Utopia

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Utopia

Utopia La tensione verso una società ideale nella quale trionfa la giustizia, regna la pace e gli uomini assaporano quotidianamente la felicità spirituale e materiale è un sogno di tutte le epoche storiche.
Mai però come nella recente contemporaneità si sono levate voci di disincanto contro le illusioni delle utopie, dal momento che, quando queste hanno trovato volonterosi realizzatori nella storia, sembrano aver prodotto i mostri terrificanti delle società totalitarie.
Un tragico errore, allora, nel quale sarebbero caduti tanti grandi pensatori del passato quali Platone o Francesco Bacone o, anche, Tommaso Moro (Santo e, dal 2000, protettore dei governanti e dei politici per volontà di papa Giovanni Paolo II)?
Questo percorso propone suggerisce una lettura più articolata e analizza la complessità dell'argomento.
INTRODUZIONE
Utopia come disegno della ragione
"Un altro mondo è possibile" è lo slogan, diventato famoso in questi anni, dei movimenti new-global che si definiscono alternativi al modello di sviluppo economico e sociale del capitalismo liberista.
L'accusa che di solito viene rivolta allo slogan e ai suoi sostenitori è quello di essere degli utopisti: di mondi ne esiste uno solo, quello che la storia ci mostra giorno dopo giorno, e chi preferisce immaginarsi mondi differenti è, a seconda dei casi, o un perditempo o un sognatore o ambedue le cose assieme.
Da Platone in avanti il pensiero filosofico e politico occidentale non ha in verità pensato all'utopia come a un sogno, cioè come a un mondo immaginario in cui il principio di realtà non vige più, dove, per capirsi, nei fiumi scorre latte e miele e la sofferenza o la morte non esistono.
Al contrario, l'idea che ha mosso i grandi pensatori utopisti è stata quella di far dettare alla ragione le norme che devono regolare la realtà, partendo dalla considerazione che la storia, per come si è fin qui sviluppata, non ha mostrato grande razionalità, ma anzi si è rivelata un cumulo di errori e ingiustizie. L'utopia allora si presenta come il disegno razionale di una realtà "altra", un altro mondo possibile appunto, in cui le ingiustizie e le sofferenze prodotte fin qui dalla storia vengano limitate, se non azzerate, dalla presenza della razionalità nell'organizzazione sociale e politica. La ragione si presenta come guida all'azione, idea-limite di per sé non realizzabile, ma appunto in quanto tale, metro per misurare quanto la realtà e la storia siano lontane da essa.
Nei grandi pensatori utopisti solo un mondo disegnato secondo ragione coincide alla fine con la reale natura umana, che al contrario, la storia distorce e mutila nelle sue infinite possibilità, riducendole tutte a una, quella di volta in volta storicamente data.
E ancora le utopie, come sottolinea Bronislaw Baczko, ci dicono le aspirazioni, i sogni e le paure di un'epoca, rendendo manifesto il suo immaginario sociale e la sua delimitazione del confine tra possibile e impossibile, così che studiare i disegni utopici di un'epoca significa studiare i caratteri della sua realtà sociale.
La felice ambiguità del termine "utopia"
Il termine "utopia" deriva dal titolo della famosa opera di Thomas More, stampata a Lovanio nel 1516, Utopia, Libretto veramente aureo e non meno utile che piacevole sull'ottima forma di Stato e sull'ottima isola di Utopia. Se è semplice indicare la data di nascita del termine, meno semplice è ricostruirne l'etimologia che potrebbe derivare sia da eu-topos, e cioè luogo buono e felice, sia da ou-topos, luogo che non c'è, o ancora da entrambe le radici.
Da quel momento il termine ha avuto grande fortuna ed ha finito per significare ogni narrazione o ideologia che si muovesse nell'ambito delle due possibilità semantiche, articolandosi in linea generale secondo due prospettive:
1. disegnare forme etico-politiche di per sé non realizzabili, ma che svolgono la funzione di guida e modello dell'agire politico concreto;
2. disvelare in forme critiche o ironico-grottesche l'irrazionalità e l'assurdità dello stato di cose presente.
Così alla luce della prima prospettiva, la Repubblica di Platone è stata interpretata come la più compiuta utopia politica: la filosofia platonica disegna infatti una comunità ideale fondata sull'educazione e sulla giustizia: la prima in quanto in grado di guidare gli uomini a conoscere la differenza tra bene e male e a scegliere il bene, la seconda come garanzia che ognuno svolga il proprio dovere e, in quanto tale, si orienti verso il bene collettivo.
