Dispensa corso cinema

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Dispensa corso cinema

Corso di Formazione

SCUOLA-CINEMA

 

Sintesi degli interventi e delle lezioni frontali di Daniela Tamburini

 

IL CINEMA A SCUOLA COME STRUMENTO PEDAGOGICO PER RISPONDERE AD UN NUOVO COMPITO EDUCATIVO

 

L’esperienza dell’insegnare

L’esperienza dell’insegnare difficilmente può essere compresa, ma ancor meno, forse, può venir espressa in modo esaustivo, data la complessità che ne caratterizza anche i caratteri essenziali. Massa, nel suo “Cambiare la scuola” insiste a questo proposito sul concetto di complessità e, nello stesso tempo, di collettività, intesa come “comprensione” e individuata come elemento fondante dell’educare riferito non solo alla relazione insegnante-alunno, ma anche insegnante-insegnante e insegnante-genitore.

Gli alunni: assistiamo ad un trasferimento nella scuola di aspettative anche di tipo affettivo, soprattutto da parte di adolescenti e pre-adolescenti incapaci di gestire positivamente il riconoscimento di un ruolo, quello di studente, e che intendono il luogo della scuola (in particolare del  gruppo-classe) come un teatro, un vero e proprio palcoscenico in cui mettere in scena un’appassionata “tenerezza rispecchiante” (G. P. Charmet) spesso celata dietro comportamenti apparentemente apatici. Oggi la scuola è dunque chiamata al compito evolutivo di connessione tra realtà e immagine, per aiutare il giovane a viverne meglio la drammatica frattura contemporanea, in cui la devozione alla propria rappresentazione produce conflitti di tipo culturale che ostacolano il percorso educativo e di sviluppo.

I genitori: anch’essi devono passare per la cultura di ruolo, hanno forti pressioni sul ruolo di padre e di madre e spesso sono costretti ad una vera e propria “recita”, senza trovare l’essere padre e madre. All’interno di questa scena vi possono essere atteggiamenti che tendono ad una netta differenziazione con la scuola (e con il corpo docente) tendente a ricostruire simbolicamente un ruolo che sia ben definito, oppure cercando gli aspetti accomunanti (le alleanze) fin quasi a giungere ad atteggiamenti di passiva delega. Ciò significa che la scuola possiede una sorta di ritualità, in cui la dimensione consapevole è in contatto con una parte più profonda, che non chiameremo “inconscia” , ma che possiamo certamente indicare come “Inconsapevole” (V. Ugazio).

Gli insegnanti: pensiamo ora all’insegnante, ai problemi connessi al suo ruolo, che possiamo  anche definire “personaggio”: la scuola è anche il teatro delle proprie emozioni, in cui poter sviluppare, ma anche difendere (come in trincea) idee e valori anche personali oltre che professionali. Essere insegnanti significa assumere un ruolo di responsabilità dai confini sempre meno definiti e determinati a priori e che sovente comporta l’assenza di punti di riferimento condivisi, con annesso un inevitabile aumento della conflittualità, dello stress e della fatica di accettarsi, comprendersi, trovarsi, vedersi e riconoscersi in un progetto comune

 

 

Ipotesi di ricerca

“Ovvero come utilizzare il cinema nell’educazione scolastica per poter riflettere o fantasticare  sul senso dell’educazione scolastica a partire da ciò che di essa ci si rappresenta come significativo”

 

In questo contesto il linguaggio del cinema diviene un’ipotesi di incontro tra queste diverse realtà, soprattutto  dal punto di vista antropologico, in cui i temi comuni vengono evocati e presentati attraverso rappresentazioni, simbolizzazioni in grado di esprimerne la natura più essenziale e, nello stesso tempo, più comprensibile. Al cinema è il linguaggio degli oggetti, della musica, delle associazioni e dell’ironia ad avere la meglio, permettendo un tipo di comunicazione precisa e puntuale, in grado di condividere  dettagli e sfumature interpretative che difficilmente è possibile anche solo percepire attraverso un linguaggio più formale o, semplicemente, essenzialmente verbale.

Dato che il cinema permette di riflettere e di lavorare sulla complessità del nostro mondo, si è ipotizzato di utilizzare la tecnica cinematografica come strumento di elaborazione di vissuti e di esperienze. A scuola il cinema viene spesso utilizzato per stimolare il dialogo su un certo tema di studio o per rendere maggiormente chiari concetti teorico-scientifici, per aiutare gli allievi a contestualizzare un certo episodio della storia o per conoscere i dettagli di eventi di genere culturale, di costume, di attualità. Il film, che è indubbiamente uno spettacolo, per sua natura si discosta dai linguaggi tipici dell’educazione scolastica e dunque viene  utilizzato come un “supporto” alla lezione, per migliorane la chiarezza, ma non la sostanza. E’ un uso che a volte non riesce a produrre gli effetti sperati, per diversi motivi: innanzitutto il film, nel suo complesso, è caratterizzato da un forte impatto emotivo, che a volte impedisce agli allievi di riuscire, alla fine della visione, a coglierne lo spessore - quindi proprio gli aspetti più interessanti dal punto di vista educativo - e, secondariamente, gli stimoli sono talmente tanti che difficilmente si possono incanalare in un percorso organico di lezioni frontali.

