Dispensa ottocento

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4. L’Ottocento 

4.1 L’epoca delle grandi riforme: il regno di Alessandro II (1855-1881)

Alessandro II  non rivelò inclinazioni liberali prima di salire al trono e per tutta la vita continuò a far proprie concezioni e atteggiamenti conservatori. Indotto dalle circostanze, il sovrano decise di intraprendere, mettendole effettivamente in pratica, riforme fondamentali, di entità senza precedenti nella storia russa dall’epoca di Pietro il Grande. Riforme che, tuttavia, non poterono curare tutti i mali della Russia, e produssero anzi nuovi problemi e nuovi sconvolgimenti che comportarono l’assassinio dello zar liberatore.

Assunto il potere, Alessandro II sottoscrisse un manifesto che annunciava il termine della guerra di Crimea e, nella sua parte conclusiva, prometteva riforme. Le prime misure contemplavano l’abrogazione di alcune draconiane restrizioni imposte dal padre, Nicola I, negli ultimi anni di regno, come la proibizione dei viaggi all’estero e la limitazione del numero di studenti.

La questione fondamentale rimaneva però la servitù della gleba. Il sistema del legame con la terra era sempre meno in grado di soddisfare i bisogni economici dell’impero russo, e la crescita di un’economia monetaria e l’accentuarsi della concorrenza per conquistare i mercati rendevano sempre più evidenti le deficienze del lavoro servile di scarsa produttività.

 

4.1.1 La questione della servitù della gleba

 

La Russia settecentesca era per lo più rurale. Nel 1796 il 95,9% della popolazione viveva nelle campagne, mentre il 4,1% risiedeva nei centri urbani. La maggior parte degli abitanti erano quindi contadini, appartenenti a due categorie sociali: i servi della gleba, che costituivano il 55% della popolazione agricola totale, e i contadini di stato. Le condizioni di vita dei servi della gleba peggiorarono nel periodo compreso tra la fine del regno di Pietro il Grande e i regni di Paolo I e di Alessandro I, cioè dal 1725 al 1825. Lo sfruttamento economico dei servi si affiancava a una sempre più completa dipendenza dalla volontà dei padroni. L’obròk (il tributo feudale personale che il contadino doveva versare al proprio padrone sui guadagni derivati dalla vendita dei prodotti agricoli) aumentò di due volte e mezzo fra il 1760 e il 1800, mentre la bàrščina (prestazione feudale, consistente in vari lavori e servizi dovuti al padrone come forma di tributo) passò da tre a quattro, e in certi casi addirittura cinque e più giorni alla settimana. I più sfortunati erano i numerosi servi di casa, i quali essendo privi di appezzamenti di terra da coltivare, fungevano da domestici ed erano nel contempo tenuti a svolgere altri servizi nella dimora signorile.

I contadini di stato vivevano in condizioni migliori, in quanto generalmente potevano conservare una relativa autonomiae una maggiore prosperità rispetto ai servi della gleba. Nel complesso la miseria delle campagne spiega ampiamente la rivolta di Pugačëv e le numerose insurrezioni contadine che caratterizzarono il secolo.

Il Settecento, soprattutto la seconda metà, quella del regno di Caterina II, è considerato il periodo di maggior affermazione della piccola nobiltà, che pur rappresentando poco più dell’1% della popolazione, dominava la vita del paese. In seguito all’abolizione dei loro obblighi di servizio, un tempo dovuti allo zar, i proprietari terrieri dedicarono maggiori cure ai loro possedimenti, o ad altre attività economiche, come per esempio l’attività manifatturiera. Più di ogni altro gruppo sociale, fu la piccola nobiltà a essere interessata al fenomeno culturale dell’occidentalizzazione e a dare origine alla prima cultura moderna russa.

 

4.1.2 L’emancipazione dei servi

Molti proprietari terrieri, soprattutto di piccoli poderi, riuscivano a stento a sfamare i loro servi, mentre la nobiltà accumulava enormi debiti.

Nella prima metà dell’Ottocento il numero dei servi della gleba diminuì, determinando un calo del loro peso percentuale rispetto alle altre classi, passando dal 58% del totale della popolazione russa nel 1811 al 44,5% alla vigilia delle grandi riforme introdotte da Alessandro II, cioè negli anni Sessanta dell’Ottocento.