L'Utopia di More è un esempio della seconda prospettiva. Il libro è composto infatti in modo speculare di due parti distinte: nella prima c'è la descrizione impietosa dell'isola reale di Inghilterra; qui la brama di ricchezze di alcuni oziosi costringe intere famiglie di contadini alla fame, alla miseria e all'infrazione della legge, premessa per la loro condanna alla forca, in una sorta di osceno circolo vizioso per cui il sistema sociale crea i poveri per poi poterli giustiziare. Nella seconda parte c'è la descrizione dell'isola ideale, Utopia appunto, dove non esiste la proprietà privata, causa di ogni male dell'uomo, il lavoro è svolto da tutti i membri della comunità, uomini e donne godono degli stessi diritti in un clima di pace e tolleranza religiosa.
Le visioni utopiche in età antica e moderna
Oltre alla Repubblica platonica si possono rintracciare nel mondo antico altre opere di ispirazione utopistica, cioè scritti di ispirazione religiosa, come l'Apocalisse di Giovanni e le opere di Evemero ed Ecateo (IV-III secolo a.C.), o più propriamente filosofici, come la Ciropedia di Senofonte, descrizione del principe ideale (360 a.C.).
Tuttavia resta pur vero, come nota Adriano Tilgher che l'età per eccellenza dell'utopia è l'età moderna e cioè quella in cui l'uomo crede che la società ideale non stia in una mitica e perduta età dell'oro, né in un futuro regno dei Cieli nelle mani di Dio, ma nel mondo storico presente di fronte a lui, solo che sappia farsi guidare dalla ragione. Così l'utopia conosce il suo massimo sviluppo a partire dal XVI secolo fino alla prima metà del XIX, e cioè dal Rinascimento alla Riforma, alla rivoluzione francese, alla stagione delle lotte politiche e sociali della prima metà dell'Ottocento.
Oltre all'Utopia di More, possiamo ricordare
• La città del sole di Tommaso Campanella (1611),
• la Nova Atlantis di Francesco Bacone (1626),
• la Repubblica di Oceana di John Harrington (1656),
• il Codice della natura di Morelly (1755).
A questi classici si aggiunge la produzione di quei pensatori che Marx definì appunto socialisti-utopisti, come Claude-Henry de Saint-Simon, Robert Owen, Charles Fourier, Louis Blanc, Etienne Cabet, pensatori accomunati da una critica di forte tonalità etica nei confronti della nascente società industriale-capitalistica, capace di cancellare ogni traccia di solidarietà e compassione tra gli uomini rendendo perciò la vita di tutti, compresi i più ricchi, più insicura e infelice.
Le utopie in azione nella storia
Tutti i tentativi di mettere in atto società fondate sulle teorie utopistiche, come la comune di New-Lanarck fondata da Robert Owen, risultarono fallimentari. Analogamente la previsione, variamente articolata, che il mondo avrebbe inevitabilmente scelto la via della solidarietà e della pace sociale si infranse sulla dura realtà di uno scontro politico, sociale e ideologico divenuto a partire dalla seconda metà dell'Ottocento sempre più aspro. Ciò doveva determinare la crisi del pensiero utopico per buona parte del Novecento, a favore di letture della realtà ritenute scientifiche, come il socialismo di Marx ed Engels che liquida quelle prospettive nella nota critica al "socialismo utopistico".
In realtà, come sottolinea giustamente Baczko, anche nel pensiero di Marx opera una potente immaginazione sociale, soprattutto nel suo riferirsi ai caratteri dell'uomo nuovo, cittadino di un mondo di liberi ed eguali, ma tale connotazione resta per lo più a livello implicito e latente, quasi che lo stesso Marx avesse paura di lasciarsi andare a qualcosa di simile all'utopia. In questo modo il marxismo produce però una deflagrante fusione tra utopia, rimasta fino ad allora il sogno elitario di alcune menti illuminate, e mito rivoluzionario, destinato a divenire nel Novecento una grandiosa forza di cambiamento della storia.
Al marxismo infatti George Sorel mosse l'accusa di aver costretto il mito rivoluzionario, forma spontanea della coscienza collettiva, all'interno di una utopia rigida e totalitaria, creazione astratta di intellettuali estranei alle masse. Così la dottrina marxista del socialismo scientifico è da Sorel riletta come forma novecentesca dell'utopia, mentre il dinamismo e la spontaneità dello sciopero generale si rivelano la manifestazione più nitida del mito politico.
