Stato sociale o welfare state

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Stato sociale o welfare state

 

Per una storia dello Stato sociale
Origini, percorsi, soggetti

 

La questione dello Stato sociale, di grande rilevanza in tutta la storia del Novecento, è, in questi ultimi anni, al centro del dibattito politico. E' anche oggetto di discussione e di polemica da parte dei media, che, però, prediligono la categoria dello Stato assistenziale: in questa preferenza terminologica è già emblematicamente evidente come esso sia presentato in molti ambienti, non solo conservatori, in forma riduttiva per un verso, dispregiativa per l'altro. Il termine anglosassone di Welfare State, Stato del benessere compare raramente, anche perché è più difficile compiere di esso un diffuso riscontro nella realtà.
Specialmente tra i giovani, compresi quelli scolarizzati, è diffusa e condivisa l'idea che colloca la nascita e la crescita dello Stato sociale in un ambito spaziale di cui l'Italia è parte centrale, se non esclusiva, e in un ambito cronologico circoscritto non solo al secondo dopoguerra ma, addirittura, agli anni Sessanta e Settanta. Una tesi che, pur essendo con tutta evidenza infondata, è diventata un radicato luogo comune, che necessita di essere demistificato.
La questione dello Stato sociale è complessa, con vaste implicazioni giuridico-istituzionali, per un verso, sociali ed economiche, per l'altro.
Sul piano della codificazione costituzionale, lo Stato sociale, dopo i coraggiosi, ma isolati e non duraturi, casi della Repubblica di Weimar e di quella cecoslovacca degli anni Venti , si diffonde come normale forma di statualità nel Secondo dopoguerra. Le costituzioni di alcuni grandi Stati europei, quella italiana in primo luogo, dopo la sconvolgente esperienza dei regimi totalitari di massa, per la prima volta sanciscono congiuntamente diritti civili, diritti politici e diritti sociali. Uomini e donne non sono più solo cittadini, astrattamente uguali di fronte alla legge e isolati di fronte allo Stato. Non a caso i diritti che le istituzioni debbono non solo riconoscere, ma garantire e promuovere, sono diritti delle persone e la cittadinanza si fonda non più sulla proprietà o sull'istruzione, ma sul lavoro. Una codificazione, ancora più solenne, si ha nell’articolo 22 (“Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità”) della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, del dicembre del 1948, la cui accettazione divenne requisito per l’ingresso degli Stati nella Organizzazione delle Nazioni Unite.
La questione delle politiche sociali aveva cominciato a porsi in un periodo ben più lontano nel tempo. Percorre tutta la modernità, quantomeno nell’Europa più avanzata , a partire dalle Old Poor Laws dell'Inghilterra del Cinquecento e del Seicento.
L'attenzione dello Stato nei confronti delle problematiche sociali è legata alla crisi definitiva del sistema feudale e del mondo medievale, che aveva al proprio interno una rete di solidarietà, di assistenza e di tutela delle singole persone e, in primo luogo, dei poveri. Fino all'epoca moderna e contemporanea, i poveri costituivano una delle tre componenti della società signorile: le altre due erano costituite dai signori e dai servi. I poveri, massa fluttuante, ma sempre corposa, avevano contemporaneamente il privilegio e la dannazione del non lavoro. Marginali, ma non esclusi, sopravvivevano, sia pure come Lazzaro della parabola evangelica, grazie agli avanzi delle mense dei signori .
Caduta questa rete di protezione e di solidarietà, è necessario garantire una qualche forma di assistenza tramite specifiche leggi. Il provvedimento più significativo in tal senso fu la Speenhamland Law, del 1795. In Inghilterra le autorità sono mosse più che da ragioni umanitarie o di giustizia distributiva, dalla preoccupazione e dal timore crescente che i poveri possano diventare ceti pericolosi, subire il contagio della Rivoluzione francese e mettere in discussione l’assetto istituzionale .
Nei decenni a cavallo tra Settecento e Ottocento la Rivoluzione industriale trionfa in Inghilterra e comincia anche a affermarsi in alcune aree dell’Europa continentale. Gli Stati rivendicano a sé il compito organizzare forme nuove di protezione sociale, esautorando progressivamente in questo campo, di conseguenza, le istituzioni religiose e corporative. Contemporaneamente attivano strumenti di controllo e di prevenzione-repressione per garantire l’ordine costituito. Si confrontano, sul terreno delle idee e su quello delle pratiche politiche, due posizioni. La prima, di evidente ispirazione giusnaturalistica, rivendica un coraggioso intervento dello Stato per garantire a tutti i cittadini il diritto di esistere. La seconda, ispirandosi alla filosofia dell’utilitarismo e alla rigorosa morale del cristianesimo riformato, diffidando delle interferenze dello Stato nella sfera economica e sociale, ritiene che solo il perseguimento dell’utile personale, accompagnato da costumi austeri e dalla capacità di rischio, possa garantire la fuoruscita dal bisogno e dalla dipendenza . 
