Storia diritto romano riassunto

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Storia diritto romano riassunto

 

 STORIA DEL DIRITTO ROMANO

 

INTRODUZIONE
Ogni società si pone un proprio ordinamento per organizzarsi. Il diritto romano rappresentava la più alta espressione dell’ Impero romano. Il diritto romano si è sviluppato, dalle prime organizzazioni di genti e villaggi all’ organizzazione e alle vicende di un vasto impero. I limiti temporali della storia del diritto romano vanno dalle origini di Roma sino a Giustiniano (perché l’ opera di Giustiniano rappresenta una sintesi, una conclusione, e insieme il fondamento di tutta un’ altra fase della vita del diritto romano). In questo sviluppo si possono segnare diverse fasi.
Vi sono due crisi che rappresentano delle svolte nello sviluppo della società romana : una che può collegarsi alla vittoria di Roma su Cartagine (II sec. a.C.), l’ altra nel III sec. d.C., alla morte di Alessandro Severo (a. 325).
La prima è una crisi di sviluppo nel passaggio da un popolo di agricoltori soldati alla dominazione del Mediterraneo con l’ organizzazione di un vasto impero; crisi di sviluppo che investe tutti gli aspetti del diritto. Vi sono infatti forti scosse nell’ apparato delle istituzioni politiche che risultano inadeguate alle nuove funzioni sociali. La crisi delle istituzioni investono e portano al tramonto della costituzione c.d. repubblicana attraverso tentativi di trasformazione o restaurazione; il diritto privato invece in questo periodo riceve un impulso e si sviluppa.
Il carattere e il valore delle fonti di cognizione della storia di Roma varia secondo i periodi. Abbiamo tutti elementi che rendono difficile e malsicura la ricostruzione storica. Bisogna distinguere nelle fonti di cognizione, e cioè tra fonti tecnicamente giuridiche e fonti extragiuridiche; le prime, sia che siano documentazioni dirette di atti o norme giuridiche, sia che siano espressioni di giuristi, richiedono tutto un lavoro critico di accertamento della loro entità; le fonti extragiuridiche invece debbono anche essere vagliate nella loro attendibilità sostanziale, alla stregua della conoscenza che il loro autore possiede del diritto.

 

CAPITOLO I – I PROBLEMI DI ORIGINE
Roma si presenta nella storia come una città-stato, o civitas, come un’ organizzazione di uomini liberi e partecipi alla vita e alla difesa della città, contrapposta alle grandi monarchie e ai Regna dove tutti erano livellati come sudditi.
La leggenda ci racconta di Romolo, latino, di stirpe reale albana, che da alla città, nel VIII sec. a.C., la sua fondamentale organizzazione : la distribuzione in tre tribù (i Ramnes, i Tities, i Luceres), i comizi curiati (30 curie, 10 per tribù), il senato composto da 100 membri (in seguito da 300), la distinzione tra patrizi e plebei.
Ma cosa preesisteva a questa città-stato, alla civitas sopra descritta?
Senz’ altro gruppi minori rispetto alla civitas, e cioè familiae e gentes.
La famiglia romana ha delle proprie caratteristiche tipiche. Essa costituiva un vero e proprio organismo politico, per cui :

  • la famiglia romana era soggetta ad un capo, il pater familias; l’ appartenenza alla      famiglia era determinata oltre che dalla nascita nei confronti del padre, da modi particolari di assunzioni di essa (l’ adrogatio con cui un pater diventa filius familias in un’ altra familia);
  • il potere del pater è vitalizio in quanto giunge al ius vitae et necis (diritto di vita e di morte);
  • il potere del pater consiste in una serie di potestà e di diritti nei riguardi delle persone e delle cose (potestas per i figli, manus per la moglie e mancipium per i figli servi);
  • l’ uscita da una famiglia si qualificava come capitis deminutio (minima);
  • carattere che assumono i sacra familiari nella concezione religiosa dell’ antichità.

 

Al di sopra della familia troviamo un gruppo più vasto, la gens. Si è affermata una teoria gentilizia che fa della gens, come della familia, un organismo anteriore alla civitas, teoria che presenta anche la gens, come un organismo politico, cioè come un organismo rispondente ai fini dell’ organizzazione politica.
Quali sono i rapporti tra gens e familia, quale la struttura originaria della gens, quali i rapporti di gens e familia con la civitas?
Partiamo da alcune considerazioni :

  • la familia, alla morte del pater, si scinde in tante famiglie quanti sono i filiifamilias che diventano sui iuris; in epoca avanzata però i filii solevano restare uniti in un consortium in cui ciascuno dei partecipi possedeva pieno il potere di disposizione sui beni comuni;
  • accanto alla familia proprio iure, composta dal pater e dalle persone soggette  alla sua potestà, si parla a Roma di familia communi iure, ossia di coloro che sarebbero uniti sotto la potestà dello stesso pater se questo non fosse morto, che restano uniti dal vincolo dell’ agnazione;
  • al di là degli agnati e della familia communi iure, sta la gens, cioè i gentili, che secondo le disposizioni successorie raccolgono il patrimonio del defunto quando manchino eredi testamentari o non vi sia l’ adgnatus proximus. Anche nella gens abbiamo un capostipite comune, un eroe. La gens può essere considerata come un aggregato territoriale di familiae.

 

La familia era quindi l’ unità più elementare, le familiae dovevano sentire fra loro un’ unità e un affratellamento che poteva collegarsi a vincoli di una comune origine.
La civitas è quindi preceduta dalla fase gentilizia. Alla fase gentilizia va ricollegato anche l’ istituto della clientela, e del patronato sui clienti. Accanto ai gentiles, ai signori, vi erano i vassalli, detti clientes, che si trovavano sotto la protezione del patrono, affidati alla fides di lui, solevano ricevere in concessione delle terre, e avevano verso il patrono particolari doveri di obsequium, di officium, di pietas e di prestazione di operae; ne ricevevano protezione e assistenza. I clienti sono partecipi delle guerre e dei sacra delle gens, più tardi si riuniranno nelle curie coi membri delle gens.
La clientela traeva origine o dalla deditio (sottomissione di un gruppo al potere della gens) o dalla applicatio (affidamento di un estraneo alla protezione del gruppo) ; meno antica è la manumissio (liberazione) di schiavi.
Secondo la teoria gentilizia, così come la familia, anche la gens è retta da un pater gentis; gli avversari di questa teoria invece sostengono che la gens non aveva capi. Si parla poi di princeps gentis per indicare non un organico capo, ma un fondatore della gens.
La gens è quindi un raggruppamento di famiglie e per questo può essere intesa come un insieme di organismi politici, volti a ordinare la coesistenza e la convivenza, l’ espansione e la difesa di tutte queste famiglie. La gens scompare con lo sviluppo della civitas.
Oltre a familiae e gentes abbiamo anche delle forme federative. Si tratta di federazioni o anche organizzazioni più vaste di stirpi non organizzate a città (ad es. i Sanniti).
Tutte le notizie sulle origini di Roma ci riportano ai Latini. Anche per i Latini abbiamo notizia di una confederazione, di una lega latina, di un’ antica unità religiosa.
Verso la fine del VI sec. troviamo i Latini alleati contro Roma. Dopo la battaglia abbiamo Roma e i Latini con parità di diritti. Circa l’ organizzazione dei Latini si parla di assemblee federali, di un comando unico dell’ esercito, di un dictator Latinus e di due magistrati detti praetores.
La tradizione  riporta la Roma primitiva alla città del Palatino, che conservava il nome di Roma quadrata. Una tradizione antichissima ci rivela l’ esistenza di una lega sacra tra villaggi, che deve essere anteriore alla città del Palatino. Le ragioni che hanno indotto i villaggi del Palatino a chiudersi in città sono state essenzialmente di difesa. Con questa delimitazione della città del Palatino si è iniziato il processo della formazione della città da quel complesso di piccole comunità che erano disseminate sui colli.
La città-stato rispetto alle varie forme federative descritte prima, presenta un più saldo valore di unità, caratterizzato dalla sua delimitazione, dalla sua organizzazione politica e dal potere del capo. Possiamo dunque scorgere la configurazione di quella società che noi chiamiamo Stato. La funzione originaria della civitas era la difesa e l’ offesa all’ esterno, e, all’ interno, la salvaguardia della civitas stessa (difesa della pace pubblica).
La gens scompare in favore della civitas anche se i caratteri della familia persistono.
Vi è un ordinamento giuridico familiare riconosciuto dal ius civile, e vi è anche un ordinamento interfamiliare a cui si da il nome di ius, che riguarda i rapporti che si creno nella vita dei gruppi, nei loro incontri, tra le familiae.

 

CAPITOLO II – LA MONARCHIA LATINA ED ETRUSCA
Roma ha attraversato un periodo monarchico. La tradizione presenta sette re e la distinzione tra due fasi, una prima fase latina e una seconda fase di dominazione etrusca. Qualcuno sostiene che la città sia stata fondata solo con la dominazione degli Etruschi che avrebbero sottomesso gli sparsi villaggi preesistenti; le popolazioni latine sottomesse avrebbero costituito la plebe, e la vittoria di questa nella lotta per la parificazione dei due ordini avrebbe rappresentato la rivincita dell’ elemento latino.
L’ imperium del magistrato latino deriva dagli Etruschi, così come le fortificazioni della città, mentre i primi ordinamenti politici sono di origine latina, cioè delle popolazioni italiche indoeuropee.
Lo scopo della città era quello di creare un’ unità di una pluralità di villaggi attraverso la delimitazione e la fortificazione (difesa). L’ unità della città doveva trarre origine dal potere di un rex stabile. Potere del re e organizzazione gentilizia costituiscono così i caratteri fondamentali di una comunità cittadina. Segue quindi lo sviluppo, sia territoriali che degli ordinamenti politico-militari della Roma monarchica in un succedersi di diverse fasi, fino a quella della prevalenza etrusca.
Abbiamo una città all’ interno della quale emerge una figura centrale, il rex, che agisce sulla base di un potere personale.
Vi sono diverse fasi, una delle quali riguarda la contrapposizione tra monarchia e repubblica in cui lo stato si incarna nel popolus organizzato.
Il re era unico e vitalizio. Alcune fonti parlano di periodi transitori di regno a due, che potrebbero ricollegarsi a periodi di estensione della città, ma potrebbero essere puramente un’ invenzione.
Il re aveva potere militare e potere religioso, poteri volti a mantenere e conservare l’ unità cittadina.
Quanto alla nomina del re si parla sia di principio elettivo che di principio ereditario; nella fase monarchica vi era una designazione da parte del predecessore. Il re riceveva poi l’ atto di sottomissione delle curie, seguiva l’ approvazione e investitura divina attraverso l’ inauguratio (augurio di buon regno).
La tradizione ci parla anche di ausiliari del re, si parla di :

  • duoviri perduellonis e quaestores paricidii: che cooperano nella giurisdizione

                                                                       criminale;

  • praefectus urbi : che esercita i poteri del re in assenza di questo;
  • tribunus militum : con compiti militari.

I cardini della costituzione romana sono : la magistratura, il senato e il popolo. Il re ha preceduto la magistratura. Il senato formava il consiglio del re. Era scelto dal re, fino a che la nomina fu deferita ai censori. I senatori erano detti patres, con la distinzione tra patres maiorum e minorum gentium. Nell’ interregnum (vacanza del re) l’ auspicium ritornava ai patres che esercitavano ciascuno il potere per cinque giorni.
Il senato aveva funzione consultiva nei riguardi del magistrato (senatoconsulti). Vennero poi ammessi anche i plebei, ma alcune funzioni (ad es. l’ interregnum), rimasero riservate ai soli senatori patrizi.
La più antica forma di assemblea popolare è quella dei comitia curiata. La tradizione attribuisce a Romolo la distribuzione del popolo in curie (dieci per ciascuna delle tre tribù, Tities, Ramnes, Luceres). I Roman facevano derivare il nome dei Tities da Tito Tazio, dei Ramnes da Romolo e dei Luceres da Lucumone. La divisione nelle tre tribù è abbastanza antica. Nell’ ordinamento centuriato, fra le centurie dei cavalieri ve ne erano sei, dette le sei centurie, ed erano formate da patrizi. Nelle città quindi le curie si presentano distribuite nelle tre tribù; le curie si inseriscono nell’ organizzazione cittadina nello sviluppo e nell’ assestamento di un esercito.
Parliamo ora della lex curiata (de imperio), essa sopravvive in epoca storica, ma segue all’ elezione dei magistrati da parte dei comizi centuriati. Poiché come abbiamo già detto la successione del re doveva avvenire attraverso la designazione dell’ interrex, l’ atto delle curie si svolgeva nei confronti del re così designato; era l’ atto di sottomissione al nuovo re, fatto attraverso le curie, che si presentava come assunzione del comando da parte del re.
La tradizione fa risalire ai re una serie di leges, le leges regiae. Dionigi di Alicarnasso ci dice che era l’ assemblea che aveva il compito di eleggere il re, di approvare le leggi e di decidere la guerra. Si parla di una raccolta di queste leggi, compiuta da Papirio, da qui il nome di ius Papirianum. Il contenuto di queste leggi è chiaramente di carattere e fondamento religioso, si tratta di principi conservati nella tradizione pontificale che possono risalire all’ età monarchica dove il rex era anche capo religioso.
Davanti alle curiae si compivano anche gli atti fondamentali nelle vicende delle familiae: si faceva in epoca primitiva il testamentum (sostituito poi dal testamento di fronte all’ esercito); si faceva poi la detestatio sacro rum, cioè la rinuncia ai culti familiari; si faceva l’ adrogatio, cioè la sottomissione di un paterfamilias ad un altro paterfamilias.
L’ organizzazione delle curie serviva anche di base al primitivo ordinamento militare; durante l’ età regia la forza militare di Roma era composta da una legione di trentamila fanti, divisi in trenta centurie, e di trecento cavalieri, di cui mille fanti e cento cavalieri per ciascuna delle tre tribù.
All’ antica fase latina risalgono i due più importanti collegi sacerdotali romani, quello dei pontefici e quello degli auguri.
Il nome pontefici deriva da pontem facere (fare, gettare un ponte), da qui l’ analogia con il ponte, considerato elemento vitale e prezioso. Nella fase più antica essi si presentavano come esperti del complesso sacro, col compito di suggerire alla collettività, ai capi e ai privati, il modo di soddisfare gli obblighi religiosi e di conservare quindi la pax deorum. Essi controllavano così il culto pubblico e privato, e attraverso questo la vita pubblica, inoltre erano i depositari della sapienza giuridica, più particolarmente di quei formulari del ius che riguardano le controversie tra privati. Essi dunque rappresentavano un limite al potere del re sacerdote, che doveva inchinarsi alla loro sapienza. Il pontefice massimo era il quinto dopo il rex sacrorum e i tre Flamini maggiori, Dialis, Martialis e Quirinalis. Il pontifex maximus come presidente e rappresentante del collegio, ha usurpato ogni potere del rex sacrorum avendo la cura dei culti dello stato e la vigilanza degli atti connessi alla vita religiosa. Per la nomina dei pontefici rimase la cooptatio fino a che una legge Domitia del 104 a.C. vi sostituì l’ elezione popolare; fino al 300 a.C. i pontefici furono cinque.
Sono antiche anche le origini degli auguri (veggenti dello stato) che acquistarono anch’ essi grande autorità. La loro competenza consisteva soprattutto nell’ interpretazione degli auspici. Per i Romani gli auspici erano molto importanti e quando vi erano dei dubbi sulla loro interpretazione, si ricorreva agli auguri.
Antico è pure il collegio dei Feziali, che si occupavano delle tradizioni circa il modo di fare i trattati, le dichiarazioni di guerra ecc., una sorta di diritto internazionale.
Come veri e propri sacerdoti ufficiali, nominati dal re, si presentavano i Flamines, i Salii e le Vestali; i Flamines erano quindici, sono noti i nomi dei tre maggiori, il diale, il marziale e il quirinale.
Questi sono tutti gli istituti essenziali che si riportano alla prima fase della monarchia, quella formata da genti latine. Il complesso di fatti che portano all’ organizzazione di Roma sembrano più che frutto di un’ organizzazione spontanea, frutto di disposizioni che provengono dall’ alto. La città si afferma tramite l’ affermazione del potere di un capo.
Per ciò che riguarda la fase etrusca, la loro influenza è certa visto che essi nel sec. VI dominarono il Lazio. La tradizione con i due Tarquinii, ci raffigura un seguito di vicende, che alterna la rappresentazione dell’ imposizione di un potere, avente il centro e fondamento di carattere militare, e la visione di una profonda opera di riorganizzazione che è raffigurata in primo piano nelle riforme attribuite a Servio Tullio. I Romani derivarono dagli Etruschi i segni esteriori dell’ imperium del magistrato; l’ origine etrusca dei littori viene affermata dalla tradizione romana. Etruschi erano i segni di regalità, come il trono d’ avorio e la toga purpurea; etrusca era anche l’ usanza che collegava al trionfo il sacrificio dei prigionieri. La dominazione etrusca accentua quindi il potere regio, il potere militare, l’ imperium dei magistrati, un rafforzamento dell’ organizzazione della civitas. La dominazione etrusca inoltre ha lasciato numerose impronte nelle costruzioni, nelle fortificazioni e nella difesa, nella costruzione del tempio, nella disciplina degli auspici, nello sviluppo e nell’ organizzazione militare.
L’ elemento etrusco in Roma è legato a quei re etruschi che dominarono la città e vi regnarono; in questa fase etrusca Roma acquista una posizione dominatrice, esi pongono dei termini fondamentali, essenziali per un ulteriore sviluppo costituzionale, elementi che persistono anche con l’ abbattimento della dominazione etrusca.

 

 

CAPITOLO III – IL PASSAGGIO DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA
La leggenda narra che l’ ultimo Tarquinio (il Superbo), sarebbe caduto intorno al 510 a.C e si sarebbe poi instaurato un nuovo ordine, un ordine repubblicano. Si parla di una caduta violenta della monarchia e di un’ instaurazione rivoluzionaria del nuovo ordine repubblicano con le sue istituzioni compreso il consolato. Si forgia un nuovo concetto di magistratura, con la creazione della magistratura suprema, che ha i caratteri dell’ unicità, durata vitalizia, illimitatezza di potere. I due magistrati supremi (eletti dai comizi centuriati), furono chiamati prima pretores (da praetor, che va in testa all’ esercito) più tardi iudices, e poi consules. Il sistema ha funzionato fino al 452, con la variante che in caso di guerra si attribuiva un potere illimitato (con un limite di durata massima di sei mesi), ad un magistrato unico, il dictator, assistito da un magistrato inferiore, il magister equitum. Nel 451 e nel 450 si sospende la magistratura e viene conferito il potere supremo a due collegi di decemviri, a cui sarebbe dovuta la legge delle XII Tavole. Il tentativo di Appio Claudio, capo dei decemviri, di instaurare la tirannide, provocò una nuova rivolta, con la restaurazione del consolato.
La lotta fra patrizi e plebei turbò però il regolare funzionamento di quest’ ordine; dal 444 al 368 si rinunciò alla nomina dei consoli, dando la piena potestà consolare ai tribuni militum (comandanti dei diversi battaglioni della legione). Nel 367 si raggiunse l’ accordo per cui uno dei consoli doveva essere plebeo e il consolato fu definitivamente ristabilito; si sarebbe poi creato un terzo praetor, collega minor, dei due consoli, che aveva la funzione di restare in città ad esercitare la giurisdizione, magistrato a cui poi rimase il nome di praetor, mentre i due colleghi maggiori furono detti consoli.
Il tentativo della leggenda di attribuire alla rivoluzione la trasformazione istituzionale, da monarchia a repubblica, non merita credito. Si parla invece di un processo storico più graduale, in cui tra l’ altro, anche dopo l’ instaurazione della repubblica si conservò il nome puro e semplice di rex.
La dominazione etrusca subì dei colpi che la indebolirono, così che i re latini e più in generale le genti latine approfittarono di questa debolezza per cercare di rimettere al potere le antiche istituzioni che erano state soffocate dalla dominazione etrusca.
L’ abbattimento della tirannide etrusca non significò l’ espulsione di tutti gli etruschi, infatti non mancano tracce, sia pure scarse, della permanenza degli Etruschi. Da ricordare che in alcuni campi i Romani avevano tratto dagli Etruschi elementi positivi di civiltà, che riguardavano la stessa struttura cittadina.
Possiamo analizzare le tappe di questa trasformazione costituzionale :

  • un ponte è costituito dalla dittatura : la dittatura risalirebbe ai primi tempi della repubblica; il dittatore è magistrato unico e con potere illimitato; il dittatore è nominato da uno dei consoli;
  • i tribuni militum consulari potestate ossia i tribuni militari investiti del potere consolare;
  • altro elemento, che può collegarsi alla magistratura a due, è quello del passaggio dall’ esercito di un’ unica legione all’ esercito su due legioni;
  • vi è poi la restaurazione del 367 accompagnata dalla creazione di un terzo praetor, collega minor, dei due consoli, cioè dei due praetoris.

