una fortunata falsificazione medioevale, esso è stato tuttavia unanimemente ritenuto autentico sino alla prima età moderna. Dopo una nutrita sezione agiografica, il documento pretende di riprodurre un editto emesso dall'imperatore romano Costantino I e risalente al 324. Con esso, l'imperatore concederebbe al papa Silvestro I e ai suoi successori il primato sui cinque patriarcati (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme) e attribuirebbe ai pontefici le insegne imperiali e la sovranità temporale su Roma, l'Italia e l'intero Impero Romano d'Occidente (da wikipedia).

Al Concilio di Trento fu esplicitamente rifiutata l’espressione partim-partim preferendone una più sfumata. Il Decretum de libris sacris et de traditionibus recipiendis del 1546 porta la più neutra congiunzione ‘et’ per accostare Scrittura e Tradizione. La teologia manualistica dei secoli successivi, tuttavia, per semplicità e sulla scia del Catechismo tridentino adottò spesso un modello dualistico.

Cfr Concilio Vaticano II, Unitatis Redintegratio, Decreto sull’ecumenismo, 11.

 

Fonte: http://www.daras.org/materiale/La_rivelazione_-_Dispense_2007-08_8.0_(1).doc

Sito web da visitare: http://www.daras.org

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