La proposta che viene qui presentata è quella di un diverso utilizzo del film in tale ambito: si tratta di “spezzare” il film in sequenze significative e di rimontarlo in forma del tutto originale, producendo un “blob”, in cui assemblaggi di spezzoni e di citazioni, ovvero di immagini condensate in concetti, raffreddano l’effetto emotivo del film. I frammenti del film vengono ad essere colti e analizzati per ciò che di evocativo dicono, al di là della narrazione della trama, permettendo di coglierne lo spessore. L’ipotesi è che il frammento del film possa essere associato alla frammentazione del mondo contemporaneo, in cui gli eventi sembrano non essere più caratterizzati da consequenzialità lineare o da ritmi naturali, ma da relazioni sistemiche e da una diversa concezione del tempo, in cui siamo bombardati perennemente da immagini e in cui la nostra soglia di attenzione si è abbassata e risulta oltremodo difficile riuscire a cogliere i dettagli, a individuare il frammento e rifletterci su: ad esempio prestare attenzione al particolare, al caso, porta a fare ragionamenti anche di ordine morale senza “dare la morale”. La realtà così frammentata va ricostruita a partire dalla sua frammentazione.

La rappresentazione prodotta da un film si riflette inevitabilmente nelle nostre rappresentazioni, in cui si può ritrovare la traccia, la correlazione tra la persona–spettatore e  i collegamenti che fa sulla base delle immagini: ognuno ci vede una cosa diversa. Dunque i criteri di selezione che utilizza sono anche alla base delle categorie con cui elabora la propria esperienza personale: si può sottolineare un episodio o un altro, vedere o non vedere alcune sequenze, immedesimarsi in questo o quel personaggio, in base alla rilevanza che ha per ognuno. Spesso un film si “vede” quando è finito, dopo alcune ore o giorni o addirittura lunghi periodi di tempo, quando i contenuti affiorano alla coscienza. Di un film è interessante soprattutto questo aspetto, poco evidente al momento dello spettacolo. Ed ecco perché il blob: è la rivisitazione dei movimenti della coscienza intesa come un’istanza attiva, in cui l’interessante è proprio il fatto di “smontare” il film (cosa che si fa quando si tenta di capirci qualcosa) in sequenze che abbiano un significato in sé e anche per sé, per chi ci lavora su. Si perviene alla costruzione del blob attraverso “immedesimazioni e contro immedesimazioni che non solo metaforicamente e soprattutto visibilmente trasformano il film in qualcosa d’altro, che dà conto del modo di intendere il mondo “(A. M. Franza).

Si analizzano in tal modo temi che interessino i ragazzi durante un percorso educativo in cui si passa da momenti di visione del film nel suo intero svolgimento a momenti di dialogo sulla tecnica della costruzione di un “blob”, a laboratori di costruzione del prodotto cinematografico nuovo, che verrà a sua volta presentato alla scuola e sottoposto al giudizio di esperti.

Il cinema viene in tal modo considerato sia come uno strumento di pensiero, o meglio, di elaborazione attiva del pensiero, che come metafora narrativa del percorso educativo che i giovani stanno vivendo, fatto di desideri, aspettative, paure che spesso non trovano espressione. La riflessione sui temi proposti dagli stessi allievi viene spostata da un piano di condivisione verbale a un piano più profondo, anche emotivo ed intuitivo, necessariamente in gioco sia quando si assiste alla visione di un film, ma anche e soprattutto quando si deve lavorare sulle sue immagini per costruire un nuovo film, frutto di una successiva elaborazione. L’emotività, le immagini della memoria e i sogni si attivano nella scelta e selezione delle immagini, nella loro composizione e comprensione.

La nostra è una società complessa: il cinema ci offre l’opportunità di lavorare e riflettere sulla sua e nostra complessità attingendo a testimonianze, materiali e documenti visivi, virtuali, che possono essere considerati elementi primari, in grado di sfidare la verità stessa dell’esperienza, soprattutto per le nuove generazioni, e di dare conto di tale complessità.

In particolare, la scelta di utilizzare la tecnica dello smontaggio e del montaggio delle immagini per costruire blob, è da ricollegarsi al tipo di modalità conoscitiva tipica della contemporaneità, in cui al pensiero lineare, sistematico, si sta sostituendo il pensiero analogico-in rete.

Il cinema condensa in immagini il mondo, produce associazioni a partire da un’elaborazione narrativa che può non essere consequenziale, dato che è esso stesso l’elaborazione di altri mondi narrativi, cioè trasformazione della realtà dei fatti, artificio, che trasforma a sua volta la nostra storia. Le immagini cinematografiche fanno ormai parte del nostro inconscio, che diviene, così, comunicabile e si trasforma in oggetto di conoscenza. Dunque il cinema viene anche in questo caso, come in formazione degli adulti, considerato come il mondo del racconto di sé che fa parte del nostro patrimonio simbolico.

Il cinema offre infatti un materiale su cui lavorare che non è paragonabile a ciò che sperimentiamo ogni giorno come “realtà” dei fatti, ma ne è la narrazione poetica, ne è una modificazione e una interpretazione comunque attraverso l’utilizzo del simbolo, diventando evento a sua volta. Le azioni vengono compresse, concentrate, si privilegia un aspetto a discapito di altri. Diviene luogo della proiezione di sé e di trasmissione delle esperienze.

Partendo da queste premesse si propone un percorso formativo che, nella sua articolazione sia teorica che pratica, sia in grado di offrire risposte ai bisogni emergenti dei giovani studenti di poter esprimere qualcosa di sé come individuo protagonista del processo educativo. L’apprendimento avviene per associazioni di elementi tra loro contraddittori, vitali, prevedibili fino a un certo punto, contaminati e in questo non vi è più rottura tra conoscenza e vita, né si può dire che la conoscenza sia una semplice somma di nozioni E’ una forma di contagio che avviene su base emotiva e concretamente “agita” (fatti) in un contesto sociale, in particolar modo nel contesto scolastico, ma non solo, e soprattutto che non si limita a contenuti che si giustappongono in modo ordinato nelle menti “tabula rasa” dei giovani discenti.

