Apparati amministrativi statali

Apparati amministrativi statali

 

 

 

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Apparati amministrativi statali

PRINCIPI COSTITUZIONALI IN TEMA DI PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Costituzione e amministrazione
Uno degli elementi principali delle moderne forme di Stato è il principio di subordinazione alla legge non solo dei cittadini, ma anche della pubblica amministrazione. Ad un'amministrazione autoritativa (intesa cioè come potere), chiamata essenzialmente ad adottare atti di esecuzioni di leggi che impongono ordini e divieti o comunque a porre regole destinate in diverso modo a restringere o ad ampliare la sfera di autonomia dei privati, si va progressivamente affiancando un'amministrazione di prestazione (intesa cioè come funzione) chiamata a svolgere un'attività diretta alla realizzazione di finalità di interesse generale. Ad un'amministrazione che è chiamata a rispondere del formale rispetto della legge, si affianca un'amministrazione che deve sempre più rendere conto dell'effettiva soddisfazione per gli interessi coinvolti della sua attività e cioè dei risultati attraverso la medesima raggiunti. I principi costituzionali in tema di amministrazione riguardano quella statale, regionale e locale. Tra le disposizioni costituzionali relative alla pubblica amministrazione vanno menzionati gli articoli 97 e 98 della sezione II del titolo III intitolata "la pubblica amministrazione", quelle contenute nell'articolo 5, 114 e successivi, in tema di amministrazione regionale e locale, quelle contenute negli articoli 103 e 113, in tema di tutela del privato.
Principi in tema di organizzazione della pubblica amministrazione
Tra i principi organizzativi della pubblica amministrazione va menzionato quello ricavabile dall'articolo 95.1 e 2, secondo cui l'esercizio dell'attività amministrativa deve comunque far capo a organi politici che ne rispondano in primo luogo dinanzi agli organi rappresentativi della volontà popolare. Il secondo principio stabilisce che "i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge". Nell'uno e nell'altro caso si tratta di una riserva di legge relativa, la quale dunque non esclude l'intervento di un'altra forma normativa. Il terzo principio attiene al reclutamento del pubblico funzionario, che deve avvenire di regola tramite concorso. A garanzia non solo dell’imparzialità del meccanismo di accesso al pubblico impiego, ma anche dell’imparzialità e della professionalità del futuro pubblico dipendente.
Il quarto principio riguarda la posizione dei pubblici funzionari, che sotto il profilo del loro status giuridico non possono trarre vantaggio nella loro carriera dal ricoprire certi incarichi politici. Possono, in certi casi, subire limitazioni, disciplinate dalla legge, al diritto di iscriversi a partiti politici.
A questi principi vanno poi aggiunti quelli previsti dall'articolo 5 della costituzione in tema di decentramento amministrativo e dell'autonomia locale. L’attribuzione della personalità giuridica allo Stato, alle regioni, a province e comuni sembra ormai trovare il suo fondamento nello stesso testo costituzionale: questa scelta implica il riconoscimento a questi enti della capacità giuridica, ma evidentemente esige che la capacità di agire sia fornita ai soggetti che operano in nome e per conto loro.
Vige il principio di immedesimazione organica, e non di rappresentanza: il soggetto che agisce per l'ente pubblico, esercitando uno dei suoi poteri, è un suo organo, e quindi tutti i suoi atti sono imputabili alla persona giuridica, che ne è vincolata e ne risponde. Si parla quindi di organi con una legittimazione politica e di organi con una legittimazione professionale. Possono essere monocratici o collegiali, consultivi o di controllo, centrali o periferici. Un'altra importante distinzione è quella fra organo (essere parte di un ente) e ufficio (apparato amministrativo). Il rapporto di servizio consiste nella prestazione di una vera e propria attività professionale retribuita, caratterizzata da un complesso intreccio di diritti e di doveri, ed individua coloro che prestano la loro attività nell'ambito dell'organizzazione dell'ente pubblico.
Organo parte di un ente; l’ufficio si riferisce ad un’unità organizzativa di un apparato amministrativo che può svolgere sia un’attività rilevante anche all’esterno (uffici-organo), sia un’attività tutta interna all’amministrazione, in funzione strumentale all’attività degli altri uffici con competenze esterne (meri uffici). Normalmente sono organi aventi una legittimazione politica quelli preposti ai vertici degli apparati amministrativi, dal momento che devono garantire non solo che l’attività amministrativa sia rispettosa delle prescrizioni legislative, ma che l’esercizio della discrezionalità amministrativa sia conforme all’indirizzo politico di maggioranza e tale da conseguire con efficacia i risultati per i quali l’amministrazione opera. Ma, al tempo stesso, l’amministrazione pubblica, nel perseguimento dei fini pubblici, deve operare in modo imparziale e cioè pienamente rispettoso del principio di uguaglianza. Il modello fondamentale di rapporto fra i vari organi amministrativi è quello gerarchico caratterizzato dal potere del superiore di dare ordini e direttive all’inferiore gerarchico e di annullarne o riformarne i provvedimenti, su iniziativa autonoma o su ricorso.
La necessaria convenienza di più organi politici e di molteplici organi amministrativi, per garantire una buona amministrazione, comporta il sorgere di modelli organizzativi diversi, come quelli che si esprimono nei poteri di coordinamento, di indirizzo, di programmazione,…
Un’altra caratteristica organizzativa è la preferenza per un’amministrazione affidata ad un corpo professionale, legato da un specifico rapporto di lavoro e caratterizzato da uno status professionale particolare. La disciplina delle diverse relazioni intercorrenti fra un ente pubblico e coloro che prestano la loro attività nell’ambito della sua organizzazione viene detto rapporto di servizio. Servizio onorario si riferisce a servizi prestati per designazione a funzioni non professionali; servizio coattivo tutti i casi di svolgimento di funzioni pubbliche a cui si può essere obbligati (servizio militare).
Il rapporto di servizio consiste nella prestazione di una vera e propria attività professionale retribuita, caratterizzata da un complesso intreccio di diritti e doveri, originati dal fatto che la sua disciplina attiene alla posizione giuridica di un dipendente della pubblica amministrazione, che eserciterà o contribuirà all’esercizio di poteri pubblici. Il pubblico dipendente “deve eseguire gli ordini che gli siano impartiti dal superiore gerarchico”, con la possibilità di opporsi ad un ordine che reputi illegittimo, salvo dovergli dare esecuzione se rinnovato per iscritto e purché non vietato dalla legge penale.
GLI APPARATI STATALI
Disegno generale dell’assetto ministeriale
La presidenza del Consiglio dei Ministri e i ministeri sono le strutture amministrative tra cui vengono organicamente ripartite dalla legge la grande maggioranza delle funzioni amministrative statali, salvo quelle spettanti al Consiglio dei Ministri o personalmente al presidente del consiglio. Si tratta dei poteri amministrativi previsti dalla legge, ma anche dei compiti di provvedere, negli stessi settori, mediante atti di impulso politico e amministrativo o mediante il ricorso a strumenti privatistici.
Il Governo non si limita a tutelare gli interesse collettivi nei diversi settori materiali di competenza dello Stato centrale, ma è chiamato a svolgere compiti di vigilanza e stimolo anche nei settori di competenza degli enti pubblici dotati di autonomia e perfino là dove operano gli altri organi costituzionali. L’esercizio di alcune funzioni viene affidato o a strutture decentrate dei vari ministeri o ad agenzie, aziende o enti pubblici strumentali facenti capo ai ministeri. Alcune limitate sono rappresentate dall’attribuzione da parte del legislatore di poteri amministrativi ad alcuni organi o enti pubblici posti in posizione di sostanziale indipendenza dal Governo.
I ministeri dopo la riforma del 1999 e il decreto-legge del 2001 sono i seguenti: degli affari esteri, dell'interno, della giustizia, della difesa, dell'economia e delle finanze, delle attività produttive, delle comunicazioni, delle politiche agricole e forestali, dell'ambiente e della tutela del territorio, delle infrastrutture e dei trasporti, del lavoro e delle politiche sociali, della sanità, dell'istruzione, dell'Università e della ricerca, per i beni e le attività culturali.
Nove dei ministeri sono strutturati in dipartimenti, mentre 5 (esteri, difesa, comunicazioni, sanità, beni culturali) mantengono la più antica articolazione in direzioni generali, cui si somma la presenza di un segretario generale (figura estranea agli altri ministeri). I dipartimenti operano in grandi aree di materie omogenee, disponendo anche di tutte le funzioni strumentali al conseguimento dei loro fini, a differenza delle più numerose direzioni generali, che operano in specifici settori materiali di competenza del ministero, o nelle diverse attività strumentali accessorie (personale, contabilità,…). L’organizzazione ministeriale appare largamente affidata al potere regolamentare del Governo. Oltre a diversi organi interni di controllo, esiste presso ogni ministero l'ufficio di bilancio, organo incaricato di verificare la regolarità degli impegni di spesa e della tenuta delle scritture contabili; si tratta di strutture decentrate della ragioneria generale dello Stato, importante apparato del ministero del Tesoro. Gli atti ministeriali sono sottoposti a diverse forme di controllo esterno, poste in essere dalla corte dei conti.
All’interno dei vari ministri, le leggi prevedono numerosi e diversificati organo consultivi formati in tutto o in parte da soggetti estranei all’amministrazione, sia per dare risposta alla esigenza di utilizzare esperienze professionali e scientifiche estranee all’amministrazione, che per coinvolgere e far partecipare a tale funzione rappresentanti di gruppi o forze sociali: i consigli superiori, organi consultivi di tipo tecnico, formati da esperti interni ed esterni all’amministrazione, e consiglio nazionali, organi prevalentemente rappresentativi di settori sociali e professionali, con funzioni consultive, a volte anche di indirizzo e coordinamento. All’esigenza di poter disporre di qualificate consulenze tecnico-giuridiche si provvede, oltre che tramite il consiglio di Stato mediante l’avvocatura generale dello Stato, le cui funzioni non si esauriscono nella rappresentanza e difesa in giudizio della pubbliche amministrazioni, ma comprendono anche l’espressione di pareri su una molteplicità di oggetti.
Alcune caratteristiche della Presidenza del Consiglio
La presidenza del Consiglio dei Ministri deve garantire un esercizio effettivo delle funzioni del presidente del consiglio, di direzione della politica generale del governo e di mantenimento dell'unità dell'indirizzo politico e amministrativo, nonché un adeguato supporto all'attività del Consiglio dei Ministri.
La presidenza viene configurata come una struttura organizzativa strettamente strumentale all’esercizio delle funzioni del presidente del consiglio e in particolare di quelle di direzione del governo e di mantenimento dei rapporti con il parlamento e gli altri organi costituzionali, con le istituzioni europee, con il sistema delle autonomie. Al fine di garantire il massimo di flessibilità alle strutture e un ricchissimo potere decisionale al presidente del consiglio, il decreto legislativo 303/1999 prevede come necessarie pochissime strutture della presidenza (il segretario generale, i dipartimenti per la partecipazione all'Unione Europea, per il coordinamento delle attività normativa del governo, per gli affari regionali). Per motivi di trasparenza, i decreti e i bilanci della presidenza vengono comunicati alle camere. Il presidente del consiglio nomina e revoca a sua discrezione il segretario generale della presidenza, i capi dei dipartimenti degli uffici, i consulenti e componenti di comitati di consulenza o di studio che reputi necessari, assegna le funzioni di direzione, di collaborazione e di studio presso la presidenza al personale dirigenziale o a esperti.