Le variegate legislazioni sui poveri in Inghilterra, ma anche in Prussia e nell'Impero Asburgico, si propongono di evitare, da un lato, che essi possano, come nei secoli precedenti, continuare a muoversi liberamente nel paese, vivendo di lavori occasionali, di espedienti e di carità, o, addirittura, ritagliarsi propri autonomi spazi nelle corti dei miracoli, sfuggendo in tal modo a quel controllo del territorio, sempre più rigido e capillare, che le autorità di polizia stanno imponendo. Non a caso le leggi sui poveri prevedono di norma, accanto ad aiuti in natura, specie alimenti, e esigui contributi finanziari, forti sollecitazioni-imposizioni perché gli assistiti-assistite dimorino in strutture apposite di accoglienza e di lavoro. L'Inghilterra sperimenta variegate forme di Poorhauses e di Workhouses. Esperimenti simili vengono tentati in Francia con gli Hospitaux generaux  e i Dépôts de mendicitè e, nell’Impero Asburgico, con gli Armeninstitut. I nomi stessi di queste istituzioni rinviano  ad una realtà penosa  e opprimente .
L'interesse dello Stato per la questione sociale, non ancora per i diritti sociali, è già, dunque, presente nella fase iniziale del lungo processo di modernizzazione e dinamizzazione che segue alla scomparsa del vecchio universo statico, regolato da norme e consuetudini consolidate, di cui la Rivoluzione industriale fu, allo stesso tempo, conseguenza evidente e causa dirompente .
E’ nota la necessità economico-strutturale, ma anche politica e ideologica, della trasformazione dei poveri in lavoratori salariati, sia nelle campagne, sia nelle aree urbane industrializzate. L’esito di questo processo nella Coketown per eccellenza, Manchester, è stato descritto con rigore anatomico da Engels, nel 1844, nel suo notissimo saggio La situazione della classe operaia in Inghilterra e mirabilmente rievocato nel romanzo di Charles Dickens, pubblicato dieci anni dopo, Tempi difficili.
Modernità, industrializzazione, urbanesimo costituiscono il nuovo contesto in cui uomini e donne sono progressivamente trasformati in individui atomizzati, che, solo in questa veste, sono riconosciuti dallo Stato liberale come titolari di diritti. Essi non solo sono soggetti  livelli salariali molto bassi e a tempi e ritmi di lavoro penosi, ma perdono, con lo sradicamento  dalle campagne e con il passaggio dal lavoro contadino e artigianale a quello di fabbrica, i rassicuranti tradizionali punti di riferimento precedenti e rischiano di smarrire la propria identità .
L’azione sociale dei governi, in tutta una prima fase dell’industrializzazione, si estrinseca in numerosi, ma episodici, provvedimenti legislativi, spesso preceduti da momenti di indagine e di conoscenza, come le inchieste parlamentari, che portano a misure migliorative delle condizioni di lavoro, specialmente per i soggetti più deboli, come le donne e i bambini. Talvolta, con l’introduzione di prime forme di assicurazione sulla morte o sull’invalidità, si hanno anche trasferimenti di risorse finanziarie, anche pubbliche, a favore dei lavoratori e delle loro famiglie. A spingere in tal senso più che il riconoscimento della cittadinanza sociale, o anche solo l’esigenza di stimolare la domanda con la crescita del potere di acquisto dei ceti operai, è la preoccupazione assillante di ridurre e porre sotto controllo il dissenso e il conflitto sociale. Le ristrette e sospettose élites, che gestiscono il potere politico e economico e controllano le istituzioni parlamentari, grazie al suffragio ristretto, hanno coscienza, per usare un’espressione emblematica del cattolicesimo intransigente italiano dell’Ottocento, che il Paese reale ha nei confronti del Paese legale diffidenza e avversione .
Con la trasformazione degli Stati moderni assolutisti negli Stati liberali costituzionali, si erano poste le premesse per un nuovo processo . La questione sociale non può più, alla lunga, essere affrontata in forma autoritaria e paternalistica, dall’alto e neppure demandando ad altre istituzioni quali le Chiese, come, per molti secoli, era avvenuto. Lo Stato-soggetto è orgoglioso e geloso del proprio esclusivo potere e delle proprie competenze che non intende delegare ad altri enti intermedi. Nella sua configurazione liberal-costituzionale elitaria ha come dottrina economica il liberismo, cioè l’ideologia del mercato autoregolato,  che ritiene di raggiungere al proprio interno equilibri sempre più avanzati e razionali modalità di funzionamento. Lo Stato solo a seguito di precise emergenze o per scongiurare gravi tensioni si vede costretto a intervenire a tutela di gruppi determinati di cittadini, per non contraddire il principio della loro formale e astratta uguaglianza di fronte alla legge.
La Rivoluzione francese certamente aveva avuto una triade ideale: libertè, egalitè, fraternitè. Ben lungi dal diventare programma di governo, la fraternité era stata progressivamente espunta dal lessico politico liberale, divenendo nostalgia residuale del sanculottismo di sinistra e, successivamente, fondamento ideologico del nascente movimento socialista .
Lo Stato, anzi, tende, persino - è il caso emblematico e anticipatore della Francia rivoluzionaria con la legge Le Chapelier, del 1791 - ad interdire qualsiasi organizzazione sindacale, vista come una messa in discussione del libero incontro sul mercato del lavoro del singolo datore di lavoro e del singolo prestatore d’opera. Non a caso la legge Le Chapelier era strettamente connessa con la legge d’Algarde, che sopprimeva tutte le residue antiche  corporazioni. L’Inghilterra con le  Anti-Combination Laws, del 1799, sia pure con lo scopo primario di impedire la diffusione di simpatie giacobine, era giunta a esiti simili che, però, saranno, già all’inizio degli anni Venti dell’Ottocento, rimessi in discussione .