Necessitano oggi nuovi strumenti di elaborazione del sapere, utili al miglioramento delle relazioni comunicative dentro la scuola e in grado di dare voce ai desideri di espressione di chi, in quel momento della sua vita, ha il ruolo di allievo, studente inteso come protagonista della propria formazione, come portatore di una richiesta, o più richieste a volte poco visibili e che comunque nascondono desideri da ascoltare e leggere. Protagonista anche come fondatore, responsabile degli eventi futuri e di quel che davvero desidera ottenere dalla scuola, dagli insegnanti, dalla comunità educante, dal sociale. Consapevolezza dei propri desideri (sguardo dentro di sé), possibilità di espressione degli stessi e incontro dell’altro (sguardo fuori di sé), sono sequenze intrecciate in uno scambio virtuale di prospettive, primi piani e sfondi alla luce di una diversa modalità di  riflessione.

 

Presupposti

·       Il cinema scatena l’amore dei ragazzi nei confronti dell’arte dell’interpretazione: interpretando una sequenza finiscono inevitabilmente per parlare di sé, per interpretare il loro e l’altrui comportamento tentando di districarsi in un infinito ed a volte estenuante gioco di specchi, in cui la domanda ricorrente è quella socratica. Il cinema è un’esperienza vera (soprattutto in compagnia, quindi in classe). Ciò che mi stupisce dei ragazzi  “post-post-contemporanei” è la forza famelica della curiosità che cova sotto l’apparente stato di coma profondo. E’ come se all’esterno del loro gruppo – quindi del loro corpo o viceversa – non ci fosse il reale, come se il reale potesse abitare solo all’interno delle strette relazioni chiuse dei loro contorni: il loro linguaggio è essenzialmente metaforico e analogico, il nostro come educatori, insegnanti, adulti in genere al contrario è simbolico – numerico (ovviamente si tratta di un loro mito, in cui spesso si cullano). Cultura, cinema, moda, teatro, virtuale, etica, stare in gruppo sono “altro” dalla realtà, alternativa alla norma: come i valori hanno in comune un linguaggio che in modo diverso disegna la nostra quotidiana esperienza.

 

·       La creatività è il fondamento di ogni buon processo comunicativo e quindi comportamentale. Creare è costruire insieme nuovi sensi e nuovi significati: per farlo ci vuole un metodo, non sono cose che si improvvisano. Chiunque si prenda in carico un ruolo educativo è  chiamato oggi come adulto a trovare modi di comunicare in mezzo ai complicati intrecci delle storie, anche la propria, per favorire, facilitare, sviluppare la scoperta di parti del mondo e di se stessi che potrebbero, in caso contrario, non avere né consapevolezza né voce. Si deve essere in grado di facilitare percorsi di crescita che siano volti ad una graduale conquista dell’autonomia, alla costruzione delle conoscenze finalizzate e allo sviluppo delle competenze in base alle potenzialità, al senso critico per una vita relazionale ricca e in grado di costruire sicurezza affettiva e assunzione di consapevolezza dei propri comportamenti.

 

·       Creatività è intesa soprattutto come ricerca dell’armonia, in cui si valorizzano  risorse, si pensa “in positivo”, si lavora su proposte e soluzioni più che sul problema, si previene, si ascolta. Non si intende come scarsa consapevolezza, improvvisazione e negazione della realtà. C’è spazio per la dimensione del sogno.

 

·       La scuola è una grande rappresentazione creativa. Serve a rielaborare in modo critico la molteplicità contraddittoria, eterogenea, differenziata, sconfinata  delle fonti del sapere.

 

·       La scuola è cultura perché produce un universo di scambi simbolici e culturali dentro una struttura fisicamente presente e organizzata, ma soprattutto è sistema procedurale capace di produrre mondi vitali che siano capaci di farci fare esperienza dei nostri pensieri. C’è bisogno di fermarci a riflettere per elaborare l’esperienza di tutto questo complesso mondo che oggi ci chiede più conoscenze, e sempre più contaminate. (R. Massa, A. M. Franza)

 

PRINCIPALI ARGOMENTI TRATTATI

Perché proprio il blob?

Il blob permette di studiare la “grammatica creativa” che non è uguale, anche se parente, della grammatica comunicativa. Il cinema, come un giallo, ha un suo linguaggio, fatto di regole, gabbie, confini, codici. Solamente entro quei confini può nascere un gesto creativo, può essere colto un significato e trasmesso. Per fare un blob è necessario mettere in moto una narrazione di sé vera (proprio perché convenzionale), quella che si fa azione fisica – filmica e trova la sua natura nell’espressione dentro la scena narrata da altri spazi e altri tempi, in un diverso ritmo. La simbolizzazione condivisa è materia di nuove simbolizzazioni più vicine, sempre più vicine alle storie vissute davvero dai partecipanti, in cui si sviluppa la crescita del simbolico, non la sua “spiegazione” o appiattimento.

Anche il fatto educativo non può essere considerato  legato all’apprendimento di regole e/o nozioni semplicemente giustapposte le une sulle altre, ordinatamente selezionate ed opportunamente riorganizzate, in quanto essenzialmente si costruisce all’interno di una pratica comunicativa e relazionale di un’esperienza tra persone, spazi, tempi in un contesto che ha tutte le caratteristiche di un sistema complesso, dinamico e ricco di differenze. Come nel cinema l’esperienza educativa è sì un’esperienza reale, ma “a cui si accompagna un carattere di finzione e di artificiosità rispetto al trascorrimento diffuso della vita medesima” (R. Massa, Educare o istruire?). La razionalità educativa ha una forma, ma questa non è data una volta per tutte, non è già data.