Il presidente del consiglio può configurare diversamente le numerose strutture dipendenti dal segretario generale o da affidare a ministri senza portafoglio o a sottosegretari alla presidenza. Analogamente sono disciplinati gli uffici di diretta collaborazione con il presidente, con i ministri senza portafoglio e i sottosegretari.
Il presidente del consiglio nomina e revoca a sua discrezione il segretario generale della presidenza ( eventualmente i vice-segretari), i capi dei dipartimenti e degli uffici, i consulenti e i componenti di comitati di consulenza o di studio che reputa necessario; assegna “le funzioni di direzione, di collaborazione e di studio presso la presidenza” al personale dirigente o a esperti.
Con il giuramento del nuovo governo decadono le nomine del segretario e dei vicesegretari.
Analogamente per il personale “di prestito” da altre amministrazioni se non viene confermato entro 6 mesi, nonché per i capi dei dipartimenti e degli uffici, mentre si interrompe il rapporto di lavoro del personale non di ruolo addetto ai gabinetti e alle segreterie delle autorità politiche; se entro tre mesi dal giuramento non vengono confermati gli incarichi agli esperti e ai dirigenti provenienti da altre amministrazioni pubbliche, i relativi decreti “ cessano di avere effetto”. In quest’ambito, il segretario generale esercita i poteri di organizzazione e di gestione amministrativa, impartisce le direttive generali per l’azione amministrativa, dispone di vasti poteri di coordinamento rispetto alle altre strutture della presidenza, predispone i progetti di bilancio e di conto consuntivo da   sottoporre all’approvazione del presidente del consiglio.
Il decentramento dell’amministrazione statale
Evidenti motivi di opportunità amministrativa spingono a far esercitare funzioni e a erogare determinati servizi statali tramite uffici operanti in determinate aree territoriali, a contatto con la comunità sociale più direttamente interessata e con i suoi problemi; la circoscrizione del decentramento muta profondamente da settore a settore, anche se il livello normale resta quello provinciale. Al decentramento si può procedere, in modo diverso, a seconda che gli uffici periferici dell’amministrazione non dispongono in realtà di alcun potere decisorio ed operino quindi solo come terminali dell’azione amministrativa ministeriale (si parlerà di mera deconcentrazione degli apparati burocratici), o , invece, venga loro attribuito anche il potere di esercitare a livello locale almeno parte della discrezionalità amministrativa di cui è titolare il ministero, seppur evidentemente secondo le direttive e sotto il controllo degli organi ministeriali (si parlerà allora di decentramento).
Il rilevante numero di uffici ministeriali periferici ha accentuato la necessità di un coordinamento a livello locale fra tutti gli uffici statali decentrati. Questa funzione, storicamente affidata al prefetto, organo rappresentativo del governo nella sua interezza, spesso si è scontrato con la tendenza ministeriale a una gestione autonoma. Il decreto legislativo 300/1999 ha previsto la trasformazione delle prefetture in uffici territoriali del governo (con a capo sempre il prefetto). Concentrandovi anche i compiti di tutti gli uffici periferici delle amministrazioni statali, salvo quelli dipendenti dai ministeri degli esteri, della difesa, dell’economia e delle finanze, della pubblica istruzione, dei beni culturali. A tempo stesso, il prefetto “è coadiuvato da una conferenza permanente, da lui presieduta e composta dai responsabili delle strutture periferiche dello Stato”. Con la revisione del titolo V della Cost. le funzioni di rappresentanza dello Stato nei rapporti con le autonomie locali sono state attribuite al prefetto del capoluogo regionale. Una forma diversa di decentramento è quella che si realizza attraverso l'affidamento ai comuni della gestione di una serie di servizi statali con la specifica responsabilizzazione del sindaco, che, in questo ambito, opera come ufficiale del governo. Per l’art.54, il sindaco deve svolgere funzioni ed emanare atti “attribuiti dalle leggi e dai regolamenti in materia di ordine e sicurezza pubblica”, nonché adottare, ove occorra, “provvedimenti con tingibili ed urgenti al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini.
Le aziende, le agenzie, gli enti pubblici
La necessità della pubblica amministrazione di svolgere attività prevalentemente di produzione di beni o di erogazione di servizi, mediante organizzazioni di tipo aziendale, ha, nel passato, più volte indotto il legislatore a istituire all'interno dei ministeri apposite aziende o amministrazioni autonome, dotate di un'apposita disciplina speciale, tale da permettere la produzione di quei beni e servizi, sfuggendo alle rigide normative dell'organizzazione ministeriale. L'azienda resta dunque un organo ministeriale, ma dotato di una speciale organizzazione: ha organi sul modello societario e dispone di un proprio bilancio e di un proprio patrimonio, ma non è dotato in genere di personalità giuridica.
I suoi organi sono tutti di nomina ministeriale, con l’attribuzione della presidenza al ministro presso il cui ministro è istituita e i suoi bilanci sono allegati a quelli ministeriali.
Le agenzie appaiono come speciali strutture amministrative dotate di personalità giuridica e di propri statuti, istituita per svolgere in regime di autonomia attività prevalentemente tecniche già di competenza ministeriale, spesso per soddisfare una pluralità di interessi pubblici.
L’agenzia dispone di un particolare regime autonomo, sul piano dell’organizzazione, della contabilità e della spesa; i suoi rapporti con lo Stato sono disciplinati mediante una conversione con il ministro vigente, che fissa gli obiettivi da conseguire e i corrispondenti mezzi finanziari e materiali. Altre convenzioni possono essere stipulate con l’agenzia da altre amministrazioni pubbliche.
Gli organi dell'agenzia sono rappresentati da un direttore generale e da un comitato direttivo, formato da non più di tre dirigenti dell'agenzia. Distinti dalle aziende dalle agenzie sono gli enti pubblici. In questo caso l’ordinamento giuridico crea un’apposita organizzazione dotandola di una personalità giuridica separata da quella dello Stato (o della regione o dell’ente locale), o attribuisce la personalità giuridica pubblica a enti preesistenti di natura privata. L’art.4 della legge 70/1975 ha stabilito che “nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge”. Fra gli enti pubblici, tendono ad assumere una posizione del tutto particolare quelli finalizzati a rappresentare una particolare comunità locale o una entità sociale e a cui quindi vengono riconosciute forme di autonomia più o meno ampia rispetto agli stessi organi e poteri statali: categoria principale costituita dagli enti locali. La legislazione più recente sta riconoscendo forme significative di autonomia anche ad altri enti pubblici, come le università, gli ordini e collegi professionali e gli enti pubblici associativi (quelli cioè che hanno alla loro base un fenomeno di tipo associativo fra persone). L'amplissima categoria degli enti pubblici è inevitabilmente molto eterogenea, perché molto diversi sono i fini che lo Stato intende conseguire tramite la loro azione. Da una parte, vi sono enti che sostanzialmente esercitano veri e propri poteri pubblici, dall’altra, vi sono enti che devono produrre beni o erogare servizi, in qualche caso operando in posizione di privilegio rispetto ai soggetti privati o con speciali vincoli pubblicistici, ma alte volte in situazione di sostanziale parità con gli altri soggetti. Se la grande maggioranza di enti pubblici opera in ambiti locali e mediante organizzazioni anche assai modeste, vi sono enti pubblici che operano a livello nazionale mediante organizzazioni, mezzi finanziari e patrimoni rilevantissimi. Gli enti pubblici economici sono stati appositamente creati per svolgere attività di produzione di beni e servizi e pertanto devono poter disporre di una duttilità organizzativa analoga a quella dei soggetti privati. Da ciò 2 fondamentali caratteristiche distintive, consistenti, da un lato, nel fatto che questi enti operano mediante atti di diritto privato e, dall’altro, che essi instaurano con i loro dipendenti rapporti di lavoro di diritto privato. Ciò malgrado, anche gli enti pubblici economici sono parte della pubblica amministrazione, con alcune conseguenze: se da una parte tali enti, anche esercitando imprese commerciali, non possono fallire, ma sono solo soggetti alla liquidazione coatta amministrativa, i loro amministratori, oltre essere tenuti a operare nel rispetto dell’imparzialità e della buona amministrazione, risultano pubblici amministratori anche in sede penale.
Il personale e la dirigenza statale
La disciplina giuridica d’attività prestata da soggetti legati da un rapporto di pubblico impiego consiste in un complesso intreccio di diritti e doveri, finalizzarti a conseguire entrambi i valori di fondo cui deve mirare l’organizzazione della pubblica amministrazione:è evidente che il tipo di prestazione lavorativa incide notevolmente sul buon adattamento dell’amministrazione. Per un lungo periodo si è avuta una netta distinzione fra la prestazione lavorativa svolta a favore della pubblica amministrazione e tutte le altre. Dal momento che, in questo settore, si ritenevano assolutamente prevalenti gli interessi pubblici sugli interessi individuali del lavoratore. Col il passare del tempo, da una parte si è assistito ad una progressiva estensione al pubblico impiego degli istituti a tutela delle libertà individuali e collettive del lavoratore, anche con l’attribuzione di un importante ruolo alla contrattazione collettiva.
Il decreto legislativo 165/2001 determina le "norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche". L’attuale disciplina prevede che il rapporto di lavoro della grande maggioranza dei dipendenti pubblici sia disciplinato ai sensi del codice civile e delle “leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa”, mediante contratti collettivi e individuali di lavoro. I contratti collettivi vengono stipulati a livello nazionale (il contratto nazionale può anche prevedere casi di contrattazione collettiva decentrata) tra l'apposita agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale e nei singoli comparti contrattuali. Il comitato direttivo dell'ARAN è nominato dal presidente del consiglio.
Tre componenti sono di designazione governativa, mentre uno è designato dalla conferenza dei presidenti delle regioni e l’altro dall’ANCI e dall’UPI 8le associazioni rappresentative dei comuni e delle province). Il presidente è scelto al governo fra i tre componenti di sua designazione, dopo aver sentito il parere della conferenza unificata stato-regioni e stato-città.
Per il suo funzionamento, l’ARAN si avvale di comitati di settore rappresentativi delle diverse amministrazioni pubbliche coinvolte nei vari comparti contrattuali. Quando si raggiunge un’ipotesi di accordo, l’ARAN deve prima acquisire il parere favorevole del comitato di settore interessato; successivamente deve conseguire da parte della corte dei conti una certificazione di compatibilità dei costi contrattuali con gli atti di programmazione della spesa e di bilancio. Dopo la sottoscrizione dei contratti collettivi, questi divengono immediatamente efficaci, senza la necessità di un loro recepimento da parte degli enti pubblici interessati e le diverse amministrazioni pubbliche sono tenute a dare applicazioni ad essi e a “garantire parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi”. La legislazione degli anni  90 ha sancito la necessaria “separazione fra i compiti di direzione politica e quelli di direzione amministrativa” e ha disciplinato le figure e i poteri di due tipi di dirigenti: dirigenti generali e dirigenti. Mentre sugli incarichi dei dirigenti generali (che durano fino a 3 anni) decide il governo sugli altri incarichi dirigenziali (che durano fino a 5 anni) decide il dirigente generale competente.