Non solo in Inghilterra, ma anche in Europa occidentale, quando “succede il Quarantotto”, la Restaurazione progettata dal Congresso di Vienna nel 1815, ma anche quel particolare universo, finora preso in esame, comincia a dare segni evidenti di crisi . In Francia, il paese che, secondo la nota definizione di Marx, era il laboratorio più avanzato delle dinamiche politiche, nel passaggio dalla Monarchia Orleanista alla Seconda Repubblica, si ha la soppressione della schiavitù nelle colonie e si sancisce il diritto al lavoro, come diritto preliminare e fondante per garantire il concreto esercizio di quelli civili e politici. L’effimera soluzione che venne imposta dagli esponenti radicali e socialisti parigini, quella degli Ateliers nationaux, che non solo per assonanza rinviano agli Hospitaux generaux, sconta l’utopica illusione che, nella nuova economia di mercato, sia possibile creare e conservare nel tempo posti di lavoro sulla base di una decisione politica. Un esperimento, che pur rivelandosi fallimentare nella sua applicazione, pone con forza premonitrice una questione difficile e complessa, ma non eludibile: il lavoro come fondamento della cittadinanza .
Negli ultimi decenni dell'Ottocento e nel primo Novecento, la Seconda rivoluzione industriale, con la nuova centralità della metallurgia e della chimica e con la parziale sostituzione, come fonte energetica, del carbone con l’energia elettrica, vede coinvolti nuovi soggetti, come la Germania e l’Italia, in Europa e, fuori di essa, gli Stati Uniti, in America, e, in Asia, il lontano Giappone, della cui subitanea potenza militare e tecnologica, nello stupore dell’opinione pubblica mondiale, fece drammaticamente le spese, nel 1904, la declinante grande potenza della Russia zarista .
Sul terreno politico-istituzionale è in atto un mutamento profondo nelle costituzioni materiali di molti paesi: con l’estensione del diritto di voto, sino al raggiungimento del suffragio universale, sia pure di un suffragio universale dimezzato, per la perdurante esclusione delle donne e con l’affermarsi dei grandi partiti di massa, socialisti e socialcristiani, si passa dallo Stato monarchico-costituzionale a quello democratico-parlamentare. La ricerca e l’organizzazione del consenso nello Stato liberale non può più essere elusa  neppure da parte delle élites ostili alla nuova centralità del parlamento e favorevoli alla gestione verticistica del potere .
Sul terreno dell’economia è ritenuto necessario un coinvolgimento crescente dello Stato: l’economia diventa sempre più, anche dal punto di vista teorico, economia politica. Il coinvolgimento è duplice: da una parte gli investimenti che richiede l'industria pesante, l'industria meccanica, l'industria chimica, per i costi dei loro impianti e della continua innovazione tecnologica, sono di tale ampiezza che gli imprenditori autonomamente non sono più in grado di garantirli. E’ lo Stato che deve intervenire, con frequenti ricche sovvenzioni, rastrellando a tal fine anche il piccolo risparmio individuale. Dall'altra, lo Stato assorbe gran parte della produzione, tramite le commesse pubbliche di armamenti, di materiale rotabile e ferroviario, che costituivano una parte rilevante della produzione delle nuove industrie meccaniche e chimiche. Non è certo casuale che all’avanguardia su questo nuovo terreno siano la Germania bismarckiana e guglielmina e il Giappone del governo Meiji, i paesi che sono leader della Seconda rivoluzione industriale .
Lo Stato è impegnato a garantire alcuni servizi essenziali, come i trasporti ferroviari e marittimi, che passano sotto la sua gestione diretta o indiretta. Primario diritto sociale, anche perché ritenuta efficace strumento di emancipazione, è l'istruzione, che ai livelli elementari è divenuta obbligatoria e gratuita. E’ allo stesso tempo un terreno privilegiato di intervento e di impegno dello Stato per due ordini di motivi: per rispondere alla domanda crescente di lavoratori qualificati e di tecnici nell’industria e nell’amministrazione e per formare i cittadini che non sono più dei sudditi ossequiosi o turbolenti, ma pur sempre impotenti, ma  titolari del diritto di voto, cioè di un potente democratico strumento di pressione.
Il modello tedesco, anche su questo terreno, è forte e fascinoso: era la dimostrazione che l'interesse dello Stato per la formazione e la scuola garantiva non solo dei cittadini disciplinati, ma anche dei cittadini produttori di straordinaria bravura. Una delle ragioni del successo economico tedesco di fine secolo è anche il suo essere all’avanguardia della ricerca scientifica e dell'innovazione tecnologica. Questa condizione si fondava sull’efficiente e avanzato sistema scolastico, dalle elementari fino alle università .
État providence, in francese, Wohlfahrstaat, in tedesco, è stato definito questo tipo di intervento statale dall’alto, con forti connotazioni autoritarie, anche quando sono benevolmente paternalistiche: è tipico della Germania e del Giappone , ma alcuni suoi tratti sono presenti anche in Italia e, persino, nella Russia zarista .
Un modello alternativo fu, invece, praticato in Inghilterra, dove lo Stato, smantella la legislazione sui poveri, ma anche, negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, quella protezionistica, permettendo, con le Corn Laws, l’importazione, senza dazi doganali, di granaglie americane e australiane, rendendo, di conseguenza, possibile per i ceti popolari un'alimentazione, che era ancora quasi esclusivamente farinacea, a costi molto minori, colpendo gli interessi della nobiltà terriera che non poteva più disporre di un mercato protetto per la propria produzione cerealicola. Provvedimento di segno opposto adotterà, invece l’Italia, nel 1887, con la legislazione protezionistica, che contribuirà a saldare un solido blocco sociale tra nascente borghesia industriale del Nord e proprietari terrieri del Sud .