Alle radici di un progetto come questo in cui si tratta di fornire modi per apprendere così come alla base di ogni sperimentalismo vi è la volontà di confrontarsi con i fatti: pur essendo frutto di convenzione e di artificio il mondo contenuto in un film così come in ogni opera d’arte non ci è estraneo, tanto che nel rapporto con esso si impara a comprendere se stessi. Tempo addietro si tentava di “capire il cinema”, ossia ridurre l’ambiguo, il non-detto, ciò che di evocativo vi era in esso contenuto – il contributo a livello metaforico - in discorso interpretativo rigido, dogmatico e insieme rassicurante, mentre oggi il cinema è un soggetto in grado di muoversi da sé, con un proprio stile di comportamento, un proprio posto nel nostro immaginario, un suo stile, una  identità che si fa capire ed aiuta a capirci proprio perché in grado di valorizzare la dimensione analogica del nostro dire, insistendo sulla necessità di una determinazione anche e soprattutto qualitativa del comunicare e dello stare con le persone. Il contenuto di ogni film, indipendentemente dalla sua qualità , si fa in una relazione e si riferisce ad elementi riconducibili all’esperienza, intesa in senso quasi assoluto e radicale, non è mai riducibile a un significato unico e definitivo: quando qualcuno si ripromette di venirne a capo scopre che il gioco non riesce mai. Lavorare su di un film equivale a indagare nelle viscere del nostro sentire storico.

Questa è un’idea e uno strumento insieme per accorciare i tempi della comprensione e della condivisione delle esperienze, educative e non - posto ve ne siano -. Indubbiamente il tema centrale è quello del linguaggio: il non verbale, fatto di profondi non-detti, determina oggi in modo decisivo la qualità della vita di chi abita lo spazio della scuola, che per qualcuno è sempre più di tipo psicologico e sempre di più connesso alla definizione della identità dei giovani studenti sia in rapporto al proprio ruolo che, più in profondità, alla propria vita intesa come costruzione di significati certi, non effimeri e soprattutto rassicuranti. Il linguaggio utilizzato determina la qualità dell’intervento educativo perché permette la condivisione di comuni significati, favorisce la comprensione reciproca e stimola curiosità della ricerca anche al di fuori dell’esperienza scolastica, motivando positivamente. Il cinema permette di giungere velocemente ad intuire concetti anche molto complessi e di difficile espressione dato che si avvale del contributo delle immagini, della musica, dei colori, della costruzione artificiale di contesti, della dimensione onirica e del ritmo. Un film è indubbiamente costruito sia dal regista che dallo spettatore, così come un libro è come un tango “se baila en dos” (A. M. Franza). Il blob è un modo di fare comunicazione utilizzando il cinema, un dialogo tra le immagini cinematografiche che hanno una loro storia e un proprio contesto di riferimento, che diventano fonte di ispirazione per la costruzione di altri film, che possono distaccarsi anche profondamente dall’originale, diventando espressione individuale e insieme collettiva di identità, ossia narrando una nuova storia aperta a nuovi significati condivisibili, offrendo il modo di risvegliare la memoria.

 

La nozione di sviluppo

Si intende per sviluppo la sequela dei processi che conducono l’organismo attraverso varie tappe e stadi consecutivi ad acquisire le forme definitive caratteristiche dell’adulto, cioè l’individuo adatto alla riproduzione. Questa nozione di sviluppo (di matrice biologica) è oggi largamente diffusa e ciò perché i sistemi culturali, sociali, politici, sono studiati come organismi. La dimensione individuale può non coincidere con quella biologica. Fa notare M. W. Battacchi a questo proposito: “Le differenze tra i sessi dipendono da fattori biologici, ma anche dalla definizione che ognuno dà della propria biologia ovvero di come ciascuno si appropria psicologicamente del suo corpo sessuato. Ciò a sua volta non dipende unicamente dalla definizione culturale dell’essere maschio o femmina…vi sono caratteristiche identitarie che trascendono le culture… Nella dimensione individuale ha spazio l’immagine che l’individuo ha di se stesso, composta da rappresentazioni, giudizi, vissuti, circa la propria biologia e la propria cultura di appartenenza. L’immagine che io ho di me stesso poi incide con l’immagine che io do e/o che gli altri apprendono di me e questa a sua volta costituisce un ancoraggio per quel RISPECCHIAMENTO indispensabile per il processo di costruzione della mia identità complessiva. Solo paragonando l’immagine che io ho di me a quella che mi viene rimandata dagli altri io faccio esperienza di ciò che di individuale è in me e il mio grado e il mio livello di esistenza dipende anche da ciò che mi rimanda l’occhio altrui”.

L’autocomprensione che io ho di me stesso come individuo incide sulla rappresentazione che io ho, in un momento determinato,  dei processi di formazione di cui e a cui sono stato oggetto e viceversa, poiché questa rappresentazione funge da schema di coordinazione, di ordito, su cui allacciare o riallacciare i fili della mia identità e del suo sviluppo (A. M. Franza).

La multidimensionalità della sviluppo  fa sì che facciamo degli sdoppiamenti, come, per esempio, lo sdoppiamento dell’individuo in organismo e persona con le relative attribuzioni (partizione mente-corpo-anima) è il prodotto di proiezioni che tentano di render conto della complessità dei processi e dei fenomeni di quel segmento di realtà oggetto di analisi.