 

Possiamo delineare delle tappe generali : lo svuotamento del potere militare e civile del rex è avvenuta ad opera di comandanti militari, probabilmente prima a lui subordinati; la distribuzione del comando fra i tribuni militum; il conflitto tra patrizi e plebei; nel 367 la stabilizzazione definitiva del consolato come magistratura collegiale suprema, cui si pone affianco il terzo praetor (collega minor). Abbiamo poi visto come la cacciata degli Etruschi contribuito a determinare questo processo di svuotamento del potere regio.
Elemento fondamentale della costituzione repubblicana è l’ organizzazione militare e politica del popolo. I cardini di questa costituzione sono la distribuzione per tribù territoriali e l’ ordinamento centuriato : la tradizione attribuisce il tutto a Servio Tullio.
Vediamo le tribù territoriali. Le vecchie tribù dei Tities, dei Ramnes e dei Luceres non soddisfavano più le esigenze di un esercito adatto agli sviluppi e alle guerre di Roma. Il territorio dello Stato venne così distribuito in tribù territoriali; esse ricavavano il proprio nome da quelli di antiche gentes stanziate nella zona. Nel riordinamento, che avveniva per scopi militari e tributari, venivano determinati con precisione i limiti delle circoscrizioni, e venivano iscritti nelle tribù tutti i proprietari fondiari fino alle più piccole misure. Il numero delle tribù andò crescendo con l’ estensione del territorio romano, ed arrivò al numero definitivo di 35 nel 241 a.C. .
Si affermò una distinzione fra le quattro tribù che furono dette urbane (la Palatina, la Collina, la Esquilina e la Suburana) e le altre tribù dette rustiche.
Parliamo invece ora dell’ organizzazione militare. Abbiamo già detto che l’ esercito cittadino era formato da tremila fanti, in tre corpi da mille uomini, di cui ciascuno formato di dieci centurie, fornite di dieci curie. I criteri che stanno alla base dell’ ordinamento centuriato consistono nella valutazione del patrimonio (in base alla quale si determinano le classi) e dell’ età : il primo si collegava con la possibilità di procurarsi l’ armamento, il secondo con l’ efficienza militare. Si distinguevano 5 classi, di cui la prima forniva alla fanteria 40 centurie di iuniores e 40 di seniores, la seconda, la terza e la quarta, 10 di iuniores e 10 di seniores, mentre la quinta 15 di iuniores e 15 di seniores (mentre le 18 centurie di cavalieri stanno fuori). L’ esercito da campagna era formato dalle centurie di iuniores; solo i contingenti delle prime tre classi possedevano l’ armamento di oplita (completo di scudo e corazza). Con le prime tre classi si raggiungono 60 centurie, per cui seimila uomini.
Nell’ ordinamento centuriato spiccava una distinzione della prima classe, i cui appartenenti si chiamavano classici, mentre quelli delle altre classi erano infra classem; venivano reclutati prima i possidenti più ricchi in modo che potessero armarsi a proprie spese.
CAPITOLO IV – LA PLEBE E IL CONFLITTO FRA I DUE ORDINI
Lo sviluppo della storia costituzionale, politica e sociale di Roma in questo periodo, è caratterizzato dal conflitto fra patrizi e plebei, conflitto che viene superato con la vittoria dei plebei e con il raggiungimento e l’ assestamento della costituzione repubblicana.
Quali erano le differenze tra patrizi e plebei?
Una prima differenza riguardava la nazionalità, in rapporto alle diverse stratificazioni di conquistatori, ossia i Latini, i Sabini e gli Etruschi. Alcuni ritengono plebei i Latini etruschizzati e patrizi i Sabini, altri plebei i Latini e patrizi gli Etruschi, altri ancora plebei i Sabini e patrizi i Latini… questa varietà di tesi mostra la debolezza di una differenza fondata sull’ etnia.
La plebe sembra apparire come una comunità a se, con un proprio ordinamento, le proprie divinità, il proprio culto, le proprie sedi, e con il divieto di connubio tra patrizi e plebei. Si è congetturato che il nucleo originario della plebe fosse costituito da un comune autonomo sull’ Aventino. La plebe si identifica con un elemento latino, con un santuario sull’ Aventino, luogo che ricorda la plebe. Nella plebe confluiscono tutto un complesso di immigrati per varie ragioni; immigrati che si mettevano sotto la protezione del rex, ricevendo in concessione dei piccoli lotti di terreno, così da formare un ceto agricolo; artigiani, commercianti, una sorta di proletariato urbano.
È discusso se i plebei partecipassero ai comizi curiati. La teoria negativa viene oggi largamente avversata. I plebei partecipavano senz’ altro ai comizi curiati, in quanto partecipavano all’ organizzazione popolare e più nello specifico all’ organizzazione militare.
I plebei erano quindi un’ organizzazione distinta dai patrizi. La coesistenza dei due ordini era regolata da rapporti di convivenza che si presentavano spontanei, anche se si innestarono dei conflitti per l’ equiparazione dei due ordini. L’ arma estrema della plebe era la secessione; la prima secessione, avvenuta nel 494 a.C. porta alla nascita del tribunato della plebe; attraverso le leges sacratae la plebe assicurava con il proprio giuramento, l’ inviolabilità dei tribuni.
Il riconoscimento nella civitas dei plebei, sarebbe secondo la tradizione, avvenuto mediante un foedus, per cui si parla anche del concorso dei Feziali.
La plebe ha quindi dato origine al tribunato, e attraverso il giuramento difende l’ inviolabilità dei propri tribuni; la plebe si impegna e si preoccupa di difendere la regolarità delle proprie assemblee (cioè i concilia tributa) contro chi li turba.
I tribuni della plebe non potevano essere meno di dieci. Sul numero originario vi è molta incertezza, si parla in origine di due, poi quattro, poi cinque, per poi arrivare a dieci; ma questi dati non sono sicuri.
I tribuni venivano eletti nei concili tributi della plebe. Quanto al poter dei tribuni, essi avevano il compito di difendere la plebe, difesa di ogni singolo plebeo contro l’ imperium dei magistrati patrizi; i tribuni potevano fermare qualsiasi atto dei pubblici poteri (salvo alcuni) e così arrestare la macchina dello Stato. Il tribunato costituisce la costituzionalizzazione di uno strumento di lotta sociale. L’ intercessio (diritto di veto) rappresenta la caratteristica fondamentale del poter dei tribuni, poter che viene esercitato anche successivamente al superamento del conflitto tra patrizi e plebei. I tribuini in virtù delle loro funzioni, avevano il potere di multare, arrestare ecc.
Accanto ai tribuni troviamo gli edili della plebe, anch’ essi dichiarati inviolabili; essi erano i più antichi rettori-sacerdoti della plebe; avevano una posizione inferiore rispetto ai tribuni, fungevano da archivisti e da tesorieri della plebe, potevano essere delegati dai tribuni a qualche funzione (nettezza urbana, pompe funebri, sicurezza del transito, polizia dei mercati, celebrazione dei giochi sacri).
Accanto ai tribuni e agli edili abbiamo anche i iudices decemviri, ossia dei magistrati che avevano competenza nelle cause di libertà.
La lotta fra i due ordini si svolge quindi in campo economico, in campo sociale e in campo politico. Vi era lotta per la distribuzione e l’ assegnazione delle terre.

 

 

CAPITOLO V – LE TAPPE DEL PAREGGIAMENTO DEI DUE ORDINI
Dopo la restaurazione, riprende la lotta fra patrizi e plebei, che fissa i suoi obiettivi nell’ abolizione del divieto di connubio  fra patrizi e plebei, e nell’ accesso alla magistratura suprema.
Il primo obiettivo raggiunto dalla plebe è stato quello del divieto di connubio tra patrizi e plebei. L’ abolizione è avvenuta nel 445 a.C. per effetto di una rogazione del tribuno Canuleio.
Livio racconta che mentre Canuleio agitava la sua rogazione, gli altri tribuni cercavano di varare la riforma nel senso che i consoli potessero essere scelti dal patriziato e dalla plebe. Non si arrivò a tanto. In ogni modo, in seguito, attraverso il tribunato militare, alla plebe si è aperto l’ accesso alla magistratura suprema. Il numero dei tribuni militum varia nel tempo, prima erano tre, poi quattro e successivamente sei (in alcuni casi anche otto o nove).
Di un anno posteriore al tribunato militare con potestà consolare è la censura, che sorge nel 443. Era evidente l’ esigenza di un censimento che da molti anni non veniva più fatto. Attraverso il census venivano redatte delle liste dei cittadini. Vi furono delle incertezze nelle notizie circa la censura.
Nel 421 secondo la tradizione si sarebbero ammessi i plebei alla questura (nel 409 si ha un questore plebeo). Dal 400 troviamo dei plebei al tribunato militare con potestà consolare.
Dopo un periodo di lotte e anarchia, nel 367 a.C. furono approvate le rogazioni Licinie Sestie, presentate dai tribuni Licinius Stolo e Sextius Lateranus; l’ intercessione dei due tribuni provocò una vera paralisi, e per cinque anni, impedì addirittura l’ elezione dei magistrati, finchè nel 367, gli stessi tribuni, costantemente rieletti, trionfarono.
Si parla di più rogazioni :

  • de aere alieno : ossia che le usure pagate si computassero a diminuzione del                          capitale e che i debitori potessero soddisfare i propri creditori in tre rate annue uguali;
  • de modo agrorum : cioè che fosse vietato posseder più di 500 iugeri di ager pubblicus e di far pascolare sui terreni pubblici più di 100 capi di bestiame grosso e 500 di minuto;
  • de consule plebeio : cioè che ristabilito definitivamente il consolato, uno dei due consoli doveva essere plebeo.

 

Secondo il racconto di Livio, passate queste rogazioni, ed eletto il primo console plebeo nella persona di L.Sestio, i patres avrebbero dichiarato di negare l’ auctoritas alle deliberazioni comiziali. Ma per scongiurare il riscatenarsi di un grave conflitto, il dittatore sarebbe riuscito ad ottenere una soluzione con la creazione di u pretore, magistrato, munito anch’ esso di imperium, avente il compito delle iurisdictio in città. Così con l’ ammissione dei plebei al consolato si aveva la creazione di una nuova magistratura riservata ai patrizi.
Lo stabilizzarsi della costituzione avviene sulla base della magistratura di due consoli sullo stesso piano, di cui uno plebeo, cui si aggiunge un terzo praetor, collega minore dei due consoli; a questo terzo praetor spettava il compito della iurisdictio.
Il 367 segna una data fondamentale nella storia della costituzione romana. In quest’ anno fu creata, secondo la tradizione, un’ altra magistratura, l’ edilità curule (parallelo dell’ edilità plebea). All’ edilità curule furono poi ammessi anche i plebei; segue l’ ammissione dei plebei alla censura, alla dittatura, alla pretura.
Nel 300 a.C. una lex Ogulnia portò il numero dei pontefici e degli auguri da quattro rispettivamente a otto e nove, e stabilì che i nuovi posti spettavano ai plebei; più tardi anche i pontefici furono nove.
Nel 172 a.C. si ebbero due consoli plebei, e nel 131 due censori plebei.
Significativa per l’ affermazione dei plebei è l’ equiparazione dei plebisciti alle leggi. I plebisciti da leggi di organizzazione plebea divengono legge per tutto il popolo.
Con la conclusione del conflitto il rapporto fra patrizi e plebei sembra capovolgersi, il patriziato si riduce a un piccolo numero di gentes, mentre i plebei rappresentavano un organismo vivo dello stato sotto la direzione dei tribuni. Con il riconoscimento dei plebisciti il tribunato si completò dell’ iniziativa legislativa.

 

CAPITOLO VI – LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA : A) MAGISTRATURE
Attraverso la lotta fra patrizi e plebei la civitas ha raggiunto un assestamento, un equilibrio politico economico e sociale, che sfocia nell’ elaborazione di un ordinamento.
Il quadro sistematico della Costituzione è composto dalla magistratura, dal senato e dal popolo.
Per ciò che riguarda la magistratura si possono fare diverse classificazioni. Si possono individuare magistrature plebee, riservate ai plebei, e magistrature patrizie, riservate ai patrizi.
Ma una distinzione importante per ciò che riguarda le magistrature romane è quella fra magistrature ordinarie e magistrature straordinarie.
Si chiamano ordinarie quelle magistrature che si susseguono nella vita normale della civitas; alcuni aggiungono come requisito il carattere della permanenza, cioè che si rinnovino e seguano continuamente.
Sono invece straordinarie le magistrature che vengono create per circostanze eccezionali, come la dittatura, i decemviri legislativi, i tribuni militum consulari potestate.
Una distinzione importante è quella che tra magistratus maiores e magistratus minores; sono magistrature maggiori il consolato, la pretura, la censura fra le ordinarie; il dittatore, i decemviri legislativi, i tribuni militum consulari potestate, fra le straordinarie; sono minores l’ edilità curule e la questura.
Rientrava nei poteri e nelle funzioni dei magistrati della civitas il diritto degli auspicia, la consultazione della volontà divina per ricercarne il favore o meno agli atti della vita pubblica; gli auspicia dei dittatori, dei consoli, dei pretori, dei censori e di tutti i magistrati muniti di potestà consolare o pretoria, sono detti maxima, o maiora, mentre quelli dei questori e degli edili sono detti minora.
Una distinzione caratteristica fondamentale riguarda l’ imperium, che tecnicamente è riconosciuto solo ad alcuni magistrati.
L’ imperium è un potere che i supremi magistrati repubblicani hanno ereditato dal re, e precisamente dalla monarchie etrusca, di cui esso conserva i segni esteriori : potere sovrano, originario, unitario, che, nel significato fondamentale di comando che la parola reca in se, ha il suo fulcro nell’ imperio militare, ma fonde in questo i poteri propri delle funzioni di governo. Esso non è un potere delegato, spetta al magistrato in quanto tale, per la sua posizione rispetto alla civitas.
Esso ha la sua immediata espressione nel potere dei pretores consules; si presenta come un potere generale ed assorbente, comprimibile ed elastico ma non scindibile, cioè tale che non viene limitato ad una sfera di competenza. Quando fu creato il terzo praetor, come collega minor dei consoli, egli in concreto serviva per l’ esercizio della funzione giurisdizionale in città, e tale era la sua normale esplicazione, ma teoricamente egli, era investito della pienezza dell’ imperium.
L’ imperium veniva inquadrato e delimitato dallo sviluppo dell’ ordinamento costituzionale repubblicano; in particolare la provocatio ad popolum ha profondamente delimitato l’ esplicazione dell’ imperium nel supremo potere punitivo, così che si distingueva un imperium domi, che si esercitava entro il pomerio della città, e un imperio militiae fuori di quello.
L’ imperium storicamente spettava ai consoli, detti in antico pretores, ed al praetor (collega minor dei due pretores originari), e quindi ai successivi pretores che vi si aggiunsero.
Individuato l’ imperium per alcune magistrature, per tutte le altre si faceva capo al concetto di potestas : termine più generico ed elastico che talvolta designa, o almeno abbraccia, lo stesso imperium, più spesso vi viene giustapposto o contrapposto.
Il dittatore ha maior potestas rispetto al console, il console rispetto al pretore; mentre il censore resta al di fuori di questa valutazione; le magistrature maggiori munite di imperium hanno maior potestas rispetto alle magistrature minori, dei questori e degli edili.
Caratteristiche fondamentali delle magistrature repubblicane sono la temporaneità, la collegialità, la responsabilità finita la carica e la gratuità.
La temporaneità, la collegialità, la responsabilità finita la carica, sono i caratteri che contrappongono la magistratura suprema repubblicana, il consolato alla monarchia.
Il re era vitalizio, i consoli duravano in carica un anno.
Il re era unico, i consoli erano due, entrambi investiti della pienezza dell’ imperium, e come colleghi aventi par potestas. Ciascuno poteva quindi esplicare il pieno esercizio del governo, salva la facoltà del collega di fermarlo, mediante il veto, cioè l’ intercessio. Il consolato esprimeva quindi il carattere della collegialità, che importava l’ investitura piena del potere in ognuno dei colleghi, con il limite del veto, che derivava dal concorso.
Conseguenza della temporaneità era la responsabilità; i consoli erano inviolabili durante la carica; ma allo scadere di questa il magistrato ridiventava privato cittadino e rispondeva del modo in cui aveva gerito la magistratura e degli atti lesivi di diritti privati o dello Stato che avesse compiuto.
Questi caratteri contrappongono la suprema magistratura repubblicana al rex.
Esse di regola duravano un anno, salvo i censori che si nominavano ogni quinquennio e duravano in carica i primi 18 mesi del quinquennio, e il dittatore che poteva durare un massimo di sei mesi.
Alla collegialità delle magistrature repubblicane facevano eccezione il dittatore e il magister equitum.
Posizione particolare ha poi la pretura che, individuata come magistratura, si presenta come un magistrato unico.
Filo unitario fra le diverse magistrature è l’ intercessio; intercessio che si estrinseca in primo piano come azione contro tutti gli atti di governo, e quindi contro tutti i magistrati, è uno strumento di opposizione costituzionale.
L’ intercessio doveva essere opposta all’ atto a cui voleva togliere effetto, e quindi esservi legata anche da una connessione temporale.
Al di fuori della vera e propria intercessio, incontriamo spesso divieti opposti da magistrati aventi potestà maggiori (potere di polizia dei magistrati).
I magistrati potevano addirittura essere sospesi dall’ esercizio della magistratura. Misura più grave era il istitium, cioè la sospensione generale dell’ attività ordinarie delle altre magistrature, in primo piano, ma non esclusivamente, dell’ attività giurisdizionale. Era una misura straordinaria a cui si ricorreva solo per gravi circostanze (pericolo militare, festa, lutto), su editto del magistrato più elevato, munito di imperium, sentito il senato; ma esso poteva anche essere proclamato dal tribuno, in virtù dei suoi poteri.
Il magistrato con potestà maggiore poteva inoltre avocare a se il comitiatus, la contio, impedendo la convocazione ad opera del magistrato inferiore.
Abbiamo detto che l’ imperium era l’ espressione della potestà sovrana dello Stato, e che esso spettava ai magistrati che ne erano investiti come potere originario e unitario, derivato dall’ imperio del re etrusco. L’ ordinamento repubblicano lo ha inquadrato e delimitato.
Abbiamo detto anche della distinzione tra imperium domi (entro il pomerio della città) e imperium militiae (fuori dal pomerio della città), ( il limite è territoriale, non dipende dallo stato di pace o di guerra).
Entro il pomerio della città, l’ ordinamento ha opposto all’ imperium un complesso di limiti, primo tra i quali quello della provocatio ad popolum, che toglieva ai magistrati muniti di imperium le esplicazioni più gravi della coercitio e del potere punitivo, il diritto di infliggere la pena di morte. Al di là del pomerio (cioè oltre mille passi al di là del pomerio) venendo meno il limite, l’ imperium riprendeva la sua pienezza.
L’ imperium militiae inoltre portò un’ eccezione al limite della durata della carica; la scadenza era intesa con una certa elasticità, il comandante rimaneva tale finchè non giungeva il successore a sostituirlo. Su questo fondamento si affermò poi l’ istituto della prorogatio imperii (prolungamento del comando supremo).
Limite fondamentale dell’ imperium era abbiamo detto la provocatio ad popolum, considerata dai Romani come suprema garanzia costituzionale della libertà del cittadino. L’ istituto risale alle origini della repubblica. La provocatio fu introdotta nei confronti dell’ ordinaria esecuzione con la scure. La provocatio spettava solo al cittadino romano di pieno diritto, in quanto membro dei comizi, e quindi non si estendeva agli schiavi, agli stranieri, e in origine, neppure alle donne. Essa era ammessa soltanto in Roma e nei mille passi fuori dal pomerio (quindi entro l’ imperium domi, cui si contrappone l’ imperium militiae). In origine era esclusa la provocatio contro il dittatore, al quale fu estesa in seguito, il che però coincise con la decadenza della dittatura.
Il limite della provocatio ad popolum  fu esteso dalle tre leges Porciae; queste pur contemplando uccisione e verberatio (fustigazione), praticamente abolirono la verberatio per il cittadino romano; inoltre esse (oltreché sancire un obbligo del magistrato di permettere la fuga del reo onde evitare la condanna a morte), superarono il limite dei mille passi dal pomerio, ammettendo la provocatio dei cittadini anche nelle province, ed anzi anche dei soldati nei confronti del generale. Le leges Porciae inoltre introdussero una sanzione per i magistrati che avessero violato il divieto.
Nella pienezza dell’ imperium rientrava anche la iurisdictio, cioè l’ intervento del magistrato nelle controversie dei privati, nel senso di impostare e indirizzare la controversia alla risoluzione.
Quanto al rapporto far imperium e iurisdictio, la iuriscìdictio è senz’ altro un’ esplicazione dell’ imperium.
Tra le esplicazioni dell’ imperium abbiamo anche la coercitio, cioè la facoltà di usare misure coercitive e sanzioni dirette sulle persona e sul patrimonio; si va dalla condanna a morte, all’ arresto e imprigionamento, alla verberatio o altre afflizioni corporali, all’ irrogazione di multe, confische di beni, presa di pegni. Qust’ istituto ha carattere disciplinare ma è utile anche per la vera è propria repressione di gravi violazioni o lesioni della civitas. La coercitio spettava ai magistrati muniti di imperium. In larga misura se la attribuirono anche i tribuni della plebe. Invece agli altri magistrati non muniti di imperium fu riconosciuta solo una limitata coercitio incidente sul patrimonio, tipica la multa.
Le magistrature presentavano tutta una serie di segni esteriori che in parte derivavano dalla monarchia.
La magistratura era essenzialmente gratuita. I magistrati avevano alle loro dipendenze un personale retribuito.
I magistrati venivano eletti attraverso elezione popolare. Questo principio riguarda anche i magistrati ausiliari e delegati, militari e cariche sacerdotali. Le elezioni dei magistrati venivano fatte qualche tempo prima dell’ inizio dell’ anno di carica, di solito verso la metà dell’ anno precedente. I consoli eletti, fino all’ assunzione del potere, si chiamavano designati, e potevano compiere atti preparatori della futura gestione. Nel caso di morte o di cessazione di un magistrato durante l’ anno di carica, si facevano elezioni suppletive (il console sostituito a quello cessato era detto consul suffectus).
Qualora venissero a mancare entrambi i consoli senza che siano stati nominati i successori, allora si faceva luogo l’ interregnum.
Vediamo ora le singole magistrature :