Il modello in questione è quello del Mutual Aid e del Self Help: in due distinte ma convergenti direzioni, entrambe ispirate dal socialismo utopico di Robert Owen. Da una parte le società di mutuo soccorso e di resistenza da cui trarranno origine le Trade Unions, dall'altra le cooperative, a partire da quella di consumo, quasi mitica, fondata dai Probi Pionieri di Rochdale, nel 1843, a seguito di un lungo e vano sciopero .
Oltre che in Inghilterra, anche in diversi altri paesi europei, i diritti sociali, prima ancora di essere tutelati dallo Stato, vengono sperimentati sul campo, in forma diffusa e crescente, dai diretti interessati, e, in particolare, dai ceti operai urbani con la costruzione di fitto tessuto di organizzazioni sindacali e cooperative. L’iniziativa spontanea dal basso si interconnette, nel tempo, con prime forme di tutela dall'alto, soprattutto nei confronti del proletariato di fabbrica, in particolare nei confronti della cosiddetta aristocrazia operaia , che, secondo la classica interpretazione di Lenin, finì per essere coinvolta nella politica e nell’ideologia dell’impertialismo .
Gli Stati sono costretti a cedere alla richiesta delle organizzazioni sindacali di garantire, con interventi legislativi e coperture finanziarie, forme assicurative in caso di malattia e di morte e anche pensioni d'invalidità o di vecchiaia, perché essi, spontaneamente, da tempo, avevano tutelato in tal senso i propri servitori, pubblici dipendenti e, in particolare, militari professionali. Questo modello, già sperimentato e garantito dallo Stato, diventa un possibile, forte, esempio da imitare e da estendere ad altri lavoratori dipendenti .
All'inizio del Ventesimo secolo, anche in Italia, nel giolittiano decennio riformatore, seguito alla drammatica crisi sociale e istituzionale di fine secolo, si scopre un terreno nuovo in cui i diritti sociali possono essere realizzati, permettendo una più elevata qualità della vita individuale e collettiva. Il soggetto istituzionale coinvolto non è più lo Stato, ma i comuni, nella storia italiana di lunga durata percepiti, quasi sempre, senza ostilità, diffidenza e estraneità. Attraverso lo strumento delle aziende municipalizzate, i comuni provvedono alla mobilità urbana, alla distribuzione dell’acqua, dell’energia elettrica, del gas. Nei Comuni, inoltre, si esercita e si sperimenta una classe dirigente nuova, espressione dell’universo socialista e di quel mondo cattolico che, a causa del non expedit, cioè del divieto papale di poter essere eletti o anche solo elettori, neppure concorre alla formazione di una propria rappresentanza parlamentare. Anche in questo caso l'esperimento della erogazione pubblica, sia pure decentrata, di alcuni servizi collettivi, fu una sorta di scelta obbligata, per la manifesta incapacità gestionale dei privati e per il peso, in termini finanziari, gravissimo, per lo Stato che doveva ogni anno appianare i bilanci largamente passivi .
E’ diffusa la convinzione che lo Stato democratico-sociale costituisca un'ulteriore evoluzione, non solo in senso cronologico, ma anche per la qualità e la quantità dell’intervento pubblico nel campo del benessere dei cittadini, rispetto allo Stato democratico-parlamentare. In realtà, negli anni Venti e Trenta, dopo gli sconvolgimenti bellici e postbellici, a seguito anche della crisi dell’idea di progresso e di democrazia e, contemporaneamente, del diffondersi di culture e mentalità violente e illiberali, si presenta un'altra variante, per molti aspetti non prevista: lo Stato sociale di connotazione autoritaria o totalitaria. Uno Stato, che fa i conti con la moderna società di massa, utilizzando al contempo efficienti strumenti di dominio e di consenso; che si fa carico dei diritti sociali, ma mortifica i diritti civili e politici, fino, talvolta, alla morte stessa di coloro che continuano a testimoniarli e a difenderli.
Sintetica e efficace l’interpretazione di Karl Polanyi sulla soluzione autoritaria dell’impasse del capitalismo: “una riforma dell’economia di mercato raggiunta al prezzo dell’estirpazione di tutte le istituzioni democratiche (…). Il sistema economico che era in pericolo di disfacimento veniva così rivitalizzato mentre i popoli stessi venivano sottoposti ad una rieducazione destinata a snaturalizzare l’individuo e a renderlo incapace di funzionare come unità responsabile del corpo politico” .
Dopo la Seconda Guerra mondiale si ha l’affermazione definitiva, anche dal punto di vista della sua definizione costituzionale, dello Stato democratico-sociale. La Costituzione italiana è esemplare, al riguardo, già nel suo incipit: "L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro". Non si tratta di una semplice petizione di principio voluta dai deputati socialcomunisti e socialcristiani, che alle elezioni per l’Assemblea costituente avevano avuto congiuntamente il 75% dei seggi. Non si tratta, neppure, di una sorta di risarcimento politico e morale, a posteriori, per la classe operaia che in Italia, durante il Fascismo, aveva subito forme di repressione più forte e che, durante la Resistenza, era stata più presente ed attiva nella lotta partigiana, bensì della sanzione solenne, che costituisce anche una necessaria presa d’atto, del punto di arrivo di un lungo percorso evolutivo della economia, della società e delle istituzioni. Fondamento della cittadinanza non è più l'essere proprietari o istruiti, ma l’essere lavoratori, perché è il lavoro che, oltre a produrre la ricchezza materiale del paese, attiva i processi socializzazione e di coscientizzazione degli uomini e delle donne in una prospettiva di crescita civile che non è più monogenere. I diritti non possono che essere di queste tre tipologie, tra loro strettamente connesse: diritti civili, diritti politici e diritti sociali.
