Appunti diritto della UE

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Appunti diritto della UE

 

DIRITTO DELL’UE

 

  • Le spinte europeistiche del secondo dopoguerra e la nascita della CECA.

Dopo la seconda GM, l’Europa era attraversata da diversi fermenti, alimentati da due bisogni comuni che sarebbero stati meglio soddisfatti da un’Europa federata piuttosto che dai singoli stati europei; ricostruire le economie distrutte dalla guerra e proteggersi dall’emergente imperialismo sovietico.
Per il primo punto, nel 1947 gli Stati Uniti avevano approvato il Piano Marshall; da qui, sedici stati europei, conclusero tra di loro una convenzione che prevedeva l’istituzione della Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica (OECE), il cui compito era di amministrare gli aiuti del Piano Marshall, favorendo gli scambi commerciali tra gli stati membri; tale organizzazione, a seguito di un allargamento sia di stati membri sia di competenze, si è evoluta, nel 1960, nella Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE).
Per il secondo punto, si temeva sempre più l’espansionismo sovietico, divenuto sempre più pericoloso; nel ’48 vi fu il blocco denominato “Cortina di Ferro”; nel ’49 venne istituita L’Organizzazione del Patto dell’Atlantico del Nord (NATO), risposta dell’Occidente all’espansionismo sovietico.
Al di là di questi due punti, venne istituito sempre nel ’49 il Consiglio d’Europa (CdE), un’organizzazione internazionale aperta a tutti gli Stati Europei che si sentivano accumunati dagli ideali di democrazia e libertà, in contrapposizione a tutti quegli stati che appoggiavano il comunismo. Nel 1955, come risposta al mondo occidentale, fu istituito il Patto di Varsavia. Entrambe le organizzazioni avevano dei limiti in comune come, ad esempio, la mancanza del potere di emettere decisioni vincolanti per gli stati membri; nelle riunioni, i vari stati sceglievano una politica comune, ma la sua attuazione era riservata ai singoli stati.
Cominciava a nascere l’idea di una federazione europea, come garanzia sicura per scongiurare per sempre le guerre tra Stati Europei e per garantire uno sviluppo economico e sociale. A questo scopo, non erano più sufficienti le organizzazioni come la OCSE o il CdE; occorrevano strutture svincolate dai diversi interessi di ciascun stato, capaci poi di evolversi verso forme federali.
Questo obiettivo doveva essere raggiunto a tappe; la prima di queste era eliminare una delle cause del secolare conflitto tra Francia e Germania: il controllo dei bacini carboniferi della Ruhr e della Saar. Venne così approvato il Piano Schuman, dove si affermava l’intenzione di sottoporre il controllo dei bacini ad una Autorità, le cui decisioni sarebbero state vincolanti per Francia e Germania e per tutti gli altri stati membri.
Il 18 Aprile 1951 venne firmato a Parigi il Trattato istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA). L’obiettivo era quello di istituire un mercato comune dei prodotti carbosiderurgici, sottraendo il controllo di quest’ultimo ai diversi stati membri, lasciandolo all’Alta Autorità.
È stato con riferimento alla CECA che si è parlato per la prima volta di una organizzazione sovranazionale. Era stata creata con una durata di circa 50 anni; per questo ha cessato di esistere il 23 Luglio 2002; dal giorno successivo, tutte le attività e passività della CECA sono passate sotto il controllo della CE.

  • Dalla CECA ai Trattati di Roma: nascita della CEE e della CEEA.

 

Dall’euforia delle spinte federalistiche dei Sei, venne firmato nel 1952 il Trattato istitutivo della Comunità Europea di Difesa (CED), il quale si proponeva di creare un esercito europeo attraverso l’unificazione dei vari eserciti nazionali sotto un unito organo di comando, il Commissariato, strutturato sulla falsa riga dell’Alta Autorità della CECA. Il trattato prevedeva una vita temporanea della CED, in modo da essere sostituita successivamente da una struttura di tipo federale che assicurasse il mantenimento della pace e lo sviluppo dell’economia.
Il trattato della CED non entrò mai in vigore e fallì. In seguito, ci fu un lungo momento di riflessione; si fece avanti l’idea del funzionalismo economico, secondo cui occorreva procedere ad una integrazione graduale delle economie per poter porre le basi di una unione politica.
Venne proposta la creazione di due nuove comunità, una a carattere economico generale e un’altra nel campo dell’energia nucleare. Il 25 marzo ’57 i Sei firmavano sia il Trattato costitutivo della Comunità Economica Europea (CEE) sia il Trattato istitutivo della Comunità Europea dell’Energia Nucleare (CEEA o Euratom). Occorre ricordare due campi nei quali si estendevano le competenze della CEEA: quello della sicurezza e quello della ricerca.

  1. Le modifiche dei Trattati: l’Atto Unico Europeo e l’evoluzione delle Comunità Europee in Unione Europea.

 

L’art. 48 TUE disciplina la procedura di modifica dei Trattati; prevede che le modifiche ai trattati siano stabilite da una conferenza intergovernativa, composta dai rappresentanti degli Stati membri e convocata dal Presidente del Consiglio. Le modifiche decise dalla conferenza intergovernativa entrano in vigore dopo essere state ratificate da tutti gli Stati membri conformemente alle loro rispettive norme costituzionali.
Revisioni di tipo generale hanno avuto luogo in quattro occasioni: nel 1987 con l’Atto Unico Europeo, nel 1993 con il Trattato di Maastricht, nel 1999 con il Trattato di Amsterdam e nel 2003 con il Trattato di Nizza.
Ritornando ai Trattati di Roma, il funzionalismo economico, che si era scelto come metodo per procedere nella strada dell’integrazione europea, cominciava a mostrare i primi limiti; risultava difficile, per gli organi comunitari, perseguire efficacemente gli obiettivi dell’integrazione economica e la realizzazione del mercato comune senza avere il potere di coordinare le politiche economiche degli stati membri. Si fece strada, quindi, l’idea che occorresse un livello minimo di cooperazione a livello politico tra gli Stati membri, una forma di cooperazione politica specialmente nel campo della politica estera e di difesa.
Si avviò così una serie di operazioni (fino ai giorni nostri), volte a concepire forme di cooperazione aventi qualche implicazione di tipo politico. Ci furono una lunga serie di rapporti, scritti da ciascun capo di governo, che sostenevano l’unione politica dell’Europa. In particolare, il Rapporto Dooge del 1985, neutralizzava i tratti più incisivi del progetto Spinelli; conteneva la proposta di convocare una conferenza intergovernativa cui affidare l’incarico di predisporre un progetto di Trattato sull’Unione Europea, avente come scopo principale la creazione di un mercato interno e la cooperazione tra gli Stati membri in materia di politica estera e di difesa. Tale proposta fu presa in esame dal Consiglio Europeo che, nel 1985 a Milano, approvò il cosiddetto Libro Bianco, in cui si elencavano tutti i provvedimenti che avrebbero dovuto essere emanati per la realizzazione del mercato interno, insieme alle date di emanazione, in modo da rispettare la scadenza del 31 dicembre 1992 in cui era previsto che tale mercato entrasse in vigore.
I lavori della conferenza intergovernativa si svolsero con rapidità, così che gli stati membri potettero firmare nel febbraio 1986, un documento ufficiale denominato Atto Unico Europeo (AUE), che modificava e completava i Trattati di Roma e di Parigi. In seguito, ci fu l’instaurazione dell’Unione Europea come forma di collaborazione tra gli Stati membri comprensiva delle tre Comunità e della cooperazione tra gli Stati membri in materia di politica estera e di sicurezza comune.

  1. Dall’Atto Unico Europeo al Trattato di Mastricht: il dibattito sul deficit democratico e sulla unione economica e monetaria.

 

Dal dibattito sui temi fondamentali dell’integrazione europea emersero due problemi:
il primo fu il difetto di legittimità democratica del processo decisionale comunitario (gap democratico); il secondo sulla improrogabilità di una effettiva unione economica e monetaria da realizzarsi attraverso la creazione di una moneta europea unica.
Per quanto riguarda il deficit democratico, ci si rendeva sempre più conto che Stati europei che si consideravano i pionieri della democrazia e tra i difensori dei valori della stessa a livello mondiale, avevano posto in essere tra di loro una struttura molto poco democratica. Ovviamente, l’unico sistema per eliminare il deficit democratico restava quello di rispettare il principio della separazione dei poteri, attribuendo quello legislativo ad un organo democraticamente eletto, a cui affidare anche il controllo sull’esecutivo. Ciò si sarebbe potuto realizzare in due modi: o conferendo al Parlamento Europeo il potere di dire l’ultima in merito all’emanazione delle leggi, privando il Consiglio di tale potere, oppure facendo eleggere il Consiglio direttamente dai cittadini europei. Tali proposte furono scartate lasciando il problema irrisolto.

I due temi dell’integrazione politica, percepita per eliminare il deficit democratico, e della unione economica e monetaria, confluirono nei lavori paralleli di due conferenze intergovernative, che sfociarono nella firma, il 7 febbraio ’92, del Trattato sull’Unione Europea (TUE), noto come Trattato di Mastricht, entrato in vigore il primo novembre ’93. Questo trattato non offre apprezzabili soluzioni al problema del deficit democratico, ma verrà ricordato perché in tre tappe introdusse l’unione economica e monetaria e, di conseguenza, la moneta unica, in seguito denominata euro, entrata in vigore il primo gennaio 2002.

 

  1. I Trattati di Amsterdam e Nizza.

Dopo il trattato di Mastricht, ci furono dei nodi irrisolti; accanto al problema del deficit democratico vi era anche l’esigenza di rivedere il processo decisionale comunitario, specialmente in previsione dell’allargamento della comunità europea. Si voleva rendere questo processo più efficace, democratico e trasparente. In seguito ai lavori della conferenza intergovernativa di Torino del ’96, fu firmato il 2 ottobre ’97 il Trattato di Amsterdam. Questo trattato ha apportato modifiche minori al Trattato sull’UE.
Ha anche introdotto per la prima volta nel TUE le norme sulla cooperazione rafforzata e ha proceduto ad una semplificazione dei Trattati comunitari, eliminando disposizioni ormai obsolete.
I problemi irrisolti del Trattato di Amsterdam si ripresentano in occasione della conferenza intergovernativa sfociata nella firma del Trattato di Nizza (febbraio 2003). Le innovazioni introdotte sono da mettere in relazione alle esigenze di adeguare la composizione e le procedure decisionali delle istituzioni comunitarie in vista dell’allargamento dell’Unione europea. Queste innovazioni hanno portato a 25 il numero degli stati membri dell’Unione, una migliore definizione delle procedure per le cooperazioni rafforzate e per una ristrutturazione degli organi giurisdizionali delle Comunità. Nemmeno il Trattato di Nizza ha però risolto il problema del deficit democratico.

CARATTERISTICHE GENERALI DELL’UNIONE EUROPEA E SUE COMPETENZE

9. L’unione Europea: obiettivi, fondamenti e natura.

Con il termine Unione Europea si vogliono indicare i tre pilastri fondamentali:

  • Primo pilastro, mantenimento delle due Comunità (CEE e CEEA);
  • Secondo pilastro, politica estera e sicurezza comune;
  • Terzo pilastro, cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.

Questi pilastri sono in relazione tra loro; mentre per il primo pilastro non ci sono problemi dato che entrambe le comunità godono di un’autorità propria essendo organizzate in organizzazioni internazionalizzate, le relazioni che riguardano gli altri due sono più complicate, essendo concepite in chiave di collaborazione intergovernativa, con gli Stati membri che partecipano direttamente e in prima persona nella rappresentanza dei loro interessi particolari.
L’evoluzione si manifesta quando, attraverso la “comunitarizzazione” di una determinata materia, ovvero il suo passaggio dal terzo pilastro al primo. Tale decisione è un accordo internazionale tra gli stati membri, in quanto va ratificata da questi ultimi sulla base delle rispettive norme costituzionali.
Inoltre, insieme all’attività dell’Unione nell’ambito del secondo e terzo pilastro vi troviamo anche le istituzioni comunitarie, alle quali è affidato il compito di assicurare la coerenza e la continuità delle azioni svolte per il perseguimento degli obiettivi dell’Unione Europea.
Gli obiettivi dell’Unione sono stabiliti dall’art.2:

  • promuovere un progresso economico e sociale e un elevato livello di occupazione, attraverso la realizzazione di un mercato interno e dell’unione economica e monetaria;
  • affermare un’identità dell’Unione sulla scena internazionale attraverso l’attuazione di una politica estera e di sicurezza comune;
  • rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini attraverso la cittadinanza dell’Unione;
  • conservare e sviluppare l’Unione come spazio di libertà, sicurezza e circolazione delle persone;
  • mantenere e sviluppare quando realizzato in sede comunitaria (acquis communautaire).

L’art.6 sancisce che l’Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto. Tali principi sono definiti “principi comuni agli Stati membri”.
La violazione di questi principi da parte di uno Stato membro è rivestita di sanzioni di tipo politico; le sanzioni per lo Stato membro consapevole di una grave e persistente violazione di tali principi sono contenute nell’art.7, il quale contempla una procedura d’allarme e una procedura ordinaria.
La prima procedura può constatare che esiste un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro di uno o più principi e rivolgergli le appropriate raccomandazioni; è una raccomandazione e quindi non vincolabile. Una volta effettuata la constatazione, il Consiglio può deliberare, a maggioranza qualificata, di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione, negando il diritto di voto al suo rappresentante in seno al Consiglio stesso. Questa sospensione non esonera lo Stato in questione dall’osservanza dei propri obblighi derivanti dal TUE, perché la sanzione opera sul piano del diritto internazionale generale, incidendo sul vincolo associativo che lega gli Stati membri. In verità, questi ultimi avrebbero potuto adottare le stesse misure a titolo di ritorsione contro lo Stato inadempiente. La constatazione della violazione può avvenire solo a livello dell’UE; il Consiglio può decidere di sospendere lo Stato in questione da alcuni degli altri diritti specificatamente derivanti dall’applicazione del Trattato CE.

L’UE realizza una cooperazione complessa tra gli Stati membri, includendo, da una parte, organizzazioni internazionali vere e proprie (CEE e CEEA), e dall’altra, si esprime attraverso i metodi tradizionali della diplomazia intergovernativa. In conclusione, l’UE è frutto della cooperazione intergovernativa classica; essa non dà vita ad un nuovo soggetto di diritto internazionale e non è neppure una organizzazione internazionale in senso proprio, in quanto la cooperazione tra gli stati nel suo ambito è ancora gestita direttamente dagli Stati stessi. Il termine “Unione Europea” non ha una propria cittadinanza giuridica con implicazioni diverse da quelle di qualsiasi altro trattato internazionale; la sua valenza è esclusivamente politica.

10. Il quadro istituzionale dell’Unione; il Consiglio Europeo.

L’Unione dispone di un quadro istituzionale unico, operante nell’ambito dell’intera Unione, sia nei suoi aspetti comunitari, sia nei suoi aspetti di cooperazione intergovernativa. Tale unicità è dettata dall’esigenza di assicurare la coerenza e la continuità dell’azione dell’Unione nel perseguimento dei suoi obiettivi in tutti i tre pilastri. Il Consiglio agisce spesso come organo delle Comunità, ma piuttosto come riunione degli Stati membri, ovvero come conferenza di loro rappresentanti aventi rango inferiore rispetto a quelli riuniti in sede di Consiglio Europeo. Dà all’Unione l’impulso necessario al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti politici generali. Esso riunisce i Capi di Stato o di governo degli Stati membri, nonché il presidente della Commissione. Sono previste almeno due riunioni all’anno, anche se è prassi convocare ulteriori riunioni per motivi speciali. I Capi di Stato o di governo di ciascuno Stato membro, che, a rotazione per periodi di sei mesi, fungono di volta in volta da Presidenti del Consiglio, fungono anche da Presidenti del Consiglio Europeo. Tra i compiti della presidenza rientrano quelli di rappresentare l’Unione nel campo della politica estera e di sicurezza comune e di tenere i contatti con il Parlamento Europeo nelle stesse materie; a tal proposito, il Consiglio Europeo deve rappresentare al Parlamento Europeo una relazione dopo ciascuna delle proprie riunioni e una annuale sui progressi compiuti dall’Unione.
Il termine “organo” è improprio. Esso non è organo dell’Unione Europea perché, quest’ultima, non gode di personalità giuridica e, quindi, non può avere organi. Il Consiglio Europeo non è altro che la riunione di tutti gli organi degli Stati membri, al pari di una conferenza internazionale.
Il Consiglio ha sempre evitato di adottare provvedimenti di immediata applicazione in ambito comunitario, lasciando al Consiglio delle Comunità il compito di dare attuazione ai suoi provvedimenti, che si concretizzano in “conclusioni della Presidenza”, aventi carattere generale e programmatico; essi sono adottati secondo la tecnica del consensus, che sottintende l’accordo in linea di principio di tutti gli Stati membri, evitando le votazioni formali. Talvolta in sede di Consiglio vengono raggiunti dei veri e propri accordi internazionali.