Le utopie del Novecento: tragiche illusioni o irrinunciabili speranze
Su questa linea interpretativa, a partire dalla fine della stagione politica e ideologica del Sessantotto e ancor di più dopo la caduta dell'Unione sovietica e dei regimi di socialismo reale, molti autori hanno riletto ogni genere di utopia, dalla Repubblica platonica al socialismo di Marx, come forme di violenza intellettualistica sulla libertà e possibilità dell'uomo, come il sogno o l'incubo di un mondo dal quale vengano cancellate ogni macchia e imperfezione, ma perciò stesso disumanizzato. La ricerca di un mondo perfetto, disegnato dalla pura ragione, viene ritenuta tout court responsabile degli orrori prodotti dalla storia del Novecento, del lager come del gulag. Su questa linea di lettura, sottolineando comunque le distinzioni tra i modelli di totalitarismo nazista e comunista, si muovono, ad esempio, F. Furet in Il passato di un'illusione e Zygmunt Bauman in I campi: Oriente, Occidente, Modernità, testi ai quali rimandiamo.
Da un punto di vista opposto, anche l'opera del filosofo tedesco Ernst Bloch rilegge il marxismo alla luce dell'utopia, ma lo vede come strettamente legato al principio di Speranza, elemento fondativo dell'essere in ogni sua manifestazione, all'opera nei grandi movimenti sociali, ma anche religiosi, nella creazione artistica, nel pensiero critico che rifiuta l'orizzonte dato come unico possibile. L'utopia diventa in Bloch apertura del presente al futuro, senza confini o regole prefissate, scarto continuamente ribadito tra il dato di fatto e il disegno razionale del possibile, tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. In questa chiave l'utopia può addirittura essere letta come l'orizzonte dell'agire politico delle moderne democrazie, società aperte, trasparenti, pluraliste, disponibili al cambiamento e all'esperimento sociale.
Bronislaw Braczko L’utopia e la realizzazione dell’impossibile In questo testo dedicato all’immaginazione sociale e alle rappresentazioni utopiche nell’età dell’Illuminismo, Braczko, studioso di filosofia moderna, intende analizzare il rapporto tra ambiente sociale e politico e nascita delle utopie, e ancora tra nascita delle utopie e trasformazione sociale e politica. La tesi dello studioso polacco è che le utopie possono dire molto su ciò che una società è, sulle sue passioni e sui suoi desideri, così come d’altro canto il disegno proposto nelle utopie del passato si ritrova in alcune forme compiute delle società moderne. Alcuni di quelli che parevano solo sogni della ragione, come per esempio l’uguaglianza tra uomini e donne nella Repubblica platonica o la tolleranza religiosa nell’Utopia di Moore, si dimostrano nell’età presente come obiettivi concretamente perseguibili.
Le utopie partecipano alle realtà storiche e intervengono in esse ben altrimenti che prefigurando un futuro possibile. Come ha detto Renan, l'utopista è «l'amico dell'impossibile». L'interesse primordiale che riveste per lo storico lo studio delle utopie sta proprio nel fatto che l'utopista si pone nella dimensione dell'“impossibile”, che il metodo utopistico non si rassegna a considerare la realtà sociale attuale e la sua proiezione sull'avvenire come le sole possibili. L'utopista sposta i limiti stessi di ciò che viene accettato come possibile o persino come immaginabile. «Se invece di impiegare ventun anni nel calcolo dell'associazione — affermava Fourier — avessi detto sarebbe troppo bello, dunque impossibile, la teoria dell'associazione sarebbe ancora da scoprire. La setta degli impossibili ha molto nuociuto al genere umano e non credo che ne esistano di più dannose.» Lo storico delle utopie non è chi verifica simili calcoli; non è il rapporto fra l'utopia — in quanto “previsione” — e il futuro da prevedere che sta al centro delle sue preoccupazioni. Egli si domanda piuttosto come, in che modo specifico, le realtà di un certo presente, i suoi modi di pensare, di credere, di immaginare si traducano nelle