Ha scritto con esemplare chiarezza e capacità di sintesi, in una prospettiva universale, il sociologo inglese T.H. Marshall, in un libro giustamente famoso, Cittadinanza e classe sociale: “ diritti civili sono venuti prima (…). Poi sono venuti i diritti politici (…). I diritti sociali arretrarono fino a scomparire nel secolo diciottesimo e all’inizio del diciannovesimo. La loro rinascita iniziò con lo sviluppo dell’istruzione elementare pubblica, ma prima del secolo ventesimo non acquistarono una dignità pari a quella degli altri due elementi della cittadinanza” .
Lo Stato sociale, ossia il superamento della estraneità e dell’indifferenza delle istituzioni nei confronti dei processi economici e delle connesse dinamiche sociali, nel Novecento, ha avuto, nel suo finale e generalizzato affermarsi,  una forte e strutturale spinta con il compimento della Grande trasformazione. Di quel vasto e intrecciato complesso di profondi, sia pur vischiosi mutamenti economici, sociali, istituzionali, ma anche culturali e emozionali, magistralmente ricostruiti e decodificati da Karl Polanyi. La sconvolgente Grande crisi del 1929, a partire dal crollo di Wall Street, investe l’intero pianeta e, in particolare, i punti alti del capitalismo, portando quasi all’arresto della produzione e alla disoccupazione di massa. La teoria del mercato autoregolato, che al proprio interno trova le regole di funzionamento, di sviluppo e di aggiustamento, si rivela un’illusione. Viene, perciò, messa in discussione, a livello di teoria, con l’elaborazione di John Maynard Keynes che trovò una ormai classica sistemazione nel libro The general Theory of the Employement, Interest and Money, pubblicato nel 1935. Crisi assurda e paradossale, perché di abbondanza, non di penuria, come sempre era avvenuto nella millenaria storia dell’umanità: la domanda ancora asfittica non è in grado di assorbire l’offerta, ormai tendenzialmente quasi illimitata.
Di qui la necessità impellente di un forte stabile sostegno della domanda da parte delle istituzioni pubbliche, con l’adozione di innovative politiche economiche e finanziarie. Ne conseguono variegati esperimenti di economia orientata, per usare l’espressione coniata dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt nel lanciare il New Deal, elaborato nel 1932 da un poderoso Brains Trust di collaboratori e consiglieri. Il programma di Roosevelt prevede: un rigido controllo sul sistema bancario e sul mercato borsistico; un sostegno finanziario, attraverso il nuovo strumento della National Recovery Administration, alle industrie in crisi che si impegnassero, in dialogo con i sindacati, a garantire i livelli salariali, assumere personale aggiuntivo e diminuire l’orario di lavoro; un piano di grandi lavori pubblici, come il risanamento idrico e ambientale di un’intera regione realizzato dalla Tennesse Valley Authority; un esteso sistema previdenziale per disoccupati, inabili al lavoro e anziani. Una sorta di modello fordista dello Stato sociale che coniuga sviluppo e inclusione, efficienza economica e equità sociale.
Un originale e creativo nuovo corso, che suscita non poche diffidenze e ostilità, ma che si rivela ben più efficace delle tradizionali politiche deflative e protezionistiche adottate in Inghilterra e in Francia, prima della vittoria del Fonte popolare, nella primavera del 1936, che ha come programma di governo la settimana di 40 ore, le ferie retribuite e la nazionalizzazione delle industrie connesse con la difesa nazionale.
La creazione nell’Italia fascista di un’economia mista, di cui sono espressione l’Istituto mobiliare italiano (IMI) e l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), non è finalizzato solo a rispondere alla crisi del 1929, ma anche a sperimentare una sorta di terza via, tra capitalismo e socialismo, il corporativismo, che avrebbe dovuto riordinare l’economia, assicurare l’autarchia e superare il conflitto sociale, nel nome del comune interesse nazionale.
In Germania, nel turbolento dopoguerra, Walter Rathenau, industriale e ministro della ricostruzione, prima di essere assassinato, nel 1922, da estremisti di destra, aveva sostenuto la necessità di un’economia nuova, di un capitalismo in cui il profitto fosse subordinato agli interessi collettivi.  Nei successivi anni Trenta, con la vittoria del Nazismo, specie quando, nel 1936, Hermann Göring assume la direzione dell’economia tedesca, l’intervento dello Stato diventa massiccio, soprattutto nel campo dei lavori pubblici e degli armamenti. L’ideologia del Nazionalsocialismo e della Volksgemeischhaft, razzista e antisemita, si diffonde anche all’interno dei ceti popolari anche perché Hitler può esibire successi evidenti nel campo della lotta all’inflazione, dell’occupazione, della ripresa dei consumi, dell’erogazione di articolati servizi sociali. Essi, però, sono sottoposti a un rigido controllo e inquadramento quasi militare .