            11. la cittadinanza dell’Unione.

È cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro in base alla legislazione nazionale di quest’ultimo; nei casi di doppia cittadinanza, non è rilevante perché non pregiudica il godimento dei diritti in cui si concreta la cittadinanza dell’Unione.
La cittadinanza dell’Unione costituisce un “complemento” della cittadinanza nazionale e non sostituisce quest’ultima. Occorre aggiungere che la nozione di cittadinanza dell’Unione è totalmente diversa da quella propria degli ordinamenti interni.
Il concetto di cittadinanza implica uno Stato di cui si sia cittadini. Riferito al caso dell’Unione, è un uso convenzionale del termine che rimane proprio del sistema comunitario e che non mutua alcuna delle caratteristiche tipiche di tale status quali previste negli ordinamenti interni.
Il cittadino dell’Unione gode di:

  • del diritto di circolare liberamente e di soggiornare nel territorio degli Stati membri;
  • elettorato attivo e passivo nello Stato di residenza per le elezioni comunali e del Parlamento Europeo;
  • della protezione diplomatica e consolare da parte di uno qualunque degli Stati membri;
  • del diritto di petizione al Parlamento Europeo;
  • della facoltà di rivolgersi al Mediatore, abilitato a ricevere denunce per casi di cattiva amministrazione comunitaria.

12. I criteri di determinazione delle competenze dell’Unione e delle comunità e per il loro esercizio: principi delle competenze di attribuzione, di sussidiarietà, di prossimità e di proporzionalità.

Occorre fare una distinzione riguardo le competenze dell’Unione che spettano alle Comunità del quadro del primo pilastro e a quelle che spettano agli Stati membri del secondo e del terzo pilastro. Le competenze esterne attribuite alle Comunità dai Trattati non trovano un limite nelle competenze in materia di politica estera e di sicurezza dell’Unione (PESC).
Riguardo le competenze comunitarie, esse possono essere esclusive rispetto a quelle degli Stati membri o concorrenti con queste ultime. La Corte di Giustizia ha riconosciuto una competenza esclusiva della CE solo in materia di politica commerciale e di pesca, alle quali oggi andrebbe aggiunta la materia monetaria.
Dall’altro lato la Commissione ha cercato in qualche occasione di estendere l’ambito delle competenze esclusive della CE fino a farvi ricadere tutte quelle che ruotano attorno alle quattro libertà di circolazione (merci, persone, servizi e capitali), nonché ad alcune altre politiche fondamentali per l’istituzione del mercato comune ma senza apprezzabili risultati.
Va anche ricordato che il Progetto di Trattato istitutivo di una Costituzione Europea, agli articoli I-12 e I-13, definisce le competenze esclusive e quelle concorrenti dell’Unione, includendo tra le prime la politica di concorrenza, la politica monetaria, la politica commerciale comune, di unione doganale e di conservazione delle risorse biologiche nel quadro della politica della pesca.
I criteri alla stregua dei quali l’Unione e le Comunità esercitano le loro competenze sono: il principio delle competenze di attribuzione, il principio di sussidiarietà, il principio di prossimità e il principio di proporzionalità.
In base al principio delle competenze di attribuzione, le istituzioni della Comunità agiscono nei limiti delle competenze conferite e degli obiettivi assegnati in maniera espressa da specifiche norme dei Trattati istitutivi. L’art. 308 CE recita come segue: “quando un’azione della Comunità risulti necessaria per raggiungere uno degli scopi della Comunità, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e dopo aver consultato il Parlamento Europeo, prende le disposizioni del caso”.
Questo articolo è stato chiamato a legittimare l’azione comunitaria nelle più svariate materie, come ad esempio la pesca, i fondi regionali, gli accordi con Stati Terzi, il progetto di statuto della società europea, la politica economica e monetaria, la politica sociale, la politica energetica, la politica industriale, la politica dell’ambiente e la politica del consumatore.
L’art. 308 CE prevede sempre la necessità di una decisione unanime in seno al Consiglio; non esclude la possibilità di autonoma e indipendente applicazione della teoria dei poteri impliciti nell’ordinamento comunitario.
Il secondo principio che determina l’ambito delle competenze comunitarie e, più di quelle dell’Unione, è quello di sussidiarietà che nel Trattato CE viene definito come segue: “Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni e degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario”.
Il principio ha una duplice valenza: orizzontale, per quanto riguarda i rapporti tra autorità pubblica e sfera privata, e verticale, per quanto riguarda i rapporti tra i diversi livelli del potere pubblico. L’introduzione di tale principio nell’impianto comunitario è avvenuta con il Trattato di Maastricht ed è il frutto di una certa strumentalizzazione del principio stesso da parte di alcuni Stati, i quali, sensibili al mantenimento delle proprie prerogative, ritenevano che occorresse limitare il potere della burocrazia comunitaria, stabilendo che essa deve intervenire solo qualora possa conseguire determinati obiettivi meglio di quanto non potrebbero fare gli Stati singolarmente.
Il terzo principio è quello di prossimità, secondo cui l’Unione prende le sue decisioni il più possibile vicino ai cittadini. È in connessione con quello di sussidiarietà, può essere validamente usato per rivendicare competenze locali a scapito di quelle nazionali.
Infine, abbiamo il principio di proporzionalità è stato ricostruito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia ed è oggi riformulato come segue: “L’azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente trattato”. Tale principio tende a regolare il modo con cui devono essere esercitate le competenze comunitarie; anche quelle esclusive cui non si applica il principio di sussidiarietà, assicurando che vi sia corrispondenza tra i mezzi adoperati e il fine da raggiungere.

13. I compiti dell’Unione e delle Comunità: l’instaurazione del mercato comune e le quattro libertà di circolazione; il mercato interno e il mutuo riconoscimento.

L’Unione Europea realizza i suoi obiettivi attraverso l’attuazione della politica estera e di sicurezza comune, l’istituzione di una cittadinanza dell’Unione e l’attuazione della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Nell’ambito dell’UE, la CE realizza i suoi obiettivi attraverso l’instaurazione di un mercato comune, l’instaurazione di un’unione economica e monetaria e l’attuazione di politiche e azioni comuni.
Il compito che fin dall’inizio la CE si è posta è quello di instaurare un mercato comune tra i suoi membri, i cui elementi costitutivi sono una unione doganale e la libertà di circolazione di merci, persone, servizi e capitali al suo interno.
Unione Doganale significa abolizione dei dazi doganali tra li Stati membri e creazione di una tariffa doganale esterna comune nei rapporti con i paesi terzi. L’unione doganale si differenzia dalla zona di libero scambio, che invece prevede il mantenimento per gli Stati membri di dazi doganali nazionali verso i paesi non membri e il libero scambio solo delle merci originarie di un paese membro.
Il mercato comune instaurato dal Trattato CE prevede le cosiddette quattro libertà di circolazione, quella delle merci , dei lavoratori dipendenti, dei servizi professionali e dei capitali. L’impostazione neo-liberista del Trattato CE è completata dalle “regole di concorrenza”, volte ad assicurare che la circolazione dei prodotti e dei servizi all’interno del mercato comune si svolga appunto secondo il libero gioco della concorrenza, non falsato da intese restrittive della concorrenza stessa, da abusi di posizioni dominanti sul mercato o da concentrazioni tra imprese che siano di ostacolo significativo alla concorrenza.
L’attuazione di tali libertà di circolazione si era sostanzialmente identificata in un obbligo generalizzato di non discriminazione, posto a carico di ciascuno degli Stati membri, relativamente a beni e soggetti di provenienza comunitaria. L’integrazione così realizzata avveniva secondo le regole del Paese di destinazione, nel senso che a persone, merci, servizi e capitali ce volessero uscire dal proprio paese di origine, per entrare in un altro Stato comunitario, veniva garantita parità di trattamento con persone, merci, servizi e capitali del paese di destinazione e ciò in linea con il divieto di discriminazioni basate sulla nazionalità.
Considerando questa alternativa alquanto fallimentare, la Corte di Giustizia, dal 1979, con una serie di sentenze molto importanti, aveva cominciato ad introdurre il principio secondo cui i prodotti legalmente fabbricati e venduti in uno Stato membro devono poter liberamente circolare negli altri Stati membri, cosi come le persone legittimamente giustificate da motivi attinenti alla salute e sicurezza pubblica; con queste sentenze, la Corte di Giustizia ha sostituito al principio del paese di destinazione il principio del Paese di origine, secondo cui per tutti gli elementi che fruiscono della libertà di circolazione non è possibile per lo Stato di destinazione imporre condizioni più onerose di quelle richieste dallo Stato di origine.
Queste sentenze hanno spianato la strada alla sostituzione su larga scala del principio del paese di destinazione con il principio del paese d’origine, o del mutuo riconoscimento, come ispiratore del processo di integrazione europea. Questo principio ha, come logica conseguenza, quella di forzare un’armonizzazione delle disposizioni dei vari Stati. Senza tale armonizzazione, si potrebbero verificare situazioni di discriminazioni “a rovescio”: i cittadini di uno Stato in cui sono in vigore determinate restrizioni non potrebbero, di conseguenza, esercitare professioni o commercializzare prodotti nel proprio Stato, mentre potrebbero invece farlo i cittadini degli altri Stati membri che tali restrizioni eventualmente non prevedano.

14. L’Unione economica e monetaria.

L’Unione economica e monetaria (UEM) costituisce una delle più importanti realizzazioni della Comunità. L’UEM è stata finora realizzata soltanto tra dodici dei venticinque Stati membri. Ne restano fuori Regno Unito e Danimarca, che si sono avvalsi della facoltà di non partecipare concessa da appositi protocolli allegati al Trattato CE, mentre la Svezia e i dieci Stati recentemente entrati nell’UE fanno parte della categoria degli “Stati membri con deroga”; essi sono esclusi dagli organi speciali dell’UEM ed il loro diritto di voto è sospeso relativamente alle decisioni del Consiglio nell’ambito dell’UEM. Il motivo è che tali Stati non soddisfano i criteri di convergenza previsti dal Trattato CE.
Gli obblighi che rientrano nei criteri di convergenza sono rafforzati dal patto di stabilità, adottato con risoluzione del Consiglio Europeo di Amsterdam del 17 giugno 1997 ed oggetto di due regolamenti del Consiglio del 7 luglio 1997. Tale patto sancisce l’impegno degli Stati membri di rispettare l’obiettivo di un saldo di bilancio a medio termine prossimo al pareggio e fermamente invita il Consiglio ad essere rigoroso nell’applicare le sanzioni previste dal Trattato.

15. La politica estera e di sicurezza comune.

Le norme relative alla politica estera e di sicurezza comune (PESC) rappresentano il secondo pilastro dell’Unione. La PESC propone gli obiettivi di:

  • difendere i valori comuni, gli interessi fondamentali, l’indipendenza e l’integrità dell’Unione in conformità ai principi della Carta dell’ONU;
  • rafforzare la sicurezza dell’Unione in tutte le sue forme;
  • mantenere la pace e rafforzare la sicurezza internazionale;
  • sviluppare e consolidare la democrazia, lo stato di diritto e il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

L’art. 17 TUE aggiunge la “definizione progressiva” di una politica di difesa comune, includendo le missioni umanitarie e di soccorso, le attività di mantenimento della pace e le missioni di unità di combattimento nella gestione delle crisi.
La presidenza della PESC è assistita dal Segretario Generale del Consiglio, che svolge il ruolo di Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune.

16. La cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.

Le norme relative alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale rappresentano il terzo pilastro dell’Unione. La cooperazione in questione si propone gli obiettivi di “fornire ai cittadini un elevato livello di sicurezza in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, sviluppando tra gli Stati membri un’azione comune nel settore della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale e prevedendo e reprimendo il razzismo e la xenofobia”.
Tali obiettivi sono perseguiti prevenendo e reprimendo la criminalità, organizzata o di altro tipo, e il terrorismo, la tratta degli esseri umani ed i reati contro i minori, il traffico illecito di droga e di armi, la corruzione e la frode. A questi fini, vengono riconosciuti come strumenti dell’azione dell’UE:

  • una più stretta cooperazione tra le forze di polizia, le autorità doganali e le altre autorità competenti degli Stati membri, sia direttamente che tramite l’Europol;
  • una più stretta coopera zone tra le autorità giudiziarie, sia direttamente che tramite l’Eurojust;
  • il ravvicinamento delle normative nazionali in materia penale, ove necessario.

Il limite è quello del rispetto delle responsabilità incombenti a ciascuno Stato per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna.
Particolare attenzione merita il ruolo attribuito alla Corte di Giustizia in materia di competenza pregiudiziale di interpretazione e di controllo di legittimità degli atti delle istituzioni. Queste peculiarità ci hanno indotto a ritenere che la Corte, nel campo della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, di fatto operi come un organo giurisdizionale istituito ad hoc dagli Stati membri.

18. Le cooperazioni rafforzate.

Il concetto di Europa a due velocità, o a geometria variabile, si è sviluppato a seguito dell’esigenza di consentire ad alcuni Stati membri soltanto di realizzare forme di integrazione più avanzate. Tali norme hanno incorporato nel Trattato CE il sistema Schengen. Regno Unito e Irlanda non erano tra i firmatari di tali accordi e la Danimarca godeva di un regime particolare. Anche la realizzazione dell’unione economica e monetaria costituisce una forma di cooperazione rafforzata. A partire dal Trattato di Amsterdam, la possibilità di una differenziazione relativamente all’applicazione di alcune norme del diritto comunitario è espressamente prevista e disciplinata dalle norme sulle cooperazioni rafforzate. Vi sono disposizioni generali su tali cooperazioni e disposizioni applicabili a ciascuno dei tre pilastri. Le disposizioni generali in materia prevedono che una cooperazione rafforzata possa instaurarsi solo tra almeno otto Stati membri su venticinque attuali e solo in ultima istanza, qualora il Consiglio stabilisca che gli obiettivi che essa si prefigge non possano essere raggiunti applicando le pertinenti disposizioni dei Trattati.

 

La cooperazione forzata deve rispondere ai seguenti requisiti:

  • deve essere diretta a promuovere gli obiettivi dell’Unione e della Comunità, rafforzando il processo di integrazione europea dell’acquis comunitario e del quadro istituzionale unico dell’Unione;
  • deve rimanere nell’ambito delle competenze dell’Unione o di quelle non esclusive della Comunità;
  • non deve recare pregiudizio al mercato interno o alla politica di coesione economica e sociali;
  • non deve costituire un ostacolo né una discriminazione per gli scambi tra gli Stati membri;
  • deve rispettare le competenze, i diritti e gli obblighi degli Stati non partecipanti e deve essere aperta alla partecipazione di tutti gli Stati membri, attivamente promossa dalla Commissione e dagli stati membri stessi;
  • deve lasciare impregiudicate le norme di quella specifica cooperazione rafforzata che deriva dal sistema Schengen.