L'articolo 4 del suddetto decreto legislativo, mentre riserva agli organi di governo la definizione degli obiettivi e dei programmi da attuare, stabilisce che ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono dunque responsabili in via esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati. A conferma della tendenziale separatezza delle attribuzioni fra ministro e dirigenza, gli atti dei dirigenti generali non sono suscettibili di ricorso gerarchico al ministro e quest’ultimo non dispone più di un generico potere di sostituzione nei confronti del dirigente generale: l’art. 14.3 del D.lgs 165/2001 afferma che “ il ministro non può revocare, riformare, riservare o avocare a se o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti”. In caso di inerzia o ritardo o grave inosservanza delle direttive generali, un complesso procedimento può portare solo alla nomina di un apposito commissario ad acta, dandosene notizia al presidente del consiglio. Per altro le innovazioni introdotte dalla legge 145/2002 al testo unico accentuano un legame di tipo fiduciario fra governo e altra dirigenza: si è ridotta la durata degli incarichi dirigenziali, si permette di conferire fino a metà degli incarichi dirigenziali generali anche a soggetti non inseriti nel ruolo relativo, si prevede la cessazione automatica dei maggiori incarichi dirigenziali dopo 90 giorni dal voto di fiducia ad un nuovo governo.
I beni della pubblica amministrazione
L'amministrazione statale necessita di beni allo scopo di conseguire le finalità individuate dal sistema normativo. Anzitutto è necessario del denaro per far fronte alle spese pubbliche.
La costituzione ha stabilito che tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva e il sistema tributario nel suo complesso è informato a criteri di progressività. Nell'ambito del complesso sistema tributario possono distinguersi anzitutto le imposte (in quanto dotati di capacità contributiva, e si distinguono in dirette o indirette), le tasse e contributi speciali.
Le imposte sono tributi che si è tenuti a versare per il solo fatto di trovarsi in una situazione che la legge reputa rilevatrice di capacità contributiva; le tasse sono tributi che vengono pagati da soggetti che usufruiscono di alcuni beni o servizi pubblici; i contributi speciali sono tributi pagate in alcune occasioni da soggetti che ricevono un vantaggio diretto da un’attività amministrativa avente fini generali. A loro volta, le imposte si distinguono in imposte dirette, e cioè quelle che si riferiscono ai redditi o al patrimonio dei vari soggetti, e indirette, e cioè quelle che si riferiscono solo ad un fenomeno economico o a un trasferimento di ricchezza. Mentre le seconde, in genere, garantiscono una più agevole e sicura riscossione, le prime sono le uniche che possono garantire davvero una corretta progressività del prelievo fiscale.
Altre somme di denaro possono giungere all’erario dalla concessione dei crediti allo Stato sia da parte di organismi bancari nazionali ed internazionali, che da parte di privati che acquistano titoli di crediti emessi dal tesoro (BOT, CCT,…).
Perciò che riguarda in generale i beni, lo Stato, le regioni, le province e i comuni possono disporre di beni demaniali, di beni patrimoniali indisponibili e di beni patrimoniali disponibili. I beni demaniali sono inalienabili, non possono sorgere diritti reali su di essi, non possono essere espropriati.
L’art.822 c.c. individua un demanio necessario, formato da beni immobili che non possono che essere demaniali: si tratta del demanio marittimo (spiaggia, lido,…), del demanio idrico, del demanio militare. Demanio eventuale formato da beni immobili, over peraltro appartengono allo Stato o agli enti pubblici territoriali: strade, biblioteche, cimiteri,… i beni demaniali sono inalienabili, non possono sorgere diritti reali su di essi, né possono essere espropriati. Peraltro, quelli che sono tali per loro destinazione possono, nel caso che questa sia venuta meno, essere trasferita fra quelli patrimoniali mediante un apposito e complesso procedimento. Caratteristica dei beni del patrimonio indisponibile è la non modificabilità della loro destinazione, se non nei modi determinati dalle leggi che disciplinano le varie categorie dei beni. Beni patrimoniali disponibili sono, invece, tutti gli altri beni di proprietà dell’amministrazione pubblica e di questi essa dispone mediante gli ordinari strumenti giuridici del diritto privato. Recenti disposizioni prevedono appositi procedimenti, e numerose agevolazioni, per meglio utilizzare o per alienare beni patrimoniali dello Stato.
Le partecipazioni statali e l’utilizzazione di altri strumenti privatistici
Numerose vicende hanno condotto lo Stato ad acquisire, in parte o per intero, imprese private, perlopiù aventi forma giuridica di società per azioni, soprattutto al fine di evitare imponenti crisi settoriali. La consapevolezza di potere, in tal modo, intervenire nei diversi settori produttivi ha contribuito a trasformare la proprietà totale o parziale da parte dello Stato di numerose società in un vero e proprio nuovo tipo di presenza organizzata dello Stato nell’ambito delle attività produttive, con lo sviluppo di un intervento imponente, soprattutto nei settori industriali e terziari.  Fino ad epoca recente il sistema delle partecipazioni statali presentava le seguenti fondamentali caratteristiche: le società operative erano veri e propri soggetti di diritto privato, ma la proprietà delle loro azioni o del cosiddetto "pacchetto di controllo" faceva capo a un ente pubblico di gestione, che svolgeva nei loro riguardi le funzioni tipiche delle società finanziarie che controllano un gruppo di società. Questi enti di gestione erano enti pubblici economici, posti sotto la vigilanza e il potere di direttiva del ministro delle partecipazioni statali. Questo sistema voleva rispondere alla necessità di vigilare e indirizzare questo complesso sistema delle imprese a partecipazione statale senza peraltro negare l'opportunità di conservare loro un regime privatistico. La tendenza ad utilizzare la forma privatistica è alla base anche di altre numerose iniziative; inoltre, alcune leggi hanno creato singolari tipi di società per azioni, in posizione del tutto dipendente da alcuni ministeri, quasi si trattasse di loro enti strumentali. 
Le disposizioni che hanno riformato il settore pubblico bancario hanno prima previsto che gli istituti di credito di diritto pubblico creassero società per azioni per gestire l’attività creditizia, delle quali dovevano (di regola) controllare la maggioranza, successivamente le fondazioni bancarie sono state definite persone giuridiche private senza scopo di lucro ed è stato loro imposto di dimettere le partecipazioni di controllo delle società bancarie a suo tempo create. Nel 1991 si è prima prevista la possibilità di trasformare in S.p.A. "gli enti di gestione delle partecipazioni statali e gli altri enti pubblici economici, nonché le aziende pubbliche statali". Al tempo stesso, tutte le attività e i diritti di natura pubblicistica, attribuiti o riservati a questi enti, che hanno già assunto la veste di società per azioni, sono stati fatti oggetto di concessioni di durata non inferiore a vent'anni.
Ad alcune trasformazioni in s.p.a. di enti ha corrisposto la loro vendita o la vendita di alcune delle società controllate. L’assunzione della forma giuridica di s.p.a. da parte di aziende pubbliche non significa, di per sé, una rinuncia dello Stato ad intervenire in determinati campi.
Le autorità amministrative indipendenti
Un'eccezione a questo sistema di dipendenze dell'amministrazione statale dai ministri è costituita da quei casi nei quali il legislatore ha affidato determinate funzioni amministrative di particolare delicatezza ad autorità amministrative indipendenti, sulla base delle esperienze straniere. Si tratta dell'espletamento di funzioni per le quali sono ritenute essenziali non solo l'imparzialità, ma anche la terzietà dell'autorità amministrativa rispetto agli stessi interessi che si esprimono nel governo. La nomina dei loro vertici avviene nell'ambito di categorie professionali particolarmente qualificate e estranee a soggetti istituzionalmente collegati con gli organi di governo.
Si tratta non solo di autorità dotte di responsabilità amministrative estremamente differenziate, ma costituite a volte come organi monocratici o collegiali, a volte come enti pubblici. I dati comuni sono rappresentati soltanto dalla nomina dei loro vertici, la quale avviene nell’ambito di categorie professionali qualificate ed estranee a soggetti istituzionalmente collegati con gli organi di governo, dalla previsione di ampie clausole di incompatibilità e dal divieto di rinnovo nella carica oltre un certo periodo; dalla mancata previsione di modalità di revoca; dall’attribuzione di una larga autonomia organizzativa e di spesa; dalla dipendenza solo da esse del personale degli uffici o degli enti. Numerosi sono i casi di attribuzione di queste autorità di veri e propri poteri regolamentari, più spesso relativi alla loro organizzazione, ma altre volte anche attinenti alla disciplina dei settori da loro gestiti. Parimenti assai differenziati sono i poteri di amministrazione attiva e di controllo che le singole leggi loro attribuiscono. Solo in alcuni casi si attribuiscono funzioni di tipo giustiziale.
I COSIDDETTI ORGANI AUSILIARI
Si tratta di organi le cui funzioni sono tra loro alquanto eterogenee e riferite non solo al governo ma anche al parlamento e, ancora più in generale, al complesso delle istituzioni pubbliche. La stessa categoria degli organi ausiliari, intesi come organi la cui attività è finalizzata a favorire un miglior funzionamento dei complessi organici diotati di poteri legislativi o di amministrazione attiva, non appare sufficientemente omogenea, come testimonianza l’esigenza di altri organi ausiliari istituti per legge, alcuni dei quali dotati anche di rilevante autorevolezza.
Il Consiglio di Stato
Si tratta di un organo sia di "consulenza giuridico-amministrativa", sia di "tutela della giustizia nell'amministrazione". Con riferimento alla corte dei conti, l'articolo 100.3 della costituzione afferma che "la legge assicura l'indipendenza dei due istituti e dei loro componenti di fronte al governo". Il Consiglio di Stato è composto da un numero limitato di magistrati (poco più di 120), si articola in sette sezioni, le prime quattro con competenze consultive, le altre con competenze giurisdizionali.
In sede consultiva opera anche l'adunanza generale, formata da tutti consiglieri di Stato; a livello giurisdizionale, opera invece l'adunanza plenaria, composta da dodici consiglieri delle tre sezioni giurisdizionali. Il Consiglio di Stato è l’organo di appello rispetto alle sentenze adottate dai Tar, seppur si tratti di organi giurisdizionali distinti, molteplici sono i rapporti fra Tar e Consiglio di Stato, dai meccanismi di nomina dei consiglieri di Stato, al fatto che il consiglio di presidenza della giustizia amministrativa vede la presenza anche di rappresentanti dei magistrati dei Tar ed esercita i suoi poteri in riferimento ai magistrati che compongono entrambi questi organi.
Il consiglio di presidenza della giustizia amministrativa è formato dal presidente del consiglio di Stato (che lo presiede), da quattro magistrati del Consiglio di Stato e da sei magistrati dei Tar eletti dalle rispettive magistrature, nonché da quattro cittadini nominati da camera e senato (professori universitari in materie giuridiche o avvocati con vent'anni di esserci solo professionale). Quest'organo è chiamato a deliberare su tutti i provvedimenti attinenti lo status dei magistrati, le sanzioni disciplinari, l'esercizio dell'autonomia finanziaria del Consiglio di Stato. L'influenza del governo passa attraverso la nomina del presidente del Consiglio di Stato da parte del Consiglio dei Ministri. Anche se tale scelta è ristretta ai magistrati del Consiglio di Stato, attraverso la nomina di un quarto dei nuovi consiglieri di Stato da parte del consiglio dei ministri, scelta questa che deve avvenire fra categorie di personale particolarmente qualificate e previo parere del consiglio di presidenza “contenente valutazioni di piena idoneità all’esercizio delle funzioni di consigliere di Stato sulla base dell’attività e degli studi giuridico amministrativi compiuti e delle doti attitudinali e di carattere”. Gli altri posti che si rendono vacanti sono riservati, per metà, ai consiglieri di Tar aventi una certa anzianità di servizio e che ne facciano domanda. Solo il quarto residuo di posti è riservato ad un concorso pubblico, cui possono partecipare una serie di categorie di magistrati o di pubblici funzionari.