Spesso, però, l’amore per la semplificazione e/o l’intolleranza della complessità induce a ignorare il valore analogico  e le conseguenti deformanti delle nostre mappe cognitive e così  si finisce per scambiare la mappa con il territorio reale.

In pedagogia le accezioni proiettive e costruttive della nozione di sviluppo sono inscritte in categorie fondamentali:

·       Educere – tirar fuori

·       Instruere – mettere dentro

·       Formare – dare forma o imprimere uno stampo

Cosicché il senso e il contenuto dello sviluppo pedagogicamente inteso risulta fuso con le forme rappresentative impiegate per esprimerlo, in cui congegni metaforici ed analogici consentono all’autocomprensione dell’uomo di realizzare quel differimento e quell’ estraneazione da sé che articolata nei processi formativi conduce alla ricomposizione, all’integrazione e al riconoscimento delle varie parti di sé in un tutto indivisibile.

 

Il cinema e l’educazione

L’utilizzo del cinema in ambito scolastico è un fatto noto, ma spesso se ne fa solo un uso “didascalico”, che non esaurisce le grandi potenzialità di questo strumento.

Il film è un testo culturale fatto di unità narrative che costituiscono fatti totali autonomi che non corrispondono alla realtà oggettiva dei fatti, ma ne rappresentano il simulacro: induce lo spettatore a creare realtà rappresentative di situazioni particolari

Tipologie di immaginazione stimolata dallo spettacolo cinematografico:

·       Immaginazione dell’evento (dipende dalla capacità del regista)

·       Immaginazione dello stato mentale del personaggio rispetto all’evento (cosa faremmo noi se ci trovassimo nella sua situazione? Ossia creiamo una simulazione di questa setta realtà)

Il cinema è dunque uno strumento pedagogico in quanto portatore di forme rappresentative in cui riconosco i miei pensieri: posso aver imparato a riconoscere i miei pensieri attraverso un’immagine e ne ho riconoscenza = ha valore cognitivo (è possibile così nominare l’emozione – emozione come linguaggio e anche il linguaggio delle emozioni).

 

Il cinema come “sguardo”

Più che il “come” a noi interessa sapere “perché” un allievo, un insegnante vede un film in quel modo: lo scopo è quello di far emergere e di restituire nelle mani dello spettatore:

·       I criteri di selezione

·       Le gerarchie di importanza

·       I criteri di attribuzione di senso

…che lo spettatore stesso mette in campo consapevolmente o meno già a livello percettivo e comprendere che cosa orienta il suo sguardo, ossia quali sono i codici interpretativi e le modalità di organizzazione del significato. Il modo in cui io guardo e seleziono un’esperienza esterna – più o meno analoga alla mia – è indissolubilmente connesso al modo in cui io guardo, seleziono e valuto la mia esperienza sia professionale che personale. Il nostro percorso è dunque finalizzato al riconoscimento delle rappresentazioni sociali, cognitive, degli stereotipi e delle filosofie spontanee che ognuno di noi ha interiorizzato, spesso inconsapevolmente e che determinano il nostro modo di interpretare l’azione educativa.

In partiolar modo questo ci interessa quando abbiamo a che fare con un’età, l’adolescenza, in cui l’ambiguità è costitutiva, non un effetto della crescita. Il primo obiettivo è far sì che l’adolescente individui un suo punto d’osservazione, in modo che si confronti con il punto di osservazione dei coetanei. Dobbiamo sostanziarlo, fissarlo, in modo che non venga sciolto nei punti di vista più forti del gruppo – o del “branco” -. L’adolescente, infatti, è uno spaesato, un marginalizzato.

Ora fissiamo alcuni punti che sono da considerarsi una sorta di sintesi degli elementi essenziali che compongono le prime fasi del percorso:

1.     setting: il film si mostra a tutti insieme, intendendo il setting come una cornice. In tal modo si trasforma il gruppo classe in un gruppo di spettatori, dunque di elaboratori.

2.     Attivare i ragazzi a trovare piste trasversali attraverso la ricerca di pezzi letterari, poesie, musiche che ritengono di poter collegare al loro tema.

3.     Dare voce = riappropriarsi dei punti di vista: certe cose non si vedono perché sono fuori dai nostri punti di vista: si propone la compilazione di griglie osservative (lavoro individuale) che siano in grado di sostanziare opinioni, riflessioni, commenti.

Questo “sapere perché” circa i propri modi di apprendere è decisivo perché non solo rende conto del nostro modo di fare o di sentire l’educazione, ma ci rende anche consapevoli dell’intreccio tra il nostro modo di fare educazione e il modo in cui siamo stati educati.

Infatti al fondo c’è comunque una verità pedagogica che è la composizione di tutti i segni, le ferite, le deformazioni cui siamo stati tutti quanti esposti.

In questa prospettiva è importante il film per quello che lo spettatore crede che gli dica, per quello che lo spettatore fa sul film, con la/le selezioni che compie.

E’ interessante vedere e rendere percepibile ciò che del film non si vede, che è assente dal campo percettivo.

Non dovremmo, come educatori, pretendere di imporre la nostra mentalità a quella dell’educando: è indispensabile creare, realizzare una comunicazione (non lo “sguardo inutile” di Merleau-Ponty, ma comprensione attiva, trasformatrice nella sua essenza pedagogica, uno scambio di esperienze che non è, tuttavia, un “mettersi nei panni dell’altro”: è necessario comprendere le strutture mentali ed emozionali dell’altro da noi, dei suoi “codici interpretativi” Ossia non come io penserei stando al suo posto, ma come penso che lui pensi (accesso e comunicazione con le motivazioni, i bisogni, le visioni del mondo, i vissuti dell’altro). In questo contesto risulta che è impossibile non comunicare e comunicare significa creare dei rapporti, dei legami.