Le cooperazioni forzate vengono decise dal Consiglio su proposta della Commissione, previa consultazione del Parlamento Europeo per le cooperazioni nei settori per i quali è prevista la procedura della codecisione.
L’art.11 CE prevede il caso che uno Stato membro desideri partecipare ad una cooperazione già instaurata deve notificare tale intenzione al Consiglio e alla Commissione.
Nel secondo pilastro vi è una limitata possibilità di cooperazioni forzate; esse non possono riguardare questioni aventi implicazioni militari o nel settore della difesa. Nell’ambito del terzo pilastro, esse devono avere il fine di consentire all’Unione di svilupparsi più rapidamente come spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia, oltre a rispettare le norme del Trattato (Maggioranza qualificata del Consiglio).
Nulla impedisce a tutti gli Stati membri di concordare tra di loro particolari forme di collaborazione al di fuori del contesto dell’Unione Europea, purché non in contrasto con esso.

19. Le istituzioni comunitarie in generale.

Le istituzioni comunitarie sono: Parlamento Europeo, Consiglio, Commissione, Corte di Giustizia e Corte dei Conti. Tali istituzioni esercitano competenze distinte nell’ambito del Trattato CE e CEEA. La struttura comunitaria è complessa ed articolata, in quanto molteplici sono gli interessi che essa deve contemperare.
Le relazioni tra le istituzioni comunitarie sono improntate al rispetto di due principi che la Corte di Giustizia ha progressivamente messo a punto: il principio dell’equilibrio istituzionale, il quale comporta che ogni istituzione eserciti le sue competenze nel rispetto di quelle delle altre istituzioni, e il principio della leale cooperazione, cioè quello di agevolare e non ostacolare l’esercizio delle competenze di ciascuna istituzione. Le istituzioni non sono affatto strutturate secondo il principio della separazione dei poteri; questo principio si è affermato nel moderno Stato di diritto in risposta all’esigenza di decentrare poteri prima accentrati nelle mani del monarca assoluto.
Nelle Comunità Europee vi è un organo, il Parlamento Europeo, il quale, rappresentando i popoli, deve essere coinvolto nelle funzioni legislativa e di controllo. Il risultato è che più organi spesso esercitano congiuntamente i loro poteri nell’ambito di una stessa funzione, contribuendo insieme ad emanare atti che assumono la caratteristica di atti complessi.

20. Composizione e funzionamento delle istituzioni comunitarie: (a) il Parlamento Europeo.

Il Parlamento Europeo è composto dai rappresentanti dei popoli degli Stati riuniti nella Comunità.
Nelle Comunità europee v’è anche un organo a composizione parlamentare, che rappresenta i popoli e non gli Stati sula base di una vocazione federalista delle comunità europee.
I membri del Parlamento Europeo a suffragio universale diretto si sono svolte nel 1979 in tutti gli stati membri e si sono poi susseguite con scadenza quinquennale.
Le elezioni del Parlamento Europeo si svolgono in un periodo compreso tra il giovedì e la domenica di una settimana fissata per tutti gli Stati Membri, ma i risultati non possono essere resi noti prima che tutti i seggi elettorali si siano chiusi. La procedura elettorale è ancora diversa stato a stato, in quanto non è stato finora possibile accordarsi sulla procedura uniforme in tutti gli Stati membri o secondo i principi comuni a tutti gli Stati membri, pertanto, ogni Stato ha provveduto ad emanare autonomamente disposizioni in merito all’elezione diretta dei membri del Parlamento Europeo di propria spettanza.
Il numero dei componenti del Parlamento Europeo è venuto via crescendo, a seguito dei successivi allargamenti dell’Unione, passando dai 142 originari ai 732 membri attualmente previsti come tetto per la composizione del Parlamento Europeo dall’art. 189 CE.
Il numero dei deputati è fissato in modo da “garantire un’adeguata rappresentanza dei popoli degli Stati riuniti nella Comunità”. La durata del mandato dei parlamentari europei è di cinque anni. Essi non possono accettare alcuna istruzione relativamente al loro voto, che rimane individuale e personale. Non può essere un deputato europeo chi è anche membro di altri organi comunitari o di un governo nazionale. La carica di parlamentare europeo è anche incompatibile con quella di parlamentare nazionale a partire dall’elezione del Parlamento Europeo del 2004 e a seguito della modifica apportata all’Atto sopra menzionato.
L’organizzazione ed il funzionamento sono disciplinati dal regolamento interno, che è espressione del potere di auto-regolamentazione di cui godono la maggior parte degli organi di organizzazioni internazionali.
Il Parlamento Europeo si organizza al proprio interno non secondo la nazionalità dei propri componenti, ma secondo gruppi che condividono idee politiche affini. Vi è un gruppo del partito popolare europeo, un gruppo del partito del socialismo europeo; un gruppo politico deve essere composto da deputati eletti in almeno un quinto degli Stati membri e che, occorre un numero minimo di sedici deputati. I partiti politici a livello europeo sono un importante fattore per l’integrazione in seno all’Unione in quanto contribuiscono a formare una coscienza europea e ad esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione.
I parlamentari europei si suddividono in commissioni permanenti, cui è attribuita una competenza per materia, in corrispondenza con la stessa ripartizione di competenze che esiste tra la varie Direzioni Generali della Commissione. Il Parlamento Europeo elegge al proprio interno un Presidente e dei Vicepresidenti, che insieme costituiscono l’Ufficio di Presidenza. Quest’ultimo nomina un Segretario Generale, che è a capo di un Segretariato, il cui compito è quello di assistere l’Ufficio della Presidenza. L’art. 196 CE prescrive che il Parlamento Europeo tenga una sessione annuale, la quale ha inizio il secondo martedì del mese di marzo. Il Trattato di Amsterdam ha fissato a Strasburgo la sede del Parlamento Europeo, ove si tengono le dodici sedute plenarie mensili, ivi compresa la sessione di bilancio. Le sedute plenarie aggiuntive si tengono a Bruxelles. Il segretario generale del Parlamento e i suoi servizi sono a Lussemburgo.
Le immunità e i privilegi: i deputati europei non possono essere ricercati, detenuti o perseguiti a motivo delle opinioni o dei voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni. Essi godono delle immunità riconosciute ai parlamentari del loro paese e, sul territorio di ogni altro Stato membro, dell’esenzione da ogni provvedimento di detenzione e da ogni procedimento giudiziario, anche relativamente ad atti compiuti al di fuori delle loro funzioni. Questa immunità può essere tolta dal Parlamento Europeo stesso.
Il Parlamento Europeo delibera a maggioranza assoluta dei suffragi espressi. Il numero legale (o quorum) è raggiunto quando sono presenti in aula un terzo dei membri del Parlamento, ma le delibere sono valide comunque, a meno che venga constatata la mancanza del numero legale. Nel caso, invece, di emendamenti al progetto di bilancio, l’approvazione del proprio regolamento interno o per l’ammissione di nuovi Stati, la procedura di voto è la maggioranza assoluta dei componenti del Parlamento Europeo stesso.

21. …(b) il Consiglio e il COREPER.

Il Consiglio è l’unica istituzione della CE formata dai rappresentanti degli Stati membri; ha il compito di coordinare le politiche economiche generali degli Stati membri. Il Trattato gli attribuisce espressamente la possibilità di agire in qualità di legislatore e l’art. 7 del suo regolamento interno stabilisce che esso agisce in tale qualità quando adotta norme giuridicamente vincolanti negli o per gli Stati membri, quindi, nella maggioranza dei casi. L’impiego di tale terminologia sottolinea l’ampiezza del deficit democratico delle Comunità, implicito nell’affidamento di una funzione legislativa ad un organo non eletto dal popolo. La verità è che il Consiglio è sostanzialmente sottratto ad un vero controllo politico da parte dei singoli parlamenti nazionali e non è nemmeno sottoposto al controllo politico del Parlamento Europeo.
Il Consiglio è organo collegiale di Stati: l’individuo che partecipa alle sue riunioni non lo fa a titolo individuale, ma in rappresentanza di ciascuno Stato membro a livello ministeriale, implicando che il Consiglio debba essere composto da Ministri, da Sottosegretari o da qualsiasi altra persona avente rango ministeriale.
Il Consiglio può riunirsi in formazioni diverse a seconda delle materie trattate (i ministri di ciascun paese si riuniscono a seconda della materia trattata; es. economia). Un particolare Consiglio a 12 membri è previsto nell’ambito delle norme in materia di unione economica e monetaria.
Il Consiglio non è un organo permanente, a differenza della Commissione. Vi sono anche dei Consigli informali, i quali hanno luogo quando gli Stati membri desiderano discutere una materia che è al di fuori del campo rigorosamente comunitario e non intendono adottare nessuno specifico provvedimento, ma semplicemente scambiarsi i rispettivi punti di vista.
Il Consiglio non è un organo comune degli Stati membri; lo stesso Trattato CE prevede che il Consiglio adotterà disposizioni di cui raccomanderà l’adozione da parte degli Stati membri conformemente alle loro rispettive norme costituzionali; l’atto del consiglio è un accordo internazionale, tanto che è sottoposto a ratifica da parte degli Stati membri. Il Consiglio non agisce in quanto organo comunitario, ma in quanto riunione degli Stati membri, a guisa di una conferenza intergovernativa.
La Presidenza del Consiglio è esercitata a turno dai vari Stati per una durata di sei mesi, secondo un ordine stabilito dal Consiglio all’unanimità. Lo Stato di volta in volta Presidente del Consiglio lo è anche del Consiglio Europeo e di tutti gli svariati Comitati politici o di esperti tecnici in cui si articola l’attività della Comunità.
Il Consiglio è assistito da un Segretario Generale che svolge anche il ruolo di Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune. Un organo che svolge un importante ruolo ausiliario del Consiglio è il Comitato dei Rappresentanti Permanenti degli Stati membri, o COREPER. Esso è responsabile della preparazione dei lavori del Consiglio e dell’esecuzione dei compiti che il Consiglio gli assegna. Può anche adottare decisioni di procedura nei casi previsti dal regolamento interno del Consiglio.
Il COREPER è un organo collegiale di Stati, in quanto è composto dagli ambasciatori che guidano le rappresentanze Permanenti dei rispettivi Stati; è un organo permanente, in grado di svolgere senza soluzione di continuità il suo ruolo.
Le procedure di voto del Consiglio sono molteplici. Cominciando dalla regola dell’unanimità, sono ben cinquanta le aree in cui il Consiglio decide ancora sulla base di tale regola; esse includono le decisioni più importanti (ambito della politica di asilo e immigrazione, fiscale, sociale, coesione economica e sociale e politica commerciale). Purtroppo, in una Comunità allargata come quella attuale, la regola dell’unanimità non renda certo agevole il cammino dell’integrazione europea. Nel 1965, la Francia manifestò il proprio dissenso ad attuare le disposizioni del Trattato che prendevano il passaggio dalla regola dell’unanimità a quella della maggioranza qualificata per molte decisioni del Consiglio successive alla scadenza del periodo transitorio durante il quale era stata realizzata l’unione doganale.
Le astensioni di uno o più Stati non ostano all’adozione di decisioni unanimi; l’assenza non consente l’adozione di una delibera all’unanimità. Va ricordato che ciascun membro può ricevere delega da uno solo degli altri membri, evitando di risultare assente da una riunione del Consiglio. Le decisioni prese a semplice maggioranza dei membri che lo compongono costituiscono la regola per il Consiglio; esse sono utilizzate solo per provvedimenti interorganici o adempimenti procedurali del Consiglio.
La procedura più interessante è senz’altro quella della maggioranza qualificata, in quanto essa implica una ponderazione dei voti attribuiti a ciascuno Stato in seno al Consiglio. Il criterio di ponderazione è quello demografico, favorevole agli Stati minori rispetto ai criteri che abbiamo visto essere adottati per il Parlamento Europeo. Il totale dei voti è 321. Una delibera a maggioranza qualificata viene adottata se si raggiungono 232 voti. La fissazione di questo quoziente si presta ad alcune considerazioni. Innanzitutto, il numero di voti necessari per bloccare una delibera che debba essere presa a maggioranza qualificata è di 90 voti, poco meno di un terzo del totale dei voti (Tre grandi Stati più uno piccolino come Malta possono bloccare una decisione del Consiglio).
Per evitare questo, il Compromesso di Joannina era volto ad alzare la soglia della minoranza di blocco allora vigente, in modo da rendere più difficile l’adozione di delibere a maggioranza qualificata.
Le decisioni del Consiglio a maggioranza qualificata sono previste in tutti i casi in cui viene adottata la procedura della codecisione.
Il Consiglio ha sede a Bruxelles, ma, durante i mesi di aprile, giugno e ottobre tiene le sessioni a Lussemburgo. Le sessioni del Consiglio non sono pubbliche, sulla base del principio di trasparenza, che richiede al Consiglio di definire, nel proprio regolamento interno, condizioni idonee a facilitare l’accesso del pubblico specie nei casi in cui il Consiglio agisce come “legislatore”.

22. …(c) la Commissione.

La Commissione comprende un cittadino di ciascuno Stato membro ed il numero dei membri della Commissione può essere modificato con delibera unanime del Consiglio. I membri della Commissione sono scelti in base alla loro competenza generale e devono offrire ogni garanzia di indipendenza; è un organo collegiale di individui. L’art. 213 CE specifica i contenuti del requisito dell’indipendenza dei Commissari, la quale deve sussistere non solo nei confronti degli Stati o di altri organismi pubblici, ma anche nei confronti di qualsiasi interesse privato; nell’adempimento dei loro doveri non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo o da alcun organismo.
Gli Stati membri si impegnano a rispettare l’indipendenza dei Commissari e a non cercare di influenzarli nell’esecuzione dei loro compiti. In caso di violazione, la Corte di Giustizia, su istanza del Consiglio o della Commissione, può pronunciare le dimissioni d’ufficio del Commissario inadempiente, dichiararlo decaduto dal diritto a pensione o dal diritto ad altri benefici sostitutivi della pensione stessa.
La procedura di nomina si svolge in più fasi. In primo luogo, il Consiglio, riunito nella particolare composizione dei capi di Stato e di governo, designa la persona che intende nominare Presidente della Commissione, designazione che deve essere approvata dal Parlamento Europeo. In secondo luogo, il Consiglio di comune accordo con il Presidente così designato, adotta l’elenco delle altre persone che intende nominare Commissari; l’elenco deve essere conforme alle proposte presentate da ciascuno Stato membro. Infine il Presidente e gli altri Commissari designati sono soggetti, collettivamente e non individualmente, ad un voto di approvazione da parte del Parlamento Europeo, dopodiché, l’intera Commissione è nominata dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata.
I commissari durano in carica cinque anni ed il loro mandato è rinnovabile. Essi vengono anche a scadere per decesso, dimissioni d’ufficio o volontarie, nei quali casi è il Consiglio a provvedere alla sostituzione per la restante parte del loro mandato. La Commissione è al suo interno assistita da un Segretario ed è organizzata in Direzioni Generali competenti per materie, a capo delle quali è preposto un Commissario.
La sede della Commissione è a Bruxelles, con alcuni servizi distaccati a Lussemburgo. Sedi e uffici di rappresentanza esistono in molte città, comprese Roma e Milano. Le decisioni della Commissione sono prese a maggioranza dei suoi membri, maggioranza la cui presenza costituisce, quindi, anche il quorum per la validità delle delibere.

23. …(d) la Corte di Giustizia e il Tribunale di primo grado.