  • consolato : magistratura ordinaria suprema; due consoli, detti pretores, chiamati anche iudices, magistrati investiti della pienezza dell’ imperium; magistratura collegiale;
  • dittatura : magistratura straordinaria suprema; antico magister populi, detto più tardi dictator; il dittatore veniva nominato in casi eccezionali, di pericolo, per le esigenze di guerra; nella dittatura veniva meno la collegialità, veniva meno la distinzione tra imperium domi e imperium militiae, veniva meno nei riguardi del dittatore l’ intercessio tribunizia; il dittatore era nominato da uno dei consoli; il dittatore era invitato a dimettersi al compimento dell’ impresa per cui era stato nominato;
  • pretore : egli era munito di imperium, considerato collega minor dei consoli; esercitava le sue funzioni nella città, e verso i cittadini, era di sua competenza la iurisdictio; assenti i consoli egli esercitava anche le altre funzioni di governo cittadino; al praetor urbanus si contrappose poi il praetor peregrinus (giurisdizione sugli stranieri);
  • censura : creata nel 443 a.C., la sua competenza consisteva esclusivamente nel census, cioè nel redigere la lista dei cittadini e dei loro averi; i censori erano due; essi venivano eletti in occasione del census, cioè ogni cinque anni; restavano in carica, non per tutti i cinque anni, ma solo fino a che non avessero terminato l’ operazione del censo; la durata massima della carica era di 18 mesi; essi avevano inoltre competenza in materia finanziaria;
  • edilità curule : si è posta accanto all’ edilità plebea; la loro competenza riguardava la polizia urbana, la disciplina dei mercati e la sorveglianza dei giochi, che si trasformò poi nell’ allestimento dei giochi stessi;
  • questore : ha funzioni limitate; era nominati dai magistrati supremi; avevano funzioni inquisitorie per la determinazione del dolo nell’ omicidio; a loro fu affidata l’ amministrazione della cassa pubblica;
  • vi è poi una serie di collegi inferiori, che da ausiliari scelti dal magistrato, diventarono magistrature elettive, come ad es. i vigintisexviri, più tardi vigintiviri : tali sono i tresvires capitales (vigilanza delle prigioni e dell’ esecuzione delle pene capitali, sicurezza pubblica, giurisdizione criminale connessa al poter di polizia), i quattuorviri praefecti Capuam Cumas, delegati dal pretore per l’ esercizio della iurisdictio nella Campania; i decmviri litibus iudicandis; i quattuorviris che curavano la nettezza delle strade cittadine, e i duoviri per i sobborghi; i tresviri aere argento auro flando feriundo, che sovraintendevano alla monetazione;
  • magistrature plebee : cioè limitate ai plebei, erano l’ edilità plebea e il tribunato della plebe.

 

Con un plebiscito del 342 fu vietato, da un lato di gerire contemporaneamente due magistrature, dall’ altro di ricoprire la stessa magistratura se non dopo dieci anni.
Si stabilirono quindi delle regole riguardo le magistrature : il divieto di cumulo, il limite all’ iterazione e l’ ordine fra le magistrature.
Con la lex Villia annalis o annaria del 180 a.C., si stabilì che non si poteva ricoprire la pretura senza aver ricoperto la questura, e non si poteva accedere al consolato senza aver ricoperto la pretura; per accedere ad una magistratura occorreva aver fatto dieci anni di servizio nell’ esercito, con un minimo di 27 anni per brigare la questura. Solo più tardi con la lex Cornelia nel 81 a.C., furono direttamente fissati dei minimi di età per le diverse magistrature, portando a 37 anni il minimo per la questura. Così fu operata una graduazione delle diverse magistrature.
Abbiamo quindi visto come le magistrature repubblicane si sono affermate e rese indipendenti, relegando l’ antico rex nel campo religioso, come rex sacrorum.

 

 

CAPITOLO VII – LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA : B) SENATO
L’ antico senato dei patres, espressione della gentes, aveva ripreso una posizione notevole dopo la caduta della monarchia etrusca, come istituzione tipicamente patrizia.
Successivamente entrarono a far parte del senato anche i plebei. La tradizione fa risalire l’ entrata dei plebei in senato agli albori della repubblica, ma si ritiene che questa sia avvenuta durante l’ ascesa della plebe, per cui si parla dell’ epoca del primo accesso dei plebei alla magistratura, e cioè con l’ assunzione al tribunato militare con potestà consolare.
Va precisato che il senato patrizio (i patres) ha conservato una certa individualità rispetto al senato patrizio-plebeo.
La nomina dei senatori prima spettava ai magistrati supremi, ma successivamente, fu trasferito ai censori da un plebiscito Ovinio.
I censori avevano la facoltà di esclusione degli indegni.
L’ optimum quemque trovava espressione concreta nell’ aver gerito le magistrature. La scelta avveniva principalmente anzitutto fra coloro che avevano gerito le magistrature curuli; se questi non bastavano a ricoprire il numero, si ricorreva pure a quelli che avevano gerito magistrature non curuli. Gli ex magistrati venivano ammessi ad intervenire alle sedute e ad esprimere il loro parere, in attesa della nomina.
Con l’ accrescersi del numero dei magistrati, e quindi con l’ accrescersi degli aventi diritto, fra cui esisteva una vera e propria graduatoria, la potestà di nomina del censore si andava riducendo, anzi essa finì con l’ essere ridotta all’ esclusione degli indegni (definiti tali dai censori).
In virtù delle magistrature ricoperte prima di entrare in senato, fra i senatori si stabiliva una graduatoria, che si rispecchiava nell’ ordine del voto : princeps senatus era il senatore censorio (cioè ex censore) patrizio più anziano; seguivano gli altri censorii, i consulares, i praetorii, gli aedilicii, i tribunicii e i quaestorii.
La procedura di votazione si svolgeva per discessionem, cioè separando da una parte e dall’ altra, favorevoli e contrari.
I senatori pedarii erano coloro che non avevando ricoperto cariche curuli, potevano esprimere il loro parere solo dopo tutti gli altri, per cui molto spesso si arrivava alla chiusura della discussione, prima che essi avessero potuto esprimere il loro parere.
Il numero normale dei senatori nel periodo repubblicano fu di trecento, fino a Silla che lo portò a seicento.
Quanto alle competenze del senato, ve ne sono alcune che restarono di esclusiva competenza dei patres, mentre altre che divennero proprie del senato patrizio-plebeo.
Solo ai patres spettava l’ interregnum, per cui se i consoli venivano entrambi a mancare, senza che fosse nominato il successore, gli auspicia tornavano ai patres, che si susseguivano come interreges, finchè non vi fosse provveduto all’ elezione.
Competenza esclusiva del senato patrizio (dei patres), era poi l’ auctoritas patrum, ossia la ratifica delle deliberazioni comiziali.
Al senato patrizio restavano legate tutte le funzioni che andavano isterilendosi, mentre con l’ ascesa dei plebei, si elevò ampiamente la posizione e la competenza del senato patrizio-plebeo.
Il senato aveva senza dubbio una funzione consiliare, costituendo esso la spina dorsale della vita politica romana; non vi era magistrato che al di là dell’ ordinaria amministrazione, prendesse una decisione importante senza prima aver consultato il senato.
Si ha quindi un espandersi della funzione viva del senato patrizio-plebeo e il cristallizzarsi delle competenze rimaste ai patres.
Le richieste della plebe, sotto forma di plebisciti, potevano essere accolte dal senato. Da questa partecipazione concreta all’ attività legislativa il senato usurpò più tardi la potestà di decidere circa la costituzionalità delle leggi, di dispensare dall’ osservanza delle leggi medesime, e persino di dichiarare preventivamente nulla una legge non ancora votata.
Il senato si affermò sempre più come il fulcro della vita politica romana.
Il senato si occupava anche di politica estera. Tutti i rapporti con l’ estero, le relazioni diplomatiche, facevano capo al senato; esso riceveva le ambascerie e inviava le commissioni.
Le dichiarazioni di guerra erano di competenza dei comizi centuriati , ma prima venivano sottoposte al parere del senato; al senato competevano i trattati di pace e di alleanza, che poi venivano sottoposti ad un voto di approvazione popolare.
Dichiarata la guerra, era il senato che vigilava sulla condotta della guerra stessa; finita la guerra esso ricompensava e puniva comandanti e soldati.
Il senato fissava gli ordinamenti dei paesi conquistati e vigilava sulla loro amministrazione.
Altro campo di competenza del senato è quello della finanza.
Particolare competenza ebbe anche in materia di culto.
Ci si chiede se il senato abbia avuto una competenza propria nel campo della giurisdizione criminale. La risposta è negativa.
Il senato era convocato e presieduto da un magistrato che aveva il diritto di convocare i senatori, e cioè il console o il pretore; solo più tardi anche dai tribuni.
Il senato si convocava in luogo chiuso inaugurato, generalmente nei templi.
I senatori avevano l’ obbligo di partecipare alla seduta, salvo impedimenti legittimi; contro gli assenti il magistrato poteva usare la coercitio.
La seduta del senato poteva svolgersi solo dal levare al tramonto del sole, si iniziava di solito allo spuntare del giorno.
La seduta si apriva con la relatio del magistrato, che normalmente si concludeva con una proposta, per cui veniva chiesto il parere del senato. Seguiva la successiva interrogazione, per ordine, dei senatori, che esprimevano ognuno la propria opinione. Dopo una sufficiente discussione si passava alla votazione della proposta o delle proposte emerse, votazione che aveniva per discessionem, cioè con l’ andare o da una parte o dall’ altra.
Quando la relatio finiva con una proposta, se nessuno si opponeva, si poteva formulare una proposta e passare al voto.
I senatori esprimono liberamente il loro parere e facevano le loro proposte.
Le decisioni del senato avevano il nome di senatus consulta.

 

CAPITOLO VIII – LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA : C) COMIZI
Il terzo elemento della costituzione è costituito dai comizi.
Il più antico tipo di comitia, i comitia curiata, sopravvive privato però di ogni forza vitale. L’ atto di sottomissione al magistrato eletto si fa ancora mediante la lex curiata. I comitia curiata sono convocati per l’ inauguratio del rex sacrorum e dei flamini maggiori, per la sacro rum detestatio, l’ adrogatio, il testamento. Ma l’ inauguratio curiata non si estende ai nuovi sacerdozi di origine repubblicana, la potestas al censore è riconosciuta non con una lex curiata, ma con una lex centuriata de potestate censoria, il testamento si evolve in senso patrimoniale.
L’ assemblea fondamentale, il comitiatus maximus, nella costituzione repubblicana è costituita dai comizi centuriati. Questa assemblea politica del popolo distribuito per centurie, era nella sua genesi collegata all’ organizzazione militare.
In corrispondenza con l’ armamento della fanteria, si avevano cinque classi (in cui venivano distribuiti i cittadini secondo il censo), precedute dalle centurie dei cavalieri e accompagnate o seguite da cinque centurie di inermi.
Il numero complessivo delle centurie in cui era distribuito il popolo romano nell’ ordinamento serviano era di 193.
Livio e Dionigi concordano per quanto riguarda le centurie dei cavalieri e delle cinque classi : precedevano le diciotto centurie dei cavalieri; seguivano ottanta centurie della prima classe (quaranta di iuniores e quaranta di seniores) per ciascuna delle tre classi successive; trenta centurie (quindici di iuniores e quindici di seniores) per la quinta classe.
La distinzione tra iuniores e seniores era fissata al compimento del 45°-46° anno.
Le centurie dei cavalieri erano formate dai primores civitatis, in particolare nelle prime sei era raccolto il patriziato; questi equites erano scelti, prima dal console, quindi dal censore, nelle famiglie patrizie e poi anche nelle più ricche e notevoli famiglie plebee.
L’ appartenenza alle classi era determinata dalla ricchezza (che oramai veniva computata in denaro e non più attraverso la proprietà fondiaria). Le centurie degli inermi, erano formate da cittadini al di sotto del censo minimo della quinta classe. Due corrispondevano al servizio del genio e dovevano avere origine dall’ artigianato corrispondente; due corrispondevano alla fanfara, tubicines e cornicines, e dovevano derivare da una formazione in rapporto alle esigenze relative.
Rimaneva tutto il resto del complesso di cittadini al di sotto del censo della quinta classe, che Dionigi qualifica come sesta classe.
Sarebbe stata aggregata alla quinta classe, oltre le due centurie di cornicines e tubicines, anche una centuria di accensi (soldati di riserva, non avevano armi, si armavano con le armi dei caduti).
I voti si computavano per centurie, si votava partendo dai cavalieri e poi secondo l’ ordine delle classi, per cui la prevalenza era data dalla ricchezza e dall’ anzianità : bastava che votassero concordi i cavalieri e la prima classe perché fosse raggiunta la maggioranza, così che non si procedeva neppure più nel voto; gli anziani sebbene meno numerosi, avevano un numero di centurie uguale ai iuniores.
Abbiamo già detto che il testamento, che si faceva davanti ai comizi curiati, poteva avvenire anche davanti all’ esercito schierato. Questo, è segno del fatto che, si stavano sviluppando le competenze dell’ assemblea militare (e quindi di quella popolare che ne derivava).
L’ ordinamento centuriato rispondeva quindi alle esigenze della popolazione.
Il terzo tipo di comitia era rappresentato dai comitia tributa, in cui i cittadini erano convocati per tribù, e si votava per tribù.
La prima forma di organizzazione tributa era quella che si era data la plebe, con i suoi concilia tributa, che sorti come assemblea di parte, hanno poi, attraverso i plebisciti, assunto una portata cittadina.
Ad imitazione dei concilia della plebe, si formarono e si affermarono poi, le assemblee di tutto il popolo per tribù, ossia i comitia tributa.
Va detto che i comitia tributa e i concilia tributa plebis si distinguevano nettamente sia per il ius agendi, sia per il ius suffragii, che per i primi spettava a tutti i cittadini, per i secondi ai soli plebei.
Le funzioni dei comizi centuriati e tributi e dei concilia tributa plebis erano di triplice natura : elettorale, legislativa, giudiziaria.
Per ciò che riguarda la competenza elettorale, tra i magistrati ordinari erano eletti dai comizi centuriati i magistrati maggiori (consoli, pretori, censori); dai comizi tributi i magistrati minori (edili curuli e questori); dai concilia tributa plebis i magistrati plebei (tribuni della plebe ed edili).
Il designato era quindi sottoposto all’ approvazione popolare.
Per ciò che riguarda invece il potere legislativo dei comizi, esso si innesta nel quadro della formazione e dello sviluppo storico della civitas. Prima con la società intergentilizia, successivamente nel conflitto fra patrizi e plebei e nel superamento di questo.
La base per la formazione della comunità unitaria patrizio-plebea è data dall’ organizzazione del popolo nei comizi centuriati, che viene a costituire l’ elemento centrale della lex, che viene ad investire i problemi della vita associata nella civitas, e quindi nella struttura e nella vita nello Stato, e solo secondariamente va a toccare i rapporti tra i privati.
Anche per la lex, l’ iniziativa spettava al magistrato, il quale interrogava il popolo (sponsio) che rispondeva approvando o respingendo.
Formalmente la lex si distingue dalle deliberazioni elettorali e giudiziarie, in quanto solo essa è designata con il nome del magistrato rogante, e si potrà definire lex ogni deliberazione comiziale che non sia designazione di un candidato o pronuncia su un processo criminale.
Competenza esclusiva dei comizi centuriati erano la lex centuriata de bello indicendo e la lex centuriata de potestate censoria.
Fatto altamente significativo è quello dell’ exaequatio dei plebiscita alle leges; si parla di un’ equiparazione piena e assoluta.
Abbiamo già detto come accanto alle leges rogatae, cioè votate dai comizi su proposta del magistrato, vi fossero leggi che provenivano in modo unilaterale dal magistrato, le leges datae. La lex data aveva una posizione preminente sulla lex rogata.
Vediamo ora il potere giudiziario dei comizi. La pena capitale era di competenza dei comizi centuriati. Per le multe, fu stabilito per i magistrati un limite massimo, valutato prima in 30 buoi e 2 pecore e poi in 3020 assi. Al di sopra di questi limiti la competenza era dei comizi tributi o dei concilia tributa plebis.
Al centro della giurisdizione criminale troviamo il processo comiziale nel quale il magistrato iniziava il processo ingiungendo all’ accusato di comparire davanti al popolo in un giorno fissato, passando poi alla fase istruttoria con l’ anquisitio; per tre adunanze consecutive, cui presenziava il popolo, il magistrato annunciava l’ accusa, adduceva le prove; il reo presentava le difesa e le arringhe defensionali, e infine il magistrato formulava l’ accusa; in seguito, con la quarta riunione, con la formale incriminazione, si iniziava il vero e proprio giudizio popolare e il comizio condannava alla pena proposta dal magistrato o assolveva.
Prima che fosse pronunciato l’ ultimo voto decisivo per la condanna , l’ accusato, poteva sfuggire alla pena con l’ esilio. Constatato l’ esilio, veniva pronunciata l’ interdictio aqua et igni, per cui l’ esule era escluso da ogni comunanza da vita cittadina.
I comizi e i concilia erano convocati e presieduti da un magistrato avente il diritto di convocare il popolo (ius agendi cum populo) o la plebe (ius agendi cum plebe).
Il ius agendi cum populo,spettava al console, il pretore, il dittatore e tutti quei magistrati investiti dal potere consolare.
Quanto ai tribuni della plebe, il tribuno doveva chiedere al pretore la fissazione del giorno per la convocazione dei comizi.
Per le multe si convocano i comizi tributi, e li convocava il magistrato che aveva irrogato la multa (ad es. l’ edile curule).
Il ius agendi cum plebe invece, spettava ai tribuni ed agli edili della plebe. La convocazione dei comizi si faceva madiante editto. Fra la convocazione e il giorno della riunione doveva intercorrere uno spazio di tempo che si stabilì nel trinundinum (tre mercati che si tenevano a sistanza di otto giorni). Nei casi urgenti questo limite non veniva rispettato.
Con la convocazione si rendeva noto l’ oggetto proposto alla deliberazione comiziale. Questa pubblicazione del progetto di legge prende il nome di promulgatio e aveniva nella forma consueta degli editti.
Nell’ intervallo tra la promulgatio del progetto di legge e il giorno fissato per il comizio, solevano tenersi delle contiones, convocate dal magistrato proponente, o anche da altri, in cui si discutevano gli argomenti pro e contro.
I comizi centuriati potevano essere convocati solo extra pomerium; il luogo normale era il Campo Marzio.
I comizi tributi potevano riunirsi sia fuori dalla città, sia in essa; luogo normale era il foro, talora si riunivano in Campidoglio, più tardi anche questi nel Campo Marzio.
I concilia tributa plebis potevano riunirsi solo entro i limiti territoriali del potere dei tribuni, e cioè non oltre il primo miglio da Roma.
I comizi non potevano essere tenuti ne nei giorni riservati alle pratiche religiose, ne nei giorni riservati all’ amministrazione della giustizia, ne nei giorni di festa, cosi che nell’ anno i dies comitiales erano 191.
Nella notte precedente il giorno fissato il magistrato che doveva presiedere i comizi assumevano gli auspici. Se gli auspici erano favorevoli, il magistrato faceva convocare il popolo dall’ araldo, e dopo una preghiera e un sacrificio, si discuteva la proposta.
Chiusa la discussione, il magistrato presiedente leggeva la proposta e interrogava il popolo. Si iniziava quindi la votazione.
Nei comizi centuriati più antichi votavano prima le centurie dei cavalieri, quindi la prima classe, cui si univano le due centurie del genio; e poi le classi inferiori, finché si aveva la maggioranza. In seguito alla riforma fu tolto il privilegio ai cavalieri di votare per primi, iniziando la votazione da una centuria estratta a sorte fra quelle della prima classe. Le tribù invece votavano simultaneamente.
In origine il voto era orale; i punti venivano segnati su una tabella.
Successivamente fu introdotto il voto segreto, scritto su una tavoletta che veniva deposta in una cista.
Il voto si dava indicando il nome dei candidati prescelti. Fatto lo spoglio con la renuntiatio si proclamava il risultato.
Avvenuta la renuntiatio la legge votata dai comizi entrava immediatamente in vigore. Le leggi con una certa importanza venivano affisse pubblicamente su tavole di legno, in seguito su tavole di bronzo; talvolta tale pubblicazione era disposta dalla legge stessa, spesso era disposta dal magistrato.
La legge veniva inoltre depositata all’ erario, essa era indicata con l’ aggettivo del nomen del magistrato o dei magistrati proponenti ed una breve designazione del contenuto.
In testa alla legge stava la praescriptio, che indicava per intero il nome e la carica del magistrato proponente, il comizio votante, il tempo ed il luogo della votazione, il nome dell’ unità comiziale che votò per prima, e del cittadino che in essa fu il primo a votare.
Seguiva la rogatio, cioè il testo della legge vera e propria, quale era stata rogata dal magistrato e aveva formato oggetto della promulgatio.
Discusso è il significato della sanctio, ultima parte della legge, che aveva generalmente lo scopo di garantire l’ efficacia della legge (sanzione).
Il modo in cui le leggi venivano votate in blocco senza possibilità di emendamenti, avrebbe potuto permettere al magistrato di raccogliere insieme in un’ unica rogatio disposizioni eterogenee (rogatio per saturam) in modo da far passare anche quelle che stata più sgradita con l’ allettamento di un’ altra più accetta. Ma la rogatio per saturam fu vietata.