L’autocomprensione che io ho di me stesso come individuo incide sulla rappresentazione che io ho, in un momento determinato, dei processi di formazione di cui e a cui sono o sono stato soggetto. Questa rappresentazione funge da schema di coordinazione, da ordito su cui allacciare i fili della mia identità e il suo sviluppo.

 

ARGOMENTI CORRELATI

La percezione

E’ interessante notare che l’espressione “identità personale” compare per la prima volta nel saggio “Saggio sull’intelligenza umana” di John Locke nel 1694, dove viene definita come lo stato di chi percepisce di percepire, vedere i processi attraverso cui vede quel che vede. Nel nostro campo percettivo questo non c’è (il percepire di percepire), possiamo ricavarlo solo grazie ad una riverberazione. Vedo solo a patto di essere visto, ho bisogno degli altri, dello sguardo degli altri: il film e soprattutto il lavoro sul film mi permette questa oggettivazione, questo decentramento.

Una sequenza - così come un evento - è un insieme di particolari, mentre un film - così come una storia - è una serie di insiemi di particolari. Non esiste, infatti, un tempo universale, se non come una costruzione artificiale; vi sono soltanto tempi locali, rappresentati efficacemente dalle sequenze cinematografiche, ciascuno dei quali può essere considerato il tempo appartenente ad una biografia, quindi ad una storia che è la trama del film: prima del film proposto, poi del mio. Tra la percezione e l’introspezione applicati all’evento vi è una differenza: studiando il processo di montaggio e smontaggio delle sequenze si può osservare come la differenza tra i due meccanismi sia una differenza  di grado, ma non di genere.

Cambiando il vertice osservativo della sequenza cinematografica cambia la percezione degli eventi narrati, anche a livello emotivo dato che cambia la prospettiva del racconto, quindi la grammatica narrativa.

 

Le rappresentazioni

Secondo i cognitivisti tutte le attività cognitive dell’uomo poggiano e sono esse stesse rappresentazioni mentali: il concetto di rappresentazione si oppone ad un comportamento inteso come stimolo-risposta. La mente non è un contenitore da riempire né da modellare, ma qualcosa capace di un’attività, una elaborazione, una selezione della realtà.

Noi entriamo in rapporto con la soggettività altrui rappresentandoci nella rappresentazione degli altri, ossia solo se comprendiamo l’interpretazione altrui. Il pensiero  meta-rappresentativo è la capacità di pensare il pensiero dell’altro.

 

La coscienza

Coscienza come autocoscienza e non come sensorialità è un problema assolutamente aperto, è quello che ci risulta nella nostra esperienza quotidiana che si può tentare di descrivere come la capacità di tornare sui nostri passi, o cercare di vedere: “Ma io da dove vengo?”. Il centro dell’autocoscienza è il luogo in cui viene riguardato il proprio essere soggetti: lì si produce un potenziale simbolico che è un potenziale trasformativo…”Io conosco l’altro, ma non una volta per tutte” (D. Napolitani).

 

Il riconoscimento

Il riconoscimento è la nostra capacità di descriverci. Nel mondo della scuola la riflessione investe il rapporto tra tradizione e innovazione, la capacità di vedere in una luce diversa i contenuti che ci sono stati trasmessi, la capacità di vedere il nuovo nel vecchio. Un nucleo fondamentale del riconoscimento è l’autocoscienza, l’assumere la nostra identità. In questo è fondamentale l’apporto della Fenomenologia dello spirito di Hegel. Secondo Hegel autocoscienza è la capacità di porsi come altro riflettendosi. Riconoscere la propria identità è dire quello che si è, afferrare la “propria “ identità di se stessi: per aver cura di sé è necessario avere una cognizione di noi. Secondo Nietzsche questa è una mescolanza tra ciò che si è e la nostra capacità di inventarci. Conoscere significa avere la responsabilità del concetto: padroneggiare il contesto di riferimento, lo scenario complesso, la mappa delle relazioni; e in questo ambiente di apprendimento saper determinare la priorità dell’inferenza rispetto alla referenza. La scuola deve insegnare che il senso della realtà deve essere sostituito dal senso della possibilità, deve educare alla flessibilità interpretativa.

 

L’immagine

Un uomo del medioevo vedeva 40 immagini artificiali nella sua vita. Oggi 400.000/600.000 al giorno. Il cinema ci ha aiutato nella nostra relazione con il mondo perché ci insegna a produrre senso a partire dalle immagini. Ma le immagini adesso non sono più “l’impronta del mondo”. Le 600.000 immagini che dobbiamo governare stanno diventando altro: cosa stanno diventando? Occuparci di cinema non per vedere il visibile, ma per vedere il non-visibile: lì si annida qualcosa di importante che ci sfugge. Si deve imparare ad andare verso il fuori-campo (il contesto), dato che il confronto tra realtà e immagine avviene nell’immagine (G. Canova).

Che film guarda una persona? Perché mette insieme i dati in quel modo? E’ tracciabile una correlazione tra spettatore che guarda e il collegamento che fa su ciò che guarda, sui criteri di selezione e di rilevanza che utilizza nel sottolineare un episodio o un altro: ne esce una categorizzazione che esce anche nell’esperienza personale.

L’immagine è un concetto ambivalente.