utopie e attraverso le utopie, come esse partecipino al presente sforzandosi di superarlo. L'esistenza di una sola utopia, fosse anche la più lungimirante, ha, in quanto fenomeno sociale, minore interesse per lo storico della presenza, in una certa epoca, di una serie di utopie, anche se la loro forza di proiezione nell'immaginario è mediocre e limitata. Le utopie manifestano ed esprimono in modo specifico una certa epoca, le sue ossessioni e le sue rivolte, l'ambito delle sue attese nonché le direzioni seguite dall'immaginazione sociale e il suo modo di considerare il possibile e l'impossibile. Superare la realtà sociale, sia pure soltanto in sogno e per evaderne, fa parte di questa stessa realtà e offre una testimonianza rivelatrice su di essa. «L'Utopia [di Thomas Moore] — scrive Lucien Febvre — come tutte le opere ulteriori che adotteranno in senso generico il nome proprio del libellus aureus dell'amico di Erasmo... esprime al contempo i bisogni di evasione dalle realtà presenti e di organizzazione di quelle future che forniscono allo storico una delle traduzioni, al tempo stesso più deliberatamente infedeli e più inconsciamente fedeli, della realtà di un'epoca e di un ambiente. Anticipazioni e constatazioni frammiste; i lineamenti del mondo quale lo si osserva; i caratteri che si indovinano o si profetizzano del mondo di domani o di dopodomani. È proprio nelle epoche di crisi e di transizione che fioriscono gli indovini e i progetti... Essi parlano quando l'umanità, inquieta, cerca di precisare le grandi linee di sconvolgimenti sociali e morali che ognuno percepisce come inevitabili e minacciosi. In base a ciò le loro opere costituiscono, per lo storico, testimonianze spesso patetiche, sempre interessanti, non solo della fantasia e dell'immaginazione di alcuni precursori ma dello stato intimo di una società.» Certo, l'utopia costituisce solo una delle possibili forme di manifestazione delle inquietudini, delle speranze e delle ricerche di un'epoca e di un ambiente sociale. La discussione della legittimità e della razionalità dell'ordine esistente, la diagnosi e la critica delle tare morali e sociali, la ricerca dei rimedi, i sogni di un ordine nuovo ecc., tutti questi temi prediletti dagli utopisti si ritrovano nei sistemi filosofici e nei miti popolari, nelle dottrine religiose e nella poesia. Se la critica della realtà sociale e l'attesa di una città Nuova si orientano verso l'utopia, ciò significa che è stata operata una scelta fra le altre forme di discorso disponibili. Esistono epoche “calde” in cui fioriscono le utopie, in cui l'immaginazione utopistica penetra le forme più diverse dell'attività intellettuale, politica, letteraria; epoche in cui le opposizioni e le linee di forza divergenti sembrano ritrovare il loro punto di convergenza nella produzione stessa delle rappresentazioni utopistiche. Ma esistono altre epoche, “fredde”, in cui la creatività utopistica si affievolisce e si situa ai margini della vita sociale e delle attività intellettuali e ideologiche. Manifestazioni di una situazione sociale e di un orientamento delle mentalità, le utopie a loro volta hanno un'influenza su di esse. È possibile che le utopie, «prevedendo il futuro», alimentino modelli di società ideali che si impongono come immagini-guida di un'azione collettiva. Ma può accadere anche, e anzi nella maggior parte dei casi, che l'atteggiamento globale di fronte alla realtà presente muti col sorgere e il diffondersi delle visioni di una società diversa in contrasto con l'ordine sociale dominante. Si considerano e si giudicano diversamente i mali sociali esistenti quando si comincia a immaginare sistemi sociali in grado di eliminarli. L'ordine attuale non si presenta più in questo caso come la realtà ultima, definitiva, ma come la controparte di altri ordini immaginari. Anche se l'attività immaginativa viene praticata soltanto come un gioco, ciò non è senza conseguenze sul modo di vivere il presente e di attendere il domani.