CAPITOLO IX – LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA : CONCLUSIONI
La costituzione repubblicana si presenta in conclusione, come un equilibrio di elementi e di organi costituzionali che si sono posti ed assestati come termini concreti dell’ assestamento dello Stato patrizio-plebeo che ha coronato la fine della lotta fra i due ordini.
Il concetto dell’ imperium esprimeva una continuità della magistratura e dell’ investitura di una sovranità di magistrati supremi, continuità che risaliva dalla monarchia etrusca.
La delimitazione dell’ imperium trovava giustificazione nell’ importanza che andava assumendo il popolo, che possedeva il comando militare e ne costituiva l’ essenza prima.
Attraverso l’ elezione popolare venivano nominati i magistrati.
Dal punto di vista sociale, ogni cittadino che avesse i requisiti, poteva aspirare alle magistrature, cosa che comunque si restringeva ad alcune famiglie. Queste famiglie andarono a costituire una nuova aristocrazia, la nobilitas; si trattava di famiglie con particolare dignità e influenza, famiglie ricche in quanto la magistratura non solo era gratuita, ma era addirittura costosa.
Erano pochi gli homines novi che entravano in magistratura grazie alle doti dimostrate, ma essi dimostravano il fatto che la magistratura era davvero aperta a tutti i cittadini.
Gli antichi ci parlano della res publica, come ordinamento sovrano, che attraverso i cittadini, il populus Romanus, si incarnava nella comunità organizzata, la civitas; uomini liberi organizzati in vita collettiva.
La struttura popolare si presenta con una prevalenza del ceto agricolo rispetto al ceto urbano.
Il senato era formato attraverso la serie di magistrati usciti di carica e su di esso si poggiava la direzione della politica.
Si può parlare quindi di un processo di democratizzazione dello Stato romano, attraverso l’ apertura del governo, alla partecipazione di qualsiasi cittadino, attraverso l’ estensione dell’ elettività delle cariche, attraverso l’ allargamento della base dei comizi, sia nella riforma dei comizi centuriati, sia nell’ affermarsi dei comizi tributi.
Da un lato abbiamo quindi una costituzione democratica per la partecipazione organica del popolo alle esplicazioni della sovranità e per l’ apertura a tutti i cittadini, dall’ altro lato ha il suo centro in una classe dirigente, che forma un’ aristocrazia.
Questa era la civitas, la res publica, e i Romani provavano ormai odio per ciò che suonava regnum, così che l’ accusa di affectare regnum, rivolta contro chi minacciasse questo equilibrio, era un’ arma politica che aveva la forza di scuotere gli animi.
Lo sviluppo costituzionale fu accompagnato e seguito da un’ ampia espansione della dominazione romana. Questo grandioso equilibrio politico-costituzionale raggiunto da Roma, non durerà a lungo. L’ espansione dell’ impero, le sue vicende e gli aspetti economici e sociali a essa connessi, diedero ben presto vita a una profonda crisi di sviluppo che scoppiò con violenza ed arrivò attraverso urti e sconvolgimenti alla trasformazione costituzionale nel principato.

 

CAPITOLO X - L’ ORGANIZZAZIONE DELL’ ITALIA E DELLE PROVINCE
Roma si trovò impegnata in guerre che la portarono ad unificare l’ Italia sotto la sua egemonia. Può desumersi che l’ espansione di Roma nella Penisola seguiva due sistemi fondamentali, quello federativo e quello dell’ estensione territoriale attraverso l’ annessione.
Abbiamo già detto che alla caduta della supremazia etrusca si formò una nuova lega latina contro Roma, e dopo la guerra culminata nella battaglia del lago Regillo si concluse, nel 493 a.C., un trattato, il foedus Cassianum, il cui testo si conservava inciso su una colonna di bronzo nel foro. Esso stabiliva il divieto di guerra e di aiuto al nemico, obbligava all’ aiuto reciproco, fissava nella metà la divisione del bottino e della preda per le guerre comuni, e impegnava a risolvere in dieci giorni le controversie relative a negozi tra membri delle comunità alleate.
In questo trattato Roma appare già come contraente isolato di fronte alla lega latina; alla caduta della supremazia etrusca le città latine si coalizzarono contro di essa; la conclusione era proprio un trattato fra Roma e questa lega latina, che doveva almeno implicitamente riconoscere l’ importanza e l’ estensione che la città aveva raggiunto.
La divisione della preda di guerra a metà si spiegava con il fatto che le forze messe in campo da Roma e dalla lega, nel V secolo dovevano bilanciarsi, mentre alla metà del IV secolo la potenza di Roma era di molto superiore.
L’ alleanza fra Romani e Latini attraversò un lungo periodo in cui necessariamente subì i contraccolpi delle complesse vicende belliche, periodo in cui si affermò e rafforzò la supremazia romana; finché dopo la guerra latina, combattuta dal 340 al 338, finita con la vittoria dei Romani, Roma sciolse la lega latina.
Mentre il territorio di alcune città veniva senz’ altro incorporato da Roma, altre, sciolta la lega, venivano ad avere tanti foedera distinti.
Anche se il foedus continuava formalmente ad essere un foedus aequum, praticamente ne derivava che queste città erano private del ius belli et pacis, che non poteva esercitare nei confronti di altre città federate con Roma, mentre esse dovevano partecipare alle guerre di Roma; quello che cioè costituisce il nucleo sostanziale del foedus iniquum. Ed inoltre le diverse città non potevano stringere alleanze fra di loro, e fu anche tolto il commercium e il connubium nei rapporti fra di loro.
Nei loro ordinamenti queste città conservavano la loro sovranità; avevano i propri organi, giurisdizione, leve, censo, e anche monetazione; ma la loro politica era quella di Roma.
I Latini continuarono ad avere una posizione privilegiata nei confronti degli altri socii. Il ius Latii rappresentava una posizione intermedia fra cittadini e peregrini; essendo questa una posizione giuridica, essa non rimase limitata ai vecchi abitanti del Lazio ad ai loro coloni, ma il numero dei Latini andò ancora accrescendosi, sia in quanto Roma fondava colonie latine, sia in quanto talvolta si concedeva in latinità, come posizione privilegiata rispetto ai peregrini; e talvolta la latinità venne come conseguenza di certi atti giuridici, per es. di forme di manumissione. Allora si vennero a distinguere diverse categorie : i Latini prisci (colonie della lega e forse alcune colonie latine di Roma), i Latini colonia rii (membri di colonie latine dedotte da Roma), in seguito i Latini Iuniani (cioè da manumissione) che costituivano una categoria perticolare.
I Latini avevano il ius commercii con i Romani, ed i Latini prisci avevano anche il ius connubii. Si giunse a concedere anche un limitato ius suffragii, in quanto i Latini presenti a Roma potevano votare entro una tribù estratta a sorte; inoltre veniva riconosciuto, dapprima ai Latini prisci, poi anche agli altri, il diritto di acquistare la cittadinanza con il trasporto del proprio domicilio a Roma (ius migrandi), o in seguito ad avere rivestito magistrature nella propria città.
Roma estese il sistema federativo dai rapporti con i Latini a quelli con altre popolazioni; quando avvenivano defezioni, allora Roma, come aveva fatto per i Latini, procedeva allo scioglimento delle leghe, concludendo singoli trattati con le singole comunità, e talvolta vietando il commercium e il connubium tra le singole città per impedire il ricostruirsi di legami.
Qualche città, in omaggio al suo atteggiamento, ebbe un foedus aequum : tale fu quello di Napoli. Per lo più si trattava di foedera iniqua, in cui cioè l’ alleato rinunziava al diritto proprio di guerra e di pace, per obbligarsi ad aiutare Roma nelle sue guerre fornendo contingenti militari e navali di cui il foedus fissava il maximum, e rendersi in politica estera vassallo di Roma.
Così attraverso questa rete di vincoli che legavano le varie città a Roma, si venne a formare una stabile organizzazione che comprendeva questi socii Italici.
Nel loro governo le singole città conservavano la loro sovranità; avevano propri magistrati, proprie giurisdizioni, proprie amministrazioni, propria moneta; vivevano secondo il proprio diritto e le proprie leggi. I socii Italici non godevano della posizione dei Latini riguardo al ius commercii e al connubium con i Romani; rispetto ai Romani erano peregrini.
Essi non avevano il ius migrandi rispetto a Roma; avevano il ius exulandi, cioè la facoltà di accogliere gli esuli della comunità alleata.
Potevano esistere fra le varie comunità italiche e latine rapporti che importavano il commercium, il connubium e il ius migrandi.
Accanto al sistema federativo, Roma usò anche l’ espansione diretta, l’ estensione del territorio attraverso annessioni.
Talvolta si trattava di un’ incorporazione di un’ altra comunità nello Stato romano, questa poteva avvenire con la concessione della cittadinanza optimo iure oppure con la riduzione in uno stato di semicittadinanza; talora invece ci si limitava a sottrarre una parte del territorio alla città che restava indipendente.
L’ estensione del territorio che avvenne mediante successive annessioni, portò al moltiplicarsi delle tribù territoriali che, nel 241 a.C., raggiunsero il numero massimo di 35; arrestatosi il movimento del numero delle tribù, le incorporazioni successive si facevano con l’ attribuzione a tribù esistenti.
Questa estensione del numero delle tribù importava un’ estensione dell’ organizzazione cittadina; la semplice organizzazione cittadina unitaria, non era più sufficiente alle esigenze dell’ amministrazione e della giurisdizione, di fronte all’ estensione assunta dal territorio; d’ altra parte gli ordinamenti preesistenti non potevano essere distrutti per il fatto dell’ incorporazione nella cittadinanza, ecco il perché del conservarsi di centri aventi una certa autonomia. Così si sviluppò il sistema municipale.
Con l’ incorporazione nello Stato romano e con l’ attribuzione della cittadinanza, una comunità cessava di formare una civitas a se, i cittadini cessavano di essere cittadini di un’ altra città; però ai fini amministrativi, nel territorio romano, quelle comunità di cittadini continuavano a formare organizzazioni autonome, sia pure coordinate con l’ esplicazione degli ordini fondamentali della civitas che abbracciava tutto il territorio.
A queste comunità fu dato il nome di municipia ed ai loro membri quello di municipes (da munus, o munia capere). Bisogna in proposito fare delle distinzioni a seconda che si tratti di municipes optimo iure o di cives sine suffragio.
I municipes optimo iure erano cittadini romani nel vero senso della parola, e quindi godevano di tutti i diritti dei cittadini, non solo nel campo del diritto privato, ma anche in quello del diritto pubblico; queste comunità godevano di una larga autonomia avendo conservato i loro magistrati, il loro senato, le loro assemblee, la loro amministrazione, una certa amministrazione, una certa giurisdizione ed anche le loro leggi e istituzioni giuridiche.
I municipes in stato di semicittadinanza (cives sine suffragio), non avevano l’ elettorato attivo e passivo, quindi del cittadino avevano soprattutto gli oneri; la loro posizione rispetto al ius connubii e al ius commercii con i Romani era variamente determinata. Quanto all’ autonomia, esisteva una grande varietà. Vi erano alcuni municipi sine suffragio che conservavano la propria amministrazione, con alcuni limiti una giurisdizione, oltreché proprie leggi e un loro diritto. Altre comunità invece venivano poste in una condizione inferiore, per cui erano quasi interamente private della loro autonomia e soggette all’ amministrazione romana, così che mal si addiceva loro il nome stesso di municipia.
La giurisdizione, in quanto espressione dell’ imperium sovrano, e cioè teoricamente el pretore. Alcuni municipia però, dotati di più larga autonomia, conservavano nei loro magistrati una giurisdizione entro certi limiti, per cui si delineava una giurisdizione spettante al pretore e una bassa giurisdizione spettatnte ai magistrati municipali.
Con l’ espansione del territorio nelle comunità vicine, cui fu concessa la cittadinanza optimo iure, il pretore esercitava la sua iurisdictio attraverso delegati, i praefecti iuri dicundo, in origine scelti dal pretore e in seguito eletti dai comizi. Nelle circoscrizioni dei praefecti, dette praefecturae, potevano essere comprese più comunità municipali.
Tutto questo processo storico dovette compiersi prima della guerra sociale. La concessione della cittadinanza a tutti gli Italici, in seguito alla guerra sociale portò poi alla generale applicazione del sistema municipale.
Il sistema che si creò dopo la guerra sociale poggia sullo schema dei quattuorviri (due iure dicundo e due aediles). Accanto ai magistrati si aveva il consiglio della città, qualcosa di analogo al senato per cui divenne usuale il nome di ordum decurionum; e infine il popolo distinto in curiae.
Nella popolazione del municipium si distinguevano i cives , determinati dall’ origo, egli incolae che vi avevano il domicilio.
Altri agglomerati di cittadini romani erano i conciliabula, i fora, i vici, i castella.
I conciliabula erano distretti di campagna, il centro era luogo di riunione per i mercati, per le leve, per l’ amministrazione della giustizia, per le solennità religiose; non costituivano un’ unità comunale. Avevano i loro decemviri che curavano la loro amministrazione, ma dipendevano dagli organi municipali o dal praefectus.
I fora costituivano analoghe agglomerazioni stabilite lungo le grandi vie romane.
I vici e i castella erano organizzazioni minori che non superavano il carattere del villaggio.
Altra istituzione che rientra nelle forme organizzative dell’ espansione e della penetrazione di Roma, è la deduzione di colonie, istituzione che Roma assimilò dagli antichi popoli italici, in particolare dai Latini. Nel territorio sottratto al nemico si deduceva e si organizzava una comunità di cittadini (o di Latini), il cui primo scopo immediato fu quello di assicurare la difesa e controllare popoli malfidi mediante comunità fedeli : propugnacula imperii.
Le prime colonie di cittadini romani furono dedotte sulle coste (colonie marittimae); era loro concessa l’ esenzione dal servizio militare. Dopo la guerra annibalica si crearono anche colonie nell’ interno.
A partire dai Gracchi le colonie ebbero un nuovo scopo e cioè il fine sociale di provvedere al proletariato urbano e restaurare il piccolo e medio ceto agricolo. Più tardi a partire da Mario si aggiunse lo scopo di compensare i soldati e i veterani (coloniae militares).
Il numero di coloni per una colonia romana passo da trecento a duemila, tremila coloni.
Accanto a colonie di cittadini Roma continuò a fondare colonie latine. A queste colonie potevano unirsi dei Romani che però perdevano la cittadinanza e diventavano latini. È così che attraverso colonie latine e romane si latinizzava,  l’ Italia.
La fondazione di colonie latine in Italia si andò esaurendo. La fondazione di colonie romane al di là dei mari iniziata da C.Gracco incontrava resistenze nell’ oligarchia senatoria, e trovò sviluppo a partire da Cesare.
La condizione giuridica dei due tipi di colonie rifletteva il diverso sistema di organizzazione dell’ espansione dell’ egemonia romana, quello della municipalizzazione e quello della federazione.
Le colonie romane erano comunità di cittadini, comunità la cui organizzazione era autonoma dal punto amministrativo e giurisdizionale; si modellavano sul modello della città madre, con proprie assemblee, proprio senato (i decurioni), propri magistrati (pretores, poi duumviri).
Le colonie latine invece venivano a formare città autonome, legate a Roma.
La deduzione di una colonia veniva stabilita da una lex, di solito un plebiscito, preceduto da un senatoconsulto, e veniva eseguita da una commissione di magistrati a ciò destinati. A partire dall’ epoca graccana, il popolo pretendeva stabilire la deduzione di colonie senza l’ intervento del senato; nello svolgimento dell’ ultima fase della repubblica gli stessi capi che fondavano le colonie militari, si ritenevano a ciò autorizzati, senza bisogno di legge speciale; fondavano le colonie o essi stessi o mediante loro legati.
I magistrati nominati per la deduzione della colonia, comandavano la spedizione dei coloni, presiedevano all’ organizzazione del territorio, e davano, mediante una lex, la costituzione alla colonia.
Il territorio della colonia veniva misurato e diviso da agrimensori, i quali tracciavano al centro una linea da Est a Ovest, il decumanus maximus, e un’ altra da Nord a Sud, il cardo maximus; poi altre linee parallele, decumani e cardines, o genericamente limites, così che tutto il territorio veniva diviso in centurie quadrate, e l’ operazione si chiamava centuriatio; le centurie venivano poi divise in sortes, che dovevano essere appunto essere assegnate ai coloni.
La fondazione avveniva con il vecchio rito di fondazione della città, con cerimonie augurali, tracciando prima il sulcus che delimitava la città. Il terreno assegnato alle colonie romane in Italia diveniva di proprietà dei coloni.
Con l’ occupazione della Sicilia e della Sardegna, che ebbero nel 227 il loro assetto definitivo, i Romani si trovarono di fronte a nuovi problemi di organizzazione. Anche qui Roma seguì il duplice metodo dell’ annessione e della federazione. Gli abitanti della zona annessa non venivano di regola assorbiti nella cittadinanza ma restavano peregrini in condizione di sudditi, in potestà del popolo romano.
Quanto al suolo, i Romani avevano proceduto in Italia sulla base del concetto che man mano che un territorio veniva incorporato vi si estendeva l’ ager Romanus, e poteva anche estendervisi il dominium ex iure Quiritium, o per l’ assorbimento di cittadini con il loro pieno diritto o per assegnazione ai cittadini. Al di là dell’ Italia questa estensione non procedette. E allora in quanto i territori e i loro abitanti venivano ed essere in potestà del popolo romano si affermò il principio che, nel suolo provinciale i privati, anche se cittadini romani, non potavano avere il dominium ex iure Quiritium, ma solo una possessio vel usus fructus, in quanto tale suolo si considerava dominio del popolo romano (il tributo imposto sul fondo rappresentava il riconoscimento di tale dominio).
I primi esperimenti di governo provinciale furono attuati da Roma in Sicilia e in Sardegna.
Il termine provincia in origine indicava la sfera di competenza riservata in concretoad un magistrato (un console, un pretore). Così dalle designazione del settore destinato al magistrato si è passati alla designazione tecnica del territorio dominato, da qui il nome provinciae dato a singoli territori dominati da Roma.
È così che si pose la distinzione fondamentale fra l’ Italia e le province. Il nome Italia, attraverso l’ espansione di Roma che investì questo territorio, si era esteso a tutti gli alleati nella penisola.
Nelle zone ridotte alla condizione di provincia esistevano delle organizzazioni cittadine e di fronte a queste Roma tenne un atteggiamento diverso.
Vi erano delle civile cui Roma riconobbe e rispettò la qualifica di stato sovrano, escludendole quindi dalle province e legandole a se mediante un foedus.
Queste civitates foederatae avevano propri ordinamenti e propria giurisdizione; il suolo era privato; erano immunes, non erano sottoposti quindi a tributi anche se naturalmente il foedus imponeva loro certi obblighi verso Roma (contingenti di truppe, navi, forniture di grano).
Altre civitates furono conservate  liberae, non in base ad un foedus ma in base ad una lex, che quindi dipendeva da Roma conservare o abrogare. Anche queste civitates avevano il loro ordinamento, le loro magistrature, le loro assemble; potevano essere immunes ma potevano anche essere sottoposte ad ordinarie contribuzioni.
Le città private della sovranità, distrutte costituzionalmente e molte volte anche materialmente, venivano comprese nella provincia.
Nel territorio provinciale vennero costituite anche città con organizzazione romana, municipia e coloniae romane o latine.
La condizione della latinità fu estesa anche attraverso un altro istituto, la concessione del ius Latii, per cui una comunità veniva posta nella condizione delle colonie latine. Questa concessione fatta dalla lex Pompeia dell’ 89 a.C. fu largamente applicata.
Il governo delle province veniva affidato a magistrati cum imperio. Con l’ assestamento delle due prime province, la Sicilia e la Sardegna, nel 227 a.C., si provvide mediante la creazione di due nuovi pretore. Ciò avrebbe però portato ad aumentare eccessivamente il numero dei pretori, e allora si ricorse all’ uso di prorogare per un anno, su deliberazione del senato, l’ imperium dei consoli e dei pretori, destinandoli nelle province in qualità di proconsoli o di propretori.
Il sistema fu in seguito regolato da una legge di Silla, per cui i pretori dovevano esercitare per un anno la loro giurisdizione in Roma, e i consoli non potevano recarsi in provincia nell’ anno di carica; dopodiché ai consoli e ai pretori veniva prorogato per un anno l’ imperium per il governo delle province, come proconsoli o propretori.
Spettava al Senato determinare le province consolari e quelle pretorie; la lex Sempronia de provinciis del 123 a.C. stabilì che la designazione delle province consolari fosse fatta dal Senato prima dei comizi consolari. La continuità fra le funzioni urbane e quelle provinciali fu rotta da un senato-consulto del 53, che stabilì un intervallo quinquennale fra la magistratura urbana e la pro magistratura provinciale, norma abrogata da Cesare ma ripresa da Augusto.
Il governatore della provincia era accompagnato da un questore che riproduceva la funzione ausiliaria del questore cittadino per l’ amministrazione finanziaria, ed aveva anche una giurisdizione analoga a quella che in città avevano gli edili curuli. Inoltre il governatore era accompagnato da assistenti che lo aiutavano nella giurisdizione e nell’ amministrazione.
Al governatore spettava la pienezza dell’ imperium nelle sue varie esplicazioni. Questo trovò un limite (che si rifletteva sulla giurisdizione criminale) per i cittadini romani, con l’ estensione della provocatio operata dalla Lex Porcia; per i provinciali, la dove si crearono speciali tribuni locali. La giurisdizione civile aveva un’ amplissima esplicazione fra cittadini romani, fra cittadini e provinciali, fra provinciali, con la limitazione però, che ove si trattasse di cittadini della stessa città, la competenza era dei magistrati locali, mentre se si trattava di cittadini di diverse città e con i Romani era generale la giurisdizione del governatore, che poteva esercitarla mediante delegato.
Per ciò che riguarda la condizione del suolo, come abbiamo già detto, salvo alcune eccezioni, tale suolo non poteva per diritto romano essere oggetto di proprietà privata vera e propria, in quanto il dominium spettava al popolo romano, e durante il principato al principe, e di questo principio era considerato espressione il pagamento di un tributo. I privati ne potevano avere soltanto un godimento (possessio vel usus fructus).
Il tipo originario di tributo (stipendium), doveva consistere in un’ indennità di guerra, o prezzo della tregua, che i Romani imponevano a città che restavano libere.
Le civitates stipendiariae venivano a trovarsi in una condizione di favore nei confonti di quelle vi captae; il terreno non veniva redditus ma lasciato ai possessori.
Vi era poi l’ ager publicus populi Romani (ciò che già prima costituiva la proprietà dei sovrani degli antichi regni, o ciò che già formava dominio pubblico di una potenza dominatrice); quindi l’ ager restituito o lasciato o venduto o assegnato a privati, si contrapponeva a questo.
Nella prima fondazione di una colonia romana al di là dei mari, Iunonia Carthago fondata da C.Gracco nel 123 a.C. si dovette procedere a una vera e propria assegnazione, per cui il suolo diventava dominium ex iure Quiritium.