La Corte di Giustizia e il Tribunale di primo grado assicurano, nell’ambito delle rispettive competenze, il rispetto del diritto nella interpretazione e nell’applicazione del Trattato.
La Corte di Giustizia è composta di un giudice per Stato membro e di otto avvocati generali. Essa siede in permanenza a Lussemburgo. I giudici e gli avvocati generali sono nominati di comune accordo dai governi degli Stati membri senza alcuna partecipazione del Parlamento Europeo. A differenza dei membri della Commissione, i giudici non devono essere necessariamente cittadini degli Stati membri, anche se, per prassi consolidata, viene nominato un giudice avente la nazionalità di ciascuno degli Stati membri.
Il Trattato prevede che i giudici siano scelti tra personalità che offrano tutte le garanzie di indipendenza e che riuniscano le condizioni richieste per l’esercizio delle più alte funzioni giurisdizionali, ovvero che siano giureconsulti di notoria competenza.
La figura dell’avvocato generale non è un pubblico ministero, né il titolare dell’azione davanti alla Corte. Egli è un collaboratore della Corte, il cui ufficio è quello di rappresentare pubblicamente con assoluta imparzialità ed in piena indipendenza conclusioni motivate sulle cause che richiedono il suo intervento nell’interesse della corretta applicazione del diritto comunitario. La Corte può escludere la necessità di tale intervento quando la causa non sollevi nuove questioni di diritto.
I giudici e gli avvocati generali durano in carica sei anni, ma non decadono tutti nello stesso momento; ogni tre anni si procede ad un loro rinnovo parziale, così da assicurare una certa continuità nell’attività della Corte. I loro mandati sono rinnovabili. I giudici designano al loro interno un Presidente, che dura in carica tre anni e il cui mandato è anch’esso rinnovabile. La Corte nomina anche un Cancelliere, che ha compiti giudiziari ed amministrativi di notevole importanza.
La Corte si riunisce in seduta plenaria solo in casi di eccezionale importanza, mentre le varie cause vengano affidate a sezioni, distinte in grandi o piccole. Il procedimento e l’attività della Corte sono regolati dalle norme del Trattato, da quelle dello Statuto e da quelle del Regolamento di Procedura. Lo Statuto della Corte contiene anche le norme volte a garantire l’indipendenza dei giudici e degli avvocati generali; tali norme prevedono che entrambi godano dell’immunità di giurisdizione, non possono esercitare nessuna funzione politica, amministrativa o professionale e possono essere rimossi dalle loro funzioni, o essere dichiarati decaduti dal diritto a pensione solo qualora non siano più in possesso dei requisiti richiesti, non soddisfando gli obblighi derivanti dalla loro carica. Il regolamento di procedura della Corte è stabilito dalla Corte stessa, ma deve essere approvato dal Consiglio deliberante a maggioranza qualificata. Il procedimento dinanzi alla Corte prevede una prima fase scritta, seguita da una orale. La Corte emette sentenze e ordinanze: le prime pongono termine ad un procedimento ed hanno carattere definitivo; le seconde hanno valore provvisorio e natura meramente processuale. Le sentenze che comportano a carico di persone che non siano gli Stati un obbligo pecuniario costituiscono titolo esecutivo, al pari delle decisioni del Consiglio e della Commissione, e quindi possono dar luogo ad esecuzione forzata secondo le norme in vigore in ciascuno Stato.
Alla Corte è affiancato, dal 1989, un Tribunale di primo grado, sia per far fronte al crescente carico di lavoro della Corte, specie a seguito dell’allargamento dell’UE, che per attuare il doppio grado di giudizio, che è uno dei diritti garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Il numero dei membri del Tribunale è stato fissato a 25tra i quali viene scelto di volta in volta quello che funge da avvocato generale. Il Tribunale di primo grado ha visto progressivamente ampliarsi tali competenze, specie alla luce del Trattato di Nizza. Restano esclusi dalle competenze del Tribunale i ricorsi presentati da Stati e le controversie tra gli Stati membri.
Le sentenze del Tribunale possono essere impugnate dinanzi alla Corte di Giustizia, ma solo per motivi di diritto; il diritto di impugnativa è concesso ugualmente agli Stati membri e alle istituzioni della Comunità, anche se non erano intervenuti nel procedimento dinanzi al Tribunale stesso.

24. …(e) la Corte dei Conti.

La Corte dei Conti fu istituita con il Trattato di Bruxelles del 22 luglio 1975 che entrò in funzione nel 1977 ed a seguito del Trattato di Maastricht è stata inclusa a pieno titolo tra le istituzioni comunitarie. Ne sarà esclusa ove venisse approvato l’attuale testo di Progetto che istituisce una Costituzione per l’Europa.
La Corte dei Conti ha funzioni di controllo contabile sulle entrate e sulle uscite delle Comunità; è composta di un cittadino di ciascun Stato membro. I suoi membri sono scelti tra personalità che fanno o hanno fatto parte delle istituzioni di controllo esterno o che possiedono una qualifica specifica per tale funzione. Si tratta di un organo collegiale di individui. Ai suoi membri sono richieste le stesse garanzie di indipendenza ei membri della Commissione. Le loro immunità ed i loro privilegi sono gli stessi dei giudici della Corte di Giustizia. L’elenco dei membri della Corte dei Conti, che durano in carica sei anni, è adottato dal Consiglio a maggioranza qualificata e previa consultazione del Parlamento Europeo. In pratica, ciascuno Stato sceglie il suo candidato.

26. Le istituzioni finanziarie.

Le istituzioni finanziarie previste nell’ambito dell’UEM sono la Banca Centrale Europea (BCE) e il Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC). L’art.107 CE attribuisce alla BCE la personalità giuridica, riferendosi a quella di diritto interno. Quanto alla personalità di diritto internazionale, tale personalità escluderebbe la possibilità di qualificare la BCE come organo della CE. Essa rappresenterebbe la autonoma istituzionalizzazione della cooperazione tra gli Stati membri in materia monetaria. In altre parole, la BCE costituirebbe a sua volta una organizzazione internazionale accanto alla CE, nell’ambito dell’Unione Europea.
Ai membri della BCE e a quelli del SEBC è richiesta e garantita assoluta autonomia e indipendenza sia nei confronti dei governi nazionali, che degli altri organi comunitari, ed in particolare del Parlamento Europeo, con i quali, tuttavia, essi mantengono collegamenti. Le decisioni cruciali di competenza della BCE, capaci di incidere profondamente sulla politica economica della CE e degli Stati membri, sono compiute, di conseguenza, da un organo tecnico quasi totalmente privo di responsabilità a livello politico.

27. La Banca europea per gli investimenti.

La Banca europea per gli investimenti (BEI) è dotata di autonoma personalità giuridica, secondo il Trattato CE; può essere intesa come un’impresa-organizzazione internazionale, data la natura imprenditoriale della sua attività. La Corte di Giustizia ha definito la BEI un organo comunitario munito di personalità giuridica.
A sottolineare l’autonomia della BEI rispetto alla CE contribuiscono altri fattori.
I membri della BEI sono gli stessi Stati membri della CE; la BEI possiede una struttura abbastanza articolata, essendo amministrata e gestita da un Consiglio dei governatori (Ministri degli Stati membri), un Consiglio di amministrazione (organo collegiale di individui cui è affidata la ordinaria amministrazione della BEI) ed un Comitato direttivo (con funzioni esclusivamente esecutive); la BEI dispone di un proprio sistema di finanziamento e bilancio, infatti, essa dispone di un proprio capitale, il cui importo è stato progressivamente aumentato con i successivi allargamenti della Comunità e che è sottoscritto dagli Stati membri secondo la composizione degli organi comunitari.
Anche se la BEI non può qualificarsi come un organo delle Comunità, è certo che l’attività della BEI si inserisce completamente nel quadro delle finalità perseguite dalle Comunità Europee ed è svolta nell’esclusivo interesse di queste ultime. La funzione della BEI è quella di contribuire, facendo appello al mercato dei capitali ed alle proprie risorse, allo sviluppo equilibrato e senza scosse del mercato comune. Essa concede prestiti per finanziare progetti tesi a valorizzare le regioni comunitarie meno sviluppate, progetti di interessi comuni tra gli Stati membri, progetti tutti che non potrebbero essere completamente finanziati con risorse dei singoli Stati membri. I beneficiari dei prestiti possono essere sia gli stessi Stati membri, che imprese private; in quest’ultimo caso, il prestito verrà concesso dietro prestazione di idonea garanzia da parte dello Stato membro sul cui territorio dovrà essere realizzato il progetto oggetto del finanziamento.
Per la concessione dei prestiti, la BEI si può avvalere del proprio capitale, ma più spesso ricorre a risorse prelevate sul mercato internazionale dei capitali, attraverso l’emissione di obbligazioni. È doveroso sottolineare che la BEI non persegue fini di lucro e che agisce nell’interesse generale della Comunità. Ciò significa che il tasso di interesse praticato dalla BEI terrà semplicemente conto del costo del danaro alla BEI stessa, oltre ad un margine destinato a coprire le sue spese di funzionamento.
Molte norme relative alla BEI sono contenute in un atto internazionale separato dai Trattati comunitari, vale a dire nel Protocollo sullo statuto della BEI, firmato a Roma il 25 marzo 1957, contemporaneamente ai Trattati CE e CEEA, e successivamente modificato più volte.

28. La funzione legislativa.

La struttura delle Comunità Europee non risponde  al principio della separazione dei poteri, tuttavia, sono identificabili le tradizionali funzioni, esercitate congiuntamente da più organi.
La funzione legislativa è stata definita dalla Corte di Giustizia come quella che presiede all’emanazione di norme generali e vincolanti, le quali trovano la loro base nel Trattato stesso. La Corte ha voluto distinguerla dalla funzione esecutiva, che presiede all’emanazione di misure di attuazione dei provvedimenti legislativi, le quali possono essere sia a carattere generale che individuale.
All’esercizio della funzione legislativa partecipa una molteplicità di organi, così che gli atti che ne risultano sono degli atti complessi. Per l’emanazione di misure legislative, l’ultima parola spetta ancora ala Consiglio, al quale il Trattato riconosce espressamente il ruolo di legislatore. Al Parlamento Europeo spetta un diritto di veto. Solamente in casi isolati, la Commissione si vede attribuito un potere legislativo direttamente dai Trattati (unione doganale nel periodo transitorio).

28.1. Il potere di iniziativa della Commissione ed i suoi rapporti con il Consiglio.

L’impostazione originaria dei Trattati comunitari prevedeva che la Commissione godesse del potere di iniziativa relativamente agli atti normativi comunitari, attraverso l’emanazione di proposte indirizzate al Consiglio. Più proposte in un ampio contesto organico sono contenute dei Libri Bianchi. Laddove è prevista la necessità della proposta della Commissione, il Consiglio è sottoposto, nelle sue decisioni, a tutta una serie di limiti. Anzitutto, esso non può deliberare senza una tale proposta: la delibera sarebbe illegittima per violazione delle forme sostanziali e passibile di essere dichiarata nulla dalla Corte di Giustizia. In secondo luogo,il Consiglio può emanare un atto che costituisca emendamento della proposta solo deliberando all’unanimità; gli emendamenti che il Consiglio può così apportare non devono travisare la natura della proposta (se il Consiglio riscrivesse completamente tale proposta, la estendesse a campi non originariamente previsti o ne stravolgesse le finalità, non ci si troverebbe di fronte ad emendamenti veri e propri, ma ad una decisione del Consiglio di fatto priva di una proposta della Commissione e, quindi, illegittima).
L’art. 250 CE afferma che “Fintanto ché il Consiglio non ha deliberato, la Commissione non ha il diritto di ritirare una proposta quando il Consiglio stia per emendarla e quando la proposta si trova nella fase della seconda lettura nell’ambito della procedura di codecisione”.
In definitiva, il Consiglio può approvare, con la procedura di voto di volta in volta richiesta, una proposta della Commissione, può rigettarla in toto non emettendo alcun provvedimento in materia, può approvare all’unanimità un atto che modifichi la proposta, ma non può predisporre esso stesso i provvedimenti da emanare, in quanto è quasi sempre vincolato ad una proposta della Commissione.
Questa originale costruzione dei Trattati istitutivi ha ben presto originato manovre da parte degli Stati membri, volte ad imbrigliare il potere di iniziativa della Commissione (COREPER). Il dialogo tra la Commissione e il Consiglio, come concepito originariamente nei Trattati, è stato così sostituito da un dialogo tra la Commissione e il COREPER, in quanto organo permanente, finisce con il condizionare notevolmente il potere di iniziativa della Commissione, dato che ne passa al vaglio tutte le proposte.
Le proposte della Commissione devono contenere l’indicazione della base giuridica su cui si fondano, devono essere giustificate alla luce del principio di sussidiarietà e devono contenere indicazioni in merito al loro finanziamento nei limiti delle risorse proprie disponibili nel bilancio comunitario. La conclusione è che l’esclusività da parte di iniziativa della Commissione da una parte si è venuta progressivamente erodendo a vantaggio del Parlamento Europeo, della BCE e del Consiglio Europeo, e dall’altra si è stemperata nella necessità del continuo dialogo tra Commissione, Consiglio e Parlamento Europeo, implicito nelle procedure di cooperazione e codecisione.

28.2. La partecipazione del Parlamento Europeo: le procedure di consultazione, cooperazione, codecisione e parere conforme.

La partecipazione del Parlamento Europeo al processo di emanazione degli atti comunitari si esprime con quattro procedure cui il Trattato fa alternativamente riferimento: le procedure di consultazione, cooperazione, codecisione e parere conforme.
La procedura di consultazione è quella originariamente prevista dal Trattato CE, la procedura di cooperazione e quella di parere conforme sono state introdotte dall’AUE e la procedura di codecisione è stata introdotta dal Trattato di Amsterdam. Vi è stato un generale progressivo spostamento delle competenze del Parlamento Europeo verso una partecipazione sempre maggiore. Laddove, ad esempio, originariamente non era nemmeno prevista la consultazione del Parlamento, essa è stata in alcuni casi introdotta; laddove era prevista la semplice consultazione, si è passati spesso alla procedure di cooperazione e, quindi, di codecisione. Prima di passare in esame le quattro procedure anticipiamo che la procedura di cooperazione è stata di fatto abbandonata.
La procedura di consultazione del Parlamento Europeo da parte del Consiglio è prevista per un notevole numero di provvedimenti di quest’ultimo, ad esempio nei campi della cittadinanza dell’Unione, della libera circolazione dei servizi, delle regole di concorrenza, dell’armonizzazione delle imposte indirette, dell’occupazione, della politica sociale, degli accordi con Stati terzi.
In tutti questi casi il parere del Parlamento è atto formale, di natura interorganica e a carattere obbligatorio, nel senso che la sua mancanza renderebbe l’atto del Consiglio illegittimo per la violazione delle forme sostanziali e quindi passibile di essere dichiarato nullo da parte della Corte di Giustizia. Il fatto è che il parere del Parlamento non è vincolante per il Consiglio; sul piano pratico, il Parlamento può essere tentato di ritardare la decisione del Consiglio. Il limite di tale eventuale tattica è duplice: da una parte, esso si deve conformare al dovere di leale cooperazione, per cui, in presenza di un proprio ritardo irragionevole, non può invocare la illegittimità dell’atto del Consiglio emesso senza attendere il parere stesso; dall’altra parte vi è la possibilità per il Consiglio di adire la Corte di giustizia con un ricorso in carenza contro il Parlamento, ove esista in relazione alla mancata emanazione di pareri.
Qualora a seguito del parere del Parlamento Europeo, la proposta della Commissione venisse sostanzialmente modificata, il Parlamento dovrà essere nuovamente consultato sulla proposta cosi modificata, prima che il Consiglio possa decidere.
La procedura di codecisione è disciplinata dall’art. 251 CE ed è prevista da oramai per quasi tutte le materie in cui il Consiglio delibera a maggioranza qualificata, eccetto che per la politica agricola e la politica commerciale. Si applica, ad esempio, per le discriminazioni fondate sulla nazionalità, la sicurezza sociale dei lavoratori migranti, i trasporti, i visti, asilo e immigrazione.
Si tratta di una procedura complessa. Essa si caratterizza per i seguenti elementi fondamentali:

  • i provvedimenti sottoposti a tale procedura non possono essere adottati senza il consenso del parlamento Europeo il quale dispone di un diritto di veto;
  • in caso di dissenso tra Parlamento e Consiglio, si convoca un Comitato di conciliazione paritetico, con il compito di raggiungere un accordo;
  • i provvedimenti sono adottati congiuntamente da Consiglio e Parlamento e firmati dai due rispettivi Presidenti;
  • se vi è l’accordo con il Parlamento Europeo, il Consiglio può adottare un atto che costituisca una modifica della proposta della Commissione anche a maggioranza qualificata.