La servitù della gleba rappresentava un’istituzione ormai anacronistica. I servi, sempre più oppressi ed esasperati, continuavano a ribellarsi contro i loro padroni: nel corso del secolo si contarono fino a 1467 rivolte, che causarono notevoli perdite di uomini, distruzioni, violenze, iniziative militari per ristabilire l’ordine. Inoltre i contadini spesso fuggivano dai loro padroni, a centinaia, addirittura a migliaia, e cospicui reparti militari dovevano essere mobilitati per porre fine a questo fenomeno. Fughe in massa di contadini, per esempio, facevano seguito a voci che identificavano in qualche località del Caucaso, la possibilità di vivere liberi, e folle di servi si unirono all’esercito durante la guerra di Crimea (1853-1856), persuasi, erroneamente, di guadagnare la libertà.

Lo zar Alessandro II,  a Mosca, di fronte a una rappresentanza di nobili, a pochi giorni dalla sua incoronazione pronunciò l’11 aprile 1856 il seguente discorso:

 

«Ho appreso, signori, che tra di Loro sono sparse voci intorno a una mia intenzione di abolire la servitù della gleba. Per evitare che su questo argomento tanto importante si facciano ciarle infondate, ritengo necessario dichiarare Loro che non intendo far ciò adesso. Ma naturalmente sanno bene Loro medesimi che l’esistente ordinamento della signoria su anime non può rimanere immutato. È meglio abolire il diritto alla servitù della gleba dall’alto, anziché attendere che la soppressione di esso avvenga dal basso, senza il nostro concorso. Vi prego, signori, di voler riflettere intorno al modo con cui la cosa può farsi. Riferiscano le mie parole alla nobiltà, affinché essa le ponderi».

 

Nel citato discorso dello zar si manifestava la presa di coscienza della necessità storica, che deve essere accolta e compresa in tempo, al fine di evitare mali peggiori ma, nel contempo, risultava altrettanto palese l’intenzione di demandare a tutta la nobiltà l’onere di analizzare il problema e di indicare la soluzione.

Nel 1858 vennero istituiti comitati nobiliari in tutte le province per studiare la questione, mentre nella capitale Pietroburgo veniva insediato un comitato composto da nove membri. A eccezione di alcuni conservatori intransigenti, i proprietari terrieri assunsero un atteggiamento realistico, accettando l’abolizione della servitù della gleba, pur auspicando che la riforma fosse attuata nella maniera per loro più vantaggiosa. Il 3 marzo (19 febbraio secondo l’antico calendario) 1861 Alessandro II firmò il manifesto dell’emancipazione, il cui annuncio pubblico venne dato dodici giorni dopo.

La legge del 19 febbraio abolì dunque la servitù: da quel momento il lavoro servile doveva scomparire. Oltre che ai servi dei proprietari terrieri, la nuova libertà venne estesa anche ai contadini della famiglia imperiale e alla categoria dei contadini di stato. Con la riforma, i servi un tempo adibiti alla coltivazione dei campi ottennero degli appezzamenti di terreno, sostanzialmente quelli che già coltivavano per se stessi durante il periodo di servaggio, mentre non ne ricevettero i servi di casa. I contadini dovevano indennizzare i proprietari per la terra ricevuta, e poiché ben pochi erano i contadini in grado di pagare alcunché, il governo compensò i proprietari nobili mediante buoni del tesoro; a loro volta i contadini avrebbero poi rimborsato lo stato mediante pagamenti rateali scalati su un periodo di quarantanove anni. In alternativa gli ex servi potevano accettare di prendere solo un quarto dell’appezzamento spettante, la cosiddetta «concessione del povero», senza pagare nulla.

Con l’eccezione dell’Ucraina e di poche altre regioni, la terra non venne concessa ai singoli contadini, bensì a una comune, chiamata obščina o mir, termine, quest’ultimo, che indicava l’assemblea di contadini. La comune contadina suddivideva la terra fra i suoi membri ed era responsabile di tutti gli obblighi verso lo stato, come il versamento delle tasse o il reclutamento militare.

L’emancipazione dei servi può essere considerata una delle più grandi riforme della Storia: riguardò la condizione sociale di 52 milioni di contadini, 20 milioni dei quali servi di proprietari privati. Negli Stati Uniti, quasi simultaneamente avveniva la liberazione di circa 4 milioni di schiavi neri, risultato di una sanguinosa guerra civile e non raggiunta mediante un pacifico procedimento legale.