 

CAPITOLO XI – LA CRISI DELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA
Le devastazioni compiute da Annibale, avevano pesato sui piccoli proprietari, cioè sul piccolo medio ceto agricolo che costituiva il nerbo della società romana, e li aveva costretti all’ abbandono delle terre. La concorrenza della produzione di grano delle province impediva una facile ripresa; lo sviluppo di colture intensive (olivo, vite…), avrebbe richiesto un largo impiego di capitali e la piccola proprietà non poteva affrontarne l’ onere.
La nobiltà cercava di estendere i propri investimenti in proprietà fondiarie, e tendeva ad assorbire la terra dei piccoli in stato di abbandono, mentre insieme valorizzava i suoi ampi possedimenti di ager publicus. L’ intenso mercato schiavistico rendeva preferibile nelle fattorie dei grandi proprietari, il lavoro servile a quello libero.
Così la piccola proprietà andava riducendosi; gli antichi contadini proprietari si avventuravano nelle province o andavano in città a vivere in gran parte di ozio e di favori dei potenti.
Le cariche dello Stato si andarono cristallizzando in un certo numero di famiglie che formavano la nobilitas, classe dirigente che trovava il suo fulcro nel senato; la loro economia era basata sulla proprietà e sul possesso fondiario.
Nei contrasti fra questa classe e le aspirazioni della massa popolare, si contrapponevano i due partiti degli optimates e dei populares.
Abbiamo poi l’ ordo equester (i cavalieri), la cui origine si ricollegava ad uno scopo militare. I censori infatti, formavano delle liste di cittadini il cui alto censo avrebbe loro permesso di servire nella cavalleria procurandosi il cavallo a proprie spese (equites equo privato).
Si formò così un vero e proprio ceto, un ordine, l’ ordo equester, che rappresentava l’ aristocrazia della finanza e degli affari, che monopolizzava il commercio, gli appalti di lavori pubblici e di imposte, formando la grande società di publicani.
Era naturale che fra i due ordini vi fossero attriti e rivalità. Se anche i senatori dovevano spesso dipendere da cavalieri per anticipi di denaro o per partecipare indirettamente ad affari che a loro erano vietati, nelle province i cavalieri incontravano, nella loro opera di sfruttamento e vessazione, la concorrenza dei governatori, appartenenti al ceto senatorio, e viceversa.
I cavalieri spesso si alleavano con le masse dei meno abbienti, nella lotta contro la nobilitas. Si venne così a creare un urto di classi e di partiti.
Un altro punto di crisi toccava la struttura della società, fondata sulla schiavitù. Era un istituto antico anche se gli schiavi non potevano essere individuati come una classe sociale. Le dure condizioni di lavoro e di sfruttamento determinarono rivolte di schiavi, che dovettero essere represse militarmente.
Altro problema riguardava la questione Italica. Finché Roma aveva mantenuto la sua espansione nella Penisola, l’ incorporazione nel territorio romano doveva apparire soprattutto come una punizione, il mantenimento della sovranità con la qualifica di socius era un ambito riconoscimento. Di fronte alla posizione di Roma e del cittadino romano, era naturale l’ aspirazione degli Italici all’ acquisto della cittadinanza romana, aspirazione  che si traduceva da prima in un moto di singoli che cercavano vari espedienti (ad es. riduzione in schiavitù verso un cittadino romano e manomissione da parte di questo). Ma questo movimento migratorio metteva le stesse città italiche in difficoltà per lo spopolamento, e obbligava i Romani (che ne risentivano per ciò che riguarda le leve italiche e i tributi) a correre ai ripari e stabilire misure restrittive.
Ad una generale estensione della cittadinanza, ostavano poi ragioni inerenti alla stessa concezione e struttura dello Stato romano, che si era sviluppato secondo il tipo dello Stato-città. Le dimensioni raggiunte nelle successive estensioni portavano ad un contrasto tra l’ estensione dello Stato e la struttura cittadina. Non era dunque possibile estendere la cittadinanza a tutta la Penisola.

Vediamo altri fattori di crisi :

  • il governo delle province annullava quei limiti che garantivano la costituzione     repubblicana, a partire da quello della collegialità;
  • la riforma dell’ esercito, che costituirà lo sbocco fatale del decadere di quel ceto medio agricolo che aveva costituito il nerbo dell’ esercito cittadino, mobilitato per le campagne di guerra, a cui si sostituirà all’ epoca di Mario un esercito permanente di arruolati;
  • l’ influenza che sui costumi aveva il concentrarsi della ricchezza e l’ apporto delle conquiste, per cui penetrava in Roma tutto un complesso di elementi di civiltà e di cultura che scuotevano la rigida disciplina civica e morale di quel primitivo popolo di agricoltori partito alla conquista.