B. Braczko, L’utopia, Giulio Einaudi editore, Torino 1979.
Platone La Repubblica I. A questo punto entrò a dire Adimanto: - Come ti giustificherai, Socrate, se uno obietta che non fai punto felici questi uomini? E ne sono loro stessi la causa, perché sono loro i veri padroni dello stato, ma non ne ricavano alcun profitto; altri, per esempio, posseggono campagne, si costruiscono case belle e spaziose adeguatamente ammobiliate, offrono privatamente sacrifici agli dèi e sono ospitali e possiedono proprio quello che or ora dicevi, oro e argento, e tutti i beni di cui di solito dispone chi vuole essere beato. E invece i tuoi uomini, si potrebbe obiettare, sembrano star-[420a] sene lì nello stato, come ausiliari a mercede, senza fare altro che presidiare. - Sì, ammisi, e inoltre lavorare solo per il vitto e, a parte gli alimenti, non guadagnare una paga come gli altri, tanto che, se verrà loro voglia di andare all’estero a proprie spese, non potranno; né fare i generosi con etère né permettersi ogni altra spesa che vogliano, come spendono invece coloro che passano per felici. Questi gravi capi d’accusa, e molti altri consimili, tu li lasci da parte. - Ebbene, fece, aggiungiamoli pure! - Tu [b] domandi come ci giustificheremo? - Sì. - Secondo me, dissi, troveremo la risposta cammin facendo. Diremo che non ci sarebbe affatto da meravigliarsi che anche così costoro fossero molto felici. Pure, noi non fondiamo il nostro stato perché una sola classe tra quelle da noi create goda di una speciale felicità, ma perché l’intero stato goda della massima felicità possibile. Abbiamo creduto di poter trovare meglio di tutto la giustizia in uno stato come il nostro, e, viceversa, l’ingiustizia in quello peggio amministrato; e di poter discernere, attentamente osservando, ciò [c] che da un pezzo cerchiamo. Ora, noi crediamo di plasmare lo stato felice non rendendo felici nello stato alcuni pochi individui separatamente presi, ma l’insieme dello stato. Sùbito dopo esamineremo lo stato opposto a questo. Così, per esempio, supponiamo che, mentre siamo intenti a dipingere una statua, si presenti uno a criticarci e affermi che alle parti migliori della figura non applichiamo i colori più belli, adducendo il motivo che gli occhi, che costituiscono la parte migliore, non sono colorati in vermiglio, [d] ma in nero; ci sembrerebbe di rispondergli bene con queste parole: "Ammirevole amico, non credere che noi dobbiamo dipingere gli occhi tanto belli che non sembrino neppure più occhi; e così per le altre parti. Devi osservare invece se, colorando ciascuna parte con la tinta conveniente, rendiamo bello l’insieme. Così anche ora non costringerci ad assegnare ai guardiani una felicità tale da renderli qua-[e] lunque altra cosa che guardiani. Sappiamo anche noi rivestire gli agricoltori di abiti fini, tuffarli nell’oro, invitarli a lavorare la terra per diletto; sappiamo anche noi far coricare al posto d’onore, accanto al fuoco, i vasai per bere e mangiare, mettendo loro vicino la ruota da vasi, ma con la facoltà di lavorare secondo la voglia che ne abbiano; e in simile modo rendere beati tutti gli altri per fare felice lo stato intero. Però non ci devi dare di questi consigli: se ti obbediamo, l’agricoltore non sarà più agricoltore né [421a] il vasaio vasaio; e non ci sarà più nessuno che mantenga il suo posto, condizione questa dell’esistenza dello stato. Ma per gli altri la questione è meno importante: per lo stato non è affatto un male grave se dei ciabattini si fanno mediocri, si guastano e pretendono di essere ciabattini anche se non lo sono. Se però dei guardiani delle leggi é dello stato non sono veri guardiani pur sembrando di esserlo, tu vedi bene che mandano in piena rovina lo stato tutto e che, d’altra parte, è soltanto da loro che dipendono la buona amministrazione e la felicità". Se dunque [b] noi facciamo dei veri guardiani che non nuocciono minimamente allo stato, e se il nostro contraddittore invece fa felici alcuni agricoltori e banchettanti come in una festa, ma non in uno stato, egli intenderà certo parlare di qualcosa di diverso da uno stato. Si deve dunque esaminare se dobbiamo istituire i guardiani per far loro godere la massima felicità possibile; o se, guardando allo stato nel suo complesso, si deve farla godere a questo; e costringere e con-[c] vincere questi ausiliari