 

4.1.3 Le altre riforme

Dopo quella agricola, Alessandro II e i suoi collaboratori affrontarono la riforma del governo locale, attuata con una legge del 1864. Sia a livello distrettuale, sia a livello provinciale furono create istituzioni di autogoverno, assemblee e comitati di zemstvo, il cui elettorato era costituito da tre categorie: città, comuni contadine e singoli proprietari nel loro complesso, ivi inclusi i non appartenenti alla nobiltà. Una vasta gamma di bisogni locali rientravano nella sfera d’azione delle istituzioni dello zemstvo: istruzione pubblica, assistenza sanitaria, servizi veterinari, assicurazioni, strade, creazione di riserve alimentari in vista di situazioni di emergenza e molti altri.

Il sistema dello zemstvo, nonostante le sue deficienze, determinate dall’insufficiente estensione della riforma, fece molto per la Russia rurale dalla sua introduzione nel 1864 alla sua abolizione nel 1917, e di notevole rilevanza furono i contributi che diede all’istruzione e alla sanità pubbliche. Mediante lo zemstvo, la Russia poté disporre di qualcosa di simile a una medicina sociale molto prima di altri paesi, con la possibilità di ottenere gratuitamente assistenza medica e chirurgica.

Fondamentale fu poi la riforma del sistema legale, anch’essa del 1864. Il vecchio sistema, arcaico, burocratico, corrotto, era fondato sulla classe sociale, anziché sul principio di eguaglianza di fronte alla legge, e si rifaceva a una procedura scritta e segreta.

L’aspetto peculiare della riforma consistette nella separazione dei tribunali dall’amministrazione: il sistema giudiziario divenne un ramo indipendente del governo, mentre in precedenza era una parte della burocrazia e la procedura giudiziaria assunse carattere pubblico e orale. La riforma diede origine alla classe degli avvocati, che presto acquisì incidenza pubblica, e si rivelò, tra quelle introdotte dallo zar, la più efficace, quella coronata da maggior successo. Ricalcò modelli occidentali, soprattutto francesi, adattandoli abilmente ai bisogni locali. 

L’ultima grande riforma attuata da Alessandro II si identificò nella riorganizzazione del servizio militare (1874) e in alcune trasformazioni nell’ambito delle forze armate.

L’obbligo di servire fu esteso dalle classi inferiori a tutti i cittadini russi e il servizio militare venne ridotto dai venticinque anni ai sei anni di durata. Quest’ultima poteva subire un’ulteriore riduzione per chi fosse dotato di un certo livello d’istruzione. Furono abolite le punizioni corporali e venne migliorata la qualità professionale del corpo degli ufficiali: a tale scopo si istituirono scuole militari specializzate, mentre per tutti i coscritti, senza distinzione, venne introdotta l’istruzione elementare. Tale complessa riforma, determinata da necessità di ordine militare, esercitò un’influenza non trascurabile sulla società russa, contribuendo alla modernizzazione e alla democratizzazione del paese.

Le grandi riforme trasformarono la Russia che, pur seguitando a essere un’autocrazia, accolse cambiamenti economici e sociali. La legislazione di Alessandro II rese possibile la crescita del capitalismo, l’evoluzione del mondo contadino, il declino della nobiltà, l’ascesa della classe media e del proletariato.

 

4.2 L’intelligencija e la ricerca di un’identità culturale

 

Due sono i grandi momenti della storia dell’intelligencija della prima metà dell’Ottocento: il movimento decabrista e la formazione dei due opposti orientamenti degli slavofili e degli occidentalisti. Questi traggono entrambi origine dal secolo precedente, dall’epoca di Pietro il Grande, primo occidentalista.

La teoria degli slavofili era orientata verso una tradizione autoctona specificamente russa, anteriore a Pietro il Grande, forse idealizzata, che avrebbe dovuto essere recuperata dopo più di un secolo di occidentalizzazione forzata; la teoria degli occidentalisti, a sostegno della politica di Pietro il Grande, mirava a un’ulteriore europeizzazione, quindi modernizzazione della Russia, nella convinzione che il futuro della Russia non potesse  identificarsi nella restaurazione del suo passato, bensì nel suo definitivo inserimento nella civiltà europea.