È tutto un concorrere di fattori economici, sociali, politici, culturali, è tutto un processo successivo che porta allo sconquasso del regime repubblicano ed al superamento di esso nel principato.
Vediamo le tappe di questa crisi. All’ esplosione della crisi si può dare una data, l’ anno del tribunato di Tiberio Sempronio Gracco, il 133 a.C.
Questo tribuno della plebe, già questore in Spagna, mise a fuoco il problema sociale, con un programma che mirava alla ricostituzione di quel ceto di piccoli proprietari agricoli che era stato la base della società romana. Con una proposta di legge agraria egli propose che nessuno potesse possedere come ager occupatorius più di 500 iugeri di ager pubblicus, aggiungendovi 250 iugeri per ogni figlio, fino al limite di 1000 iugeri complessivi; erano vietate le occupazioni di ager publicus per l’ avvenire , e il terreno recuperato con le riduzioni sarebbe stato distribuito in lotti inalienabili di 30 iugeri l’ uno con il corrispettivo di un vectigal.
Costituzionalmente Tiberio Gracco avrebbe dovuto inchinarsi alla potenza dell’ arma tribunizia. Ma egli non volle cedere a quanto gli appariva un sopruso, e allora compì un gesto rivoluzionario; dopo aver tentato inutilmente di ottenere una discussione in Senato, egli giustificandosi con la motivazione che il tribuno che tradiva gli interessi del popolo si spogliava esso stesso dalla dignità di tribuno, che gli veniva dal popolo, fece deporre Ottavio dal tribunato ad opera dei concilia plebis, e quindi fece approvare la sua lex agraria.
L’ atto di Tiberio Gracco non poteva avere un fondamento costituzionale; era un atto rivoluzionario contro la costituzione. Esso passò; Tiberio proseguì la sua opera, e presentò altre proposte radicali, come quella circa la distribuzione fra cittadini dell’ eredità lasciata da Attalo, re di Pergamo, allo Stato romano.
Quando egli ripropose la sua candidatura per l’ anno successivo (violando anche in ciò una norma costituzionale), P.Scipione Nasica propose un senatus consultum ultimum, invitando i consoli a provvedere con ogni mezzo di fronte allo stato di pericolo; la novità della proposta stava nel fatto che, anziché di fronte al pericolo di un nemico esterno, si faceva ricorso a questo mezzo in rapporto ad un movimento interno qualificato come rivoluzionario.
Il console P.Mucio Scevola, non se ne volle avvalere, e allora Scipione Nasica si mise alla testa della repressione e Tiberio Gracco fu ucciso; i suoi seguaci furono processati mediante un tribunale straordinario senza provocatio.
La legge agraria rimase in vigore e continuarono le distribuzioni, finché nel 131 a.C., avendone M.Fulvio Flacco e Papirio Carbone esteso l’ applicazione anche alle terre occupate dagli alleati italici, questi trovarono un forte sostenitore in Scipione Emiliano, che, avversario della legge agraria, riuscì nel 129 a far togliere ai tresviri la giurisdizione circa le terre da assegnarsi, che fu devoluta al console.
La situazione portava quindi gli stessi fautori della riforma graccana, onde superare le complesse difficoltà venute proprio dagli Italici, ad affrontare la questione della concessione della cittadinanza a questi. Come reazione al malcontento suscitato da un plebiscito Giunio del 126, che espelleva da Roma i non cittadini, Fulvio Flacco, amico di Tiberio Gracco e membro della commissione dei tresviri, console nel 125, propose una rogatio per l’ estensione della cittadinanza ai socii. Ma vi furono rigorose resistenze, Fulvio Flacco dovette lasciare Roma per la guerra contro i Liguri e la proposta cadde.
Nel 123 fu eletto tribuno il fratello di Tiberio, Caio Sempronio Gracco, e questi proseguì l’ opera lasciata interrota dal fratello, portando innanzi una serie di riforme volte a ridurre il potere dell’ oligarchia senatoria a favore del popolo guidato dai tribuni.
Per poter svolgere il suo piano Caio Gracco doveva tenere legata a se la massa popolare, e inoltre attrarre e farsi alleato i cavalieri, speculando sulla rivalità fra questi e la nobilitas. Il suo progetto poteva essere realizzato nel corso di diversi anni, ed egli riuscì a farsi rieleggere tribuno per l’ anno successivo.
Fra gli atti compiuti al solo scopo di accattivarsi la massa , possiamo collocare la lex frumentaria, che diede impulso alle distribuzioni di frumento gratuite o sottocosto, accordandosi così il consenso di quella massa oziosa che viveva nel convincimento di aver diritto a vivere a spese dello Stato.
La lex Sempronia de provincia Asia a censoribus locanda invece, era volta ad accaparrarsi l’ appoggio dei cavalieri, per così poi diminuire l’ influenza del senato. Questa legge prevvedeva che l’ appalto della provincia dell’ Asia, e soprattutto la legge che stabiliva che gli albi dei giudici per i processi si compilassero sciegliendo fra i cavalieri, anziché fra i senatori.
Sempre fra le leggi che miravano a deprimere i poteri del senato, va ricordata una legge de capite civis, che vietava ogni legittimazione alla pena capitale senza l’ ordine del popolo, per inficiare così il senatus consultum ultimum e colpire l’ istituzione di tribunali straordinari fatta nel 132 per condannare i partigiani di Tiberio Gracco.
Come già detto al centro del programma di C.Gracco stava lo sviluppo della politica avviata dal fratello. Egli fece votare una nuova lex Sempronia, in cui le norme di quella di Tiberio venivano riaffermate con nuove disposizioni, tra cui l’ estensione ai Latini del beneficio dell’ assegnazione.
Nello stesso spirito rientra la geniale politica colonizzatrice di Caio Gracco, che si estende in Italia e che culmina nel progetto di colonie al di là dei mari, in concreto nella fondazione di una colonia dove era sorta Cartagine. La fondazione di colonie aveva in quest’ epoca, lo scopo sociale di provvedere al proletariato urbano e ricostruire il ceto medio agricolo.
Infine Caio Gracco affrontò il problema degli Italici con una rogatio de civitate sociis danda, che pare desse la piena cittadinanza ai Latini e la latinità (con diritto di voto in una tribù) a tutti gli Italici.
Nel mentre la classe senatoria riuscì a guadagnare un altro tribuno, M. Livio Druso, che oppose l’ intercessio e lanciò una serie di proposte più spinte di quelle di Gracco in materia di assegnazione di ager publicus, di frumentationes, e di deduzione di colonie, non trascurando di allettare anche i Latini. Caio Gracco perdette la sua popolarità e non riottenne l’ elezione al tribunato per l’ anno successivo. Nel 121 egli aveva tentato invano di difendere la legge sulla colonia di Cartagine (ne era stata proposta l’ abrogazione), Minucio Rufo chiese l’ abrogazione di talune norme delle leggi Semproniae, scoppiarono dei tumulti, si fece ricorso al senatus consultum ultimum e Caio Gracco fu ucciso.
Caio Gracco aveva messo a fuoco e affrontato problemi fondamentali della crisi romana. La sua azione politica, come quella del fratello, aveva assunto per base il tribunato della plebe, si ergeva contro l’ ostilità del senato.
Vediamo ora le vicende politiche costituzionali che seguirono alla morte di Gracco. Nel campo sociale i due problemi intorno ai quali ha ruotato l’ azione di Gracco hanno seguito dopo la sua morte diversa vicenda.
La legge agraria continuò ad essere applicata, ma ben presto la nobiltà riuscì a sopraffarla; infatti si sarebbero seguite tre leggi : una di poco posteriore alla morte di C.Gracco abolì il divieto di alienazione e infine una lex Thoria agraria del 118 a.C., e una legge agraria del 111, completavano l’ opera, la prima vietando ulteriori assegnazioni per l’ avvenire e confermando i possessori nel loro possesso con l’ imposizione di un vectigal da distribuirsi fra i proletari, la seconda sopprimendo anche il vectigal e convertendo i possessori in proprietari.
Lo spaventoso accrescersi del proletariato e la decadenza del ceto medio agricolo, cui aveva cercato di rimediare Gracco, si ripercuoteva sull’ esercito cittadino che trovava il suo nerbo proprio in quel ceto agricolo. Questo fenomeno, insieme alle sempre più complesse esigenze delle guerre, resero fatale la riforma dell’ esercito, operata da Mario che nel 107 sostituì all’ antico sistema della leva, quello dell’ arruolamento, accogliendo tutti i cittadini, anche proletari che si presentavano, così mentre l’ antico esercito cittadino di leva (formato in gran parte da contadini soldati), era l’ espressione dello stesso ordine della civitas, la fedeltà all’ esercito significava fedeltà alla propria terra, ben diversa era la posizione dei soldati di mestiere, legati al loro comandante, fedeli a chi meglio li allettava con i compensi, e per compensare i quali furono riprese assegnazioni di terre intese come compenso ai veterani.
Mario fu rieletto console per ben 5 anni, dal 104 al 100 a.C.; nel 100 a.C. arretrò di fronte agli eccessi e alle violenze dei suoi partigiani, accettò l’ ordine che gli venne dal senato, attraverso il senatus consultum ultimum, ed attuò una spietata repressione, allontanandosi successivamente dalla scena politica.
L’ ordine della civitas aveva ancora la forza di imporsi, ma ormai la corsa verso le guerre civili poteva dirsi avviata.
Per ciò che riguarda invece l’ altro problema, messo a fuoco da C.Gracco, (la questione italica), furono respinte le successive proposte in favore dei Latini e degli Italici, e si arrivò anche a misure più gravi : di fronte al gran numero di coloro che si trasportavano a Roma, comportandosi come cittadini, una legge Licinia Mucia del 95 a.C., ribadì le delimitazioni e istituì una quaestio contro chi si comportasse come cittadino senza esserlo. Nel 91 il problema fu ripresentato dal tribuno M.Livio Druso, figlio di Livio Druso di cui si erano serviti i nobili contro Caio Gracco; Livio Druso presentò un complesso di leggi, una nummaria, una frumentaria, una agraria e una iudiciaria (con lo scopo di conciliare cavalieri e senatori sul problema dei giudici, stabiliva che i giudici si scegliessero da un complesso di 300 senatori e 300 cavalieri); di fronte ad alcune resistenze riuscì a far votare tutte e tre le leggi insieme, violando il divieto della rogatio per saturam e passando sopra alla dichiarazione di nullità fatta dal senato. Egli intendeva far passare con lo stesso sistema la legge sulla deduzione di colonie ed una de civitate sociis danda, ma fu ucciso da un sicario.
La morte di Druso fu il segnale della rivolta. Scoppiò una guerra odiosa , da cui Roma uscì praticamente sconfitta, in quanto dovette cedere nonostante le vittorie militari. Già nel 90 a.C., il console L.Giulio Cesare, presentò la lex Iulia de civitate Latinis (et sociis) danda, con cui si concedeva la cittadinanza romana ai latini e a quelle città alleate rimaste fedeli che avessero dichiarato di accettarla (accettando il diritto romano); nell’ 89 la lex Plautia Papiria de civitate sociis danda accordava la cittadinanza a tutti i soci italici  che fossero domiciliati in Italia, fino all’ Arno e all’ Esino, che entro 60 giorni avessero fatto domanda al pretore urbano. Una lex Pompeia dello stesso 89 attribuì la latinità alle comunità della Gallia transpadana.
Queste concessioni erano però menomate da restrizioni, soprattutto quella di costringere i nuovi cittadini in poche tribù, mentre le città, soggiogate con la forza, non solo erano escluse, ma venivano ridotte nella peggiore condizione  di città dediticiae.
Il malcontento degli Italici si venne a mescolare con la lotta di partito.
L’ 88 vedeva console L.Cornelio Silla, giunto cinquantenne al consolato con un onorevole passato militare, ma senza una risonanza politica. Era tribuno nello stesso anno Publio Sulpicio Rufo (erede dell’ idea di Livio Druso), che pose con vasta apertura il problema della sistemazione dei nuovi cittadini. Egli fece una serie di proposte a favore degli esuli seguaci di Druso, e una legge che vietava ai senatori di avere debiti superiori a duemila dramme. Queste proposte passarono solo mediante violenze contro l’ opposizione del senato e dei consoli L.Cornelio Silla e Q.Pompeo Rufo (che aveva ordinato con un editto feriae imperativae onde impedire la votazione) ; Pompeo dovette fuggire e Silla revocare il decreto di feriae imperativae.
La risposta di Silla fu pronta : egli marciò su Roma con le sue legioni e conquistò la città sbaragliando gli avversari mediante una cruenta battaglia per le strade.
L’ ambizione di un uomo come Mario, che, privato, chiede al console la consegna di un esercito, la fedeltà delle legioni al generale e l’ espugnazione militare della città entro il pomerio da parte di Silla : si apre la fase della guerra civile, la fase tragica della crisi della repubblica.
Silla una volta ottenuta la ratifica di ciò che aveva compiuto per ristabilire la sua autorità, mediante un senatus consultum ultimum che attribuiva ai consoli i pieni poteri, fatti dichiarare hostes rei publicae Mario, che fuggì, Sulpicio che fu ucciso, ottenuta dal Senato la dichiarazione di nullità delle leggi Sulpicie come imposte con la forza, insieme con il collega Pompeo Rufo, convocò i comizi e fece approvare alcune leggi fondamentali (una sui debiti e una sulla deduzione di colonie); con una lectio senatus veniva aumentato di 300 il numero dei senatori scegliendo i nuovi da famiglie di sentimenti aristocratici.
Silla partì per la guerra mitridatica. Le elezioni  portavano al consolato per l’ anno successivo un partigiano di Mario, Cinna, mentre il console Pompeo Rufo veniva assassinato.  Secondo Plutarco, Silla avrebbe ottenuto da Cinna il giuramento che nulla sarebbe stato mutato delle leggi dell’ 88 fino al suo ritorno; quindi egli partì per l’ Oriente per la guerra contro Mitriade.
Ma appena partito Silla, i popolari ripresero la loro azione; proposte, veti, lotte cruente, guerra civile per cui Roma veniva di nuovo presa con le armi, questa volta da Mario, Cinna, Sertorio e Carbone con il concorso degli Italici, in particolare di Sanniti. Il partito Mariano si assicurò così il dominio della città. Mario assunto il settimo consolato con Cinna, moriva nell’ 86; le spedizioni tentate in Oriente per togliere il comando a Silla fallirono, mentre Silla passava di successo in successo; lo stesso console Cinna nell’ 84 fu ucciso dai suoi soldati all’ atto dell’ imbarco verso la Grecia. Carbone organizzava allora la resistenza in Italia, quando Silla, vincitore in Oriente, sbarcò a Brindisi nell’ 83 e riuscì con dure battaglie, alternate a trattative, a sconfiggere gli avversari e conquistare la città conla vittoria alla porta Collina del 25 agosto 82.
Le rappresaglie furono feroci; le tabulae proscriptionis, che contenevano gli elenchi di coloro che erano votati alla morte ed i cui beni erano confiscati, servirono per lo sfogo di tutte le vendette personali dei sillani.
Silla però ci teneva a giustificare il suo potere; allontanatosi dalla città, fece far luogo all’ interregnum, e l’ interrex L.Valerio Flacco, per consiglio di lui, fece proclamare Silla dictator legibus scribundis et rei publicae constituendae. Silla riprese così l’ opera di restaurazione dello Stato che aveva già iniziato con le leggi proposte come console nell’ 88.
Pare che Silla volesse compiere un’ opera di restaurazione mirando all’ antica res publica fondata sull’ aristocrazia, ma l’ ironia della storia ha voluto che proprio lui, il restauratore, per compiere la sua opera, violasse uno dei più sacri principi di quell’ antica repubblica, penetrando con i suoi armati e le sue stragi nella città.
Silla dotato di un potere senza precedenti, ha mirato, come abbiamo già detto ad una restaurazione della repubblica sulla base dell’ oligarchia senatoria. Già nell’ 88 Silla aveva fatto votare una legge che prevedeva un ritorno dei comizi centuriati all’ ordinamento cosiddetto serviano, e un’ altra che limitava i poteri dei tribuni, subordinando i progetti di legge da essi proposti all’ autorizzazione del senato.
Nominato dittatore nell’ 82, Silla rinnovò una legge de tribunizia potestate; in questa, oltre alla subordinazione della proposte legislative tribunizie al consenso del senato, si stabiliva che solo i senatori potessero essere eletti tribuni, che gli ex tribuni non potessero aspirare alle cariche curuli, che l’ intercessio fosse ridotta al caso di auxilii latio, cioè di aiuto al singolo cittadino minacciato da un provvedimento di governo; con ciò il tribunato era ridotto ad un’ imago sine re.
Appartiene al periodo della dittatura di Silla, soprattutto agli anni dell’ 82 e 81, una lex de magistrati bus ribadiva l’ intervallo decennale per l’ iterazione della magistratura e precisava il cursus honorum stabilendo il limite minimo d’ età per la questura; una lex iudiciaria restituiva l’ ufficio di giudice nelle quaestiones ai senatori e regolava il procedimento nelle scelte dei giudici; una legge sui sacerdozi ristabiliva la cooptatio per la nomina dei pontefici e degli auguri; altre leggi portarono a otto il numero dei pretori e venti il numero dei questori.
Con una legge sulle province si normalizzava e regolava il sistema della prorogatio imperii stabilendo che i pretori nell’ anno di carica esercitassero la giurisdizione in città, e i consoli esercitassero il governo civile rimanendo a Roma e in Italia, privi di comando militare, che non poteva essere esercitato in Italia.
Così si stabiliva una netta distinzione tra l’ imperium in Italia e nelle provincie; sottraendo l’ Italia all’ imperium militiae, si estendeva all’ Italia come regime normale il regime legale che valeva entro il pomerio di Roma.
Con la generale concessione della cittadinanza, l’ Italia, dallo stretto di Messina alla Magra e al Rubicone, costituiva un grande stato cittadino con un’ organizzazione municipale.
Silla, da un lato colpiva i suoi nemici con liste di proscrizione, stabiliva la confisca e la vendita dei beni dei proscritti, ne colpiva anche i figli e i nipoti con la perdita del ius honorum, dall’ altro lato confiscava territori per fondare le colonie dei suoi veterani, colpiva e puniva città ribelli, come Volterra e Arezzo, spogliate delle terre e private della cittadinanza.
Rientra nell’ opera di Silla l’ abolizione delle frumentationes. Il fine di Silla era una restaurazione aristocratica.
Nell’ anno 80 a.C. Silla, senza deporre la dittatura, fu eletto console, e in ciò già violava la sua legge de magistratibus, non essendo decorsi dieci anni dal primo consolato. Però egli rifiutava poi di essere rieletto console per il 79, e dopo che furono eletti i consoli, depose anche la dittatura, ritirandosi a vita privata, per morire nel 78.
La costruzione sillana, non avendo un’ intrinseca vitalità, cadde con la scomparsa della personalità che l’ aveva imposta al duro prezzo della guerra civile, del potere dittatoriale, della strage e della vendetta. Il castello costruito da Silla andò così rapidamente sgretolandosi.
Il periodo che segue è dominato dalla presenza di due personalità, Gneo Pompeo e C.Giulio Cesare, e culmina nel loro conflitto.
Pompeo ebbe un inizio di carriera veramente brillante; giovanissimo, salutato imperator da Silla nell’ 83 a.C., autorizzato nell’ 81 a celebrare il trionfo reduce dall’ Africa, onorato da Silla con il sopranome di Magnus, egli acquistò un prestigio militare e  quindi una serie di comandi e di poteri; nel 77 gli fu affidato come privatus cum imperio il compito di debellare l’ insurrezione di Lepido e Bruto; fu inviato quindi con potere proconsolare in Ispagna a combattere Sertorio e contro Perperna, in una guerra che durò alcuni anni, e dal quale nel 71 Pompeo uscì vincitore; ritornò quindi in Italia, contribuì all’ annientamento delle bande di schiavi ribelli, battuti da Licinio Crasso in sei mesi di dura guerra, e si presentò insieme a Crasso alle porte di Roma, entrambi con eserciti vittoriosi, aspirando d’ accordo al consolato.
Il consolato per il 70 fu il prezzo di un accordo fra Pompeo e Crasso e i capi del partito popolare, e recò l’ ultimo colpo alla costituzione sillana.
Nel 67 le necessità della guerra contro i pirati (che costituivano un grave pericolo per la vita sui mari e per i rifornimenti e l’ esistenza stessa delle città), determinarono la lex Gabinia de uno imperatore contra praedones constituendo, con l’ istituzione di un comando con potere proconsolare su utti i mari e sulle regioni litoranee, per la durata di tre anni, con la facoltà di allestire la flotta fino ad un massimo di 20 legioni e 500 navi, di eleggersi 15 legati, e con un credito aperto fino a 6000 talenti. La legge passò nonostante l’ opposizione degli optimates, e l’ imperium fu conferito a Pompeo che acquistava così un altissimo potere.
In tre mesi annientò i pirati e apparve quindi come un salvatore. Nel 66 una lex Manilia gli affidava anche la guerra contro Mitriade, con il diritto di dichiarare guerra e concludere trattati con il governo delle province di Asia, Bitinia e Cilicia.
Egli ebbe in Oriente notevoli successi; ma intanto il suo rivale Crasso, favorito da Cesare, manovrava in Roma, appoggiandosi sui populares, per costruirsi una propria base. In questo periodo cade il consolato di Cicerone del 63, e la repressione della congiura di Catilina, mentre Cesare che nel 62 ricoprì la pretura, partì per la sua provincia, la Spagna.
Pompeo tornava in Italia alla fine del 62, congedava il suo esercito a Brindisi, e nel  gennaio del 61 giungeva dinanzi a Roma, dove gli fu accordato il trionfo. La sua posizione politica però era scossa; il partito senatorio diffidava di lui, i suoi ordinamenti dati in Oriente non furono confermati, e non furono assegnate terre ai suoi veterani. Ciò lo ributtò nelle braccia di Cesare, che, tornato dalla Spagna, voleva porre la candidatura al consolato per il 59, e offrì quindi il suo appoggio a Pompeo, riconciliandolo con Crasso; si ebbe così un’ alleanza segreta fra i tre uomini, per reciproco appoggio.
Cesare fu console nel 59, gli ordinamenti dati da Pompeo furono approvati con una lex Iulia, e una lex Vatinia de provincia Caesaris conferiva per 5 anni a Cesare, la Gallia Cisalpina e l’ Illirico con tre legioni.
Nel 56 con la ripresa del partito senatorio in Roma, l’ accordo fra i tre uomini, nonostante gelosie e screzi, fu ripreso; nel luglio del 56 si incontrarono con piena pubblicità in Lucca, e così si rivelò il primo triumvirato, accordo dei tre uomini che consideravano la situazione dello Stato come un affare controverso fra loro. Fu stabilito che Pompeo e Crasso avrebbero ricoperto il consolato  per l’ anno 55 e quindi Pompeo avrebbe avuto il governo della Spagna, Crasso della Siria (dove morì nel 53), mentre a Cesare sarebbe stato prorogato per cinque anni il governo il governo della Gallia e dell’ Illirico.
Pompeo finito il consolato non si recò in Spagna ma restò nei pressi di Roma a sorvegliare la situazione; avuto dal senato, nel 53 e nel 52, l’ incarico di ristabilire l’ ordine, nel 52 riuscì a farsi nominare consul sine collega (con la facoltà di cooptare dopo due mesi un collega) cumulando il consolato con il proconsolato.
Cesare da parte sua ambiva potersi presentare al consolato, scaduto il decennio del consolato, senza lasciare la provincia, in modo da non porre intervalli fra il proconsolato e il consolato e non poter così essere accusato e processato in quell’ intervallo di privato cittadino; un plebiscito del 52 gli accordò la facoltà di presentare tale sua candidatura restando assente, il che doveva far ritenere presupposta la proroga del suo proconsolato fino a tutto il 49. Ma Pompeo faceva approvare due leggi, una de iure magistratuum che rinnovava la disposizione per cui i candidati dovevano essere presenti a Roma per fare la loro dichiarazione; l’ altra de provinciis in cui si stabiliva un intervallo quinquennale fra la magistratura urbana e la promagistratura provinciale. Tutto ciò sarebbe ridondato a danno di Cesare, mentre Pompeo manteneva e consolidava la propria posizione con l’ appoggio del senato.
Alle proteste di Cesare, Pompeo, per quanto riguarda la prima legge, addusse una dimenticanza, ed anzi fece correggere , introducendo l’ eccezione a favore di Cesare, la lex iure de magistratuum, iam incisa et in aerarmi condita.
Di qui il fondamento giuridico del conflitto fra Cesare e il Senato, il primo forte del plebiscito votato a suo favore nel 52, il secondo richiamandosi alla lex Pompeia che era venuta dopo. L’ irrigidimento del Senato non permise di venire ad un accordo; scaduto nel 50 il termine entro il quale non si poteva provvedere alla provincia della Gallia, dopo alcuni mesi di proroga e dopo che il tribuno Curione efficacemente con l’ intercessio ostacolava ogni procedimento, e Cesare continuava il suo proconsolato volendo arrivare a presentare la candidatura per il 48 e adducendo che con ciò egli rispettava il termine decennale, il 1° dicembre del 50 le cose precipitarono. Dopo un voto del senato, l’ intercessio del tribuno, un nuovo voto del senato, provocato dal tribuno, che involgeva tanto Cesare che Pompeo, diffusasi a Roma la voce che Cesare varcate le Alpi marciasse contro Roma, il console Marcello propose il 4 dicembre un senatus consultum ultimum; di fronte all’ intercessio del tribuno il console scioglieva la riunione, dichiarando che avrebbe provveduto egli stesso e troncando gli indugi affidava il comando a Pompeo. Dal tempo dei Gracchi gli atti incostituzionali si erano moltiplicati in numero e proporzioni.
Il conflitto era fra i due uomini, ed il Senato non poteva che contrapporre l’ uno all’ altro; fra i due uomini vinse il più audace. Dopo alcuni giorni di discussioni, proposte e nuove discussioni, il senato il 7 gennaio del 49, deliberò che Cesare dovesse congedare l’ esercito e sgombrare la provincia, in cui gli fu dato il successore, e votò un consultum senatus ultimum paralizzando l’ azione dei tribuni; il 10 gennaio del 49 Cesare passava il Rubicone, Pompeo portava magistrati e vari senatori al suo campo di Tessalonica, creando così per breve tempo un doppio governo; la battaglia di Farsaglia del 48 decideva la sorte dei due rivali, con successive vittorie Cesare abbatteva le superstiti forze pompeiane.
Dal 49, dopo le successive vittorie, si accumulano nella persona di Cesare una serie di cariche ed onori che accentrano in lui un potere monarchico. Nominato dittatore nel 49, rinominato a tempo indeterminato nel 48, rinominato per dieci anni nel 46, e quindi a vita; console nel 48, ebbe concessa la facoltà di assumere il consolato per 5 anni successivi, e lo assunse, accoppiandolo alla dittatura nel 46, e fu consul sine collega nel 45 e più tardi gli fu conferito il consolato decennale; fu investito dalla tribunizia potestas a vita nel 48, e nel 45 gli fu conferita l’ inviolabilità tribunizia senza limiti di spazio; fu investito nel 46 della praefectura morum che importava la potestà dei censori; fu pontefice massimo. Oltre all’ investitura delle magistrature si ebbe tutto un conferimento successivo di poteri ed onori : il diritto di procedere a suo arbitrio contro i Pompeiani, quello di decidere della guerra e della pace, quello di distribuire le provincie pretorie, quello di designare i candidati per le varie magistrature, il supremo comando degli eserciti; e tutta una serie di poteri, prerogative, titoli, cerimonie, insegne esteriori ed espressioni tangibili di esaltazione e divinizzazione, che ormai qualificavano una vera e propria instaurazione monarchica che si andava affermando e consolidando, in un crescendo che culmina nella fase che seguì alla vittoria di Munda nel 45.
Cesare svolse un’ intensa opera di costruzione ed organizzazione operando nel campo legislativo e amministrativo.
In base ad una sua legge agraria del 59, fece ampie distribuzioni di terre ai suoi veterani, e diede impulso alla colonizzazione delle provincie. Estese la cittadinanza romana alla Gallia Cisalpina preparando così l’ estensione dell’ Italia fino alla Alpi; regolò le frumentetiones; con una lex iudiciaria riformò la composizione dell’ album iudicum togliendone i tribuni aerarii; intervenne in materia penale con leggi de pecuniis repetundis, de vi e de maiestate, legiferò in materia di dogane, di credito, di pigioni; con una legge de provinciis limitò la durata del governo provinciale; con una lex municipalis diede definitivo assetto all’ ordinamento municipale. Codificò il diritto civile e disegnò un grandioso programma di opere pubbliche.
L’ opera di Cesare fu interrotta dal pugnale dei congiurati alle idi di marzo del 44.
Il conflitto da Cesare e Pompeo sembrava incarnarsi in due opposte concezioni per la soluzione della crisi romana. Pompeo uomo ambiguo ed infido, guidato soprattutto dalla sua ambizione, ha spesso oscillato nelle sue posizioni rispetto ai partiti, determinando diffidenze negli uni e negli altri; ma, nonostante le diffidenze, egli fu l’ uomo preferito dagli ottimati; Cicerone vedeva incarnato in lui il suo disegno di princeps. Cesare aveva invece una personalità più completa.
La contrapposizione del disegno di Cesare al principato, quale fu realizzato poi da Augusto, può essere presentata anche attraverso indirizzi concreti; basta ad es. ricordare la politica di Cesare verso il senato, di cui egli svilì l’ autorità e il prestigio. Ma soprattutto è innegabile la tendenza monarchica di Cesare, nel senso della monarchia assoluta. Egli aspirava al titolo di rex. Va sottolineata anche la tendenza di Cesare, al livellamento fra l’ Italia e le provincie, tendenza che si esplicò nella larga concessione della cittadinanza romana, come nella concessione della latinità, come per altro verso nell’ ampia colonizzazione dell’ impero.
Nel fatale confluire verso l’ affermazione e l’ inquadramento costituzionale di un potere personale, la forma del principato era quella che più si confaceva alla tradizione romana. Solo dopo un lungo sviluppo, a partire dal III secolo d.C. si affermerà quella monarchia assoluta.
L’ uccisione di Cesare faceva precipitare lo Stato romano in ulteriori convulsioni, nelle quali si affermò la personalità del giovane Ottavio, pronipote di Cesare, da questo adottato nel testamento, e che diventò quindi C.Iulius Caesar Octavianus. Attraverso varie vicende, nel 43 si giungeva alla formazione di un triumvirato formato da Ottaviano, Antonio e Lepido (che fece larghe e spietate proscrizioni con le connesse spoliazioni) ; questo triumvirato trovava consacrazione nella lex Titia de III viris reipublicae constituendae, che convalidava questa magistratura straordinaria, con poteri illimitati per 5 anni; esso veniva riconfermato nel 37.
Ma la rivalità fra Ottaviano e Antonio (Lepido scomparve dalla scena), dopo essere stata più volte contenuta e superata, esplose e si concluse con la deposizione di Antonio da triumviro nel 32, la guerra civile e la vittoria di Ottaviano ad Azio nel 31.
Con questo evento si può registrare l’ atto di nascita del principato.