Il Consiglio di Stato può essere incaricato dal governo a esprimere il suo parere su proposte di legge e addirittura redigere progetti di legge e di regolamento (pareri facoltativi); i pareri obbligatori riguardano il caso in cui la pubblica amministrazione richiede il parere al Consiglio di Stato; rari sono i casi di pareri vincolanti.
La Corte dei Conti
La corte dei conti per l'articolo 100.2 "esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabilite dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Riferisce direttamente alle camere sul risultato del riscontro avvenuto"; per l'articolo 103.2, invece, essa "ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge". Ci si trova dinanzi ad uno speciale organo composto da magistrati amministrativi che, oltre ad alcune funzioni giurisdizionali in vari settori in cui è in gioco l’interesse finanziario dello Stato, esercita anche una serie di funzioni amministrative riconducibili a diverse forme di controllo esterno sulla pubblica amministrazione statale, ma in parte anche su quella regionale e locale.
A livello centrale, esistono tre sezioni di controllo, rispettivamente sugli atti del governo e delle amministrazioni statali, sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce di ordinaria, sui conti consuntivi delle province e dei comuni; le tre sezioni giurisdizionali centrali invece sono giudice di appello rispetto alle sentenze delle sezioni giurisdizionali e regionali. Le sezioni giurisdizionali centrali, oltre alle funzioni di giudice di secondo grado, giudicano a sezioni riunite sui conflitti di competenza o su questioni di massima.
A livello regionale esistono sezioni giurisdizionali regionali, presso le quali opera anche un procuratore regionale. Sempre a livello regionale operano 4 sezioni di controllo per altrettante regioni speciali e collegi di controllo per le altre realtà regionali.
Sono da ricordare le importanti figure del presidente della corte dei conti e del procuratore generale presso la corte stessa (che svolge le funzioni del pubblico ministero).
Nell’attesa di una legge organica di riordinamento della Corte dei Conti, è stato istituito il consiglio di presidenza della Corte dei Conti, cui sono state attribuite funzioni in parte analoghe a quelle del consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. La composizione di quest’organo, prevede accanto al presidente della Corte (che lo presiede), al procuratore generale e al presidente di sezione più anziano, 10 magistrati eletti fra le diverse qualifiche e 4 esperti designati d’intesa dai presidenti delle Camere, scelti fra i professori ordinari di materie giuridiche o gli avvocati con 15 anni di esercizio professionale. Il presidente della Corte è nominato dal governo; esso è tenuto a riferire “a capo del governo, primo ministro segretario di Stato, sull’andamenti dei lavori della Corte”, e che, soprattutto, il consiglio dei ministri conserva ancora il potere di nominare la metà dei consiglieri della Corte dei Conti, mentre la nomina dell’altra metà è riservata a promozioni fra i primi referendum. I magistrati della Corte dei Conti si distinguono in referendari, primi referendari e consiglieri; al primo grado si accede tramite un concorso pubblico riservato ai magistrati, avvocati iscritti all’albo da almeno un anno, alcune categorie di funzionari pubblici laureati in giurisprudenza; a quelli successivi mediante promozioni fra i magistrati del grado inferiore. Le sue principali funzioni di controllo possono distinguersi nel controllo preventivo di legittimità sugli atti del governo (e delle regioni Friuli Venezia- Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino Alto- Adige), nei controlli successivi sugli atti delle aziende pubbliche, nel controllo successivo sul rendiconto annuale dello Stato, nei diversi controlli sulla gestione finanziaria degli atti pubblici e dehli enti sovvenzionati dallo Stato. A questi tipi di controllo, la più recente legislazione ha aggiunto l’esercizio di un “controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche”, ivi comprese anche le amministrazioni regionali.
Notevoli modifiche sono state introdotte in relazione al controllo preventivo di legittimità: l’art. 3 della legge 20/1994 individua solo 9 categorie di atti da sottoporre necessariamente a questo controllo. A questi possono aggiungersi gli “atti che il presidente del consiglio dei ministri richieda di sottoporre contemporaneamente a controllo preventivo o che la Corte dei Conti deliberi di assoggettare, per un periodo determinato, a controllo preventivo in relazione a situazioni di diffusa e ripetuta irregolarità rilevante in sede di controllo successivo”. Si pongono brevi termini perentori per l’eventuale pronuncia di illegittimità, scaduti i quali il provvedimento diventa esecutivo. Se il magistrato adatto a fare ciò non rileva motivi di illegittimità, appone un visto all’atto e di ciò si tiene memoria in appositi registri; altrimenti egli formula un rilievo all’amministrazione interessata e provoca una deliberazione da parte della sezione di controllo. Contro la decisione negativa di tale organo, il ministro componente può portare la questione in consiglio dei ministri onde ottenere che quest’ultimo dichiari “che l’atto o decreto debba aver corso”; in tale ipotesi, la Corte dei Conti entro 30 giorni si riunisce a sezioni riunite “e qualora non riconosca cessata la causa del rifiuto, ne ordina la registrazione e vi appone il visto con riserva”, dandone peraltro comunicazione alle Camere.
Tuttavia, la registrazione con riserva è esclusa, e quindi il rifiuto di registrazione rende inefficace il provvedimento, in alcuni specifici casi relativi a spese prive di copertura e a nomina disposte oltre i limiti degli organici.
Per le aziende pubbliche e la "vigilanza e riscontro" dei loro atti è esercitato secondo le disposizioni delle leggi specifiche che le disciplinano e che, in genere, prevedono solo forme di controllo a posteriori. L’art.3.3 legge 20/1994 ha individuato un nuovo controllo a posteriori, in riferimento all’amministrazione statale: le sezioni riunite della Corte dei Conti possono deliberare che siano sottoposte al loro esame categorie di deliberazioni di notevole rilievo finanziario; in quest’ambito la Corte può chiedere il riesame degli atti, “ferma rimanendone l’esecutività”; anche se riesaminato viene valutato come illegittimo, la Corte ne dà semplicemente “avvio al ministro”.
Per quanto riguarda il controllo sulla gestione delle amministrazioni pubbliche è un controllo non solo di legittimità, ma di "regolarità delle gestioni" e, più in generale, di "rispondenza dei risultati dell'azione amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge, valutando comparativamente costi, modi e tempi dello svolgimento dell'azione amministrativa". Non a caso, l’esito di questo tipo di controllo viene reso noto da relazioni che la Corte dei Conti invia alle amministrazioni interessate e al parlamento. Un ulteriore tipo di controllo delle sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti “in funzione collaborativa con gli enti locali” è stato previsto per valutare gli equilibri di bilancio degli enti locali e delle regioni: gli esiti delle verifiche sono però destinati “esclusivamente ai consigli degli enti controllati” e a tal fine si prevede anche la possibilità che le sezioni regionali possono essere integrate da due esperti designati dalla regione e dagli enti locali. È, invece, un antico controllo a posteriori, essenzialmente di stimolo nei confronti del parlamento e del governo, quello di “parificazione del rendiconto generale dello Stato e dei rendiconti annessi”.
Il ministro del Tesoro, prima di trasmettere il rendiconto annuale alle camere, lo invia alla corte dei conti che, a sezioni riunite, valuta la legittimità delle spese rispetto alle previsioni di bilancio, ma anche come le varie amministrazioni si sono conformate alle discipline di ordine amministrativo e finanziario.
La legge 259/1958 ha dato applicazione alla previsione costituzionale di un controllo della Corte dei Conti “sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria”, mediante l’adozione di un differenziato sistema di controllo, a seconda che l’ente, pubblico o privato, sia destinatario di contribuzioni in via ordinaria, o che l’ente pubblico abbia dall’amministrazione statale un contributo al capitale (sono esplicitamente esclusi da questi tipi di controlli, gli enti locali, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, gli istituti di credito).
Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro
Organo composto di “esperti e di rappresentanti delle categorie produttive”, come organo consultivo delle Camere e del governo, ha rappresentato un debole tentativo di recupero dell’esigenza di innestare nel circuito decisionale i rappresentanti delle diverse attività lavorative e imprenditoriali.
L'articolo 99 della costituzione determina non solo la composizione di quest'organo, ma anche le funzioni e le modalità con le quali esso può "contribuire all'elaborazione della legislazione economica e sociale". In realtà, le 2 leggi principali sussedutesi in materia l’hanno configurato in termini tra loro molto diversi, in particolare aumentandone le funzioni e riducendo i poteri che su quest’organo possono essere esercitati dal Governo. Il CNEL non è finora riuscito a svolgere un ruolo particolarmente significativo: è composto da 122 componenti, che restano in carica cinque anni; il presidente, nominato dal governo, 12 esperti (ovvero qualificati esponenti della cultura economica, sociale e giuridica) di cui 8 nominati dal presidente della Repubblica e quattro nominati dal governo, 99 rappresentanti delle categorie produttive di beni e servizi nei settori pubblico e privato (dei quali 44 rappresentanti dei lavoratori dipendenti, 18 rappresentanti dei lavoratori autonomi, 37 rappresentanti delle imprese, 10 rappresentanti del volontariato e dell'associazionismo sociale).
La legge 936/1986 sembra configurare il CNEL come un rilevante organo ausiliario, nei settori della politica economica e sociale, del Parlamento, del Governo e delle regioni, organi tutti che possono rivolgersi ad esso per chiedere studi ed indagini, ma che possono anche essere i destinatari di sue autonome osservazioni e proposte. Il CNEL viene riconosciuto un autonomo potere di iniziativa legislativa a livello nazionale.

 

L’ATTIVITÀ AMMINISTRATIVA
Fra i fini che lo Stato sociale si pone troviamo il buon andamento e l’efficienza degli apparati pubblici, intesa come rapporto fra risultati conseguiti e risorse impiegate, mentre per efficacia si intende il rapporto fra risultati conseguiti e obiettivi prestabiliti.
Attività amministrativa e principio di legalità
Nel nostro sistema costituzionale, l'attività degli organi amministrativi appare sottoposta sotto molteplici aspetti alla legge e può essere descritta come l'attività volta a conseguire i fini determinati dalle prescrizioni costituzionali e legislative, tant'è che la pubblica amministrazione può fare solo ciò che la legge le prescrive o le permette di fare. Risulta diverso affermare che la legge debba limitarsi a prevedere che l'amministrazione provveda in un determinato ambito (legalità in senso formale) o che, invece, essa debba anche determinare quanto meno le linee fondamentali entro cui l'amministrazione pubblica deve operare (legalità in senso sostanziale). In realtà manca in Costituzione una prescrizione generale di puntuale sottoposizione dell’azione amministrativa a vincoli legislativi sostanziali: ciò in conseguenza dell’estrema difficoltà di disciplinare analiticamente, con legge, ogni rapporto relativamente al quale si preveda l’intervento della pubblica amministrazione, ma anche per i vincoli innumerevoli e diffusi che ne deriverebbero all’attività amministrativa, anche in settori di minore rilevanza o nei quali appare indispensabile permettere un’ampia discrezionalità agli organi della pubblica amministrazione, in considerazione della varietà e della mutevolezza dei fattori che devono essere considerati e la cui valutazione può essere meglio operata in sede amministrativa.