e guardiani e così pure tutti gli altri a eseguire meglio che possono l’opera loro propria; e se, in questa generale prosperità e buona amministrazione statale, si deve lasciare che ogni classe partecipi della felicità nella misura che la natura concede. [433a] X. - Ebbene, ripresi, ascolta se ho ragione. Secondo me, la giustizia consiste in quel principio che fin dall’inizio, quando fondavamo lo stato, ponemmo di dover rispettare costantemente: in esso, o in qualche suo. particolare aspetto. Ora, se rammenti, abbiamo posto e più volte ripetuto che ciascun individuo deve attendere a una. sola attività nell’organismo statale, quella per cui la natura l’abbia meglio dotato. - Sì, l’abbiamo ripetuto. - E d’altra parte dicevamo che la giustizia consiste nell’esplicare i propri compiti senza attendere a troppe faccende: è [b] un discorso che abbiamo udito da molti altri e noi stessi spesso ripetuto. - L’abbiamo ripetuto, sì. - Questo dunque, mio caro, continuai, se realizzato in un determinato modo, può darsi che sia la giustizia: esplicare i propri compiti. Sai da che cosa lo congetturo? - No, ma dillo, rispose. - Dopo aver esaminato, feci io, la temperanza, il coraggio e l’intelligenza, mi sembra che quanto rimane nello stato sia quella dote che a tutte le altre ha dato la forza di nascervi e, quando sono nate, permette loro di conservarsi, finché viva in esse. Ora, di-[c] cevamo che, se avessimo trovato le altre tre, la residua sarebbe stata la giustizia. - Per forza, sì, rispose. - Però, ripresi io, se bisognasse veramente giudicare quale di esse più contribuirà con la sua presenza a renderci buono lo stato, sarebbe difficile giudicare se si tratti della concordanza di opinione tra governanti e governati, o del fatto che i soldati contraggano e conservino l’opinione legittima di quali sono e quali no le cose da temere, oppure dell’in-[d] telligenza e vigilanza insite nei governanti; o se a renderlo buono sia soprattutto questa virtù presente nel fanciullo, nella donna, nello schiavo, nel libero, nell’artigiano, nel governante e nel governato, questa virtù per la quale ciascun individuo esplica il proprio compito senza attendere a troppe cose. - E’ un giudizio difficile, rispose; come no? - Per la virtù dello stato gareggia dunque, sembra, con la sapienza, con la temperanza e con il coraggio anche quest’altra forza, di far esplicare a ciascuno il proprio compito entro lo stato. - Certo, rispose. - E la dote che gareggia con queste per la [e] virtù dello stato non la potresti considerare giustizia? - Assolutamente. - Esamina ora anche da quest’altro punto di vista se ti confermerai nel tuo parere: i processi non li farai giudicare a chi detiene il governo dello stato? - Sicuramente. - E, giudicando, i governanti mireranno forse ad altro fine più che a come evitare che ogni individuo possa avere l’altrui ed essere privato del proprio? - No, ma mireranno a questo. - Perché è giusto? - Sì. - Anche in questo modo allora si potrebbe riconoscere come giustizia il possesso di ciò che è proprio e [434a] l’esplicazione del proprio compito. - E’ così. - Vedi ora se la pensi come me. Se un falegname intraprende il mestiere del calzolaio o un calzolaio quello del falegname, o se si scambiano gli strumenti o gli uffici, o anche se la stessa persona intraprende entrambi i mestieri, tutto questo scambio di mestieri potrà portare, secondo te, un grave danno allo stato? - No, affatto, rispose. - Quando però, credo, uno che per natura è artigiano o un altro che per natura è uomo d’affari e che poi si eleva per ricchezza [b] o per numero di seguaci per vigore o per qualche altro simile motivo, tenta di assumere l’aspetto del guerriero; o un guerriero quello di consigliere e guardiano, anche se non ne ha i requisiti; e costoro si scambiano gli strumenti e gli uffici; o quando la stessa persona intraprende tutte queste cose insieme, allora, io credo, anche tu penserai che questo loro scambiarsi di posto e questo attendere a troppe cose sia una rovina per lo stato. - Assolutamente. - Allora, l’attendere a troppe cose e lo scambiarsi di [c] posto delle tre classi sociali sono un danno assai grave per lo stato e si potrebbero con piena ragione denominare un enorme misfatto. - Precisamente. - E non ammetterai che il maggiore misfatto verso il proprio stato è l’ingiustizia? - Come no?