 

 

CAPITOLO XII – IL PRINCIPATO
La definizione del principato augusteo rappresenta uno dei più tormentati problemi per gli storici odierni. Al problema storico si aggiunge tutta la difficoltà di una ricerca giuridica, cioè di determinazione di un valore e di un fondamento giuridico degli atti e dei poteri.
Con Augusto abbiamo realmente un riassetto stabile dello Stato romano, con un regime che ormai viene inteso come continuativo, ed occorre quindi delineare le linee giuridiche essenziali di questo regime costituzionale nel processo storico.
Ottaviano era uno dei triumviri; ed il triumvirato stabilito per cinque anni con la lex Titia e rinnovato per altri cinque anni, si ridusse alla fine a lui solo per il ritirio di Lepido nel 36 e per la destituzione di Antonio, avvenuta nello stesso 32. Eppure nel 32, dopo la rottura con Antonio, Ottaviano ricevete un giuramento di fedeltà dell’ Italia e delle provincie occidentali e, conseguentemente un’ investitura per la guerra che egli condusse contro Antonio; il valore di questo giuramento è discusso; esso si pone sulla scia della continuità di rapporti sociali e politici di clientela, e rispettivamente di patronato ed assume un particolare valore per la qualifica della posizione personale del principe; il triumvirato sarebbe scaduto, e nelle res gestae Ottaviano dice che tenne il potere di triumviro per dieci anni; secondo altre testimonianze sembrerebbe invece che egli ne fosse investito ancora anche dopo il 32.
Ottaviano conservò il potere straordinario di cui era investito anche dopo la vittoria, quando evitò nuove magistrature straordinarie e mostrò di rientrare nella normalità costituzionale accedendo al consolato, che dal 31 gli venne rinnovato annualmente. Di tale potere egli si considerava ancora investito nel 28 a.C. benché i romani rivedessero lo stato governato da una coppia di consoli (Ottaviano e Agrippa); inoltre bisogna ricordare che nel 36, gli era stata conferita la tribunicia potestas, riconfermata nel 30 e rinnovata pienamente nel 23; nel 28 gli fu attribuita la qualifica di princeps senatus. Più volte poi egli era stato acclamato imperator delle truppe; egli assunse questo titolo come praenomen stabile e gli fu confermato dal Senato nel 29.
Secondo Dione Cassio nel 30 a.C. gli fu riconosciuto un diritto di giudicare in appello e inoltre, a data incerta, il diritto di commendatio per certi sacerdozi.
Nelle sue res gestae Augusto sintetizzava la sua posizione all’ alba dell’ anno 27 a.C. dicendo che egli era per consensum universo rum potitus rerum omnium ed aveva la res publica in sua potestate.
Fu nella seduta del Senato del 13 gennaio del 27 che fu segnato l’ atto iniziale nel processo di formazione del nuovo regime. Ottaviano depose il potere straordinario e restituì i poteri dello Stato al senato ed al popolo.
Oggetto della rinuncia di Ottaviano era quel potere straordinario che poneva la res publica nelle sue mani e che ora ritrasferiva alla sovranità dei suoi organi costituzionali.
L’ atto di Ottaviano si presenta dunque come una restaurazione della costituzione repubblicana; base giuridica costituzionale del suo potere, dopo la rinuncia al potere straordinario, restava il consolato, che egli ricoprì negli anni successivi mutando talvolta il collega. Egli affermava che non aveva alcuna potestas più dei suoi colleghi nella magistratura, ma che auctoritate praestitit.
Il grande gesto fu ricambiato con una serie di onori, fra cui il nome di Augustus. Augusto riconosciuto princeps per antonomasia, non solo princeps senatus, ma princeps civitatis, princeps universorum, accetava taluni poteri che gli davano una posizione preminente; tra questi è certo il conferimento, con il termine di dieci anni, del governo delle provincie non ancora pacificate o che richiedessero una difesa, il che significava praticamente conservare il comando dell’ esercito e importava il conferimento dell’ imperium proconsolare. Augusto di auctoritate omnibus praestare e questa era già la qualifica di una posizione costituzionale del principe.
Auctoritas non aveva il significato di un semplice prestigio morale, ma aveva per i romani il valore di un termine giuridico. Si ricordi l’ auctoritas nella mancipatio e l’ auctoritas tutoris nel diritto privato, l’ auctoritas patrum nel diritto pubblico.
L’ auctoritas principis invece, come già faceva risalire Augusto nelle sue res gestae del 27, si esplicava in quella cura e tutela rei publicae universa di cui parla Dione Cassio. Però questa auctoritas principis non si esauriva in singole espressioni giuridiche; essa aveva un valore e una portata generale e affondava le sue radici nella posizione personale del principe, in quei rapporti di clientela e di universale patronato, in quella posizione che qualche teorico definisce come potere carismatico; esso costituiva la forza viva, punto di partenza e termine di chiusura della dinamica del processo di costituzionalizzazione nell’ innesto del principe sulla costituzione repubblicana.
La fase dal 27 al 23 rappresenta ancora un periodo di assestamento; nel giugno del 23 a.C. si fece un passo avanti che portò alla determinazione del nuovo regime. Augusto rinunziò al consolato e gli fu attribuita la tribunicia potestas a vita, il diritto di intervenire in senato e di trattare in qualsiasi momento con l’ assemblea senatoria, un imperium proconsolare maius, cioè superiore a quello dei governatori delle provincie, e infinitum, cioè non limitato dal pomerium, e tale quindi che abbracciava Roma e l’ Italia le provincie, concesso una volta per sempre.
Con la rinunzia e con il rifiuto del consolato, veniva ad operarsi il distacco del principe dalle magistrature della costituzione repubblicana; la sua posizione, veniva a poggiare giuridicamente sul conferimento di poteri che, si erano desunti dagli schemi repubblicani, ma erano però separati dalle magistrature, e convergevano su una persona, caratterizzando la formazione di un nuovo organo posto al vertice.
Augusto aveva la tribunicia potestas senza essere tribuno e aveva l’ imperium proconsolare senza essere proconsole. Questa separazione non aveva più in carattere eccezionale, anzi, su tale separazione si stabiliva una normalizzazione.
Intorno alla figura del principe si accumularono tutta una serie di poteri a lui conferiti, quali il diritto di dichiarare guerra e concludere la pace, fare i trattati, il diritto di commendare dei candidati alla magistrature con efficacia vincolante, il diritto di convocare il Senato quando lo riteneva conveniente e di esercitarvi ogni iniziativa, il diritto di estendere il limite del pomerio… egli nelle sue res gestae ricorda di aver rifiutato la dittatura, e così il consolato sia annuo che perpetuo, e così pure tre volte la carica di curator legum et morum; è discusso se rifiutato il consolato, egli assumesse nel 19 l’ imperium consulare, e comunque della cura legum et morum egli stesso dichiarava di non averne rifiutato la sostanza della funzione, che afferma di essersi valso per agire in proposito della tribunicia potestas; accettò la cura annonae, rifiutò la censura, ma compì l’ operazione del censo. Nel 12 a.C. Augusto ebbe pure la somma dignità sacerdotale con il titolo di pontifex maximus.
Si andava così delineando e sempre meglio, la figura del principe come nuovo organo, cui faceva capo tutta un’ organizzazione che si sovrapponeva alla costituzione repubblicana, formalmente conservata.
Alla morte di Augusto nessuno poté seriamente pensare ad una abolizione del principato, e, se vi furono esitazioni, esse esistevano forse solo nelle preoccupazioni di Tiberio. Il principato si era ormai posto come una stabile istituzione.
L’ instaurazione del nuovo regime è avvenuta attraverso una sovrapposizione. Il Mommsen ha voluto definire il risultato come una diarchia, cioè un governo a due, del principe e del Senato. Ma di una diarchia non si può parlare perché questa presupporrebbe una visione unitaria che porrebbe entrambi i poteri sullo stesso piano, in una divisione o in un concorso di competenze e di poteri. Invece qui si parla di una vera e propria sovrapposizione di un potere all’ altro. Abbiamo cose che fanno capo al principe e cose che fanno capo al Senato. Si sarebbe quasi tentati di far capo ad una dualità di ordinamenti giuridici; ma il dualismo non si traduce nella separazione di due ordinamenti in quanto si ha più un innesto del principe e dell’ organizzazione che vi fa capo, sul vecchio Stato Romano. E quindi noi non ci sentiremo di aderire alla geniale l’ Arangio-Ruiz ci da una raffigurazione del rapporto fra il principe e la costituzione repubblicana come un protettorato, analogo a quello stabilito da Roma sulle civitates che entravano nella sua sfera egemonica, protettorato in cui lo stato protetto sarebbe la res publica Romanorum formalmente intatta, Stato protettore sarebbe una monarchia vera e propria in cui “ l’ Etat c’ est le prince “. Noi crediamo che non risponda alla reale essenza del principato una costruzione che faccia capo ad una separazione giuridica, ma piuttosto una che, pur rilevando una sutura storica, faccia leva sulla sovrapposizione e sull’ innesto di un nuovo organo e di una nuova organizzazione che rappresenta la parte viva e vitale e caratterizza un nuovo regime.
Mirando al risultato di quest’ innesto dobbiamo parlare di regime sostanzialmente monarchico, o di repubblica riformata nel senso di una democrazia autoritaria ?
Alla fin fine è un problema di formula, e può trattarsi di una questione di gusti; l’ essenziale è cogliere la creazione di un nuovo organo e di un’ organizzazione che vi fa capo, innestata sulla costituzione repubblicana formalmente conservata. È innegabile che questo nuovo organo, e l’ organizzazione che vi faceva capo, rappresentava in sostanza un principio monarchico.
Comunque ciò che caratterizza il principato è il modo in cui il nuovo regime si pone, questa sovrapposizione del principe alla costituzione formalmente restaurata, rientra nello spirito dello sviluppo romano e rappresenta una realtà viva al di fuori degli schemi rigidi e semplici.
Punto delicato, per il modo in cui il principato si era posto è quello della successione.
L’ introduzione di un sistema dinastico sarebbe stato contrario allo spirito romano. L’ antico principio romano che il magistrato crea il magistrato si era perduto nello sviluppo democratico dell’ elezione alla cariche, e ad Augusto i poteri erano stati conferiti dal Senato e dal popolo.
Nella costituzione repubblicana poteva dirsi che dal punto di vista sociale e politico l’ aspirazione alle cariche si tramandasse nelle famiglie nobili, col trasmettersi di padre in figlio della situazione politico-sociale, della potenza e del prestigio familiare, delle clientele politiche; dal punto di vista sociale e politico, il successore del princeps secondo il diritto privato era anche designato ad ereditarne la clientela e l’ influenza politica, e quindi aveva una fondata aspettativa a succedergli nella posizione di princeps. Questa constatazione trova riscontro nell’ affermazione di fatto di dinastie, quale quella Giulio-Claudia, quella degli Antonini, quella dei Severi.
Una forma più determinata e più giuridicamente rilevante era quella che consisteva nel far partecipare il designato al potere con il fargli conferire, vivente il principe, uno o entrambi i poteri fondamentali su cui poggiava il principato, la tribunicia potestas e l’ imperium proconsulare; ma anche questo poteva creare solo un’ aspettativa che doveva poi trovare consacrazione nel voto del senato e del popolo, in quella lex de imperio con la quale il principe aveva l’ investitura.
Accanto a questa investitura, attraverso il conferimento dei poteri, stava la posizione e la forza degli eserciti, e il fatto che il titolo di imperator derivava dall’ acclamazione che le truppe facevano al generale vittorioso, e Ottaviano era stato appunto acclamato più volte dalle truppe. Di qui l’ interferenza degli eserciti che finivano con il forzare il riconoscimento del Senato, il che sboccò nel caos in cui l’ impero precipitò dopo la morte di Alessandro Severo.
Ai successori di Augusto, come già detto, i poteri venivano conferiti con la lex de imperio, che veniva preparata dal senato e approvata per acclamazione dal popolo.
Con lo sviluppo storico il principato andò sempre più affermandosi nel suo aspetto monarchico, mentre andavano isterilendosi gli organi della sopravvissuta costituzione repubblicana. Questo aspetto monarchico veniva sentito di più nelle province che nell’ Italia, in cui operava il vivo senso della tradizione.
Augusto mantenne viva la distinzione fra l’ Italia e le provincie e la posizione di preminenza e dominazione della prima, che egli definì nei suoi confini, ormai segnati dalle Alpi, ed ai fini del censo divisi in undici regiones (esclusa la città di Roma); gli Italici erano tutti cives romani, il suolo italico era immune e oggetto di dominium ex iure Quiritium, le varie organizzazioni cittadine, aventi un regime quasi uniforme, godevano di larga autonomia amministrativa.
L’ Italia, che attraverso l’ estensione della cittadinanza era divenuta territorio di uno stato con struttura costituzionale cittadina, nella costituzione restaurata da Augusto conservava questa posizione , in quello che rappresentava dunque ancora formalmente lo Stato dominatore; e la conservazione delle provincie senatorie era l’ espressione formale di questo principio.
Ma era naturale che le province amassero sentire più direttamente il potere monarchico del principe, il rafforzarsi di questo potere portava ad un livellamento, da un lato con l’ estendere le concessioni della cittadinanza  e le colonizzazioni, dall’ altro lato con il sottoporre sempre di più l’ Italia e Roma all’ amministrazione imperiale, fino alla conclusione nella politica livellatrice dei Severi, che trovò espressione nell’ editto di Caracalla del 212 con cui fu concessa la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’ impero.
Vediamo ora la posizione dei diversi organi della costituzione repubblicana nel principato.
Cominciamo dalle magistrature.
Delle magistrature repubblicane, quella che più risentì dell’ instaurazione del principe, perdendo la maggior parte del suo contenuto, fu il consolato; il potere assorbente del principe svuotava infatti la suprema magistratura. A confermare questa decadenza intervenne la riduzione della durata (da semestrale a quadrimestrale, con lo scopo di avere il maggior numero di ex consoli); si distingueva fra consoli ordinari che entravano in carica il 1° gennaio ed erano eponimi, e gli altri che erano detti consules suffecti. Ai consoli furono demandate nuove funzioni giurisdizionali nello sviluppo della cognitio extra ordinem. Il consolato conservava la sua posizione in rapporto al proconsolato, all’ entrata in senato, e forniva i consulares per l’ ammissione agli alti uffici della nuova gerarchia.
La pretura conservò invece la sua funzione fondamentale nella giurisdizione civile e penale, anche se in quella penale la sua funzione andò decadendo con il decadere delle quaestiones perpetuae; il numero dei pretori aumento a 16 sotto Cesare, oscillò fra 8 e 16 sotto Augusto e i successori, e salì a 18 sotto Claudio; ai pretori furono affidate anche funzioni inerenti alla cognitio extra ordinem.
La censura era già in decadenza alla fine della repubblica; alcune sue funzioni furono usurpate dal principe che talvolta ne assunse anche il titolo; Domiziano assunse la censura a vita e così questa magistratura fu assorbita dal principato.
I tribuni conservarono il diritto di convocare e presiedere il Senato, l’ intercessio e il diritto di multa, ma sostanzialmente perdettero molta influenza.
Gli edili  conservarono la loro limitata giurisdizione e il ius multae dicendae, ma perdettero le loro funzioni amministrative assorbite da funzionari imperiali.
I questori per la loro modesta posizione conservarono la loro ragion d’ essere; furono ridotti a venti.
I comizi conservarono sotto Augusto una parvenza di vitalità. Se la funzione giudiziaria si era ormai esaurita con lo sviluppo delle quaestiones, l’ attività legislativa ebbe ancora tutta una fioritura; ma sotto Tiberio, Caligola e Claudio, le leggi si andarono rarificando; dopo Claudio, salvo una breve e discussa ripresa sotto Nerva, di leggi non se ne votarono più.
Sotto Tiberio l’ elezione dei magistrati passò sostanzialmente al senato, anche se questa conclusione non è certa visto che si trova menzione dei comizi elettorali sostanzialmente funzionanti anche per il periodo successivo a Tiberio; si cercava allora di superare l’ ostacolo o riducendo l’ intervento dei comizi ad una acclamazione , o determinando il potere del senato nel senso che gli spettasse di fare una scelta fra i candidati, per i posti in cui non vi fosse commendatio vincolante del principe, e che i candidati scelti dal senato dovessero essere sottoposti all’ approvazione dei comizi.
Oggi però siamo più informati per ciò che riguarda la riforma avvenuta in questo periodo relativa alla scelta dei magistrati, grazie ad una tavola di bronzo (scoperta presso Magliano, Grosseto), che contiene una rogatio, risalente all’ anno in cui morì Germanico (19 d.C.), nella quale si stabilisce quella di 5 nuove centurie, chiamate di Germanico Cesare, da aggiungersi alle dieci dedicate a Gaio e Lucio Cesare, per un’ assemblea mista di senatori e cavalieri che doveva procedere alla destinatio dei magistrati. Più precisamente la destinatio dei candidati al consolato e alla pretura era stata attribuita, nel 5 d.C., ad un’ assemblea mista di senatori e di cavalieri. All’ assemblea venivano chiamati i senatori e i cavalieri appartenenti a tutte le decurie costituite per iudicia publica; essi venivano ripartiti fra le quindici centurie secondo le tribù cui appartenevano, raggruppate per sorteggio. Man mano che le tribù venivano estratte, erano chiamati a votare prima i senatori e poi i cavalieri. La tabula Hebana stabilisce tutti i particolari della procedura fino alla proclamazione dei risultati, cioè dei destinati.
Pare che alla morte di Druso, furono aggiunte alle 15, altre 5 centurie in suo onore.
Compiuta la destinatio, la creatio dei magistrati spettava ai comizi.
Anche per il conferimento dei poteri al principe mediante la lex de imperio l’ intervento del popolo si ridusse ad una acclamazione dopo l’ approvazione del Senato.
Naturalmente anche la destinatio dei magistrati, di cui abbiamo parlato, era limitata alla commendatio del principe che era vincolante. Praticamente il principe influiva su ogni scelta. La funzione dei comizi andò quindi esaurendosi ben presto.
Il Senato è l’ organo costituzionale che conservò nel principato una posizione eminente, tanto che il Mommsen definisce il principato come una diarchia. Ma anche l’ attività del Senato era sostanzialmente ispirata e diretta dal principe.
Augusto rivalutò il prestigio del Senato riducendo il numero dei senatori di nuovo a 600, con una lectio furono esclusi i libertini e le persone indegne.
In seguito il Senato si alimentò secondo le regole degli ex magistrati; per l’ ammissione in Senato fu posto il requisito di un patrimonio di un milione di sesterzi.
Oltreché l’ influenza nella scelta dei senatori, va sottolineata la libera iniziativa del principe nei riguardi della convocazione del Senato e della presentazione delle proposte, quindi anche l’ attività del Senato era sostanzialmente ispirata e diretta dal principe.
Con il principato, il Senato perdette la direzione della politica estera, dichiarare la guerra e la pace, il diritto di fare i trattati (attività assorbite dal principe). Rimase l’ amministrazione finanziaria in rapporto all’ aerarium.
Se il Senato però perdeva gran parte delle sue funzioni assorbite dal principe, esso ne acquistava altre a scapito dei comizi, di cui il Senato usurpò le funzioni legislative e giurisdizionali (anche se anche in questo campo si sentiva l’ influenza del principe).
Il principe aveva tutta un’ organizzazione che gli faceva capo. Il ceppo di questa organizzazione era unico in quanto essa faceva centro nel complesso potere del principe. Il principe necessitava di questa organizzazione per sbrigare una serie molteplice e varia di compiti e pratiche inerenti l’ attività e i poteri imperiali, e per esigenze di rappresentanza del principe stesso in campo pubblicistico.
Quei compiti e quelle funzioni che dapprima erano intesi come servizio privato del principe, si trasformarono in veri e propri uffici di funzionari statali.
I caratteri fondamentali che distinguevano questi funzionari imperiali dai magistrati erano : la durata a tempo indeterminato, la retribuzione, il fondamento della competenza (che era delegata in rappresentanza del principe anziché originaria come nelle magistrature repubblicane).
Si andò formando così un certo ordine di avanzamento dei funzionari imperiali, una sorta di carriera delle persone di rango equestre. Alla carriera equestre si era ammessi dopo aver raggiunto un certo grado di ufficiali nelle regioni; solo più tardi si ebbe uno sganciamento e separazione della gerarchia degli uffici civili da quella militare.
Al più alto grado dei prefetti vi erano i praefecti praetorio, la cui funzione originaria era militare. Augusto nominò una guardia del corpo dell’ Imperatore, allo scopo di prottegerlo, costituita prima di nove, poi di dieci coorti di mille uomini l’ una.
L’ alto comando del corpo spettava al principe e veniva esercitato in sua vece dai praefecti praetorio, da lui nominati, (erano solitamente scelti fra i cavalieri). Essi avevano anche competenza giurisdizionale criminale in Italia, dove cessava la competenza del praefectus urbi e la rappresentanza dell’ imperatore come giudice d’ appello. Tutto ciò accrebbe la dignità e la posizione della carica, chiamati nel terzo secolo illustri giuristi.
Altri prefetti furono creati con funzioni che investivano l’ amministrazione di Roma, si pensi al praefectus urbi, a cui il re, prima della creazione della pretura, affidava in sua assenza la cura della città; al praefectus urbi spettava il potere di polizia nella città, il comando di tre e poi quattro cohortes urbanae di mille uomini l’ una, aveva giurisdizione criminale e civile. Inizialmente la sua giurisdizione si estendeva a tutta l’ Italia, successivamente solo a Roma e ad un raggio di cento miglia da Roma, al di la del quale la competenza era del praefectus praetorio.
Abbiamo poi la creazione di un praefectus annonae di rango equestre; un praefectus vigilum, anche lui di rango equestre, per la difesa contro gli incendi e la tutela della sicurezza notturna, con giurisdizione civile e penale. Ad un praefectus venne sottoposto l’ Egitto che per la sua posizione particolare non costituiva una provincia.
L’ amministrazione dell’ impero richiedeva tutta una serie di uffici che formavano la cancelleria imperiale. Questi diversi uffici di coadiutori del principe erano indicati con la preposizione ab, ed erano i seguenti :

  • ab epistulis : che preparava gli atti del principe in forma di epistulae, e che si divise poi in due sezioni, ab epistulis latinis ed ab epistulis greci;
  • a libellis : che preparava le risposte dell’ imperatore alle domande a lui rivolte dai privati;
  • a cognitionibus : istruttore delle cognitiones del principes e suo consigliere;
  • a memoria : che si occupava della redazione per iscritto dei discorsi e degli atti imperiali;
  • a rationibus : che era l’ ufficio finanziario;
  • al di sotto di questi uffici vi erano poi una serie di subordinati, auditores, tabularii, proximi…

 