All’inizio del XIX secolo la cultura russa si era  a tal punto europeizzata che la lingua francese aveva sostituito la lingua russa come lingua parlata in società e la classe nobiliare aveva assunto modelli comportamentali europei. Tale processo, tuttavia, non riguardò il popolo, i contadini in particolare, che vi rimasero del tutto estranei. La denominazione di occidentalisti venne attribuita con intento dispregiativo, ma gli stessi occidentalisti la fecero propria. Tra i  più notevoli rappresentanti del movimento si ricordano Aleksandr Herzen, Timofej Granovskij, Vissarion Belinskij, i quali nella politica occidentalista scorgevano l’unica via per realizzare il progresso e la democratizzazione della vita russa. Un altro importante occidentalista fu Pëtr Čaadaev, che nell’occidentalizzazione del paese vedeva l’unica possibilità per la Russia di reinserirsi nell’ambito della civiltà classica e cristiana.

Lo slavofilismo sorse negli anni Trenta dell’Ottocento, come reazione all’accentuata occidentalizzazione del paese propugnata da Pietro il Grande. Tra i più importanti aderenti al movimento vengono annoverati Ivan e Pëtr Kireevskij, Aleksej Chomjakov, Ivan e Konstantin Aksakov, Jurij Samarin. Sostenevano la necessità di ritornare alle tradizioni culturali della Russia prepetrina, considerata superiore a ogni modello dell’Europa occidentale. Gli slavofili attribuivano alla Chiesa ortodossa un ruolo fondamentale nel ritorno a quel mondo. Eppure nonostante l’ostilità nei confronti della cultura occidentale, la visione della storia russa fu notevolmente influenzata dalla filosofia idealistica di Schelling e Fichte. Nella politica occidentalista di Pietro il Grande, gli slavofili individuavano l’origine dell’allontanamento tra intellettuali e popolo; nell’obščina e nel mir dell’antica Rus’, espressione dell’antica vita comunitaria, invece, essi coglievano l’autentico modello di sviluppo cui la Russia doveva tendere.

L’altro grande avvenimento della prima metà del XIX secolo, dagli effetti più contenuti nel tempo, ma dall’immediata e vasta risonanza, fu il movimento del decabrismo, culminato nella rivolta decabrista del 1825.

Nel clima di oppressione intellettuale creatosi durante la seconda metà del regno di Alessandro I, cioè dopo il 1812, caratterizzato dall’assenza di legislazioni progressiste, da una rozza politica interna e dalla persecuzione intellettuale, venne a poco a poco formandosi un movimento di reazione. A ciò si aggiungeva l’eco degli avvenimenti politici occidentali: le rivoluzioni in Spagna, in Piemonte e a Napoli; l’insurrezione greca, che rese ancora più invisa la politica estera di Alessandro I, ispirata al principio legittimistico propugnato da Metternich, secondo il quale la Russia non avrebbe dovuto intervenire nel conflitto. Nacquero due società segrete, la Società Settentrionale (Sévernoe Òbščestvo) e la Società Meridionale (Južnoe Òbščestvo) che, pur divise da differenze ideologiche, erano accomunate dal proposito di rovesciare l’autocrazia.

La morte improvvisa di Alessandro I, nel novembre del 1825, rappresentò la svolta attesa, che concretizzò i tanti e confusi intenti di rivolta fino a quel momento rimasti allo stadio di progetti confusi. La rivolta militare ebbe luogo la mattina del 14 dicembre 1825, cioè nel momento in cui il nuovo zar, Nicola I, prestava giuramento di fedeltà. La rivolta venne però preparata nel peggiore dei modi: i decabristi potevano contare soltanto su tremila uomini, senza cannoni, contro i novemila artiglieri a sostegno dello zar. Le truppe dei rivoltosi, che alle undici del mattino, cominciarono a occupare la piazza del Senato attesero lungamente e invano chi avrebbe dovuto assumere il comando, cioè il principe Trubeckoj, intanto rifugiatosi presso l’ambasciata austriaca. Nicola I, nel tentativo di evitare di inaugurare il proprio regno con un bagno di sangue, tentò di sedare la rivolta in modo pacifico, parlamentando per qualche ora. Vista l’inutilità del suo intento e dopo che il governatore di Pietroburgo, Miloràdovič, era stato ucciso dai ribelli, dette ordine di aprire il fuoco, e poche salve dispersero gli insorti.