La nostra costituzione prevede l'ipotesi di riserve di legge, che equivalgono alla prescrizione che la disciplina di quelle determinate materie possa essere posta solo dal legislatore o integralmente o, almeno, nelle sue linee generali. La soluzione del problema è legata alla diversa tutela costituzionale dei diversi interessi di gioco: ad esempio, l’azione amministrativa dovrà essere disciplinata per legge. Ma, al tempo stesso, in altri ambiti, non coperti da riserva di legge, sarà sufficiente che il legislatore determini i fini per la cui realizzazione dovrà operare la pubblica amministrazione, potendo, quindi, quest’ultima disporre di una discrezionalità anche molto ampia, seppure con l’utilizzazione di apparati, strumenti giuridici e mezzi finanziari disciplinati legalmente. D’altra parte, la tradizionale distinzione fra attività legislativa, libera nell’individuazione dei fini nell’adozione dello Stato, e attività amministrativa, libera solo nell’individuazione delle modalità mediante le quali realizzare i fini determinati tramite le leggi, appare esatta nelle sue linee di fondo, ma attualmente da correggere su entrambi i versati: da una parte, la rigidità costituzionale, almeno in alcune materie, vincola non poco la stessa libertà del legislatore, dall’altra, la politicità, connessa all’esercizio del potere di Governo delle varie amministrazioni, emerge con tutta evidenza dall’esame della notevole discrezionalità di tante scelte lasciate alle determinazioni da assumere in sede amministrativa. Di norma, la genericità delle prescrizioni legislative impone all’amministrazione, che voglia dar loro attuazione, di operare una serie di scelte ulteriori rispetto a quelle determinate dalla legge.
Gli atti amministrativi sono attribuiti alla competenza degli organi politici di vertice dei diversi sistemi amministrativi, a conferma della rilevanza della natura largamente discrezionale delle scelte che vengono in tal modo operate in attuazione, ma spesso anche a integrazione, più o meno accentuata, delle scelte operate dal legislatore.
Gli atti della pubblica amministrazione
L'attuazione della legge in via amministrativa consiste in attività o in atti fisici, i quali o costituiscono atti materiali della pubblica amministrazione o, più comunemente, atti formali posti in essere dalla pubblica amministrazione.
Dal punto di vista giuridico si conoscono, infatti, anche atti che consistono in veri e propri comportamenti o anche in fatti, ma certo più comune sono gli atti dotati di una forma tipica (per lo più consistenti in testi scritti), che meglio rispondono ad esigenze di conoscibilità e certezza.
Fra le tante distinzioni possibili degli atti amministrativi troviamo gli atti unilaterali di tipo autoritativo (posti in essere solo da gli organi della pubblica amministrazione), quelli privi di una particolare efficacia giuridica e quelli di diritto comune.
La prima categoria corrisponde agli atti che possono essere posti in essere solo dagli organi della pubblica amministrazione, dal momento che concretizzato il primato di determinati interessi generali sulle altre posizioni coinvolte (si pensi, ad es., a un’espropriazione, a una concessione, all’adozione di un piano urbanistico). Questi atti sono anche dotati di una particolare efficacia giuridica: ad es., essi non solo hanno sempre, al termine del loro procedimento di formazione, la particolare capacità di incidere sulla situazione giuridica di altri soggetti, senza dover essere da questi accettati (imperatività o autoritarietà), ma che spesso godono anche di una disciplina particolare nella fase della loro esecuzione. Su tutti gli altri interessi coinvolti, essi non possono non essere tipici, in quanto appositamente previsti come gli strumenti giuridici per conseguire quei determinati fini (a differenza di quanto avviene nel diritto privato, in cui domina il principio opposto della libertà dei contenuti degli atti, salvi i limiti posti dalla legge). L’amministrazione pubblica di tipo autoritario rappresenta oggi la caratteristica dominante nell’amministrazione italiana. Tale caratteristica, tuttavia, non è in astratto necessaria; non solo, ma attualmente essa risulta in parte erosa dall’espansione dell’area dei servizi pubblici e soprattutto da una crescente utilizzazione degli strumenti di diritto comune a opera delle amministrazioni pubbliche. Nell'ambito dei servizi pubblici, buona parte delle attività poste in essere dalla pubblica amministrazione consistono in attività di servizio verso gli utenti e in comportamenti del tutto omogenei a quelli prestati da un qualsiasi soggetto che svolga attività analoga e quindi non sono certo disciplinati legislativamente mediante una rigorosa tipizzazione dei singoli atti.
Ciò non toglie che norme di diritto amministrativo regolino le strutture organizzative entro cui queste attività vengono svolte e tutta una serie di modalità di prestazione del servizio, di modo che, in tali settori, convivono attività amministrative non tipizzate e non autoritative, con altre, invece, riconducibili all’altra categoria. La vera diversità radicale si ha allorché il legislatore permette che la pubblica amministrazione o per i mediante veri e propri strumenti giuridici di diritto privato, evidentemente ritenuti, in determinati contesti, più idonei per il buon adattamento amministrativo. In sede dottrinale si ritiene che lo Stato e gli enti pubblici dispongono di una generale capacità di diritto privato, ma le diverse legislazioni tendono a ridurre questa facoltà ad un’eccezione, cui ricorrere là dove, e nella misura, in cui, essa sia espressamente prevista. Anche in questo settore a porre in essere atti di diritto privato sia una pubblica amministrazione, ove si considerino gli atti preliminari alla stipulazione del contratto, perché qui vengono in rilievo tutte quelle norme che tendono a tutelare la legalità, il buon adattamento e l’imparzialità dell’amministrazione anche nell’utilizzabilità di questi strumenti giuridici.
La discrezionalità amministrativa
L'autorità amministrativa deve concretizzare la volontà legislativa, che rappresenta la sua fonte di legittimazione, e deve quindi attuare il fine indicato dalla legge (quindi per definizione fine pubblico), nel contesto reale nel quale è chiamata operare e nella considerazione di tutti gli interessi, in quel contesto, giuridicamente rilevanti.
Altri importantissimi limiti derivano dai principi che in materia di pubblica amministrazione stabilisce l’art. 97 Cost. e dalla stessa collocazione dell’amministrazione all’interno di uno Stato democratico e sociale. Di norma, all'amministrazione spetta determinare se e quando adottare l'atto, attraverso quali modalità, con quali eventuali contenuti più specifici.
La discrezionalità amministrativa è pressoché inesistente nei cosiddetti atti vincolati ma può essere massima negli atti della cosiddetta alta amministrazione. L'organo amministrativo deve quindi operare per il perseguimento del fine legislativo (il cosiddetto interesse pubblico primario), ma nel contesto reale in cui occorre operare e rispetto al quale deve ricercare, e correttamente valutare, anche nei cosiddetti interessi pubblici secondari, nonché gli stessi interessi privati legittimamente considerabili. Solo su questa base, l’autorità amministrativa potrà adottare l’atto, che quindi sarà il frutto di una valutazione ponderata di diversi interessi, pur nel perseguimento di quello primario; da ciò la conferma che l’attività amministrativa è, di regola, non un’attività soltanto tecnica, ma anche politico-amministrativa, sia pur svolta in attuazione e nel rispetto della legge. Delicato il rapporto fra uso illegittimo della discrezionalità e scelte proprie dell’amministrazione (merito amministrativo): le scelte legittime operabili dall’amministrazione rappresentano l’essenza del potere amministrativo.
Discrezionalità tecnica è caratterizzata dall’autorizzazione da parte di una amministrazione di un potere di scelta esercitato sulla base di valutazioni tecniche di tipo scientifico e che quindi sottrarrebbero ogni discrezionalità all’amministrazione che debba adottare un provvedimento in materia.
I procedimenti amministrativi
Lo studio dei procedimenti amministrativi mira a evidenziare i rapporti intercorrenti fra i diversi atti degli organi degli uffici pubblici al fine di svolgere l'attività amministrativa necessaria per produrre gli effetti giuridici voluti. Risulta, dunque, indispensabile la considerazione di tutte le diversi fasi, tra loro – seppur in misura diverse – interdipendenti, se è vero che, ad es., alcuni vizi delle fasi preliminari possono determinare un vizio dell’atto finale e la mancanza della sola fase integrativa dell’efficacia pone nel nulla tutto il precedente procedimento. L'atto della pubblica amministrazione è il prodotto di un'organizzazione e pertanto, in genere, rappresenta una fase intermedia o finale di un procedimento, in parte originato dalla competenza specifica dei diversi uffici e organi che vi intervengono e dovrà essere il prodotto di un giusto procedimento. In ogni procedimento si usano distinguere tre fasi principali, ovvero la preparatoria (per fornire gli elementi necessari per la decisione a partire dall'atto di iniziativa). È indispensabile l’atto di iniziativa, che può essere della stessa amministrazione (procedimento d’ufficio), di una parte privata interessata (procedimento ad istanza di parte), o di un altro organo o soggetto pubblico (procedimento ad istanza pubblica); su questa base l’amministrazione inizia il procedimento e si apre l’importantissima sottofase istruttoria, nella quale gli organi amministrativi competenti raccolgono tutte le informazioni che reputano necessarie, avvalendosi anche di altri organi pubblici o soggetti privati per il recepimento della documentazione o per l’acquisizione delle opinioni di esperti o interessati; è in questa fase che si realizza, nei casi previsti dalla legge, il principio del contraddittorio fra soggetti interessati e amministrazione, mediante udienze pubbliche, presentazione di osservazioni o anche di opposizioni. Segue la sottofase della raccolta dei pareri di appositi organi amministrativi, dotati di particolari competenze tecnico scientifiche o, alcune volte, anche rappresentativi degli interessi coinvolti: qui si distinguono i pareri facoltativi, che l’amministrazione può ritenere opportuno richiedere, da quelli obbligatori per legge o regolamento e dai pareri vincolanti, che, invece, non solo devono essere necessariamente richiesti, ma vincolano l’amministrazione a seguirne il contenuto, salvo solo la possibilità di non adottare l’atto.
La costitutiva (così importante fase deliberativa che può essere semplice o complessa in base all'organo che si occupa di compierla). La fase deliberativa è semplice se l’adozione dell’atto è di competenza di un organo monocratico o anche di un organo collegiale (in questo caso occorrerà rispettare le norme prescritte per la validità delle deliberazioni). Se nella fase deliberativa, debbano intervenire più organi, si ha la formazione di un atto complesso: atti complessi uguali, nei quali le volontà di adottare l’atto da parte di tutti gli organi sono egualmente essenziali (si pensi ai decreti interministeriali o agli atti che devono essere adottati d’intesa fra gli organi), complessi diseguali, nei quali si distingue un organo titolare del potere deliberativo da altri organi la cui volontà può solo condizionare il contenuto dell’atto.