Lewis Mumford Charles François Marie Fourier Il più influente utopista fra gli associazionisti è Charles Francois Marie Fourier. Egli è uno scrittore fecondo e incoerente e la sua utopia, a dir la verità, è composta piuttosto da una serie di frammenti che da un lavoro organico; ma nel suo caso faccio un'eccezione al criterio di scelta perché sotto tutti gli altri aspetti egli attira la nostra attenzione. Fourier era un piccolo e magro commesso viaggiatore francese il cui patrimonio era andato perduto durante la rivoluzione e le cui speranze di realizzare concretamente una utopia furono abbattute dalla rivoluzione di luglio del 1830. Più volte cambiò la propria attività per potere conoscere più paesi e aumentare la propria esperienza del mondo del lavoro; così nei suoi scritti un gran numero di pregevoli osservazioni concrete si mescolano con opinabili fantasie personali che nascono quasi inevitabilmente da una disordinata solitudine. Quello che segue è un distillato del pensiero di Fourier, ottenuto eliminando le scorie e le cose inutili. Fourier si differenzia largamente dai primi utopisti per il fatto che la sua principale preoccupazione non è di modificare la natura umana, ma di scoprire cosa essa sia in realtà. La sua utopia si basa sulla comprensione dei reali caratteri fisici e mentali dell'uomo, e le istituzioni che propone sono tali da permettere il libero esplicarsi della natura umana. Il motivo che tiene unita la sua comunità è l'attrazione, e la forza che permette alle istituzioni di funzionare sono le "passioni". All'interno di queste "passioni", l'originale condizionamento biologico, Fourier elenca una serie di tendenze che corrispondono pressapoco agli istinti individuali della moderna psicologia. Egli considera queste passioni come date; la sua utopia non intende «cambiare in nessun modo le nostre passioni... i loro fini muteranno senza che debba cambiare la loro natura». Come dice Brisbane nella sua Introduzione alla filosofia di Fourier le istituzioni sociali rappresentano per le forze della passione quello che le macchine sono per le forze materiali. Una buona comunità, secondo Fourier, è quella che mette in gioco tutte queste passioni, nella complessità delle loro azioni e interazioni. Come nella Repubblica, l'ideale a cui tende l'utopia di Fourier è l'armonia; infatti l'uomo ha un triplice destino e precisamente «un destino industriale, per armonizzare il mondo fisico; un destino sociale, per armonizzare il mondo morale o delle passioni; e un destino intellettuale, per scoprire le leggi dell'ordine e dell'armonia universale». L'errore delle moderne società civili consiste nella loro incompletezza e il loro funzionamento provoca una dissonanza sociale. Per superarla, dice Fourier, gli uomini devono unirsi in armoniche associazioni che lascino libero sfogo a tutte le loro attività, e che, con la creazione di istituzioni comuni, facciano cessare lo spreco che è conseguenza dei tentativi degli individui di fare da soli tutte quelle cose che potrebbero essere fatte da una comunità completa. [...] I principi dell'associazione si realizzano concretamente in un vasto edificio posto al centro del possedimento : un palazzo completo in tutte le attrezzature che serve da residenza agli associati. In questo palazzo vi sono tre ali che corrispondono alle attività Materiali, Sociali e Intellettuali. In un'ala vi sono le officine e le sale per l'industria. In un'altra vi sono la biblioteca, le collezioni scientifiche, i musei, gli studi per gli artisti e così via. Al centro, destinato alle attività sociali, vi sono sale per mangiare, ambienti di ricevimento e grandi saloni. Ad un'estremità del palazzo vi è il Tempio delle Armonie Materiali, destinato al canto, alla musica, alla poesia, alla danza, alla ginnastica, alla pittura ecc. All'altro estremo vi è il tempio dell'Unità per celebrare con riti appropriati l'unità dell'uomo con l'universo. Alla sommità vi è un osservatorio col telegrafoe una torre per segnalazioni, per comunicare con le altre falangi. Gli abitanti del falansterio sono associazionisti, ma in conseguenza della teoria delle passioni di Fourier, essi hanno degli interessi privati oltre a quelli pubblici; ed è loro permesso di coltivare questi interessi privati fino a quando non interferiscono con la solidarietà sociale. Essi evitano gli sprechi derivanti da un ménage familiare privato mediante l'uso di cucine pubbliche, dove tra l'altro si insegna a cucinare ai bambini fin da piccoli, come si fa oggigiorno in qualche scuola sperimentale: è comunque possibile mangiare da soli o in compagnia. Ad ogni membro del falansterio è garantito il minimo necessario di cibo, di vestiario, di alloggio, ed anche di divertimento, indipendentemente dal lavoro; allo stesso tempo è sanzionata la proprietà privata, ed ogni membro ritira dal patrimonio comune