In Unione Sovietica, dove Stalin, dopo avere vinto il confronto con i suoi concorrenti-avversari, nell’ordine, Bucharin, Trockij, Zinoviev e Kamenev, ha in mano tutte le leve del potere, il Socialismo in solo paese è costruito, dopo l’esperienza della NEP,  con i grandi piani quinquennali, elaborati e imposti dall’alto, al fine di raggiungere una rapida industrializzazione e una forzata collettivizzazione delle campagne, senza nessun margine residuo per l’economia di mercato . L’economia pianificata di questo peculiare Stato sociale, in cui il Socialismo si è fatto Stato e il Partito comunista gestisce in forma esclusiva e dittatoriale il potere, in nome e per conto dei lavoratori, riuscì ad avere un indubbio fascino nel mondo operaio e, anche, intellettuale, dell’Occidente, perché sembrò costituire una risposta efficace non solo alla Grande depressione del 1929, ma anche al previsto-sognato-propagandato Crollo del capitalismo . Se, pur in assenza delle libertà individuali  e in presenza di perdurante, diffusa dura repressione del dissenso, il diritto al lavoro e alla pensione, all’assistenza sanitaria, all’istruzione, è garantito; i consumi, invece, inclusi quelli alimentari, sono compressi e il tenore di vita complessivo quanto mai basso, contribuendo non poco a consolidare una sorta di disincanto rassegnato e impotente, così lontano dagli entusiasmi rivoluzionari del 1917 .
E’, tuttavia, il notissimo rapporto, Social Insurance and Allied Services, elaborato dall’economista William H. Beveridge, nel dicembre del 1942, per conto del governo inglese, di cui era apprezzato consulente, anche per il suo ruolo di direttore della prestigiosa London School of Economics and Political Science, a costituire la magna carta del odierno Welfare State . Dichiarato obbiettivo finale del Rapporto Beveridge, allo tesso tempo utopista e/o messianico (per la esplicita ispirazione socialista e evangelica), ma anche storicamente e politicamente impellente, per l’esigenza di una generale convinta mobilitazione per abbattere il Nazifascismo e impedirne nel futuro qualsiasi rinascita, è la sconfitta dei “cinque giganti che tengono schiava l’umanità: il bisogno, la malattia, l’ignoranza, la miseria e l’ozio” .
Seguono una serie di leggi, l’Education Act (scuola dell’obbligo fino a 15 anni del tutto gratuita e forte sostegno ai giovani capaci, privi di mezzi per completare gli studi superiori), del 1944, e, successivamente, con il nuovo governo laburista di Clement Attlee, il National Insurance Act e il National Assistence Act, che realizzarono a un sistema assicurativo e pensionistico avanzatissimo e a un efficiente servizio sanitario pubblico, il mitico National Health Service. Se si tiene conto della contemporanea nazionalizzazione dei trasporti, di tutte le fonti energetiche e dell’industria siderurgica, nonché dell’esistenza di un vasto patrimonio abitativo pubblico, si comprende come la Gran Bretagna, più che la periferica Scandinavia e la lontana Nuova Zelanda, nel Secondo dopoguerra, sia diventata il punto di riferimento obbligato, quasi un modello insuperabile di Welfare State . Anche se – lo ha notato uno storico inglese, autore della più nota sintesi sulla storia del Novecento, Eric Hobsbawm – in Inghilterra, a differenza di quanto avvenne in altri paesi, come la Francia, l’Italia e la stessa Germania federale, non fece presa l’ideologia e la pratica pianificatrice e programmatrice .
La Gran Bretagna è stata anche il paese dove, anticipatamente, con il passaggio dal Welfare dell’austerità posbellica alle sfide della società opulenta, si sono manifestate le derive dello Stato sociale con i suoi costi crescenti, i suoi effetti perversi sui conti pubblici e la conseguente  pressione fiscale. E’ il primo paese in cui, negli anni Ottanta, con i governi della lady di ferro, Margaret Thatcher, si è pensato di ridare efficienza e slancio al sistema produttivo attraverso le privatizzazioni e di uscire dalla crisi fiscale con il ridimensionamento del sistema assistenziale e previdenziale.
Su questo terreno, nell’ultimo decennio del nostro secolo declinante, pur nel nuovo contesto di prevalenti governi di centrosinistra in Europa, la politica avviata da Margaret Thatcher continua ad essere nella sostanza perseguita, sia pure con maggiore circospezione. Per intanto, già nei primi anni Settanta, il sociologo americano O’Connor aveva dimostrato come la crisi fiscale dello Stato, con la conseguente sempre più forte contraddizione tra le esigenze di accumulazione e quelle di legittimazione, è presente in tutti i paesi a capitalismo maturo .
Al di là delle storture dello Stato sociale-assistenziale, occorre tenere presente, per comprendere i suoi costi crescenti, che il peculiare sviluppo demografico di questi ultimi decenni, con l’innalzamento della vita media, con la drastica riduzione della natalità, ma anche, in paesi come l’Italia, con la contrazione degli occupati, è cresciuta enormemente la spesa per le pensioni e per l’assistenza sanitaria . E’ maturata, inoltre, la consapevolezza della doverosità e della necessità di nuove solidarietà: quella tra le generazioni di oggi e di domani, nonché quelle, strettamente connesse, tra gli uomini e la natura, tra il Nord e il Sud del mondo.
In quest’ottica lo Stato sociale, che ha rappresentato una delle grandi conquiste di civiltà dell’età contemporanea, va certamente ripensato, ma non per essere smantellato, bensì per essere ulteriormente esteso e rilanciato, con l’intervento generoso e previdente delle istituzioni pubbliche e il creativo self help, mutuo soccorso, anche attraverso la valorizzazione delle potenzialità del terzo settore, dei diretti interessati alla sua conservazione .   