L'integrativa dell'efficacia dell'atto deliberato (il modo in cui gli atti producono effetti giuridici). Diverse sono le forme e le modalità del controllo sugli atti amministrativi: il controllo può essere generalizzato o ristretto a certe categorie di atti o operato a campione; di norma viene svolto in una fase preventiva all’efficacia dell’atto, ma possono darsi casi in cui interviene successivamente. Negli ultimi anni, possono anche essere previste ipotesi di controllo sostitutivo, mediante il quale l’organo di controllo può adottare un atto che l’organo e ente, tenuto a deliberarlo entro termini determinati, non abbia di fatto adottato. Per e ipotesi nelle quali l’organo di controllo dispone del potere di sindacare anche l’opportunità degli atti (controllo di merito), potendo quindi in tal modo giungere ad imporre la stessa riforma dell’atto: questi casi, a ben vedere, sono spiegabili come forme anomale di intervento nella fase deliberativa. Inoltre, normalmente, l’efficacia del provvedimento è subordinata, a tutela dell’essenziale valore della conoscenza, anche alla sua comunicazione o alla notificazione ai diretti interessati, o almeno a forme di pubblicità legali.
Al termine delle varie fasi del procedimento, si ha quindi un atto non solo perfetto, ma anche efficace. La validità dell'atto dipende dalla sua conformità alle diverse prescrizioni normative che ne stabiliscono i requisiti sostanziali e procedimentali e su di essa potranno eventualmente, in seguito, essere chiamati in causa la stessa amministrazione pubblica o gli organi giurisdizionali, mentre temporaneamente l’atto continuerà ad essere efficace. Dopo molti dibattiti e con grande ritardo rispetto ad alcune esperienze straniere, si è giunti all’adozione dell’importante legge 241/1990, relativa a “nuove norme in materia in procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”, successivamente in parte modificata ed integrata dalla legge 15/2005, che ha introdotto disposizioni relative all’attività amministrativa.
GLI ATTI AMMINISTRATIVI
Atti e provvedimenti amministrativi
Fra gli atti amministrativi si opera una distinzione fra i meri atti amministrativi o atti amministrativi in senso stretto e i provvedimenti amministrativi: solo questi ultimi rappresentano infatti la manifestazione di volontà di una pubblica amministrazione diretta a soddisfare un interesse pubblico primario e pertanto sono assistiti dalla capacità di incidere, in modo unilaterale, sulle posizioni giuridiche coinvolte. Nel linguaggio giuridico corrente, si usa l'espressione atti amministrativi in un'accezione generica, riferendosi quindi anche ai provvedimenti amministrativi. I meri atti amministrativi corrispondono a momenti interni alle fasi del procedimento, o in mere dichiarazioni di conoscenza, espresse sulla base della documentazione esistente presso l’amministrazione (es. certificazioni), e quindi estranei al particolare regime giuridico previsto per gli atti dotati di imperatività.
Particolare efficacia dei provvedimenti amministrativi
Più volte ci si è riferiti all’imperatività o autoritarietà dei provvedimenti amministrativi, come alla tipica capacità del provvedimento amministrativo di incidere, in via unilaterale, sulla situazione giuridica del soggetto destinatario dell’atto, con conseguenze che si producono, non appena il provvedimento sia divenuto efficace.
I provvedimenti godono di esecutività e cioè dell'idoneità di poter immediatamente giungere alla fase della loro esecuzione, ove necessaria, consistente nella capacità di produrre i loro effetti sui destinatari, senza necessità di alcun intervento dell'autorità giudiziaria che ne confermi la legittimità. L’esecutorietà riguarda la fase dell'esecuzione forzata della pretesa dell'amministrazione, contro la volontà del soggetto coinvolto, senza che ciò dipenda dall'intervento, come del diritto privato, di un apposito giudice preposto all'esecuzione.
La radicale compressione delle situazioni soggettive che così si realizza, richiede che le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti solo nei casi e con le modalità stabilite dalle leggi e che il provvedimento costitutivo di obblighi debba indicare “il termine e le modalità dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato”.
Con l'inoppugnabilità ci si riferisce al fatto che numerose disposizioni di legge restringono i termini entro i quali provvedimenti amministrativi possono essere impugnati dinanzi agli organi della giustizia amministrativa. Tutto ciò ha il fine evidente di consolidare gli esiti dell’attività amministrativa, evitando il prolungarsi di dannose incertezze e il rischio di annullamenti che possono essere presupposto per ulteriori annullamenti, ma con la possibile conseguenza che continuino a rimanere efficaci provvedimenti amministrativi illegittimi.
Elementi degli atti amministrativi
Il soggetto del provvedimento corrisponde all'organo titolare del potere amministrativo che viene esercitato ed è individuato dalla legge; le competenze fra i vari organi dell'apparato amministrativo vengono individuate per materia, per territorio o per grado. Per oggetto del provvedimento può intendersi la persona, la cosa o la situazione giuridica su cui si producono gli effetti dell'atto: è necessario che l'oggetto sia determinabile e idoneo a subire gli effetti del provvedimento. Si parla di una competenza per materia per individuare, all’interno di una organizzazione complessa, l’organo amministrativo competente; di una competenza per territorio per individuare la competenza fra organi centrali e periferici o fra diversi enti o organi a competenza locale; di una  competenza per grado, per individuare l’organo titolare del potere all’interno di una struttura gerarchizzata.
Per oggetto del provvedimento può intendersi la persona, la cosa o la situazione giuridica su cui si producono gli effetti dell’atto: è necessario che l’oggetto sia determinabile e idoneo a subire gli effetti del provvedimento.   Con causa giuridica del provvedimento ci si riferisce all'interesse pubblico primario che la legge ha voluto tutelare ed è accompagnata da un'apposita motivazione, nella quale si indicano le ragioni che hanno portato all'adozione del provvedimento.
Adesso l’art. 3.1 della legge 241/1990, prescrive in generale che “ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”. Gli unici atti per quali non è richiesta la motivazione sono “gli atti normativi e quelli a contenuto generale”. Ciò si riferisce ai provvedimenti adottati in forma scritta, ma ciò non esclude che possono esservi anche provvedimenti consistenti in comportamenti di organi amministrativi e che, nei casi previsti dalla legge, il silenzio dell’amministrazione abbia effetti di tipo provvedimentale.
Le legislazione ormai prevede che l’attività dell’amministrazione possa equivalere all’accoglimento delle richieste ad essa avanzate (silenzio-accoglimento o silenzio-assenso).
In altri casi, invece, la legge attribuisce effetti, in varia misura negativi, al prolungato silenzio dell’amministrazione: sul piano processuale, si parla di silenzio-rigetto; sul piano sostanziale, vi sono non pochi casi di vero e proprio silenzio-diniego e altri nei quali si può giungere al silenzio-rifiuto nell’ipotesi in cui l’amministrazione non provveda, come sarebbe doveroso, e decorra un determinato periodo di tempo dalla diffida a provvedere dell’interessato.
La forma del provvedimento amministrativo appare un elemento particolarmente rilevante sia perché attraverso essa si documenta la conformità dell’atto alle prescrizioni legislative di tipo procedimentali e sia perché si consegue in tal modo il risultato di far dichiarare all’amministrazione quale sia il tipo di provvedimento che intende porre in essere.
Ci si chiede se sia ammissibile apporre elementi accidentali, come la condizione, in termine, il modo, ad un provvedimento amministrativo: la risposta non può che dipendere dalle previsioni legali,che, in alcuni casi consentono in modo esplicito (si pensi ad una serie di concessioni di servizi o di beni pubblici), o anche in modo implicito.

 

Alcune innovazioni introdotte dalla legge 241/1990 sulle modalità di esercizio dell’attività amministrativa
Anzitutto, questa legge stabilisce, all’art.1, che le sue disposizioni abbiano portata generale, facendo salve solo quelle speciali disposizioni legislative che disciplinano specifici procedimenti; inoltre, essa stabilisce che l’amministrazione non possa aggravare il procedimento, salvo che “per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria”.
L'articolo 2 della suddetta legge stabilisce che, ove il procedimento debba essere iniziato d'ufficio o su istanza di parte, esso deve essere concluso entro i termini fissati per legge, per regolamento o per un apposito atto dell'amministrazione interessata, altrimenti la legge fissa il breve termine di trenta giorni. Nella stessa direzione vanno tutte quelle numerose disposizioni che impongono larghe forme di pubblicità riguardo il termine entro il quale il procedimento deve terminare e la persona fisica responsabile. Al tempo stesso, si accresce notevolmente l’area dei soggetti che la legge ritiene titolari di un potere di intervento nel procedimento.
L'articolo 7, in tema di potere di intervento del procedimento, equipara ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinata a produrre effetti diretti e a quelli che per legge posso intervenirvi anche i soggetti individuabili a cui possa derivare un pregiudizio da provvedimenti in formazione ( a tutti questi deve essere data comunicazione personale dell’avvio procedimento, salvo che ciò sia impedito “da particolari esigenze di celerità” dello stesso; a questo riguardo, l’amministrazione può adottare anche provvedimenti cautelari).
Inoltre, l’art.9 prevede la facoltà d’intervenire nel procedimento non solo per “qualunque soggetto, portatore d’interessi pubblici o privati”, ma anche per i “portatori d’interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati”. Ciò è importante, in quanto l’intervento nel procedimento non dà solo il diritto di prendere visione degli atti del medesimo, ma anche di “presentare memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti”; questi interventi, inoltre, possono originare appositi accordi dell’amministrazione con gli interessati “al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero, nei casi previsti dalla legge, in sostituzione di questo”.
In ogni amministrazione viene individuato un'unità organizzativa responsabile del procedimento. Ed eventualmente anche l’adozione del provvedimento finale, nonché lo stesso funzionario responsabile e questi dispone di tutti i poteri per assicurare il regolare svolgimento e la conclusione del procedimento o, almeno, della fase istruttoria. Si prevede, ancora, che “qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo”, o quando si debbano “acquisire intese, concerti, nella osta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche”, ciò possa avvenire attraverso le deliberazioni di un’apposita conferenza di servizi fra tutte le amministrazioni interessate, con la possibilità, in certi casi, di superare situazioni di inerzia o di dissenso che ritardano o impediscono il procedimento.
Alcuni tipi di provvedimenti amministrativi
Una delle distinzioni più comuni operate tra le diverse categorie di provvedimenti attiene al loro contenuto, vi possono essere provvedimenti ampliativi o provvedimenti restrittivi. Fra i primi abbiamo, le autorizzazioni (o abilitazioni, licenze, permessi) corrispondono alla rimozione di un ostacolo da parte della pubblica amministrazione all'esercizio di un diritto o di un potere di cui sono titolari un soggetto privato o un ente o un organo pubblico; le concessioni consistono in provvedimenti mediante i quali la pubblica amministrazione attribuisce ad altri l'esercizio di un suo diritto o potere (concessione traslativa) o una situazione giuridica positiva appositamente creata (concessione costitutiva). Simili alle concessioni sono le sovvenzioni consistenti nell'attribuzione di contributi in denaro o in beni; le rinunce (dette anche esenzioni, esoneri, deroghe) consistono in provvedimenti mediante i quali la pubblica amministrazione rinuncia ad una sua precedente pretesa.