·       Dimensione iconica

·       Dimensione mentale

1.     Icona

2.     Segnale – rimanda il senso raffigurandolo

3.     Simbolo – può essere interpretato in un altro modo

Il cinema è simbolo (P. Varchetta).

Le immagini fanno parte del mondo reale tanto quanto le sensazioni. Se ammettiamo che la macchia di colore possa essere fisica e psichica insieme, la ragione per distinguere il dato del senso dalla sensazione scompare e possiamo dire che la macchia di colore  e la nostra sensazione visiva sono identiche (tesi di W. James, Dewey e dei realisti americani).

Ciò che chiamiamo pensiero consiste principalmente nel discorso interno, in cui le immagini visive hanno un ruolo decisivo. L’educazione tende a sopprimere le immagini visive (F. Galton). Lavorare sul film serve anche a ritrovare la capacità di sentire visivamente e pensare contemporaneamente al sentire.

 

 

Il cambiamento

Tutto in natura è apparentemente in uno stato di mutamento continuo, tanto che ciò che chiamiamo “evento” è in realtà un processo, ha una direzione e un verso in ogni momento. In tali direzioni e vie di sviluppo non è detto si faccia riferimento alla realtà dei fatti che sottostanno alla nostra capacità attentiva. Un ricordo può balzare improvvisamente alla coscienza distorcendo la percezione dell’evento vissuto in quel momento e precipitarci in spazi immaginari…l’attività immaginativa e onirica e anche inconscia possono permeare il nostro vissuto. Giustapponendo le une sulle altre le immagini del nostro modo di raccontare il nostro mondo è possibile percepire il cambiamento, soprattutto la sua direzione alla ricerca di sensi sempre nuovi, scoperte.

Per raccontare la storia attraverso i blob è necessario non tener conto di un antecedente (la storia che si vuole narrare) assolutamente invariabile, perché questo ci costringerebbe a tener conto in modo assoluto anche di ogni cosa che accade a noi stessi che stiamo narrando.

 

L’interpretazione

Come si interpreta un fatto? La questione dell’interpretazione: c’è molta confusione! L’ermeneutica non è semplicemente “tutto rimanda”, “tutto rinvia”, “a te piace così, a me in un altro modo”, “una volta si interpretava così, adesso invece”, l’ermeneue è il “portare all’espressione” = su che base, con che fondamento interpretiamo? Questo è il punto (A. M. Franza).

In filosofia contemporanea vi è un indirizzo che considera l’interpretazione il carattere costitutivo del modo di essere dell’uomo: questo significherebbe pensare, prima che alla scuola, al mandato educativo della società (ma vi è il rischio di scivolare nel dogmatismo). L’educazione, dunque, può essere considerata come un dispositivo, un congegno, un’apparecchiatura tecnologica e istituzionale in cui essere rinchiusa e di cui controllare gli effetti, oppure un luogo in cui avviene un’esperienza che chiede di essere interpretata in ogni attimo del suo svolgersi. La scuola è cultura, ma la cultura scolastica non è quella dei programmi di studio: è produzione di un universo di scambi simbolici e culturali (R. Massa).

 

L’interesse (nella storia della pedagogia)

La prima fase della considerazione pedagogica dell’interesse si apre con l’opera di J. Locke, il quale sostiene la necessità di un insegnamento individualizzato e gradevole, fondato su abitudini e tendenze. A seguire, in funzione di eventuali approfondimenti del tema, un rapido elenco di pensatori che hanno centrato il proprio contributo sull’idea di interesse in educazione:

·       Rousseau (1712 – 1778) postula la derivazione dell’apprendimento dalle reali esigenze, bisogni e richieste del fanciullo (ad es. la famosa lezione di geografia)

·       Per Pestalozzi (1746 – 1827) l’idea dell’interesse è implicita nella concezione stessa dell’educazione come sviluppo “universale e concreto” della persona (educazione secondo natura con al centro la famiglia). Per Pestalozzi è necessario seguire lo sviluppo delle facoltà/predisposizioni del soggetto.

·       Frobel (1782 – 1852), discepolo di Pestalozzi, individua nel gioco una funzione essenziale: il bambino non nasce come  tabula rasa, ma con delle potenzialità.

·       Herbart (1776 – 1841): l’interesse è da considerarsi come fondamento psicologico dell’intero processo istruttivo e formativo il cui fine è il raggiungimento della virtù. L’interesse è per Herbart un’attività spontanea, ma che deve essere guidata. Le rappresentazioni sono definite come:

·       Rappresentazioni evocate (conseguenti all’apprendimento)

·       Rappresentazioni liberamente emergenti (prodotte da fantasia e gioco)

 

In tal senso insiste sul metodo dell’istruzione e sulla progressione dall’attenzione all’appercezione, in cui l’interesse è da considerarsi un esito.

·       Per Dewey (1859 . 1952) l’interesse è indissolubilmente connesso a quello dello sforzo (solo lo sforzo motivato da un autentico interesse può essere considerato utile e produttivo).

·       Decroly (1871 – 1932): l’interesse è la manifestazione funzionale dell’individuo della pressione dei bisogni (teoria funzionalistica dell’interesse)

·       Bruner  (corrente strutturalistica): vi è una più attenta calibratura dell’interesse nel senso di un maggior collegamento alle motivazioni interiori piuttosto che a quelle esteriori (stima, successo, prestigio, benevolenza da parte dell’insegnante), in cui orientare il discente all’interesse per il sapere in quanto tale.