La procedura di codecisione inizia con la presentazione di una proposta da parte della Commissione, congiuntamente al Consiglio e al Parlamento Europeo (in questo caso il PE inoltra al Consiglio il suo parere).
Se il Consiglio è d’accordo sulle modifiche indicate nel parere del PE, o se tale parere non richiede modifiche alla proposta, il Consiglio può, a maggioranza qualificata, adottare l’atto e il procedimento si conclude. Se, invece, il Consiglio non è d’accordo sulle modifiche suggerite dal PE, esso formalizza la sua posizione in un atto adottato a maggioranza qualificata, che è chiamato posizione comune, che va adeguatamente motivata, e su questa posizione si deve pronunciare entro tre mesi il PE e la Commissione deve far conoscere il suo orientamento.
Se il PE si dichiara d’accordo con la posizione comune o non si pronuncia nel termine, il provvedimento si considera adottato e il procedimento si conclude.
Se il PE respinge in toto la posizione comune con decisione presa a maggioranza assoluta dei suoi componenti, il provvedimento si considera non adottato e la procedura, anche in questo caso, si conclude.
Nel caso in cui, il PE proponga al Consiglio emendamenti alla posizione comune, su tali emendamenti, innanzitutto, la Commissione deve far conoscere il suo parere, mentre il Consiglio deve pronunziarsi entro un ulteriore termine di tre esami.
Se il Consiglio approva tutti li emendamenti proposti dal PE, il provvedimento si considera adottato (decisione presa all’unanimità). Nel caso in cui il Consiglio non approva tutti gli emendamenti, scatta un meccanismo di conciliazione che caratterizza l’intera procedura. Il Presidente del Consiglio d’accordo con il Presidente del PE, convoca entro sei settimane un comitato di conciliazione che riunisce i membri del Consiglio o i loro rappresentanti ed altrettanti rappresentanti del PE. Il suo compito è quello di giungere, entro sei settimane, ad un progetto comune. Tale progetto va approvato a maggioranza qualificata dei membri del Consiglio o dei loro rappresentanti  e a maggioranza dei rappresentanti del PE in seno al Comitato di conciliazione.
Se il Comitato raggiunge entro il termine l’accordo su un progetto comune, il provvedimento in questione sarà definitivamente adottato qualora, entro le successive sei settimane, sia il Consiglio che il PE si pronuncino a favore, con delibere prese a maggioranza qualificata e a maggioranza assoluta dei voti espressi. In mancanza  di approvazione di una o di entrambe le istituzioni, l’atto si considera non adottato.

La procedura di cooperazione è in vigore soltanto in pochi casi; i tre elementi che la caratterizzano sono:

  • il Parlamento può costringere il Consiglio ad una seconda lettura, a decidere una seconda volta su un provvedimento sul quale il Parlamento stesso non si è dichiarato d’accordo dopo la normale procedura di consultazione;
  • la seconda lettura rimette in gioco la Commissione, che può modificare la sua proposta originaria tenendo eventualmente conto delle obiezioni del Parlamento;
  • sottolineando il contrasto tra Parlamento e Commissione da una parte, e Consiglio dall’altra, quest’ultimo può adottare un provvedimento, ignorando la posizione delle due prime istituzioni, solo all’unanimità.

La procedura di cooperazione è anch’essa molto farraginosa ed è un fatto positivo il suo sostanziale abbandono a seguito del Trattato di Amsterdam.

La procedura di parere conforme implica che il Consiglio non possa deliberare in modo difforme dal parere del PE, pur se il Consiglio resta libero di non emanare alcun provvedimento; essa raggiunge lo stesso risultato della procedura di codecisione, in quanto dà al Parlamento un diritto di veto.

In conclusione, dopo un lungo travaglio durato decenni, il PE ha ottenuto, nell’ambito della funzione legislativa, solo un diritto di veto per le decisioni importanti, con il quale può paralizzare l’azione comunitaria, senza essere in grado di indirizzarla secondo il proprio volere. Il potere legislativo in ambito comunitario resta saldamente nelle mani del Consiglio, ove siedono i rappresentanti dei poteri esecutivi degli Stati membri. La funzione legislativa nel sistema comunitario appare viziata da un grave deficit democratico.
Tale deficit, tollerabile finché le Comunità avevano una vocazione essenzialmente economica, è ormai divenuto intollerabile a seguito del notevole ampliamento delle competenze delegate dagli Stati membri alla Comunità e sottratte ai processi decisionali democratici su cui sarebbero state sottoposte se esercitate in ambito nazionale.

 

29. La funzione di controllo.

La funzione di controllo viene definita innanzitutto, facendo riferimento alle due istituzioni che partecipano più intensamente del potere legislativo e di quello esecutivo, il Consiglio e la Commissione. Il controllo su queste due istituzioni è di duplice tipo: da una parte vi è un controllo di natura politica relativamente al loro operato, controllo che si traduce in giudizio in merito alla opportunità dell’operato stesso, e dall’altro vi è un controllo di natura giuridica, che si traduce in un giudizio di legittimità sugli atti delle suddette istituzioni comunitarie, ovvero relativo alla loro rispondenza alla normativa in vigore.
Infine, vi è un controllo sul comportamento degli Stati membri, volto ad individuare eventuali loro inadempimenti di obblighi derivanti dai Trattati.

29.1. Il controllo politico del Parlamento Europeo.

È il PE a detenere i poteri di controllo di natura politica, a somiglianza degli analoghi poteri di cui godono i parlamentari nazionali negli Stati con la forma di governo propria della democrazia rappresentativa. La somiglianza si ferma ad aspetti del tutto formali, in quanto i poteri di controllo politico del PE, non hanno nessuna delle caratteristiche sostanziali del controllo parlamentare nel diritto interno.
Il deficit democratico è divenuto intollerabile, come già accennato in precedenza, a seguito del notevole ampliamento delle competenze delegate dagli Stati membri alla Comunità e sottratte al controllo democratico cui sarebbero state sottoposte se esercitate dalle autorità nazionali. In attesa delle soluzioni verso la forma federale, resta il grave problema della mancanza di controllo democratico sull’operato dell’esecutivo in ambito comunitario.
I limiti del controllo politico del PE risultano evidenti: anzitutto, va premesso che tale controllo può concretarsi in provvedimenti cui sono collegate delle conseguenze giuridiche solo in due casi: allorché il Parlamento stesso approva una mozione di censura sull’operato della Commissione e in occasione della procedura di approvazione del bilancio.
In qualsiasi momento, almeno un decimo dei parlamentari europei può presentare al Presidente una mozione di censura sull’operato della Commissione, affinché questa venga messa ai voti ed eventualmente approvata. A seguito dell’approvazione di una mozione di censura i membri della Commissione sono costretti collettivamente a dare le dimissioni. Ne risulta che, in virtù della responsabilità collegiale della Commissione tutti i suoi membri devono abbandonare le loro funzioni.
La procedura per l’approvazione di tale mozione è circondata da particolari garanzie:

  • essa non può essere votata prima di tre giorni dalla sua presentazione;
  • la votazione deve avvenire a scrutinio pubblico;
  • la maggioranza richiesta per la votazione è di due terzi dei voti espressi, la maggioranza dei membri che compongono il Parlamento Europeo.

La mozione non è diretta contro l’organo in definitiva responsabile dell’azione comunitaria (il Consiglio), ma contro un organo (la Commissione) la cui partecipazione al processo normativo è in chiave propositiva e che si è quasi sempre presentato come l’alleato del Parlamento nel rappresentare gli interessi generali della Comunità contro i particolarismi nazionali di cui il Consiglio tende ad essere l’espressione.
Il Parlamento è dotato di uno strumento che comporta conseguenze forse eccessive nei confronti di un obiettivo sostanzialmente incolpevole; sono state finora presentate cinque mozioni di sfiducia (la prima nel 1972); tre sole di tali mozioni sono state messe ai voti e nessuna approvata. Il Parlamento gode anche di altri poteri che possono qualificarsi come di controllo. L’esercizio di tali poteri può fornire al Parlamento stesso l’occasione per approvare una mozione di censura sull’operato della Commissione, ovvero può sfociare in prese di posizioni con conseguenze esclusivamente sul piano politico.
Inoltre, attraverso di essi, il Parlamento Europeo ha l’opportunità di invitare eventualmente la Commissione ad aprire una procedura per l’inadempimento nei confronti di uno Stato membro.
Anzitutto, la Commissione deve sottoporre all’esame del Parlamento Europeo, in seduta pubblica, la relazione generale annuale, documento che descrive l’attività della Comunità nell’anno precedente e che viene pubblicato in coincidenza con l’apertura della sessione annuale del Parlamento Europeo.
Grande importanza hanno assunto nella pratica le interrogazioni, che il Parlamento Europeo, o i suoi membri, possono rivolgere alla Commissione o al Consiglio. L’art. 197 CE prevede solo per la Commissione l’obbligo di rispondere a tali interrogazioni, mentre il Consiglio risponde secondo le modalità che esso stesso definisce nel suo regolamento interno. Question time, secondo il termine inglese, è il periodo di tempo appositamente dedicato alle interrogazioni.
Si inseriscono in questo contesto, i poteri del PE di accogliere petizioni da parte di ogni cittadino dell’Unione, su materie che rientrano nel campo di attività della Comunità e che li concernono direttamente di nominare un Mediatore, abilitato a ricevere denunce di cittadini riguardanti casi di cattiva amministrazione da parte delle istituzioni o degli organi comunitari, nonché il potere di costituire commissioni temporanee di inchiesta per esaminare denunce di infrazione o di cattiva amministrazione nell’applicazione delle norme comunitarie imputabili ad una istituzione o ad un organo delle Comunità.
Il mediatore è scelto tra i cittadini dell’Unione che offrano garanzie di indipendenza e soddisfino i requisiti richiesti nei loro paesi di origine per l’esercizio delle più alte funzioni giudiziarie. Ne il Mediatore, ne le commissioni di inchiesta possono occuparsi di questioni pendenti dinanzi ad una giurisdizione nazionale o comunitaria.

29.2. Il controllo di legittimità sugli atti delle istituzioni e i ricorsi in carenza.

Gli atti delle istituzioni comunitarie sono sottoposti ad un controllo di legittimità da parte della Corte di Giustizia e del Tribunale di primo grado; inoltre, è soggetto al controllo di tali organi l’eventuale comportamento omissivo delle istituzioni comunitarie. È questa una particolarità dell’ordinamento comunitario, dato che altre organizzazioni (ONU), non prevedono alcun meccanismo per il controllo di legittimità dei loro atti. Esaminiamo, nell’ordine, l’oggetto del ricorso alla Corte, i motivi per cui può essere proposto, i soggetti legittimati a proporlo e le sue conseguenze.
Quanto all’oggetto, esso si esercita sugli atti adottati congiuntamente dal Parlamento Europeo e dal Consiglio, sugli atti del Consiglio, della Commissione e della BCE che non siano raccomandazioni o pareri, nonché sugli atti del PE destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi. Sono, quindi, impugnabili anche gli atti di conclusione o di applicazione di accordi internazionali conclusi dalle Comunità; restano esclusi le raccomandazioni e pareri perché essi, in genere, non costituiscono la manifestazione definitiva, diretta all’esterno, della volontà dell’organo che li emana; per le stesse ragioni, non sono impugnabili gli atti che hanno natura essenzialmente preparatoria, né lo sono gli atti produttivi di effetti solo internamente all’istituzione o gli atti degli Stati membri.
Gli atti del Parlamento emessi secondo la procedura di codecisione, sono già compresi nella dizione di atti adottati congiuntamente dal PE e dal Consiglio e sono tutti impugnabili dinanzi alla Corte, in quanto senz’altro produttivi di conseguenze giuridiche.
La costante giurisprudenza della Corte si applica anche agli atti della Corte dei Conti, pur se questa istituzione non è menzionata espressamente tra i soggetti contro cui gli atti è possibile l’impugnativa.
I motivi per cui gli atti suddetti possono essere impugnati dinanzi alla Corte sono anzitutto i tre classici vizi di legittimità, caratteristici dei ricorsi amministrativi di diritto interno:

  • l’incompetenza, si ha quando un atto è emanato da un organo che non è competente a farlo;
  • la violazione delle forme sostanziali, si ha quando un atto è emanato senza il rispetto di quelle forme previste come indispensabili per la validità dell’atto stesso;
  • lo sviamento del potere, si ha quando un organo esercita i propri poteri per fini diversi da quelli per i quali tali poteri gli sono stati conferiti.

A questi tre vizi di legittimità è aggiunto un quarto, di carattere generale e sussidiario, e cioè la violazione del Trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione. Il riferimento ha fatto si che questo vizio sia stato riconosciuto esistente in ogni caso di contrarietà di un provvedimento a qualsiasi norma dell’ordinamento comunitario, inteso in senso lato. Infatti, sono stati considerati dalla Corte come illegittimi atti contrari non solo al Trattato o ad altri atti comunitari, ma ance ai principi generali e alle norme relative alla protezione dei diritti fondamentali dell’uomo, nonché ai trattati internazionali stipulati dalle Comunità Europee.
Il controllo della Corte è un controllo di legittimità e non di merito, esso attiene solo alla assenza dei vizi più sopra descritti. La competenza di merito spetta più esattamente al Tribunale di primo grado in quanto i ricorsi sono sottoposti dalle persone fisiche e giuridiche cui vengono comminate le sanzioni e consiste nella possibilità di annullare la decisione che commina tali sanzioni o rivederne l’importo anche nel senso dell’aumento.
I soggetti legittimati a proporre i ricorsi sono gli Stati membri, la Commissione, il Consiglio, il Parlamento Europeo, la Corte dei Conti, la BCE, nonché qualsiasi persona fisica o giuridica. Le istituzioni della Comunità e gli Stati membri sono detti ricorrenti privilegiati; le persone fisiche o giuridiche sono dette ricorrenti non privilegiati. Il ricorso delle persone fisiche o giuridiche presenta degli aspetti caratteristici che vanno ricordati. Innanzitutto, va osservato che esso costituisce uno dei pochissimi casi in cui degli individui possono adire organi giurisdizionali internazionali; tale ricorso, mitica il deficit democratico del sistema comunitario; inoltre, va ricordato che solo per i ricorsi proposti dai singoli è competente in prima istanza il Tribunale di primo grado.
Ogni persona fisica o giuridica può fare ricorso soltanto contro le decisioni prese nei suoi confronti o contro le decisioni che, pur apparendo come un regolamento o come una decisione presa nei confronti di altre persone, la riguardano direttamente ed individualmente. Il ricorso è ammesso solo contro decisioni, da intendersi qui, in senso tecnico, come quei provvedimenti che hanno un destinatario individuale. La seconda parte sembra ipotizzare la possibilità che una istituzione chiami regolamento un provvedimento individuale, o identifichi come destinatario un soggetto diverso da quello effettivo, per evitare che quest’ultimo abbia la possibilità di fare ricorso alla Corte.
Quest’ultima, ha adottato ormai definitivamente, la tecnica dello smascheramento dell’atto comunitario, riconoscendo ai singoli la causa di determinate qualità personali e quindi lo identifichi alla stessa stregua dei destinatari, non dando rilevanza alla forma e alla denominazione dell’atto (Formula Plaumann).
In conclusione, i privati possono ricorrere alla Corte contro regolamenti o direttive, in quanto questi ultimi non sono atti suscettibili normalmente di riguardarli direttamente ed individualmente; tuttavia, essi hanno ugualmente la possibilità di ottenere la dichiarazione di invalidità di alcuni di tali atti, nonché la procedura del rinvio pregiudiziale di cui all’art. 234 CE. Tutti i ricorsi vanno proposti entro il termine di due mesi dalla pubblicazione dell’atto; nei casi di regolamenti adottati congiuntamente dal PE e dal Consiglio, o di regolamenti del Consiglio, della Commissione o della BCE, però, i ricorrenti, sono rimessi in termini per eccepire il vizio di legittimità, qualora vi sia, successivamente alla scadenza dei due mesi, una controversia che metta in causa il regolamento stesso (eccezione di invalidità).
Quanto alle conseguenze del ricorso alla Corte, esso non ha effetto sospensivo dell’atto impugnato tuttavia è facoltà della Corte ordinare la sospensione degli effetti di tale atto, nonché disporre provvedimenti provvisori, allorché vi sia il pericolo di danni gravi e irreparabili per il ricorrente. Se la Corte ritiene fondati i motivi del ricorso dichiara l’atto nullo fin dall’inizio.
Collegato al discorso di legittimità è il ricorso in carenza. Esso è espressione del potere della Corte di controllare il comportamento delle istituzioni comunitarie, sanzionando la loro inattività, quando il Trattato prevede che esse debbano emanare determinati provvedimenti. Tale ricorso può essere presentato contro il Parlamento, il Consiglio, la Commissione e la BCE qualora essi, in violazione del Trattato, si astengano dal pronunciarsi. La Corte, se accoglie il ricorso, constata tale violazione.
I ricorsi delle persone fisiche o giuridiche sono ammessi soltanto per la mancata emanazione nei confronti di un atto che non sia una raccomandazione o un parere. I singoli potranno ricorrere per la mancata emanazione di qualsiasi atto vincolante destinato a produrre effetti giuridici nei loro confronti. Anche per il ricorso in carenza, i singoli devono prima rivolgersi al Tribunale di primo grado. È chiaro che il ricorso è ammesso solo per la mancata emanazione di un atto dovuto, non di un atto discrezionale come l’attivazione di una procedura di inadempimento contro uno Stato.
Il ricorso deve essere preceduto da una messa in mora, una formale richiesta di agire, rivolta all’istituzione la cui inattività viene lamentata; solo trascorsi due mesi da tale richiesta senza che l’istituzione abbia preso posizione, il ricorso può essere presentato alla Corte di Giustizia.