La reazione di Nicola I fu spietata, furono processate centoventuno persone, i capi vennero impiccati e altri trentuno collaboratori furono condannati a lunghi anni di prigione e alla deportazione a vita in Siberia.

Falliva il primo tentativo di instaurare in Russia un regime costituzionale, e si sarebbe dovuto attendere ottant’anni per realizzare un secondo tentativo. 

La rivolta decabrista segna la fine delle aspirazioni liberali e conservatrici dell’intelligencija nobiliare e conferma la frattura tra élite intellettuali e masse popolari che, in altre forme, si manifesterà successivamente nel democratismo populista, la cui «andata al popolo» rimarrà senza effetti nel mondo contadino e sarà seguito dal terrorismo populista, fenomeno di piccoli gruppi intellettuali.

 

 

4.3 L’evoluzione della lingua

L’inadeguatezza del modello linguistico introdotto da Karamzin viene posta in evidenza soprattutto dai critici e dai letterati appartenenti alla cerchia dei decabristi, i quali sottolineano la ricchezza, la varietà delle sfumature espressive, la raffinatezza della lingua russa. Essi eliminano quindi germanismi, gallicismi, barbarismi, termini dello slavo ecclesiastico al fine di creare una poesia autenticamente e puramente russa. Karamzin non aveva affrontato la questione della norma atta a conferire alla lingua russa nazionale e letteraria uno stile medio, né aveva risolto il problema della confluenza tra lingua orale e lingua scritta. L’opera dei grandi scrittori dell’inizio del XIX secolo, come Griboedov e Krylov si orienta quindi verso una direzione diversa, arricchendo la varietà stilistica della lingua letteraria e valorizzando gli esiti poetici della lingua parlata e del folclore. La questione della lingua letteraria si connette profondamente con la questione della cultura popolare, con il problema dello sviluppo nazionale, con l’interrogativo inerente al ruolo della parlata popolare nella struttura della lingua nazionale comune. Il contributo dell’opera di Krylov è, in tal senso, di fondamentale importanza: notevolissimo è il patrimonio di locuzioni idiomatiche e  di russismi che intervengono ad attribuire alla lingua russa nuovi e originali mezzi espressivi. Il celebre autore di favole conferisce alla lingua popolare dignità letteraria: nelle sue basni la ricca lingua del popolo rivela tutta la  l’ampiezza e la profondità dei mezzi espressivi di cui dispone, oltre alla sua peculiare sintassi e ai suoi laconismi densi di valori semantici. Lo stile di Krylov varia secondo il tema e l’esigenza espositiva e, aprendo nuovi percorsi caratterizzati dalla sintesi tra la tradizione letteraria e la lingua viva popolare, definisce nuovi modelli, caratterizzati da un intenso realismo, così preparando il cammino che condurrà Puškin alla cultura popolare. Tuttavia Krylov non risolve il problema della norma della lingua letteraria russa, cioè di quella norma che dovrebbe costituire il modello di riferimento per la creazione letteraria, in tutte le sue variazioni individuali. La creazione di una norma nazionale necessita modelli classici prodotti dalla stessa lingua nazionale e appartenenti ai generi più vari. È Aleksandr Puškin a compiere questa missione e, proprio per tale ragione, l’autore dell’Evgenij Onegin è considerato il fondatore della lingua letteraria russa moderna.

La lingua di Puškin, realizzando una totale sintesi della cultura linguistica russa e nazionale, concretizza e rappresenta, nell’arte letteraria, la norma della lingua russa. Puškin adotta europeismi e slavismi, ma soltanto se corrispondenti allo spirito della lingua russa e se adeguati a soddisfare le esigenze della cultura russa; libera la lingua letteraria dalle pesantezze derivate dall’ideologia ecclesiastica, mescolando locuzioni proprie dello slavo ecclesiastico con fraseologismi popolari; antiche espressioni, ormai desuete, con usi coloriti. Puškin rimuove tutte le barriere fino a quel momento opposte all’assimilazione di usi linguistici da parte dell’espressione letteraria, contrastando il principio della suddivisione dei generi e degli stili elaborata da Lomonosov.