I titolari di questi uffici erano diversi dai procuratores che si occupavano dell’ amministrazione delle finanze, inoltre i procuratores operavano in luogo dell’ imperatore, mentre gli altri erano coadiutori nella preparazione ed emanazione degli atti del principe.
Posizione incerta avevano i curatores, scelti dal principe con intesa del senato, e fra i senatori, che sembravano più integrare l’ amministrazione repubblicana, che esplicare funzioni in nome del principe. Abbiamo i curatores viarum, aquarum, medium sacrum et operum locorumque publicorum… e poi i curatores frumenti, assorbiti dalla creazione della paefectura annonae.
Abbiamo poi un consilium principis che era un organo permanente di consulenza giuridica dell’ imperatore, sia nell’ attività giudiziaria, sia in quella legislativa e amministrativa. Furono chiamati a farne parte accanto a funzionari dell’ ordine equestre e senatorio, anche dei giureconsulti; si delineò così la figura dei consiliarii, esperti di diritto, assunti come stabili e stipendiati.
Oltreché poteri di amministrazione, gli organi locali avevano anche una giurisdizione in materia criminale e in materia civile entro determinati limiti di materia e valore, al di la del quale stava il potere giurisdizionale del praetoer, urbanus o peregrinus.
Per la giurisdizione civile, Adriano nominò quattro consulares con la funzione di reddere iura per l’ Italia. Essi assumevano, nei limiti territoriali, la competenza che prima aveva il pretore (ossia quei processi che superavano i limiti di competenza dei magistrati locali); si affermava una più diretta ingerenza dei funzionari imperiali nell’ amministrazione locale, nello specifico nell’ amministrazione finanziaria. Sotto Caracalla compaiono dei correctores preposti in via saltuaria o straordinaria, con Diocleziano diventarono invece funzionari ordinari.
Le province sotto il principato vennero divise in provincie senatorie e imperiali.
Le prime erano governate da ex magistrati, detti proconsules, duravano in carica un anno, salvo proroga di un altro anno mediante senatoconsulto.
Le province imperiali invece erano amministrate da legati Augusti, cioè luogotenenti del principe, scelti nell’ ordine senatorio e nominati dall’ imperatore a tempo indeterminato, venivano detti pro praetore.
Al governatore spettava, con il governo della provincia, la giurisdizione civile e penale; nelle provincie senatorie egli soleva delegarla ad un legato proconsolare.
L’ amministrazione finanziaria fu attribuita ai questori nelle province senatorie ed ai procuratori nelle province imperiali. Essi curavano la riscossione dei vari tributi.
Nel territorio provinciale continuavano a esistere città di vario tipo; comunità di cittadini, municipia o coloniae, accanto alle quali si trovavano municipii o colonie latine; comunità di peregrini qualificate come città federate, di cui talune immunes; esistevano i regna più o meno dipendenti da Roma.
Con un progressivo processo storico anche gli stati liberi e alleati vengono assorbiti nell’ Impero. Alle città libere l’ imperatore poteva inviare commissari straordinari allo scopo di riordinare l’ amministrazione o la revisione dei bilanci.
Vi erano poi dei territori che avevano una particolare posizione, tra cui abbiamo già dello l’ Egitto, che apparteneva al principe ed era quindi unito all’ Impero romano per una specie di unione personale (era governato da un praefectus Aegypti, coadiuvato da un idiologos) . Altri territori, considerati stati annessi, venivano governati attraverso un procurator.
L’ avvento di Augusto fu esaltato come la riconquista della pace; esso fu la conclusione di un periodo di profonda crisi e di sconvolgimenti; si era giunti ad una consolidazione nella struttura sociale, soprattutto con la consolidazione del dominio acquistato da Roma. Lo sviluppo della dominazione romana trovava nel principato il suo assestamento e il suo regime. Il rafforzarsi del potere del principe operava più direttamente nel mondo provinciale, dove ne era più colto il carattere monarchico, e dove si tendeva ad un livellamento nell’ idea dell’ impero, dove Roma era il centro di esso. Questo sviluppo troverà il suo coronamento nella politica dei Severi e nella concessione della cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’ impero grazie all’ editto di Caracalla del 212.

 

CAPITOLO XIII – LA CRISI DELL’ IMPERO E LA MONARCHIA ASSOLUTA
La formula del Principato, come abbiamo detto, racchiudeva un processo storico e di rafforzamento dell’ organizzazione che faceva capo al Principe, con una conseguente fossilizzazione e decadenza degli elementi della costituzione repubblicana , si compie quindi un’ affermazione della monarchia assoluta.
Questo processo storico, in cui è stata molto importante la riorganizzazione di Adriano, culmina nell’ epoca dei Severi, dove l’ accentramento dei poteri nel principe e il livellamento dell’ impero trovano la loro piena espressione. Si instaura così la monarchia assoluta.
L’ accentramento dei poteri del principe si esplica, da un lato, nella decisa menomazione della posizione e dei poteri del Senato, ad opera di Settimio Severo, e dall’ altro trova espressione nella piena enunciazione del potere legislativo del principe, (quod principi placuit legis habet vigorem; princeps legibus  solutus est).
Il livellamento dell’ impero si compiva con la già ricordata costituzione di Caracalla del 212, che concedeva la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’ impero.
Alla morte di Alessandro Severo, ucciso nel 235 d.C., seguì un periodo in cui l’ Impero romano fu in preda all’ anarchia, in balia dei gruppi di legioni e della loro contrastanti acclamazioni.
La crisi succeduta all’ uccisione di Pertinace, nel 193 d.C., fu risolta con la vittoria di Settimio Severo, che ristabilì l’ autorità imperiale sviluppando il principio accentratore.
Ma alla morte di Alessandro Severo fu anarchia militare.
Questa crisi dell’ autorità dello stato fu al centro di un  quadro più vasto, caratterizzato da una profonda crisi economica e sociale (decadenza dell’ agricoltura, abbandono delle terre, svalutazione e falsificazione della moneta, aumento dei prezzi), e da una rivoluzione spirituale, rappresentata dalla diffusione del Cristianesimo che determinava un urto che trovava espressione nelle sistematiche e sanguinose persecuzioni di questo periodo.
Era dunque in atto una profonda trasformazione.
Questo mondo romano, era ormai giunto ad un punto di rottura; ciò che rappresentava il tradizionalismo e particolarismo romano, ciò che era espressione della posizione dominante dei Romani, o degli Italici, cedeva al livellamento generale.
La restaurazione, pacificazione e riorganizzazione dell’ impero, si ebbe con l’ avvento di C.Valerio Diocle, nominato imperatore dalle truppe nel 284, egli assunse il nome di C.Valerio Aurelio Diocleziano. A lui si fa risalire la fondazione della monarchia assoluta, opera completata da Costantino, così che si parla di monarchia dioclezianeo costantiniana.
Ma lo spirito dell’ opera di Diocleziano e quello dell’ opera di Costantino, erano ben diversi. Infatti Diocleziano guardava ancora indietro alla tradizione romana, egli mirava a restaurare la romanità; le forme di cui si circondava, i poteri che si riconosceva, venivano sentiti soprattutto come mezzi di restaurazione dell’ autorità e del prestigio dell’ impero romano. Con l’ affermazione della monarchia si ebbe una cancellazione  del potere del senato. Anche nel diritto privato, la cancelleria imperiale si atteneva al diritto romano, e cercava di opporsi all’ irrompere di usi e istituti provinciali ad esso estranei.
La stessa politica, tenuta nei confronti dei Cristiani, la feroce quanto assurda persecuzione, completa il quadro della contrapposizione tra Diocleziano e Costantino.
Con l’ impero di Costantino il nuovo spirito entra pienamente e apertamente; il dispotismo orientale con il suo fasto esteriore (da Costantino fu introdotto l’ uso del diadema, a lui si deve l’ organizzazione del sacrum cubiculum), l’ affermazione del principio dinastico, la tendenza teocratica, la riorganizzazione dell’ impero, l’ atteggiamento nei confronti del Cristianesimo, sono tanti tratti caratteristici della realizzazione politica di Costantino.
Con questa diversa impostazione, l’ opera di Diocleziano e quella di Costantino rappresentano le progressive tappe dell’ affermazione della monarchia assoluta.
Diocleziano , mirando a restaurare, facendo centro nell’ imperatore, l’ autorità dell’ impero, si preoccupò di assicurare la continuità attraverso la successione. A questo fine egli si associò nell’ impero un valoroso generale, Massimiano e gli riconobbe nel 286 il titolo di Augustus che spettava a lui; i due Augusti teoricamente avevano lo stesso poter, ma Diocleziano aveva una personalità dominante. Diocleziano lasciò a Massimiano la cura dell’ Occidente (con residenza a Milano o Aquileia), mentre egli fissò la sua sede a Nicomedia. Più tardi, nel 293, i due Augusti si associarono due principi in posizione subordinata, detti Cesari, i quali sarebbero automaticamente succeduti agli Augusti con il venir meno di questi. Questo sistema tetrarchico avrebbe permesso all’ autorità imperiale di esplicarsi organicamente, ed avrebbe assicurato la continuità, perché a loro volta i due Cesari, divenuti Augusti, avrebbero scelto a loro volta due Cesari. Ma questo sistema era fondato su una perfetta armonia tra i due Augusti. Esso durò sotto Diocleziano perché dominato dalla sua personalità. Ma quando Diocleziano abdicò nel 305, e fece abdicare anche Massimiano, applicando il sistema della successione, la pace durò ben poco, e dopo una lotta fra diversi pretendenti, e dopo un periodo di governo di Costantino e Licinio, chiusosi con la guerra fra i due, e l’ eliminazione del secondo, Costantino nel 324 riassumeva tutto l’ impero nelle sua mani.
Costantino intendeva instaurare la vera e propria successione dinastica; morendo nel 337 lasciava l’ impero diviso fra i tre figli, che già aveva fatto assurgere alla dignità di Caesares.
Alcune vicende varie e complesse portarono poi Costanzo a riunire di nuovo l’ impero nelle sue mani; ma a partire da Valentiniano, nel 364, divenne regola la divisione dell’ impero nelle partes Orientis ed Occidentis, che si consolidò alla morte di Teodosio il Grande nel 395, senza che si sia mai rinunciato al concetto dell’ unità dell’ impero. E così divenne regola la successione dinastica.
Costantino aveva provveduto a dare una nuova capitale all’ impero, con il fondare la città di Costantinopoli che doveva diventare una nuova Roma, destinata a sostituire l’ antica, e a cui fu dato pure un praefectus urbi, un senato, il ius italicum, favorendo chi voleva trasferirvisi. Essa divenne il centro di quel mondo orientale che andava assumendo una posizione preminente. Divenne poi la sede dell’ imperatore d’ Oriente, mentre l’ abbandono di Roma come sede degli imperatori, segnò esteriormente la rottura dell’ impero.
Il nuovo Stato era caratterizzato da tutta una gerarchia di uffici e circoscrizioni, che attraverso gli uffici centrali, faceva capo all’ imperatore da cui proveniva ogni potere.
Caratteristica era la divisione tra gli uffici civili e quelli militari; per altro verso la burocrazia civile dell’ amministrazione dell’ impero veniva tutta inquadrata in una rigorosa gerarchia; anche l’ impiego veniva considerato come una militia senza armi (contrapposta a quella in armis); gli impiegati avevano il distintivo, il cingulum; si formava il peculium quasi castrense parallelo a quello castrense.
In testa agli uffici centrali stavano gli officia palatina che da cariche di corte si convertirono in cariche dello Stato : il magister officiorum, che raccoglieva in se varie competenze e funzioni, che si andavano estendendo e che ne rendono difficile una definizione unitaria (sovraintendenza agli uffici, comando delle milizie di corte, corpo di agenti di polizia e ispettori senza compiti specifici, impiegati per la vigilanza…); il quaestor sacri palatii, introdotto da Costantino, specie di ministro della giustizia; il comes sacrarum largitionum che rappresentava una specie di ministro delle finanze e del tesoro; il comes rerum privato rum preposto all’ amministrazione dei beni patrimoniali. Gran ciambellano di Corte era il praepositus sacri cubiculi, carica che andò crescendo nella valutazione e nella posizione dello Stato.
La cancelleria imperiale continuava ad essere composta dai vari uffici o scrinia; vi era preposto per ciascuno un magister.
Agli uffici centrali appartenevano i tribuni et notarii che costituivano una specie di segreteria generale; particolare posizione avevano coloro cui era affidato il compito di redigere i verbali del principis secretum et consilium, si trattava quindi di un incarico di alta fiducia. Al vertice dei tribuni et notarii stava un primicerium notariorum, cui era affidata anche la tenuta dell’ organico degli uffici.
Il consilium principis lasciò il posto al consistorium principis, in cui entravano i più alti funzionari dell’ impero; il consistorium interveniva in tutte quelle materie che gli erano sottoposte dall’ imperatore.
La riorganizzazione territoriale dell’ impero avveniva attraverso vari gradi di circoscrizioni territoriali.
Diocleziano con la sua tetrarchia, aveva creato quattro prefetti del pretorio. La ripartizione territoriale fra le quattro prefetture (Gallia, Italia, Illirico, Oriente) fu attuata da Costantino e si andò stabilizzando. I praefecti praetorio cessavano così di far parte dell’ amministrazione centrale per entrare nell’ amministrazione territoriale. Essi però conservavano una posizione elevata e almeno uno dei due risiedeva presso l’ imperatore e faceva parte del consistorium.
Le quattro prefetture si dividevano ciascuna in diocesi, e a capo della diocesi stava un vicario. Le diocesi comprendevano diverse province.
In questa ripartizione rientrava anche l’ Italia, che aveva ormai perso la sua posizione preminente; essa faceva parte della praefectura Italiae, ed era divisa in due vicariati, uno a Nord con capitale Milano, che costituiva l’ Italia annonaria, l’ altro sottoposto al vicarius in urbe; entro i due vicariati erano preposti dei correctores, più tardi detti consulares. Roma però era sottratta alla competenza del vicarius e sottoposta al praefectus urbi, cui erano subordinati il praefectus annonae e il praefectus vigilum. Analogo trattamento fu fatto a Costantinopoli.
Il livellamento territoriale dell’ Italia nell’ Impero si esplicava anche nell’ estensione all’ Italia del tributo fondiario. La materia tributaria fu ampiamente riformata da Diocleziano, sulla base di un’ unità di valore.
Che cosa restava in questa trasformazione dello Stato degli antichi organi repubblicani?
Il consolato conservava l’ eponimia ed aveva quindi ancora un certo prestigio; ogni anno venivano nominati dall’ imperatore, due consoli, uno per l’ Oriente e l’ altro per l’ Occidente.
Questura (scomparsa alla fine del IV secolo) e pretura erano ridotte a magistrature cittadine di Roma e di Costantinopoli, e vi era connesso l’ onere di organizzare i giochi.
Edilità e tribunato erano già scomparsi dal cursus honorum al tempo da Alessandro Severo.
Il Senato (più precisamente due, quello di Roma e quello di Costantinopoli) aveva ancora una dignità esteriore, ma non aveva più una partecipazione attiva alla direzione della vita politica. Si andava in senato attraverso le più alte cariche civili o militari, o per concessione dell’ imperatore.
Per ciò che riguarda l’ amministrazione locale, è dell’ epoca dei Severi la generalizzazione dell’ organizzazione municipale, con l’ estensione del nome di civitas, con la conservazione di un ordinamento autarchico, che aveva i suoi magistrati e la sua curia.
La condizione delle popolazioni, in particolare negli strati più bassi, sentiva la ripercussione di questo stato di cose; si raffigurò dunque l’ istituzione del defensor civitatis (o plebis), creato agli inizi del IV secolo, i cui compiti erno quelli di difendere la città e difendere gli umili dagli abusi e dalle angherie dei magistrati e dei potenti; egli acquistò anche una limitata giurisdizione civile e criminale. Dapprima veniva nominato prefetto del pretorio, più tardi fu designato per elezione da un ristretto corpo elettorale, salva sempre conferma del prefetto del pretorio.
Si sviluppò poi il movimento che converiva talune corporazioni da associazioni private in corporazioni al servizio dello Stato, cui corrispondevano obblighi e privilegi (ricordiamo i navicularii e i pistores).
Nelle campagne si affermava un legame alla terra che si esplicava nell’ istituto del colonato. Si era incominciato in taluni luoghi (in particolare in Egitto), a considerare come reato l’ allontanamento del contadino dal fondo datogli in affitto dallo Stato. Il pericolo di spopolamento e di abbandono della terra, induceva lo stato, per ragioni fiscali, a combattere la piaga degli agri deserti, con un vincolo perpetuo alla terra. E così i coloni pur essendo giuridicamente liberi, divenivano una specie di servi della terra, legati ad un fondo, da cui non potevano allontanarsi e neppure essere allontanati dal padrone e neppure dal fisco.
La qualità di colono si acquistava per nascita, per prescrizione, per contratto, per misura penale, e poteva estinguersi per date cause.
Lo sviluppo del colonato si accompagnava all’ accentramento delle grandi proprietà pubbliche e private. Emergeva una classe di grandi proprietari fondiari, detti potentiores, i quli si rafforzavano nei loro possessi, si sottraevano agli oneri della città, si atteggiavano quasi a signori indipendenti, ostentando di vivere lontano dalle grandi capitali, facendosi giustizia da se, accordando la loro protezione sia a singoli sia a villaggi, contro lo Stato e contro le città. Di qui quei patrocinia contro i quali gli imperatori cercavano di reagire.
D’ altra parte gli agricolae si univano in villaggi; anche qui si stabilivano norme vincolative e coattive, per cui un convicanus poteva possedere un fondo nel villaggio.
Maturava così una struttura sociale che tendeva a distribuire la popolazione in categorie fisse, per condizione, mestiere, professione, ufficio, mediante l’ obbligatorietà e l’ eredità.
Nelle città si distinguevano i vari strati formati dalle classi, gli honorati, i curiales, i possessores, i plebei.
Questo regime vincolistico si estese anche ad altri campi. Tipico il razionalismo con cui Diocleziano cercò di porre rimedio allo spaventoso e continuo accrescersi dei prezzi attraveso il drastico intervento dello Stato : l’ edictum de pretiis rerum venalium, che costituiva un generale calmiere, in cui erano fissati, con la comminazione di gravi sanzioni per i trasgressori, i prezzi di tutte le merci e dei servizi. L’ editto nonstante l’ applicazione delle sanzioni, non raggiunse il risultato che si riprometteva, ma solo quello economicamente conseguente di far sparire le merci dal mercato, e di porre nuove difficoltà al commercio.
Abbiamo già detto che la posizione di Diocleziano e quella di Costantino si contrapponevano nell’ atteggiamento nei confronti del Cristanesimo.
Già nel 311, Galerio, da Nicomedia, aveva accordato la tolleranza ai Cristiani; era stata una tardiva e stentata confessione di fallimento del persecutore.
Nel loro incontro a Milano del 313, Costantino e Licinio affermarono per i Cristiani, la loro fede e il loro culto un regime di universale tolleranza, come espressione di un più generale principio di libertà religiosa : ogni restrizione era tolta, ed i luoghi di riunione ed i beni delle chiese che erano stati confiscati, venivano restituiti.
Questo regime di tolleranza e di libertà si convertì in una politica di favore per il Cristianesimo. Nella stessa proclamazione della tolleranza, era sottolineta l’ ansia di rendersi propizio il Divino, e questo omaggio a Dio, al Dio Supremo, al Dio vero, costituisce una nota dominante dell’ anima religiosa di Costantino.
Alla Chiesa egli fu largo di donativi, e fu largo di privilegi; ricordiamo ad es. l’ esenzione del clero dai munera; il riconoscimento della giurisdizione dei vescovi, anche nelle materie civili.
Lo stesso Costantino si preoccupava e si occupava delle dispute e degli scismi fra i Cristiani, sollecitava l’ unità e la pace della Chiesa convocando e assistendo i concili.
L’ unità cattolica si affermava come carattere e fondamento dell’ impero, soprattutto con Teodosio : l’ impero e la legislazione difendeva tale unità e lottava contro le eresie e l’ eliminazione del paganesimo, che era destinato a scomparire.
La religione cristiana, perseguitata prima, tollerata poi, era divenuta la religione ufficiale dell’ impero. La Chiesa si affermava decisamente nella vita e nell’ organizzazione politica e sociale; nella vita locale i Vescovi e il clero erano i naturali difensori della popolazione e in particolare degli umili.
La Chiesa tra l’ altro ergeva ed affermava la sua autorità anche di fronte all’ imperatore e all’ impero. Nel 390 dopo i fatti di Tessalonica, Sant’ Ambrogio faceva sentire a Teodosio, e quindi al potere imperiale, tutta la forza e l’ autorità del magistero religioso.
La posizione della Chiesa era determinante nell’ evolversi del diritto pubblico e privato.
La Chiesa aveva competenza anche in campo civile; alla Chiesa e al clero erano riconosciuti vari privilegi; la configurazione di una serie di reati di carattere religioso. Era tutta una materia nuova di regolamento giuridico.

 

 

 

 

 

Fonte: http://torarchivio.altervista.org/alterpages/files/STORIA-DEL-DIRITTO-ROMANO.doc

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