29.3. Il controllo sugli inadempimenti degli Stati membri.

La funzione di controllo si esercita non soltanto relativamente all’attività delle istituzioni, ma anche con riferimento agli obblighi derivanti agli Stati membri dei Trattati o dagli atti comunitari. È questo un altro elemento che sottolinea quanto avanzata sia l’integrazione realizzata a livello comunitario, rispetto ad altre forme di organizzazione internazionale. Nell’ambito comunitario esiste un sistema di garanzie relative all’inadempimento degli obblighi degli Stati membri, il quale ha natura obbligatoria, non arbitrale, in quanto non dipende dall’accettazione degli Stati membri interessati. Anzi, per gli Stati è escluso il potere di farsi giustizia da sé attraverso l’uso di contromisure senza avere prima sottoposto senza successo le loro controversie ai modi di composizione previsti dal Trattato.
Il controllo sugli inadempimenti degli Stati è affidato in prima battuta alla Commissione, la quale esercita nel quadro del potere di vigilare sull’applicazione delle disposizioni del Trattato CE e di quelle adottate dalle istituzioni; si parla della Commissione come della guardiana dei Trattati; ha il potere di raccogliere tutte le informazioni e procedere a tutte le necessarie verifiche e che i destinatari di tali richieste di informazioni e procedere a tutte le necessarie verifiche, inclusi gli Stati membri, sono tenuti ad offrire alla Commissione piena collaborazione al riguardo. L’art. 226 CE prevede che la Commissione deve porre lo Stato stesso in condizioni di presentare le sue osservazioni attraverso una lettera di messa in mora o intimazione.
Lo Stato è da considerarsi inadempiente qualora abbia violato qualsiasi forma di diritto comunitario, inclusi i principi generali, i trattati comunitari e il diritto derivato. Violazione da parte di uno Stato significa violazione attribuibile a qualsiasi dei suoi organi.
Con la lettera di messa in mora si instaura una procedura non giurisdizionale di conciliazione tra la Commissione e lo Stato in questione, nel corso della quale la Commissione accerta e valuta le ragione addotte eventualmente dallo Stato a sostegno del proprio comportamento e cerca di ottenere in via amichevole che lo Stato si conformi ai propri obblighi.
Soltanto in caso di insuccesso di questa prima fase della procedura, la Commissione può indirizzare lo Stato un parere motivato nel quale essa gli fa formalmente presente di considerarlo come inadempiente e gli espone i motivi di tale suo giudizio. Il Trattato non dà un termine entro il quale essa deve emettere il parere motivato, né obbliga la Commissione ad emettere tale parere.
La lunghezza di tale termine è a discrezione della Commissione (due mesi in genere); solo se lo Stato persiste nella sua infrazione oltre la decorrenza del termine suddetto, la Commissione può adire la Corte di Giustizia, affinchè questa constati l’infrazione oggetto del parere motivato. L’adempimento tardivo dello Stato prima del ricorso alla Corte o durante il procedimento, non osta al regolare svolgimento del procedimento stesso.
Alla Corte di Giustizia si può anche rivolgere ciascuno degli Stati membri, qualora reputi che un altro Stato membro abbia mancato ad uno degli obblighi a lui incombenti in virtù del Trattato o degli atti delle istituzioni comunitarie.
L’opera che la Commissione svolge in questo caso è un’opera di mediazione tra lo Stato ricorrente e quello accusato e la procedura si distingue nel senso che, la Commissione, non mette lo Stato accusato in condizioni di presentare le sue osservazioni, ma entrambi gli Stati in condizioni di presentare in contraddittorio le loro osservazioni scritte e orali. Quando il ricorrente è uno Stato, la Commissione ha un termine di tre mesi per emettere, in caso di insuccesso della procedura di mediazione, un parere motivato dello stesso tipo e con gli stessi effetti di quello previsto dall’art. 226 CE.
Qualora la Corte riconosca fondato il ricorso, emette una sentenza dichiarativa, con la quale si limita ad accertare l’esistenza dell’infrazione. Lo Stato inadempiente è tenuto a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte di giustizia importa. In difetto, si concreterebbe una seconda infrazione, autonoma rispetto alla prima, costituita dal mancato rispetto della sentenza della Corte. Tale parere preciserà i punti sui quali lo Stato non si è conformato alla sentenza della Corte di Giustizia e fisserà un termine entro il quale lo Stato si dovrà conformare. In difetto, la Commissione potrà adire nuovamente la Corte, ma non per fare accertare l’inadempimento della norma comunitaria (che gli è già stato accertato), ma per ottenere che la Corte commini allo Stato il pagamento di un proprio pecuniario.
La sentenza della Corte comporta un obbligo pecuniario non costituisce titolo esecutivo. L’inesecuzione non trova sanzioni nell’ordinamento comunitario, ma solo in quello internazionale generale.

30. La funzione giurisdizionale.

Premettendo che sono norme comunitarie e, quindi, parte integrante del diritto interno di ciascuno Stato membro, sono i giudici nazionali ad essere preposti in via generale a garantire il rispetto delle norme di origine comunitaria.
La Corte di Giustizia e il Tribunale di primo grado dispongono di una serie di competenze tassativamente indicate, certo importanti, ma relative ad ambiti ben delimitati, i quali non si prestano ad una considerazione unitaria. La Corte di Giustizia non funge da giudice esclusivo né relativamente all’applicazione del diritto comunitario, né relativamente alle controversie di cui le Comunità sono parti, pur se gode di una certa serie di competenze specifiche, che essa esercita in via esclusiva, cioè con esclusione dei giudici nazionali.
L’art. 292 CE obbliga gli Stati a rispettare questa esclusività e a non sottoporre una controversia relativa all’interpretazione o all’applicazione del Trattato ad un modo di composizione diverso, e, quindi, ad un giudice diverso, da quello previsto dal Trattato stesso.
La funzione giurisdizionale nella CE sembra evolversi secondo due linee. Anzitutto, la vocazione della Corte di Giustizia appare sempre più quella di un organo quasi costituzionale e di garanzia dell’unitarietà dell’ordinamento comunitario, mentre la vocazione del Tribunale di primo grado appare quella di giudice di diritto comune di prima istanza, con competenza tendenzialmente generale, garantendosi, il doppio grado di giurisdizione. In secondo luogo, attraverso la prevista introduzione delle nuove camere giurisdizionali, si fa strada la nozione della specializzazione per materia delle corti comunitarie.
Allo stato attuale le funzioni della Corte di Giustizia e del Tribunale di primo grado sono di gran lunga più articolate rispetto a quelle di qualsiasi altro organo giurisdizionale di organizzazioni internazionali. Esse non sono paragonabili a quelle proprie delle corti supreme di Stati federali, che sono gerarchicamente superiori ai giudici nazionali ed hanno il compito di assicurare la preminenza del diritto federale su quello delle entità federate. In via generale, le competenze della Corte si possono dividere tra quelle in materia contenziosa e quelle di carattere non contenzioso. Tra le prime, le più importanti sono le due già ricordate.
Ci resta da far cenno delle controversie relative alla responsabilità delle Comunità, delle controversie tra quest’ultime e i loro agenti e di poche altre. Tra le seconde spicca la giurisdizione a titolo pregiudiziale sulla interpretazione del Trattato e sulla validità ed interpretazione degli atti delle istituzioni comunitarie.

30.1. Le controversie in materia di responsabilità delle Comunità.

La Corte è competente a giudicare delle controversie relative alla responsabilità extracontrattuale delle Comunità ai sensi dell’art. 235 CE: “In materia di responsabilità extracontrattuale, la Comunità deve risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni”.
Si tratta di competenza non solo esclusiva, ma anche di piena giurisdizione, nel senso che la Corte ha ampia discrezionalità quanto alla determinazione della responsabilità delle istituzioni della Comunità o dei suoi agenti, nonché dell’ammontare del danno risarcibile. Il Trattato non va oltre l’affermazione del principio di esistenza di una responsabilità extracontrattuale della Comunità per i danni causati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti; soccorrono, come fonte di diritto per la Corte, i principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, dai quali essa dovrà trarre di volta in volta la norma applicabile.
Per quanto riguarda la responsabilità della Comunità per gli atti delle sue istituzioni, il termine “istituzioni” è restrittivo, in quanto non solo tale responsabilità sussiste, alle stesse condizioni, per i danni cagionati dalla BCE o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni, ma anche per quelli causati dalla BEI e da qualsiasi organo comunitario la cui attività sia imputabile alla Comunità stessa.
Il ricorso è sottoposto ad un termine di prescrizione di cinque anni a partire dal momento in cui si verifica il danno. La responsabilità della Comunità sorge come conseguenza dell’emanazione di atti dichiarati illegittimi sulla base di un ricorso. Tuttavia, i ricorsi da una parte e il ricorso per risarcimento danni dall’altra, sono pur se formalmente collegati, sono sostanzialmente indipendenti ed autonomi. In altre parole, dalla dichiarazione di nullità dell’atto o dalla colpevole omissione della sua emanazione non discende automaticamente l’obbligo risarcitorio a carico della Comunità. Le conseguenze di tale autonomia ed indipendenza sono importanti. Anzitutto, la illegittimità dell’atto o della sua omessa emanazione non è requisito indispensabile perché sorga la responsabilità extracontrattuale della Comunità per l’operato della istituzione che tale atto ha emanato o omesso di emanare. In secondo luogo, la sentenza dispone solo del risarcimento dei danni nei confronti di chi chiede il risarcimento stesso e non dell’annullamento di un determinato atto.
Per quanto riguarda la responsabilità della Comunità per gli atti dei suoi agenti, ricordiamo che solo gli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni possono venire in considerazione e che questo requisito è stato interpretato molto restrittivamente dalla Corte di Giustizia. La Corte ha precisato che la Comunità è responsabile per il comportamento dei suoi agenti, in conformità al principio generale della tutela dell’affidamento dei terzi in buona fede.
Tra i principi generali ricordiamo:

  • il principio secondo cui la responsabilità dei pubblici poteri per i danni arrecati ai privati da atti normativi sussiste solo eccezionalmente ed in casi particolari; nel principio di non discriminazione, nel principio del rispetto del legittimo affidamento, nel principio di non retroattività, nel principio del rispetto dei diritti quesiti, nel principio di proporzionalità; la Corte ha adottato dei criteri molto restrittivi, sollevando le critiche di parte della dottrina che ha osservato come venga praticamente richiesto un comportamento sconfinante nell’arbitrio perché si generi la responsabilità per danni della Comunità in caso di atti illegittimi delle sue istituzioni;
  • il danno risarcibile può essere ridotto se il danneggiato ha contribuito con il suo comportamento a determinarlo.

Circa la responsabilità contrattuale della Comunità, la Corte non ha alcuna competenza esclusiva, anzi, sono i giudici nazionali competenti in via generale a giudicare delle controversie relative a contratti di cui la Comunità è parte.

30.2. Le altre competenze della Corte di Giustizia in materia contenziosa.

La Corte è competente in via esclusiva a conoscere delle controversie tra la CE ed i suoi agenti, cioè di tutte le questioni concernenti la disciplina delle carriere sono alle dipendenze delle Comunità Europee. È del resto la regola per le organizzazioni internazionali che le controversie tra queste ed i loro agenti siano
affidate alla competenza esclusiva di un organo giurisdizionale apposito. Nel sistema comunitari le controversie suddette sono di competenza del Tribunale di Primo grado e la Corte di Giustizia ne conosce solo in sede di appello. Il ricorrente deve avere un interesse personale, certo ed attuale, ad agire. In secondo luogo, la Corte può fungere da giudice internazionale e conoscere di controversie tra gli Stati membri, purché connesse con l’oggetto del Trattato CE, nella misura in cui tale competenza è attribuita alla Corte dalle parti in causa con apposito compromesso.

31. La funzione esecutiva.

Essendo le norme comunitarie destinate ad operare all’interno di ciascuno Stato membro, sono le autorità nazionali preposte all’esecuzione delle stesse. Tuttavia il Trattato CE attribuisce agli organi comunitari dei poteri esecutivi importanti, da esercitarsi a volte in via esclusiva e a volte parallelamente agli organi interni degli Stati membri. I poteri esecutivi sono di due tipi: quelli che implicano l’emanazione di provvedimenti normativi di esecuzione e quelli di applicazione delle disposizioni del Trattato a casi particolari.
L’emanazione di provvedimenti normativi di esecuzione compete al Consiglio, il quale delega tale funzione alla Commissione. Dispone l’art. 202 CE che il Consiglio conferisce alla Commissione, negli atti che esso adotta, le competenze di esecuzione delle norme contenute in tali atti, disponendo anche le eventuali modalità alle quali la Commissione si deve attenere nell’esercizio di tali competenze; le suddette modalità devono rispondere ai principi e alle norme che il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione previo parere del Parlamento Europeo, avrà stabilito in via preliminare.
Il Consiglio ha sostanzialmente affiancato alla Commissione comitati, composti da rappresentanti degli Stati membri e presieduti da un rappresentante della Commissione, dei quali ha anche disciplinato la procedura di formazione e di voto. Tali comitati indirizzano pareri alla Commissione ed assumono una denominazione diversa a seconda dell’efficacia di tale parere nei confronti della Commissione stessa. Quanto il comitato è consultivo, la Commissione può liberamente discostarsi dal suo parere; quando è di gestione, la Commissione deve comunicare al Consiglio un provvedimento adottato in difformità dal parere di tale comitato e il Consiglio può prendere un provvedimento diverso, in mancanza del quale l’atto della Commissione resta valido; quando il comitato è di regolamentazione, il suo parere è vincolante per la Commissione, la quale, se vuole adottare un provvedimento diverso, deve formulare al Consiglio una proposta in merito. È il Consiglio che specifica di volta in volta la natura del comitato che le affianca.
Quanto al secondo aspetto della funzione esecutiva, l’applicazione delle disposizioni del Trattato a casi particolari, è in genere competenza degli organi interni degli Stati membri. Quando il Trattato la attribuisce ad organi comunitari, ad esserne titolare è la Commissione, che la esercita o in via esclusiva, o congiuntamente agli organi degli Stati membri.
Una delle manifestazioni più importanti di questo potere della Commissione è quella relativa all’applicazione delle regole di concorrenza, che includono le regole applicabili alle imprese, quelle relative alle concentrazioni e gli aiuti concessi dagli Stati. La Commissione è anche competente in via esclusiva a gestire le clausole di salvaguardia dei Trattati, autorizzando gli Stati membri ad adottare le misure di protezione che si rivelassero necessarie. Va ricordato, il potere della Commissione di gestire i fondi strutturali comunitari e di curare l’esecuzione del bilancio comunitario.
L’esercizio delle suddette competenze  da parte della Commissione si inquadra nel suo generale potere di vigilare, conferitole dall’art.211 CE e già ricordato a proposito della procedura di controllo sugli inadempimenti degli Stati. La Commissione gode di un potere generale di formulare raccomandazioni, in tutti i casi in cui lo ritenga necessario. Attraverso tali raccomandazioni, essa può indurre Stati membri e privati all’osservanza delle disposizioni comunitarie, prima di emanare una decisione di attuazione in merito. Inoltre, la Commissione ha il potere di raccogliere tutte le informazioni e procedere a tutte le necessarie verifiche e i destinatari di tali richieste di informazioni o verifiche, inclusi gli Stati membri, sono tenuti ad offrire alla Commissione  stessa piena collaborazione al riguardo.