L’ampio processo di democratizzazione della lingua letteraria apre la strada allo sviluppo di nuovi stili individuali. Dopo Puškin diviene a tutti chiara una nuova verità: la letteratura è la voce del popolo e non più il privilegio di una sola classe o di una casta ed essendo la lingua il fondamento dell’unione di un popolo, questa deve essere compresa da tutti e a tutti accessibile.     

 

4.4. Le fiabe russe 

La prima raccolta di racconti popolari russi non vede la luce in Russia, bensì in Inghilterra, a Londra, nel 1671, con il titolo The Present State of Russia. Il volumetto racchiude, oltre alla decina di racconti, alcune note e informazioni sull’impero moscovita. L’autore è Samuel Collins, medico curante dello zar Aleksej Michajlovič detto «il Tranquillissimo» (Tiščajščij), che vive a Mosca tra il 1660 e il 1670.

La prima edizione russa di fiabe, la raccolta classica, viene pubblicata, in forma periodica, dal 1855 al 1864, quindi quasi due secoli dopo, dal grande etnografo Aleksandr Afanas’ev. La ragione di tale ritardo nella realizzazione di un corpus di testi così preziosi e importanti dal punto di vista culturale risiede nella stessa peculiarità della vita culturale russa, che si distingue dalla tradizione propria del mondo occidentale. In Russia il racconto popolare, e la tradizione orale in genere, rimane molto a lungo priva di trascrizione, soprattutto non è oggetto di attenzione e di considerazione: per molti secoli la letteratura scritta russa rimane quasi del tutto subordinata alla chiesa. Ricco e di alto livello artistico, il patrimonio letterario antico-russo è quasi completamente costituito da vite di santi e di uomini pii, da leggende devote, preghiere, omelie, sermoni, discorsi ecclesiastici e cronache di tono monastico. Esiste anche una ricca narrativa di carattere laico, originale e varia, tuttavia priva di versione scritta e trasmessa esclusivamente in forma orale.

La letteratura orale russa, nell’epoca precedente a Pietro I, è al servizio di tutti gli strati della gerarchia sociale, e tale carattere multiforme, interclassista e nazionale del folclore antico-russo lascia un’indelebile impronta: la differenza tra letteratura scritta e letteratura orale indica semplicemente una diversa  funzione e non una diversa posizione sociale.

L’interesse per il patrimonio folclorico si sviluppa in Russia nel corso dell’Ottocento, contestualmente all’attenzione rivolta, dagli intellettuali, al mondo contadino. Si forma un’importante scuola di etnografi e di folcloristi, vengono fondati musei etnografici a Mosca e a San Pietroburgo e al centro di quasi ogni disciplina di studio e di indagine  – geografia, filosofia, teologia, filologia, mitologia, archeologia – si pone la figura del contadino. La raccolta e lo studio delle fiabe coincidono con il periodo aureo della letteratura russa: la fiaba svolge un ruolo importante nell’evoluzione dei maestri della prosa russa, come Tolstoj, Dostoevskij, Leskov, Ostrovskij. Lo stile orale, infatti, tratto peculiare e tipico della letteratura russa, trova la sua origine proprio nella tradizione folclorica. La fiaba ispira inoltre artisti e musicisti

Aleksandr Afanas’ev (1826-1871) è il più noto folclorista russo; è giurista di formazione e dei seicento racconti da lui pubblicati soltanto una decina sono stati registrati da lui personalmente. Per la pubblicazione si serve soprattutto del ricco repertorio di Vladimir Dal’, noto per la sua raccolta di materiali lessicali e folcloristici, e dell’importante collezione di fiabe composta dalla Società geografica russa. In alcuni punti il curatore apporta alcuni ritocchi stilistici, senza tuttavia giungere alle cospicue rielaborazioni dei suoi principali modelli: i fratelli Grimm. 

 

4.4 L’evoluzione della lingua nella seconda metà dell’Ottocento

 

L’evoluzione della lingua russa nella seconda metà dell’Ottocento è soprattutto determinata dall’influenza della prosa scientifica e giornalistica e le norme della lingua letteraria vengono determinate dalla pubblicistica, (quotidiani e riviste), dal linguaggio impiegato nelle varie branche della scienza e dagli usi popolari. La lingua russa sempre più diventa un mezzo autonomo per esprimere complessi concetti scientifici e filosofici, senza il ricorso a prestiti stranieri.