 

di Carlo Felice Casula

Per una visione d’insieme cfr. P. Flora, A. J. Heidenheimer (a cura di ), Lo svilppo del  Welfare State in Europa e in America, Il Mulino, Bologna 1983.

Sulle vicende dello Stato sociale italiano, sulle sue vicende, sulle sue peculiarità e sulla sua diffusa percezione negativa di capitalismo assistenziale, cfr. U. Ascoli (a cura di), Welfare State all’italiana, Laterza, Roma-Bari 1984. 

Cfr. G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Laterza, Roma-Bari 1991.

Su queste due costituzioni della Europe nouvelle, per usare la definizione del noto costituzionalista Mirkine Gutzevich, e, più in generale sulle revisioni costituzionali del primo dopoguerra, cfr. M. Toscano, Le costituenti europee postbelliche 81918-1931), Sansoni, Firenze 1946.

Cfr. R. Aron, The Imperial Republic: The United Nations and the World, 1945-1973, Prentice-Hall, New York 1974.

F. Girotti, Welfare State. Storia, modelli, critica, Carocci, Roma 1998.

Per un approccio storico, cfr. B. Geremek, La pietà e la forca . Storia della miseria e della carità in Europa,  Laterza, Roma-Bari 1986; per un approccio filosofico, cfr. F. Rodano, Lezioni su servo e signore, Editori Riuniti, Roma 1990.

La categoria di classi laboriose e classi pericolose è stata codificata da L. Chevalier, Classi laboriose e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale, Laterza, Roma-Bari 1976.

Cfr. J. Alber, Dalla carità allo Stato sociale, Il Mulino, Bologna 1987.

Non è un caso che di queste anomale istituzioni  totali, si parli a lungo nel volume di M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1969.

Cfr. P. Deane, La prima rivoluzione industriale, Il Mulino, Bologna 1971.

Cfr. E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Il Saggiatore, Milano 1969.