32. Le Entrate delle Comunità e il problema delle risorse proprie.

Come ogni bilancio contabile, anche il bilancio delle Comunità Europee è costituito da entrate e da uscite. Le entrate derivano dal sistema di finanziamento delle Comunità; le uscite sono costituite dalle spese per il funzionamento delle Comunità e per l’esplicazione delle loro attività. Secondo il principio della buona gestione finanziaria entrate e spese devono risultare in pareggio.
Quanto più una organizzazione internazionale dipende da contributi diretti degli Stati membri per il proprio funzionamento e per il perseguimento delle proprie attività, tanto più essa sarà sottoposta a condizionamenti da parte di Stati che possano essere tentati di sospendere o ridurre unilateralmente i propri contributi come mezzo di pressione per indirizzarne la politica in una determinata direzione.
Nel sistema della CE non si poteva attribuire un potere impositivo ad organizzazioni internazionali sottratte ad un controllo democratico da parte del popolo significa contraddire il principio no taxation without representation. Tale contrasto poteva apparire tollerabile nell’abito settoriale della CECA, ma non lo sarebbe certo stato nel più vasto ambito della CE. La redazione originaria del Trattato CE prevedeva contributi finanziari a carico degli Stati membri, secondo le percentuali che rispecchiavano il peso della loro partecipazione alla vita comunitaria.
L’art. 269 CE recita come segue: “Il bilancio, fatte salve le altre entrate, è finanziato integralmente tramite risorse proprie. Il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del PE, stabilisce le disposizioni relative al sistema delle risorse proprie della Comunità di cui raccomanda l’adozione da parte degli Stati membri, in conformità delle loro rispettive norme costituzionali”. I contributi da parte degli Stati membri sono scomparsi come forma di finanziamento delle Comunità e sono stati sostituiti da cosiddette risorse proprie. Queste ultime non possono essere deliberate dalle Comunità stesse, nemmeno attraverso il Consiglio. Si tratta quindi di decisioni in senso improprio, in quanto sono n sostanza accordi internazionali, che vanno ratificati dai vari Stati prima di poter entrare in vigore.
Il sistema delle risorse proprie delle Comunità è quello stabilito appunto dall’ultima delle suddette decisioni, e precisamente la decisione del Consiglio n. 2000/597 del 29 settembre 2000. Le risorse  sono le seguenti:

  • i prelievi, premi, importi supplementari o altri dazi fissati da parte delle istituzioni delle Comunità sugli scambi con paesi non membri nel quadro della politica agricola comune. Si tratta dei cosiddetti prelievi agricoli, imposti a carico degli importatori da paesi terzi essenzialmente per proteggere le produzioni agricole comunitarie (hanno costituito le prime risorse proprie della Comunità);
  • i dazi riscossi secondo la tariffa doganale esterna comune, istituita nel quadro dell’unione doganale instaurata all’interno del mercato comune;
  • una percentuale aggiuntiva sull’imponibile IVAdegli Stati membri, determinato in modo uniforme secondo regole comunitarie;
  • un’aliquota, da fissarsi anno per anno, sul’importo del prodotto nazionale lordo di ciascun stato membro (quarta entrata o risorsa PNL).

L’insieme delle risorse proprie ha un tetto, si deve mantenere entro una determinata percentuale del totale dei prodotti nazionali lordi degli Stati membri.
Tutte le suddette risorse proprie sono riscosse dagli organi degli Stati membri e versate alla Commissione. Sui prelievi agricoli e sui dazi doganali gli Stati trattengono il 25% degli importi a titolo di rimborso delle spese di riscossione. Le risorse proprie comunitarie restano pur sempre contributi degli Stati membri, il cui importo è deliberato solo formalmente in sede comunitaria, ma che sono sostanzialmente concordate a livello degli Stati membri stessi. La Corte di Giustizia ha stabilito che gli Stati membri, e non le Comunità, possono considerarsi parte lesa in un procedimento penale per il mancato pagamento dei dazi della tariffa doganale esterna comune.

33. Le spese delle Comunità e la procedura di approvazione, esecuzione e controllo del bilancio comunitario.

Le spese delle Comunità sono anzitutto quelle per il proprio funzionamento e quelle necessarie all’esplicazione delle attività di propria competenza. Le uscite comunitarie possono consistere in spese obbligatorie e spese non obbligatorie. Le prime derivano obbligatoriamente dai Trattati o dagli atti delle istituzioni; le seconde, sono effettuate secondo criteri di discrezionalità come il caso per le spese relative alle erogazioni dei Fondi strutturali, per i programmi integrati mediterranei (PIM) e per il programma-quadro di ricerca, sviluppo e tecnologia (RST).
In uno Stato democratico compete al Parlamento, in rappresentanza del popolo, legiferare in materia di entrate ed approvare il bilancio dello Stato. Nel sistema comunitario, in cui gli Stati rimangono sovrani, da una parte questi ultimi non potevano accettare di vedersi sottratte le loro prerogative in materia di entrate; dall’altra, si sono sin dall’inizio manifestate forti pressioni a che il PE, in rappresentanza dei popoli europei e per mitigare il deficit democratico cui abbiamo più volte fatto riferimento, avesse almeno alcuni poteri di controllo sulle spese comunitarie. Questo non si presentava di facile realizzazione. Attribuire al PE la competenza a decidere sulle spese avrebbe significato attribuirgli anche un potere decisionale non previsto dai Trattati comunitari. Occorreva trovare una soluzione che, da una parte, fosse in linea con il limitato ruolo del Parlamento nel processo legislativo comunitario e, dall’altra, offrisse al Parlamento stesso una parvenza di potere di controllo sulle spese e sul bilancio comunitario.
La procedura di bilancio è ora regolata dall’art. 272 CE, integrato dall’accordo interistituzionale del 6 maggio 1999, tra PE, Consiglio e Commissione, sulla disciplina di bilancio e il miglioramento della procedura di bilancio. L’art. 272 CE chiarisce che: “Ciascuna istituzione esercita i poteri ad essa attribuiti dal presente articolo nel rispetto delle disposizioni del trattato e degli atti adottati a sua norma, in particolare in materia di risorse proprie delle Comunità e di equilibrio delle entrate e delle spese”. Ciò equivale a dire che il parlamento è in primo luogo tenuto a rispettare gli atti della Comunità, la cui emanazione è sostanzialmente di competenza del Consiglio. Il PE non può utilizzare i suoi poteri in materia di bilancio per promuovere nuove politiche.
Ciò detto, è sulle spese non obbligatorie, le quali non derivano obbligatoriamente da un atto normativo comunitario, che spetta al Parlamento il potere di dire l’ultima parola, restando che è di competenza del Consiglio determinare quali siano le spese obbligatorie e l’ammontare di quelle non obbligatorie.
Inoltre, le spese non obbligatorie possono aumentare soltanto entro i limiti di un tasso stabilito annualmente; per cambiare questo tasso occorre un accordo tra il Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata, ed il Parlamento, che delibera con il voto favorevole della maggioranza dei membri che lo compongono e dei tre quinti dei suffragi espressi.

PROCEDURA DI APPROVAZIONE DEL BILANCIO.

Entro il 1° Luglio di ciascun anno ogni istituzione della Comunità prepara una previsione delle proprie spese per l’esercizio finanziario successivo, che corrisponde all’anno solare e, pertanto, ha inizio il 1° gennaio e si chiude al 31 dicembre. La Commissione prepara e sottopone al Consiglio, entro il 1° settembre, un progetto preliminare di bilancio comprendente una previsione delle entrate ed una previsione delle uscite, effettuata raggruppando le previsioni pervenutele dalle varie istituzioni. La Commissione, se non è d’accordo su tali previsioni, si deve limitare a formulare delle previsioni divergenti sotto forma di parere inviato al Consiglio insieme con il progetto preliminare di bilancio.
Il Consiglio adotta il progetto di bilancio a maggioranza qualificata e lo sottopone al Parlamento Europeo entro il 5 ottobre. Se il PE non adotta nessun provvedimento e approva il progetto, il bilancio si considera definitivamente adottato. Se, invece, il PE adotta degli emendamenti al progetto di bilancio, o propone modificazioni dello stesso, il progetto di bilancio ritorna al Consiglio. Il Consiglio a sua volta, dispone di 15 giorni per pronunciarsi su tali emendamenti e modificazioni. Quanto alle modificazioni (spese obbligatorie), la decisione del Consiglio è definitiva.
Quanto, invece, agli emendamenti (spese non obbligatorie), se il Consiglio non è d’accordo il progetto di bilancio ritorna al Parlamento, cui spetta l’ultima parola al riguardo. Al termine di questa procedura è il Parlamento che constata formalmente che il bilancio è definitivamente adottato. Non è una semplice formalità, in quanto il Parlamento, per importanti motivi, può rifiutare tale constatazione e rigettare, invece, il bilancio nel suo complesso, richiedendo al contempo che gli venga presentato un nuovo progetto. Questo è il potere più significativo che il PE possiede in materia di bilancio, in quanto è suscettibile di paralizzare in larga misura la vita della Comunità. Senza un bilancio approvato, si applica il regime del cosiddetto “dei dodicesimi”, in base al quale le Comunità in ciascun mese non possono spendere più di un dodicesimo di quanto era disponibile nel bilancio d’esercizio precedente e non più di un dodicesimo di quanto previsto nel progetto di bilancio. Questa situazione di emergenza non può durare a lungo senza che la crisi venga risolta sul piano politico.
In materia di bilancio, occorre menzionare il ruolo di altre due istituzioni: la Corte dei Conti e la Commissione.
La Corte dei Conti assicura il controllo dei conti. A tal fine, essa controlla la legittimità e la regolarità delle entrate e delle spese e presenta al Consiglio e al PE una dichiarazione in cui attesta l’affidabilità dei conti e la regolarità delle relative operazioni. Si tratta di un controllo di legittimità, che può anche diventare di merito, nella misura in cui la Corte deve anche accertare la sana gestione finanziaria. Il controllo è successivo agli avvenuti versamenti delle entrate e pagamenti delle spese, ma può anche essere effettuato prima della chiusura dei conti dell’esercizio di bilancio considerato.
Alla Commissione spetta il compito di curare l’esecuzione del bilancio in conformità al principio della buona gestione finanziaria, nel quadro di quelle competenze esecutive che sono proprie della Commissione stessa. È la Commissione che incassa le entrate e effettua i pagamenti delle spese. Tale esecuzione si svolge sotto il controllo della Corte dei Conti, del Consiglio e del PE; quest’ultimo, in particolare, da atto alla Commissione dell’esecuzione del bilancio, dopo aver esaminato la relazione annua della Corte dei Conti.

39. La natura giuridica delle Comunità Europee e dell’ordinamento comunitario.

Le Comunità Europee sono delle organizzazioni internazionali, create sulla base di un trattato e munite di personalità giuridica internazionale. Sulla natura giuridica delle Comunità Europee la dottrina internazionalistica si è a lungo interrogata. Il problema è apparso quello di verificare se il fenomeno comunitario avesse dato vita ad un ente federale o se la CE fosse un ente da collocarsi in un non meglio identificato tertium genus, il cui ordinamento fosse autonomo sia rispetto al diritto internazionale, che al diritto interno di uno stato federale.
La ricerca di un tertium genus non ha dato frutti ed è stata abbandonata. Anche la tesi secondo cui la CE possa essere un ente federale è priva di fondamento. Il termine “federale” non compare in nessuno dei Trattati comunitari. Sono decisivi, per escludere la natura federale della CE, il dato della persistente sovranità degli Stati membri, il fatto che ogni modifica al Trattato CE vada adottata da una Conferenza di rappresentanti di Governo degli Stati membri ed entri in vigore solo dopo la ratifica da parte di questi ultimi, nonché la considerazione che la CE non ha funzioni di governo.
Non v’è alcuna necessità di ricorrere a modelli federali per spiegare le particolarità della CE, in quanto queste sono diverse rispetto alle altre organizzazioni internazionali. L’ambito delle competenze che gli Stati membri hanno delegato alle Comunità è più esteso di quanto avvenga rispetto a qualsiasi altra organizzazione in ambito internazionale. È pur sempre, tuttavia, la volontà degli Stati che ha consentito tutto ciò, nell’ambito delle norme di diritto internazionale che regolano l’assunzione da parte degli Stati di obblighi su base pattizia. In altre parole, attraverso i Trattati istitutivi delle Comunità, gli Stati hanno assunto l’obbligo reciproco di consentire, nelle materie nelle quali hanno delegato alle Comunità le relative competenze, a farsi sostituire dalle istituzioni comunitarie quanto all’esercizio delle medesime. Sulla base di tale consenso la struttura comunitaria è stata posta in condizioni di emanare provvedimenti direttamente applicabili ai singoli nei territori degli Statti membri.
La particolarità è soltanto costituita dalle dimensioni della delega conferita dagli Stati alle Comunità che sono così legittimate a svolgere attività di tipo interno.
Se le Comunità Europee sono organizzazioni internazionali, i Trattati istitutivi delle Comunità Europee non sono di un tipo diverso dai comuni trattati internazionali. Ai Trattati comunitari si applicano le norme della Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati, ivi incluse quelle relative alla possibilità di denuncia o recesso. Secondo queste opinioni esisterebbe una costituzione materiale delle Comunità che, al di là della costituzione formale, si imporrebbe ormai in maniera irreversibile agli Stati membri. Tali costituzioni sarebbero vere solo se esistesse una norma superiore ai Trattati a giustificarle. In assenza di tale norma, gli Stati membri rimangono i padroni dei Trattati.
Di conseguenza, l’ordinamento comunitario è derivato rispetto all’ordinamento internazionale, in quanto in tale ultimo ordinamento esso trova le sue garanzie primarie. In particolare, gli Stati membri restano sempre liberi di adottare le contromisure previste dal diritto internazionale generale in caso di violazione da parte degli altri Stati dei loro impegni comunitari, anche se possono ricorrere a tali contromisure solo in caso di insuccesso dei modi di composizione delle controversie previsti dal Trattato.
L’ordinamento comunitario avendo fonti, norme, destinatari, sanzioni secondarie e strumenti interpretativi suoi propri, è autonomo rispetto al diritto internazionale; l’ordinamento comunitario si affianca agli ordinamenti interni e gli eventuali conflitti sono risolti sulla base del primato del primo sui secondi.

 

40. Le fonti dell’ordinamento comunitario e la loro gerarchia.

Le fonti dell’ordinamento comunitario si rivengono nei Trattati istitutivi delle Comunità Europee e in tutte le successive modifiche degli stessi; in secondo luogo, nei principali generali elaborati dalla Corte di Giustizia nello svolgimento della sua funzione interpretativa; in terzo luogo, negli atti emanati dalle istituzioni comunitarie; infine, negli accordi internazionali conclusi dalle Comunità.
Tra le suddette fonti, esiste una certa gerarchia, ad esempio, un atto comunitario in quanto diritto derivato, non potrebbe essere contrario ai Trattati, che sono fonti primarie del diritto comunitario.
Una vera e propria gerarchia delle fonti quanto al diritto derivato non è stata mai definita, al di là dell’applicazione di noti criteri di specialità e di successione nel tempo di norme di pari rango.
Il Progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa opera un riordino degli atti comunitari, che vengono classificati in atti legislativi, atti non legislativi, regolamenti delegati ed atti esecutivi. Il riordino è solo formale, dato che si limita a cambiare il nome a regolamenti e direttive adottati con la procedura della codecisione, che diventano “leggi europee” e “leggi quadro europee”. Infine, dall’appartenenza di una norma all’ordinamento comunitario discende, tra l’altro, la sua sottoposizione all’interpretazione esclusiva della Corte di Giustizia, il suo sistema sanzionatorio, la sua possibilità di avere efficacia diretta, il regime della sua pubblicità.