Il vocabolario della lingua letteraria russa si arricchisce di una notevole quantità di espressioni astratte e di locuzioni, termini specifici atti a denominare nuove nozioni inerenti al progressivo affermarsi, all’interno della società, di una nuova autocoscienza. Compaiono parole come bespravie, illegalità; krepostničestvo, ordinamento basato sulla servitù della gleba; sobstvennik, proprietario; samodejatel’nost’, attività dilettantistica; samoobladanie, dominio di sé, autocontrollo; samoupravlenie, autogoverno.

Nella prosa giornalistica e nello stile dei periodici fanno la loro comparsa nuove sfumature di significato, attribuite a parole già esistenti, atte a identificare nuove stratificazioni sociali e vari orientamenti dell’intelligencija. È noto, per esempio, il significato assunto, nella lingua usata dagli intellettuali di tendenza rivoluzionaria-democratica la fraseologia darwiniana e, in generale, il naturalismo materialistico. Le pagine dei giornali diffondono termini di significato politico-sociale, slogan, aforismi, fraseologismi come čego izvolite, desidera?; ezopovskij jazyk, linguaggio esotico; blagoglupost’, solenne sciocchezza, ecc. Il linguaggio giornalistico è strettamente connesso con quello scientifico, che si esprime con nuovi termini come: agrarnyj, agrario; artikulacija, articolazione; aberracija, aberrazione; ekzempljar, esemplare; dostignut’ apogeja, raggiungere l’apogeo. La lingua letteraria, di conseguenza, si arricchisce di una considerevole quantità di termini di valenza internazionale e acquisiscono diritto di cittadinanza, nelle lettere russe, parole come intellektual’nyj, intellettuale; konservativnyj, conservatore; progress, progresso; racionalizirovat’, kommunizm, comunismo; kyl’tura, cultura; civilizacija, civiltà.

Testimonianza dell’arricchimento lessicale della lingua russa sono i vocabolari stampati in questo periodo: se il Dizionario dell’Accademia russa (1806-1822) conteneva 51 388 parole, il Dizionario dell’uso di Vladimir Dal’ (1847) ne contempla 200 0000.     

 

Fonti bibliografiche

 

AA.,VV., Russkaja intelligencija. Istoria i sud’ba, Nauka, Moskva, 1999

Sante Graciotti, Mito e antimito dell’Oriente nella cultura della Russia moderna,  in AA.VV., Venezia e l’Oriente, a cura di Lionello Lanciotti, Firenze, Leo S. Olschki, 1987, pp.250-271

Roman Jakobson, Sulle fiabe russe, in Id., Russia follia poesia, Napoli, Guida, 1989

Georgij Levinton, La prosa folclorica, in AA.VV., Storia della civiltà letteraria russa, II, Torino, UTET, 1997, pp.507-518

Nicholas Riasanovsky, Storia della Russia. Dalle origini ai giorni nostri, Milano, Bompiani, 2003

Vittorio Strada, Intellighenzia, in Id., EuroRussia, Letteratura e cultura da Pietro il Grande alla rivoluzione, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp.183-220.

N.Karpov, M.Martynov, Storia delle lotte di classe in Russia, in Materiali e documenti, Leningrado, 1926, II, p.67; cit. in V.Gitermann, Storia della Russia, II, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p.222.

Il termine zemstvo designa terra, campagna o popolo intesi come separati dal governo centrale.

Proprio sulla raccolta di Afanas’ev si baseranno  gli studi di Vladimir Propp, autore, tra le altre opere, di Morfologia della fiaba (1928) e Le radici storiche dei racconti delle fate (1946). Egli propone una classificazione delle fiabe, fondata sulle funzioni – ne individua trentuno – dei personaggi protagonisti; questa è la sua originale e feconda intuizione: gli elementi costanti, nelle fiabe, non sono le identità dei personaggi, bensì le loro funzioni e che tali funzioni si susseguono con lo stesso ordine. Le prime tre funzioni sono: allontanamento, divieto, infrazione.

Importante è l’influenza esercitata da giornalisti e scrittori come Dobroljubov, Černiševskij, Saltykov Ščedrin.

 

Fonte: http://appuntimedlingto.altervista.org/lingue/Russo/Russo%20-%20Lezioni/Dispensa%204.docx

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