ALLEGATO

Voce Clinica della formazione curatada Angelo Mario Franza per l’Enciclopedia Pedagogica Italiana (aggiornamento per l’anno 2000, La Scuola, Brescia, 2002)

 

Clinica della formazione

Nel lessico pedagogico contemporaneo l'espressione Clinica della formazione designa:

a) la progettazione e la conduzione della ricerca circa gli elementi costitutivi, i processi e i dispositivi della formazione d’individui e di gruppi d’individui secondo l'organizzazione e le modalità conoscitive proprie del metodo clinico: il rapporto interpersonale fondato su un condiviso impegno alla verità, che coinvolge l'osservatore nella relazione osservativa, uno sguardo e un ascolto in cui l'attenzione interrogante dell’osservatore verso l’osservato é aperta tanto alla propria quanto all'altrui esperienza.

b) la progettazione e la conduzione d’interventi nell'ambito della formazione dei formatori per l'orientamento, la consulenza e la supervisione formativa di operatori nelle professioni educative e formative. L’obiettivo è lo svelamento e il riconoscimento, la valutazione e l'ottimizzazione delle tattiche e delle strategie proprie dell'agire pedagogico di ogni singolo operatore e in ordine specificatamente a competenze comunicative, relazionali e d’insegnamento-apprendimento.

In entrambe le specificazioni, la Clinica della formazione opera con modalità d’esplorazione e di sperimentazione individuali e di e in gruppo e insiste su un conoscere e un apprendere dall'esperienza e attraverso l'esperienza.

Le premesse empiriche da cui muove l’approccio clinico alla formazione poggiano sulla correlazione tra due osservazioni generali:

a) non sempre gli orditi e i costrutti pedagogici sono immediatamente visibili e riconoscibili, a volte confusi con gli effetti formativi non intenzionali dei processi del mondo della vita e a volte inavvertiti perché celati ed operanti al di sotto della consapevolezza di chi li attraversa, li gestisce o li subisce, formatore o formando che sia.

b) la struttura profonda dei gesti e degli orditi pedagogici non è una struttura di cui il formando o il formatore, nel costituire, nel rappresentare e nel dire la propria esperienza di formazione, sono necessariamente coscienti, ma è una struttura che determina il modo in cui essi la rappresentano, la costituiscono, la simbolizzano.

 

Il dispositivo

Sia sul versante della ricerca che su quello pratico-operativo la Clinica della formazione si presenta come un dispositivo che, in assetto di piccolo gruppo e sulla base delle indicazioni e degli ancoraggi narrativi proposti e amministrati da uno o più conduttori (deissi ® vicende professionali, deissi ® dinamiche formative, deissi ® significati e strutture simboliche della formazione), esplora ed elabora concrete e ben circostanziate esperienze di formazione e permette:

·       di produrre rappresentazioni circa la formazione;

·       di collocarle nei contesti e nei costrutti personali, collettivi, professionali e istituzionali di riferimento;

·       di riappropriarsene analizzandole e ricostruendone il senso complessivo attraverso l'interpretazione.

Assunto di base della Clinica della formazione è che gli eventi e i processi formativi non sono esterni, indipendenti da chi li studia, li agisce e dal modo in cui ne parla, bensì connessi ed interpolati con la rappresentazione che si ha della propria oltre che dell'altrui formazione.

 

 

Bibliografia

 

A.    Franza, Retorica e metaforica in pedagogia, Unicopli, 1988

A.    Franza, Giovani satiri e vecchi sileni, Unicopli, Milano, 1993

A. Franza, P. Mottana, Dissolvenze, le immagini della formazione, Clueb, Bologna, 1997

R. Massa (a cura di), Clinica della formazione, FrancoAngeli, Milano, 1992

R. Massa, Cambiare la scuola, Laterza, 1997

R. Massa, L. Cerioli (a cura di), Sottobanco. FrancoAngeli, Milano, 1999

A.G. Gargani, Il linguaggio davanti alla poesia, Morelli & Vitali, 2008

 

D. Napolitani, Individualità e gruppalità, IPOC, 2006

M. W. Battacchi, O. Codispoti, La vergogna. Saggio di psicologia dinamica e clinica, Il Mulino, Bologna, 1992

 

 

Testi di Dario D’Incerti

Schermi di  formazione (con M. Santoro e G. Varchetta), Milano, Guerini e associati (2000) Terza Edizione 2003

Nuovi schermi di formazione (con M. Santoro e G. Varchetta), Milano, Guerini e associati (2007)

 

 Articoli di Dario D’Incerti

 

Cento Anni, cento film (pubblicazione interna edita da Unilever Italia in occasione del centenario del Cinema 1895-1995)

Svariati articoli su temi di Information Technology e di Cinema per la rivista Pluriverso

(ed. La Nuova Italia, gruppo Rizzoli-Corriere della Sera) (1996/97/98/99)

Cinesistenze (con G. Varchetta) su Primapersona (rivista edita da Archivio Diaristico Nazionale) n° 7, dicembre 2001

Cinema e formazione: immagini e apprendimento (con G. Varchetta) in Adultità (2002)

Il Corpo e il Racconto in “Liliana Cavani – Lo sguardo e il labirinto” ed. Comune di Carpi, (2003)

Apprendere con il cinema (con S. Di Giorgi, D. Forti) in FOR e successivamente in “Il mondo che sta nel cinema che sta nel mondo” (ed. Mimesis, Milano 2006)

 

Testo consigliato per approfondimenti sul tema del linguaggio cinematografico

G. Rondolino, D. Tomasi, Manuale del film, Ed UTET (contenente un DVD con esempi)

 

Fonte: http://www.icriccardomassa.mi.it/FTP/DISPENSA%20Corso%20CINEMA.doc

Sito web da visitare: http://www.icriccardomassa.mi.it/

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