40.1. I Trattati istitutivi e i principi generali; la Carta di Nizza.

I Trattati istitutivi delle Comunità Europee costituiscono la fonte primaria dell’ordinamento comunitario, in quanto si rifanno direttamente alla volontà degli Stati che hanno dato vita alle Comunità stesse. Nel suo parere del 14 dicembre 1991, la Corte di Giustizia ha affermato che: “ Il Trattato CEE, benché sia stato concluso in forma di accordo internazionale, costituisce la carta costituzionali di una comunità di diritto”. Essa vuole solo ricordare ce le disposizioni del Trattato includono le norme fondamentali dell’ordinamento comunitario. Tali norme assumono tutte un carattere secondario o derivato rispetto alle norme stesse.
Uguale natura va riconosciuta alle decisioni in materia comunitaria del Consiglio Europeo nonché agli accordi tra i governi degli Stati membri cui il Trattato fa spesso riferimento. Non fanno parte dei Trattati comunitari gli accordi internazionali conclusi dagli Stati membri al di fuori del contesto comunitario, anche se in qualche modo collegati con gli obiettivi delle comunità ed anche se la loro conclusione è prevista dall’art. 293 CE. Uguale discorso va fatto per gli accordi internazionali conclusi dagli Stati membri nel quadro della loro cooperazione in materia di politica estera e di sicurezza comune, ovvero di cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Tale cooperazione si svolge nell’ambito del secondo e del terzo pilastro dell’Unione e non nel contesto propriamente comunitario.
Accanto alle norme dei Trattati vanno menzionati i principi generali dell’ordinamento comunitario, alcuni dei quali hanno ovviamente lo stesso rango di questi ultimi, mentre altri sono stati ricostruiti dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, che ha loro riconosciuto un rango preminente rispetto alle fonti derivate, ma che non potrebbero essere modificativi dei Trattati.
Il valore di tali principi è triplice. Essi integrano le norme dei Trattati; costituiscono dei limiti di legittimità degli atti comunitari, cui la Corte di Giustizia si deve attenere nella sua funzione di controllo; infine, essi offrono dei criteri interpretativi per tutte le altre fonti del diritto comunitario. Tra i principi generali vengono anzitutto in considerazione quelli relativi al rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, in quanto garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Roma, 4 novembre 1950 CEDU), cui tutti gli Stati membri hanno aderito e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri.
Viene anche in rilievo il catalogo di cui alla Carte dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (Carta di Nizza). Tale Carta era stata elaborata da una apposita commissione mista istituita dal Consiglio Europeo di Colonia nel giugno 1999, denominata convenzione e formata non solo da rappresentanti del Consiglio, Commissione e Parlamento Europeo, ma anche da membri dei Parlamenti nazionali degli Stati membri.
Quanto al suo contenuto, la Carta non introduce competenze nuove o compiti nuovi per la Comunità e per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai Trattati. Essa si propone il limitato scopo di rendere più chiari e trasparenti per i cittadini i diritti fondamentali che l’Unione Europea afferma di voler rispettare. È, però, fin d’ora da scartare l’opinione di coloro i quali, anche sulla scorta dell’equivoco termine convenzione utilizzato per la commissione che l’ha preparata, ritengono che la Carta possa considerarsi come un nucleo di diritti fondamentali della Costituzione di un’Europa federale in via di formazione.
Oltre ai principi che si riferiscono ai diritti fondamentali, altri principi generali sono ricavabili da norme del Trattato, come il principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza o il principio della buona gestione finanziaria. Al di fuori dei principi riconducibili a norme dei Trattati istitutivi, la Corte di Giustizia ha elaborato tutta una serie di altri principi generali dell’ordinamento comunitario, ricavandoli attraverso una comparazione degli ordinamenti giuridici degli Stati membri, così che essi includono quei principi generali comuni ai diritti degli Stati membri cui fa spesso riferimento l’art. 288 del Trattato CE. Si tratta quasi sempre di principi di base sottesi a qualsiasi ordinamento di uno Stato di diritto, ovvero inclusi normalmente nelle carte costituzionali degli Stati.
Così facendo, la Corte ha colmato delle lacune dei Trattati; si è parlato, a proposito di tali principi generali, di diritto comunitario non scritto. La Corte di Giustizia, attraverso l’individuazione di questi principi, non ha allargato l’ambito precettivo dei Trattati, né avrebbe potuto farlo senza violare il principio delle competenze di attribuzione, cui essa stessa è sottoposta. La Corte si è solo valsa di questi principi per interpretare il diritto comunitario quale esso esiste ed ha efficacia nel territorio degli Stati membri, nonché per decidere sulla sua legittimità. La giurisprudenza della Corte ha funto spesso da battistrada per l’introduzione di tali principi nei Trattati istitutivi. Vale la pena di ricordare, tra i principi generali individuati dalla Corte, quelli che esprimono alcune esigenze elementari di ogni ordinamento proprio di uno Stato di diritto e sono comuni agli ordinamenti degli Stati membri da cui sono desunti:

  • il principio della certezza del diritto, in base al quale ogni situazione di fatto va valutata alla luce delle norme vigenti al momento del verificarsi del fatto stesso, norme che devono essere chiare, precise e prevedibili;
  • il principio della tutela del legittimo affidamento dei terzi in buona fede;
  • il principio del rispetto dei diritti quesiti;
  • il principio dell’effetto utile, per cui ogni norma deve essere interpretata in modo da poter raggiungere il suo scopo, principio utilizzato per giustificare i poteri impliciti e l’efficacia diretta delle direttive;
  • il principio di buona fede;
  • il principio dell’arricchimento senza causa;
  • il principio di equità.

Tra i principi in questione vale la pena ricordare il principio dell’equilibrio istituzionale e della leale cooperazione, nonché il principio della responsabilità degli Stati verso gli individui per la violazione delle norme comunitarie.

40.2. I regolamenti.

Gli atti delle istituzioni comunitarie, costituenti il cd. Diritto derivato sono quelli elencati nell’art. 249 CE. Cominciando dai regolamenti, tale norma specifica che essi hanno portata generale, sono obbligatori in tutti i loro elementi e sono direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri. Queste caratteristiche fanno dei regolamenti gli atti normativi per eccellenza, equiparabili agli atti legislativi degli ordinamenti interni. Il requisito della portata generale implica che i destinatari dei regolamenti debbano essere una o più categorie di soggetti, determinati astrattamente e obiettivamente.
La seconda caratteristica dei regolamenti è che essi sono obbligatori in tutti i loro elementi. Con questa precisazione, si intende distinguere il regolamento dalla direttiva, che invece impone con obbligatorietà agli Stati membri solo i fini da raggiungere, lasciandoli liberi di scegliere i mezzi più adeguati per il raggiungimento degli stessi. In altre parole, i regolamenti contengono una definizione giuridicamente completa del precetto in essi contenuto. Può darsi, che tale precetto abbia carattere generale e che, pertanto, richieda l’emanazione di provvedimenti di attuazione sia da parte delle autorità comunitarie che degli Stati membri.
L’obbligatorietà dei regolamenti opera, logicamente, nei confronti dei loro destinatari, i quali sono anche soggetti degli ordinamenti nazionali. Di qui il terzo requisito dei regolamenti, quello della diretta applicabilità in ciascuno degli Stati membri, il quale consente a degli atti propri dell’ordinamento comunitario di esplicare i loro effetti nell’ambito di ordinamenti diversi, quali sono quelli degli Stati membri. Questi ultimi hanno consentito ad attribuire ai regolamenti comunitari forza obbligatoria e diretta applicabilità anche agli individui, come se fossero dei provvedimenti normativi interni. Questo fenomeno è senz’altro uno dei dati che maggiormente caratterizzano le Comunità Europee.
Dando esecuzione ai Trattati comunitari, gli Stati membri hanno pertanto introdotto al loro interno un meccanismo di adattamento automatico del loro ordinamento a quello comunitario, attraverso l’automatica ricezione dei regolamenti comunitari, senza la possibilità di modificarne in alcun modo i precetti, ma anche senza bisogno di un apposito ordine di esecuzione.
Un altro aspetto dell’applicabilità diretta dei regolamenti è quello della loro possibilità di essere fatti valere direttamente dai singoli.
Va, infine, ricordato che la competenza ad emanare regolamenti spetta in via primaria al Consiglio (cd. regolamenti di base) e, in via secondaria, alla Commissione su delega del Consiglio (cd. regolamenti di esecuzione). Sono isolati i casi in cui il Trattato CE conferisce direttamente alla Commissione un potere regolamentare di base, mentre la Commissione emana regolamenti di esecuzione nei limiti delle deleghe che le conferisce il Consiglio e nel rispetto delle procedure in tema di “comitologia”.

40.3. Le direttive.

La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali per quanto riguarda la forma e i mezzi. Nell’ordinamento comunitario la direttiva è atto meno invasivo della sovranità degli Stati membri, rispetto al regolamento. Essa permette l’esplicazione del momento normativo a livello comunitario per la sola parte che veramente conta, vale a dire l’identificazione del risultato da raggiungere, con il minor sacrificio possibile della sovranità degli Stati, che restano liberi di determinare la forma e i mezzi necessari al raggiungimento di tale fine. Un atto del genere è scarsamente usato negli ordinamenti interni, dove la norma promana da strutture sovrane, cui destinatari della norma stessa sono subordinati.
La direttiva è un atto, al pari del regolamento, completamente vincolante per quanto riguarda il suo contenuto, solo che quest’ultimo ha carattere programmatico rispetto al regolamento, che tende a dare una regolamentazione completa della materia che ne forma l’oggetto. Pertanto, dato che la direttiva è particolarmente dettagliata, e il regolamento necessita di provvedimenti di attuazione, la differenza tra i due atti tende a sfumare nella pratica. Il rilievo è importante, in quanto si è assistito all’emanazione di un numero sempre crescente di cd. direttive dettagliate, contenenti una disciplina talmente articolata della materia, da lasciare poco o nessuno spazio all’esercizio del potere discrezionale degli Stati in sede di determinazione delle forme e dei mezzi per il raggiungimento del risultato voluto.
L’uso di direttive dettagliate si è sostanzialmente ridotto a seguito dell’affermarsi del principio di sussidiarietà. Per l’instaurazione del mercato interno, si è adottato il sistema di emanare direttive-quadro, che sono l’opposto delle direttive dettagliate e sono più consone alla natura propria di quest’atto.
Le direttive sono indirizzate agli Stati membri, anche se possono rivolgersi solo ad alcuni di essi. Esse necessitano dell’adozione di misure di attuazione nel diritto nazionale da parte degli Stati, entro il termine imperativo fissato dalle direttive stesse e nell’ambito del loro generale obbligo di adottare tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal presente trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità. A tale obbligo gli Stati non possono sottrarsi adducendo l’inadempimento da parte di altri Stati, o l’assenza di effetti negativi sul funzionamento del mercato comune, ovvero richiamandosi al proprio diritto interno. In pratica, la minaccia che la Corte sanzioni la diretta efficacia delle parti delle direttive che essa consideri già abbastanza precise da conferire diritti ai singoli, funziona spesso da deterrente nel senso di indurre gli Stati ad una più o meno rapida attuazione delle direttive stesse.
La Corte di Giustizia ha insistito sulla necessità che l’attuazione delle direttive da parte degli Stati membri avvenga nel rispetto delle esigenze della chiarezza e della  certezza giuridica. Non risponderebbe a tali criteri attuare le direttive tramite semplici prassi amministrative o atti puramente interni, in quanto tali prassi o atti sono visti dalla Corte come “per natura modificabili a piacimento dell’amministrazione e privi di adeguata pubblicità”. Nemmeno l’attuazione attraverso circolari amministrative incontra il favore della Corte di Giustizia. Gli Stati membri sono obbligati a comunicare alla Commissione sia le proposte di provvedimenti interni di attuazione, sia i provvedimenti stessi una volta adottati. In tal modo, la Commissione è messa in condizione di poter meglio svolgere i suoi compiti di vigilanza volti a riscontrare eventuali infrazioni. La competenza ad emanare direttive spetta in via primaria al Consiglio e, in via secondaria, alla Commissione.
La direttiva è un atto largamente utilizzato, specie in materia di ravvicinamento delle legislazioni. Essa è anche l’atto tipico attraverso cui sono state realizzate le libertà di stabilimento, di circolazione di servizi e capitali, ed è stato introdotto il mercato interno.

 

40.4. Le decisioni.

La decisione è caratterizzata dalla obbligatorietà in tutti i suoi elementi,  come per i regolamenti, e dalla portata individuale, a differenza dei regolamenti, che hanno portata generale. Le decisioni possono essere dirette a Stati o a individui ed hanno per lo più natura amministrativa; sono in genere emesse dalla Commissione, ma alcune di quelle dirette agli Stati sono emesse dal Consiglio. Le decisioni rivolte a più destinatari si considerano come una somma di decisioni individuali.
Le decisioni rivolte dal Consiglio a Stati membri si differenziano dalle direttive in quanto esprimono un precetto completo, cui lo Stato destinatario si deve semplicemente adeguare, senza necessità di emanare misure di attuazione a carattere normativo.
Le decisioni rivolte ad individui sono normalmente emesse dalla Commissione nell’ambito del suo potere di vigilanza sull’applicazione del Trattato. Assumono particolare rilievo quelle relative all’applicazione delle regole di concorrenza, le quali possono comportare degli obblighi pecuniari. In tali ultimi casi, e in genere in tutti i casi in cui ci sia un obbligo pecuniario, tali decisioni costituiscono titolo esecutivo negli Stati membri e sono suscettibili di esecuzione forzata con la sola apposizione della formula esecutiva da parte dell’autorità nazionale competente, previa verifica dell’autenticità del titolo.

40.5. Le raccomandazioni.

L’art. 249 CE menziona anche altri due atti, le raccomandazioni e i pareri, limitandosi a specificare ce essi non sono vincolanti. Le raccomandazioni costituiscono un atto molto usato nel diritto delle organizzazioni internazionali, in quanto gli organi di un’organizzazione internazionale cercano di ottenere un determinato comportamento da parte degli Stati membri con il minimo sacrificio della sovranità di questi ultimi. È un atto che incontra minori resistenze da parte degli Stati ed è perfettamente coerente con il carattere volontario del vincolo associativo tra i membri di un’organizzazione internazionale.
Nell’ambito comunitario, raccomandazioni possono essere emesse sia dal Consiglio, che dalla Commissione, vuoi nei confronti di Stati, che di privati, che, infine, di altre istituzioni comunitarie. Esse sono in genere volte ad ottenere che il destinatario adotti un determinato comportamento. Dire che le raccomandazioni non sono vincolanti non equivale a dire che esser non siano produttive di conseguenze giuridiche e, quindi, appartengano al mondo del non-diritto. La mancata osservanza di tale raccomandazione ha, come effetto di liceità, che lo Stato inadempiente resterà esposto alle misure nazionali degli altri Stati membri, che eventualmente lo pregiudichino, senza che il Consiglio possa imporre a questi ultimi di modificarle, come potrebbe normalmente fare in base all’art. 96 CE.

40.6. I pareri.

Mentre le raccomandazioni tendono ad ottenere che il destinatario adotti un determinato comportamento, i pareri, invece, sono atti attraverso i quali l’organo che li emette precisa la sua posizione su una determinata materia. Essi hanno per lo più natura interorganica.
Il parere è l’atto con cui tradizionalmente il PE, il CES e il CDR partecipano alla funzione normativa. Il PE gode di un potere generale di emettere pareri, così come la Commissione. In merito alla non vincolatività dei pareri occorre fare due precisazioni. La prima è che i pareri conformi del PE impediscono al Consiglio di adottare un atto difforme, anche se gli lasciano la libertà di non adottare alcun atto. La seconda è che, anche se i pareri non sono vincolanti, essi non sono per ciò stesso sprovvisti di rilevanza giuridica, basti pensare che l’atto emanato dal Consiglio senza l’acquisizione del parere del PE è illegittimo per violazione delle forme sostanziali e, quindi, passibile di essere dichiarato nullo dalla Corte di Giustizia.

Fonte: http://www.studentiunict.it/appunti/riassuntidraetta.doc

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