Le ammissioni consistono in provvedimenti amministrativi che permettono a soggetti in possesso di determinati requisiti, di accedere ad un certo status, di utilizzare un servizio pubblico, di esercitare determinate attività lavorative. Fra i provvedimenti restrittivi abbiamo, le revoche consistono semplicemente in provvedimenti che fanno venir meno i provvedimenti precedentemente adottati; gli ordini e i divieti valgono a specificare prescrizioni genericamente contenute nella legge e comportano, a carico dei trasgressori, possibili conseguenze di ordine disciplinare, amministrativo o penale; i provvedimenti sanzionatori producono, a carico di coloro che per l’amministrazione abbiano violato determinate prescrizioni, modifiche negative nello status professionale o nel rapporto di servizio (si pensi alle sanzioni disciplinari), nella sfera patrimoniale (si pensi alle sanzioni pecuniarie o alla codifica dei beni) o nella sfera giuridica (si pensi a decadenze o revoche di provvedimenti amministrativi favorevoli).
Le requisizioni riguardano beni mobili o immobili che possono essere prese in uso dalla pubblica amministrazione; l'espropriazione per pubblica utilità riguarda il trasferimento coattivo alla pubblica amministrazione della proprietà di beni immobili in cambio del pagamento a colui che era il proprietario di un indennizzo. Le occupazioni di beni immobili si distinguono in quelle finalizzate ad un uso temporaneo e quelle finalizzate all'esecuzione di opere pubbliche in situazioni di assoluta distanza.
Un’altra disposizione di una certa utilità fra i provvedimenti amministrativi è quella che fa riferimento al numero e alla identificabilità dei destinatari: si parla, così, di atti indirizzati ad un unico destinatario, ma anche di provvedimenti plurimi, allorché gli atti contengono determinazioni, tra loro distinte, riferite ad una pluralità di soggetti, di provvedimenti collettivi, allorché gli atti si riferiscono in modo unitario a tutti i componenti di un gruppo, di provvedimenti generali, allorché gli atti si riferiscono ad una pluralità indeterminata di destinatari, persone o beni che siano (si pensi ad un bando di concorso, ad un piano regolatore, ad un ordine amministrativo generale).
Atti normativi, di direzione, di indirizzo, di coordinamento, di programmazione
È antica prerogativa dei vertici delle diverse amministrazioni quella di essere titolari di un potere normativo di tipo secondario. Altrove facciamo specifico riferimento al potere regolamentare del Governo e dei singoli ministri, a quello delle regioni, al potere normativo degli enti locali. Attraverso tutti questi atti, pur tra loro differenziati e in parte collocati diversamente nel sistema delle fonti, gli organi titolari del relativo potere normativo compiono rilevanti scelte sul piano organizzativo e funzionale, negli spazi lasciati liberi dalle leggi, e vincolano giuridicamente il successivo operato delle pubbliche amministrazioni. Al di sotto delle fonti normative secondarie, si entra nell’ambito, ricco di tante diverse e mutevoli tipologie, spesso neppure formalizzate, degli atti mediante i quali i diversi organi di vertice dirigono le rispettive amministrazioni.
Il potere direttivo tende sempre più ad esprimersi attraverso atti dotati di relativa generalità, che dovranno essere rispettati dagli uffici e dagli organi pubblici, proprio sulla base del tipo di rapporto gerarchico esistente e dello stesso contenuto di questi atti. Il problema è ovviamente tanto più complesso ove l’atto si riferisca non solo a organi della medesima amministrazione, ma ad altri, più o meno dotati di autonomia: in questo caso, spesso, ma non sempre,il problema è risolto dal legislatore che, nel disciplinare alcuni tipi di questi atti, ne determina forma ed efficacia. Senza pretesa di esaustività; se ne elencano alcuni fra quelli oggi più comunemente utilizzati.
Fra le direttive (o atti di indirizzo) occorre distinguere quelle interorganiche da quelle intersoggettive, a seconda che si riferiscono o meno solo ad organi appartenenti all'amministrazione dal cui vertice viene adottata la direttiva. L’unico punto sicuro circa quelle interorganiche è che non equivalgono a un ordine, dal momento che lasciano al destinatario una discrezionalità operativa.
Particolarmente ampia è la previsione dei poteri direttivi del presidente del consiglio e molto importanti sono le “direttive generali per l’azione amministrativa e per la gestione”, adottate dai ministri per concretizzare i loro poteri di indirizzo politico-amministrativo sulle strutture ministeriali e sulle agenzie.
Per le direttive intersoggettive, occorre distinguere fra quella relativa gli enti pubblici strumentali, che tendono ad essere assimilato a quelle interorganiche e quelle relative ai rapporti fra enti dotati di reciproca autonomia, poiché in questo settore appare decisivo il rapporto deducibile dal sistema costituzionale per legittimare il tipo di vincolo che questi atti possono avere.
I programmi o i piani corrispondono ad un'esigenza molto avvertita dall'amministrazione pubblica contemporanea di ricercare momenti di prederminazione delle linee generali dell'azione amministrativa in interi settori. Questa prefigurazione sulla successiva attività è, in genere, conseguita attraverso complessi procedimenti che vedono la partecipazione di tutti, o di molti, diversi portatori d’interessi, pubblici e privati, e produce, di regola, la definizione di obiettivi e programmi, nei quali solo alcune predeterminanti sono rigide, mentre altre sono flessibili e adattabili; parallelamente, si prevedono verifiche per valutare i risultata conseguiti.
Le istruzioni, o circolari, o normali, corrispondono alla trasmissione di istruzioni e/o direttive agli uffici ed agli organi, al fine di assicurare l'omogenea applicazione delle diverse disposizioni. Strumento mediante il quale un’autorità amministrativa trasmette ad altre una qualsiasi comunicazione scritta (lettera circolare).
Cause di invalidità dei provvedimenti amministrativi
Le particolari caratteristiche di provvedimenti amministrativi sono alla base anche delle loro possibili cause di invalidità. La nullità o inesistenza del provvedimento amministrativo deriva dalla carenza delle condizioni minime necessarie per poterlo ritenere esistente, si parla di mancanza assoluta di uno di elementi essenziali. I casi di mera irregolarità attengono alla presenza di quelle anomalie del provvedimento che vengono ritenute sanabili. In nome dell’interesse alla conversazione dell’atto amministrativo, e che quindi non vengono considerate sufficienti a costituire una causa di annullamento.
Per ciò che riguarda i vizi di legittimità ci si continua a risalire alla tripartizione della incompetenza, dell'eccesso di potere e della violazione di legge, con l'avvertenza che attraverso il sindacato su questi vizi, devono essere sanzionate tutte le cause di possibile di legittimità dei provvedimenti amministrativi. Con il vizio dell'incompetenza, ci si riferisce alla classica carenza del provvedimento sotto il profilo soggettivo. L'incompetenza assoluta porta alla nullità dell'atto, si ha non solo quando l'organo amministrativo esercita un potere appartenente ad un'autorità non amministrativa, ma anche quando esercita un potere di un organo appartenente ad un altro apparato amministrativo, mentre la incompetenza relativa si verifica quando il potere esercitato appartiene ad altro organo del medesimo apparato amministrativo. Per eccesso di potere si intende un vizio di sviamento di potere, che mira a colpire l'abuso sostanziale del potere di cui dispone l'organo che adotta all'atto.
L’organo preposto a verificare la legittimità pel provvedimento amministrativo non può fermarsi al controllo meramente esteriore nella deliberazione, se vi sono elementi dai quali sia lecito dedurre che l’organo amministrativo ha utilizzato il potere, conferitogli per determinati fini, per perseguire, in realtà, altri. L’elaborazione giurisprudenziale ha così individuato tutta una serie di fattispecie, cosiddette sintomatiche, dell’eccesso di potere, di cui, qui, si enumerano le più note: contraddittorietà fra motivazione e dispositivo; fra provvedimenti; fra provvedimento finale e atti del relativo provvedimento; violazione immotivata di circolari amministrative, di istruzioni di servizio, di prassi amministrative; insufficienza, contraddittorietà, perplessità della motivazione; travisamento o falsa supposizione dei fatti; disparità di trattamento, ingiustizia grave e manifesta.
Appare abbastanza evidente il rischio che, almeno in alcune di queste figure sintomatiche, sia difficile distinguere i profili attinenti alla legittimità da quelli relativi alla valutazione del merito delle scelte amministrative, che, di norma, sono sottratte all’esame di organi di tipo giurisdizionale. Il vizio di violazione di legge svolge una funzione di tipo residuale rispetto agli altri vizi di legittimità.
L’autotutela
L'autotutela costituisce un potere amministrativo della pubblica amministrazione, e mediante il quale essa può eliminare o ridurre i conflitti, reali o potenziali, che possono sorgere in relazione ai suoi atti illegittimi od inopportuni, provvedendo direttamente ad annullarli, sanarli o modificarli. Non è un potere finalizzato astrattamente alla tutela della legalità o della efficacia dell’azione amministrativa, ma un potere discrezionale finalizzato all’eliminazione delle lesioni a pubblici interessi che un provvedimento viziato, sul piano della legittimità o del merito, può produrre, in indeterminato contesto.
La titolarità del potere è riconosciuta oltre che all'organo che ha adottato l'atto, a quelli gerarchicamente superiori. L'istituto che mira a salvare, con efficacia ex tunc, una deliberazione affetta da un vizio sanabile è la sanatoria: si parla di ratifica nel caso in cui l'organo competente faccia propria una delibera affetta da incompetenza relativa; di convalida, nel caso in cui si completi un elemento parzialmente mancante nella delibera; di conversione allorché si possa sostituire ad un provvedimento illegittimo un altro, di cui sussistano tutti gli elementi necessari. L'annullamento d'ufficio consiste nell'eliminazione di un provvedimento illegittimo.
Con efficacia ex tunc, sulla base di una valutazione di tipo discrezionale, che evidenzi un interesse pubblico attuale e specifico dell’amministrazione; in questa valutazione si potrà tener conto anche del periodo di tempo, più o meno lungo, trascorso dal momento dell’adozione della deliberazione annullabile. Di questo potere di annullamento non è titolare solo l'organo che ha adottato l'atto e l'autorità gerarchicamente superiore ma anche il Governo che continua a disporre del potere, a tutele dell’unità dell’ordinamento “di annullamento straordinario degli atti amministrativi illegittimi adottati da tutte le diverse amministrazioni pubbliche” (salvo le sole amministrazioni delle regioni e delle province autonome).
La revoca, è invece, un istituto mediante il quale l'amministrazione pubblica produce la cessazione del futuro degli effetti di un provvedimento amministrativo ad efficacia continuativa, il quale, opportuno e legittimo al momento della sua adozione, sia successivamente divenuto inopportuno o illegittimo a causa dei mutamenti intervenuti.