Un quadro d’insieme in S. Eisenstadt, S. Rokkan (a cura di), Building States and Nations, Sage, Beverly Hills 1974.

Sulla vicenda dello Stato moderno, dalla fondazione alla realtà attuale, cfr. G. Poggi, Lo Stato. Natura, sviluppo, prospettive, Il Mulino, Bologna 1992.

L’evoluzione del trinomio liberté-egalité-fraternité, nel contesto dello sviluppo storico del capitalismo, è ricostruita da P. Vilar, Le parole della storia, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 262-305.

Cfr. J. D. Reynaud, I sindacati francesi. Dall’anarcosindacalismo al governo delle sinistre, ed. italiana a cura di C. F. Casula, Edizioni Lavoro, Roma 1982.

Il 1848 è stato presentato come la rivincita della Rivoluzione e come definitiva affermazione della borghesia. Cfr. al riguardo E. J. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi, Il Saggiatore, Milano 1971. Completamente diversa la tesi, implicita già nel titolo del libro, sostenuta da A. Mayer, Il potere dell’Ancien Régime fino alla Prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1982.

Cfr. M. Agulhon, 1848 ou l’apprentissage de la République (184-1852), Seuil, Parigi 1992.

Per una visione d’insieme, cfr. D. S. Landes, Prometreo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai nostri giorni, Einaudi, Torino 1978.

Cfr. P. Pombeni (a cura di), La trasformazione politica nell’Europa liberale 1870-1890, Il Mulino, Bologna 1986.

Una stimolante sintesi del periodo in M. Beaud, Storia del capitalismo, Edizioni Lavoro, Roma 1984, pp. 119.147.

Cfr. H. U. Wehler, L’impero guglielmino 1871-1918, De Donato, Bari 1981.,

Cfr. E. H. Norman, La nascita del Giappone moderno. Il ruolo dello Stato nella transizione dal feudalesimo al capitalismo, Einaudi, Torino 1967.

Cfr. D. Werth, Storia della Russia, Il Mulino, Bologna 1995.

  Cfr. A. M. Banti, Storia della borghesia italiana. L’età liberale, Donzelli, Roma 1996.

Cfr. S. Pollard, Il sogno di Robert Owen: mito e realtà. Le origini della cooperazione in Gran Bretagna, Bulzoni 1992.

Cfr. Parkin, Disiguaglianza di classe e ordinamento politico, Einaudi, Torino 1976.

W. J. Mommsen, L’età dell’imperialismo, Feltrinelli, Milano 1970.

Per quanto concerne specificamente il caso italiano. Cfr. G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana. 1861-1993, Il Mulino, Bologna 1996.

Cfr. A. Acquarone, L’Italia giolittiana, Il Mulino, Bologna 1988. Sul tema specifico, in particolare, G. Melis, Burocrazia e socialismo, Il Mulino, Bologna 1980.

K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 1974,  p. 297.

T. H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, UTET, Torino 1976, p. 23.

K. Polanyi, La grande trasformazione, cit.

  Il giudizio è di P. Rosanvallon, La crisi dello Stato assistenziale, Marsilio, Venezia 1982..

Cfr. T. W. Mason, La politica sociale del Terzo Reich, De Donato, Bari 1980.

Cfr. A. Natoli, S. Pons, L’età dello stalinismo, Editori Riuniti, Roma 1991.

Un Keynesiano militante, come Federico Caffè, prima della sua misteriosa scomparsa, ha scritto un provocatorio saggio, sostenendo che le posizioni sull’ineluttabilità della  fine del Welfare State, costituivano una sorta di riedizione del crollismo. I saggio è pubblicato in E. Fano, G. Marramao, S. Rodotà (a cura di), Trasformazione e crisi del Welfare State, De Donato, Bari 1983.

Una stimolante riflessione al riguardo, precedente il rivolgimento del 1989, è stata compiuta da Marc Ferro in un succinto saggio, Penser le Communisme, comparso nel volume collettaneo, Penser le XX siecle, a cura di A. Versaille, Editions Complexe, Parigi 1990

Lo ha riconosciuto uno dei più noti studiosi dell’argomento. Cfr. R. M. Tittmus, Saggi sul Welfare State, Edizioni Lavoro, Roma 1986.

Cfr. N. Timmins, The Five Giants, Fontana Press, Londra 1995.

Cfr. H. Heclo, Modern Social Politics in Britain and Sweden, Yale University Press, New Haven 1974.

E. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1995.

J. O’Connor, La crisi fiscale dello Stato, Einaudi, Torino 1977.

Cfr. V. Cotesta (a cura di), Il Welfare italiano. Teorie, modelli e pratiche dei sistemi di solidarietà sociale, Donzelli, Roma 1995.

Cfr. G. Esping-Andersen, Risposte alla crisi del Welfare State: ridurre o trasformare le politiche sociali, Angeli, Milano 1986.

Fonte: http://host.uniroma3.it/docenti/casula/_private/Stato%20SocialeII.doc

Sito web da visitare: http://host.uniroma3.it/

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