LE FORME DI TUTELA CONTRO L’ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA ILLEGITTIMA
I ricorsi amministrativi
Con i ricorsi amministrativi, i soggetti che si ritengono danneggiati da una deliberazione amministrativa chiedono che l'amministrazione inizi un apposito procedimento per riesaminare la legittimità o l'opportunità di quella di liberazione. L’amministrazione a cui si è ricorsi è tenuta a provvedere, secondo le norme che  disciplinano in forme giustiziali questi particolari procedimenti amministrativi. L’amministrazione che deve decidere il ricorso opera in una posizione di terzietà, specialmente là dove deve giudicare della legittimità delle deliberazioni, pur restando un’autorità amministrativa, in alcuni casi chiamata a riformare nel merito la deliberazione ritenuta inopportuna. I ricorsi amministrativi sono attualmente divenuti uno strumento di tutela secondaria, sia per l’eliminazione, in attuazione dei principi dell’art. 113 Cost., dell’obbligo della loro utilizzazione prima del ricorso in via giurisdizionale, sia per la stessa diffusa articolazione del sistema amministrativo, che ha ridotto la presenza di un unitario modello gerarchico e, in certi casi, ha avuto come conseguenza la definizione di alcuni provvedimenti come definitivi e cioè in suscettibili di essere oggetto di un ricorso amministrativo per opposizione o tipo gerarchico.
Sulla base della disciplina attuale occorre distinguere i due ricorsi ordinari, consistenti nel ricorso gerarchico e nel ricorso in opposizione, dal ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Il ricorso gerarchico ha carattere generale mentre il ricorso in opposizione ha carattere speciale, essendo ammesso solo nei casi previsti dalla legge.
Comune ai due tipi di ricorso è il fatto di poter riguardare profili sia di legittimità che di merito, di essere facoltativi e non preclusivi dei ricorsi giurisdizionali, di essere esperibili in termini brevi (di regola trenta giorni) dalla data della notificazione o della comunicazione in via amministrativa dell’atto impugnato e da quando l’interessato ne abbia avuto piena conoscenza; inoltre, nel loro ambito, opera l’istituto del silenzio rigetto se, entro 90 giorni dalla data di presentazione del ricorso, non viene comunicata la decisione.
Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è un rimedio amministrativo di carattere generale, ma di sola legittimità esperibile solo nei riguardi dei provvedimenti definitivi; esso può essere proposto entro centoventi giorni. Ed è precluso dalla presentazione di un ricorso giurisdizionale sul medesimo atto. L’istruttoria è svolta dal “ministro competente”; il parere del consiglio di Stato vincola il contenuto della decisione, adottata ad un decreto del presidente della repubblica, su proposta del ministro competente; solo il consiglio dei ministri può deliberare di disattendere il parere espresso dal consiglio di Stato.
Il riparto della giurisdizione in materia amministrativa fra giudice ordinario e giudice amministrativo
In ogni ordinamento giuridico nel quale esista un diritto speciale per l'amministrazione pubblica, sorge il problema di come garantire un'efficace ed idoneo controllo di legittimità sugli atti amministrativi. Dal momento che occorre garantire non solo l’effettivo rispetto della normativa sostanziale, ma anche tutelare la speciale posizione dell’amministrazione, attraverso una disciplina processuale che di tale posizione tenga conto.
Nel nostro sistema la cognizione delle controversie in cui è parte la pubblica amministrazione è suddivisa fra la magistratura ordinaria, competente nei casi in cui si lamenti la lesione dei diritti soggettivi, e la magistratura amministrativa, competente nei casi in cui si lamenti la lesione "degli interessi legittimi". Il giudice amministrativo può annullare il provvedimento amministrativo, mentre il giudice ordinario può solo disapplicarlo nel caso concreto sottoposto a suo giudizio. Discrimine fondamentale nel riparto delle competenze giurisdizionale resta la distinzione fra diritto soggettivo ed interesse legittimo. Per diritto soggettivo si intende una situazione soggettiva di vantaggio riconosciuta dal legislatore come autonomamente degna di tutela nei riguardi sia dei privati che della pubblica amministrazione, mentre per interesse legittimo si intende quella situazione soggettiva di vantaggio riconosciuta dal legislatore come intimamente connessa ad una norma che garantisce in via primaria l'interesse generale. A colui che è leso nei suoi diritti soggettivi si garantisce la reintegrazione nella situazione originaria o almeno, il risarcimento dei danni; a colui che è leso nei suoi interessi legittimi si garantisce l'eliminazione dell'atto della pubblica amministrazione che ha operato la lesione.
Lasciando salvo, peraltro, un successivo esercizio del potere amministrativo in materia, che dovrà certo adeguarsi ai canoni di legalità indicati dal giudice per il miglior perseguimento dell’interesse pubblico. Solo di recente si è giunta ad ammettere che il giudice amministrativo posa giudicare anche sul riconoscimento da danno. Di conoscenza, spesso emerge una rilevante difficoltà a individuare in concreto l’una o l’altra situazione soggettiva: per risolvere questo problema, la giurisprudenza utilizza il criterio del grado maggiore o minore di vincolatezza dei poteri dell’amministrazione nelle specifiche fattispecie e, più in generale, tende a ricostruire le singole fattispecie sulla base dell’esistenza o meno, nelle singole materie, di una posizione di supremazia della pubblica amministrazione sulle situazioni soggettive interessate dalla sua azione. Arbitra, in ultima istanza, della definizione di questo delicato confine è di norma la corte di cassazione, giudice in tema dei conflitti, reali o virtuali, di giurisdizionale che sorgano fra giudici ordinari e amministrativi.
Al di là degli interessi legittimi, rilevano le posizioni soggettive qualificate come interessi collettivi e interessi diffusi. Gli interessi collettivi, ossia gli interessi propri degli appartenenti ad un gruppo delimitato vengono fatti valere solo tramite i loro organismi esponenziali.
Gli interessi diffusi ossia gli interessi dell'intera comunità hanno suscitato molti problemi in sede giurisprudenziale. Poiché raramente è stata ammessa la legittimazione a stare in giudizio di associazioni o organismi che si dichiarano portatori di tali interessi;peraltro il legislatore sembra aver assunto una posizione più aperta, disciplinando spesso ipotesi del generale.
Alcune caratteristiche del giudizio amministrativo
Al momento attuale gli organi della giurisdizione amministrativa ordinaria (quelli speciali sono la Corte dei conti ed il Tribunale superiore delle acque pubbliche) sono i Tribunali amministrativi regionali (TAR) ed il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, che svolge le funzioni di giudice di appello. La fondamentale funzione giurisdizionale dei TAR e del Consiglio di Stato è la giurisdizione generale di legittimità sugli atti amministrativi della pubblica amministrazione, con il potere di annullarli ove venga accertata l'illegittimità.
Ma senza la possibilità di procedere all’esercizio del potere amministrativo che pur risulti necessario a seguito della sentenza adottata: salvo poche eccezioni stabilite dal legislatore, starà all’amministrazione dare attuazione alla sentenza o comunque provvedere in coerenza ad essa. Solo nel caso che si constati il mancato adempimento da parte dell'amministrazione, gli interessati possono ricorrere ai giudici amministrativi per ottenere, tramite un nuovo giudizio (il cosiddetto giudizio di ottemperanza), "l'adempimento dell'obbligo dell'autorità amministrativa di conformarsi al giudicato" sia della autorità giudiziaria ordinaria che del giudice amministrativo (spesso, in questi casi, l’autorità giudiziaria nomina un apposito commissario ad acta, per adottare gli atti necessari in sostituzione dell’amministrazione).
Gli stessi organi giurisdizionali dispongono della giurisdizione di merito e cioè del potere di sindacare non solo la legittimità ma anche l'opportunità dei provvedimenti contro cui sia stato presentato un ricorso con la possibilità, in tale ipotesi, non solo di annullarli, ma anche di riformarli. Ben più importante è l'attribuzione agli organi della giurisdizione amministrativa della cosiddetta giurisdizione esclusiva nelle materie indicate dalla legge.
Viene qui in rilievo il fenomeno della difficoltà di distinguer fra le diverse situazioni soggettive, in determinate importanti materie, con la conseguenza di esporre la loro tutela all’incertezza circa l’individuazione del giudice competente e di accrescere la probabilità del formarsi di indirizzi giurisprudenziali difformi in relazione e situazioni tra loro fortemente collegate. Su questo versante, le materie elencate già nel testo unico delle leggi sul consiglio di Stato erano significative e fra questa emergeva, per la sua grande importanza, l’intera materia del pubblico impiego.
Appare molto significativa la crescente utilizzazione della giurisdizione esclusiva cui si riferisce l'art. 103.1 Cost.. nella giurisdizione amministrativa i ricorsi devono essere presentati entro i termini brevi: entro 60 giorni dalla notifica dell'atto, dalla sua piena conoscenza o dalla sua pubblicazione nell'albo.
Occorre notificare il ricorso all’organo che lo ha adottato e ai contrinteressati, condizione per depositare entro i successivi 30 giorni il ricorso al TAR soggetto legittimato a sollevare il ricorso è una qualsiasi persona fisica o giuridica che ritenga lesa da un provvedimento illegittimo dell’amministrazione, in un suo interesse legittimo o in un suo diritto soggettivo( nei casi di giurisdizione esclusa), e che possa dimostrare di avere un interesse concreto ed attuale all’accoglimento del ricorso. Quest’ultima condizione, soggetta ad una approfondita elaborazione in sede giurisprudenziale, conferma come questo processo non miri a ristabilire, in generale, la legalità dell’azione amministrativa, ma semplicemente a reintegrare la posizione soggettiva concretamente lesa di chi si faccia parte attiva. Ciò ha conseguenze ancora più vistose in relazione all’oggetto del giudizio: fermo restando che deve trattarsi di un provvedime4nto amministrativo sia sul piano soggettivo, che su quello oggettivo, la necessità che sussista nel ricorrere un interesse diretto ed attuale, rende non impugnabili molti atti amministrativi o perché non direttamente lesivi delle posizioni soggettive o perché fasi di un procedimento non ancora terminato o perché atti meramente interni, con la conseguenza dell’atto concretamente lesivo della situazione soggettiva.
Al ricorso presentato per l'annullamento di un provvedimento può accompagnarsi la richiesta in via di urgenza di una sospensione della sua esecuzione durante il periodo di svolgimento del processo allorché questa possa produrre "danni gravi ed irreparabili". Il provvedimento di sospensione provvisoria dell'esecuzione dell'atto impugnato presuppone una prima valutazione sulla sussistenza di un fondamento del ricorso principale. La sentenza è esecutiva ma impugnabile presso il Consiglio di Stato entro 60 giorni dalla data di notifica.
Il giudizio del consiglio di Stato è un vero e proprio giudizio di appello fra le parti originarie e l’amministrazione interessata e si conclude con una sentenza che conferma la sentenza appellata o la riforma, sostituendosi ad essa.
La giurisdizione dei giudici ordinari in materia amministrativa
Il giudice ordinario può intervenire solo incidentalmente e limitatamente agli effetti che un atto amministrativo, che si presume illegittimo, ha direttamente su un diritto soggettivo. Ove il magistrato ordinario ritenga il provvedimento illegittimo non può ne annullarlo, né modificarlo, ma semplicemente disapplicarlo nel caso che è sottoposto al suo giudizio. Al di là delle sentenze di mero accertamento, lo stesso suo essenziale potere di reintegrare la posizione soggettiva illecitamente danneggiata potrà portare ad una sentenza di condanna della pubblica amministrazione a risarcire i danni. Nei casi in cui il giudice ordinario è titolare di una giurisdizione esclusiva in una determinata materia, egli dispone di poteri di annullamento, di modifica, di sospensione, dei provvedimenti amministrativi.

 

Fonte: http://economiaunipa.altervista.org/wp-content/uploads/2013/05/Riassunto-Istituzioni-di-Diritto-Pubblico-Caretti-De-Siervo-11.doc

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