un dividendo proporzionale al numero di titoli che possiede nell'associazione. Bisogna specificare che questo dividendo viene considerevolmente ridotto per il fatto che un sistema di divisione dei profitti rimpiazza il semplice sistema dei salari. Vi è così una specie di equilibrio tra l'interesse privato e la conservazione del bene pubblico. Al fine di produrre con la massima economia, è introdotta, ovunque è possibile, la produzione su larga scala, e il criterio della divisione del lavoro è portato fino ai suoi limiti estremi. Fourier si rende comunque conto della monotonia che risulta da questo sistema e suggerisce, per evitarla, di cambiare periodicamente compiti ed occupazioni. Negli scambi commerciali la falange funziona come unità; costituisce un grande corpo autonomo che commercia i beni in eccedenza con le associazioni simili senza alcun mediatore, all'incirca nella stessa maniera in cui agiscono le moderne cooperative di consumo. Con l'abolizione del ménage familiare la falange permette maggiore libertà alla donna; Fourier non vedeva la possibilità di mantenere un sistema strettamente monogamico dal momento che la donna acquista la possibilità di scegliere il proprio compagno. Così le donne della falange non sono delle nullità intellettuali; e poiché non debbono più occuparsi della propria casa, possono contribuire al funzionamento dell'intera comunità. Non è necessario parlare degli asili e delle scuole comuni, dell'educazione anticonformista dei bambini, e di tutte le altre conseguenze di questa emancipazione. Forse una delle più notevoli caratteristiche di questa utopia è la sostituzione di «un equivalente morale alla guerra» molto prima che William James inventasse la frase. Una delle principali funzioni della falange é la costituzione di eserciti destinati alla produzione, mentre la "civilizzazione" li costituisce allo scopo di distruggere. Vi è un bel brano in cui Fourier descrive una armata industriale di fiorenti giovani e fanciulle: «invece di devastare trenta province in una campagna, questi eserciti avranno costruito trenta ponti, rimboschito trenta montagne inaridite, scavato trenta canali di irrigazione, bonificato trenta paludi». È per la mancanza di questi eserciti industriali, dice Fourier, che la civiltà è incapace di produrre qualcosa di grande. Ciò che ci colpisce quando mettiamo insieme i frammenti della utopia di Fourier, come si potrebbe fare con i pezzi di un gioco di pazienza, è il fatto che egli affronta la varietà e gli squilibri della natura umana. Invece di stabilire per gli uomini un livello di vita da raggiungere, e di affermare che la umanità non riesce ad adattarsi all'utopia il cui livello è troppo al di sopra delle sue possibità, ne propone uno che è basato sulle massime capacità che una comunità può esprimere. Fourier viene incontro alla natura umana; egli tenta di fondare una società che dia uno sfogo regolare ai diversi impulsi e che impedisca loro di diffondersi in maniera nociva per la società. Nella maniera di proporre questo fine vi sono molte debolezze ed assurdità e confesso che è molto difficile prendere sul serio questo patetico ometto; ma una volta entrati nel discorso di Fourier si scopre che c'è qualche cosa da salvare. Fourier morì senza aver persuaso nessuno a tentare di sperimentare il suo schema di associazione, nondimeno il suo lavoro ebbe in pratica una certa influenza. L'esperimento della Brook Farm in America fu un goffo tentativo di erigere un falansterio senza prestare alcuna attenzione alle condizioni che Fourier avrebbe rigorosamente imposto; e il "familisterio" delle acciaierie Godin a Guise in Francia si ispira direttamente alle idee di Fourier che rimane, io credo, il primo uomo che abbia tentato un piano per colonizzare il barbaro mondo delle città industriali che esisteva al principio del XIX secolo, per cercare di riportarvi la civiltà.
L. Mumford, Storia dell’utopia, ed. Calderoni, Bologna 1969, p. 78.
Ernst Bloch Sogno in avanti, sobrietà, entusiasmo e loro unità Ernst Bloch, rappresentante della cultura mitteleuropea della seconda metà del Novecento, vicino alle posizioni di alcuni esponenti della Scuola di Francoforte, come Adorno e Benjamin, riconosce al marxismo la capacità critica di non accettazione dell’esistente e in quanto tale la funzione utopica di mostrare e tentare di attuare un mondo altro da quello storicamente dato. Così il realismo di chi accetta come un dato naturale la situazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo all’interno del sistema capitalistico è riletta come un’incapacità di vedere prospettive diverse di relazione tra gli individui, che invece vengono aperte e praticate dalla riflessione marxiana.
Nessun sogno può restar fermo, è una cosa che non fa bene. Ma se diventa un sognare in avanti, allora la sua questione diventa logorante in tutt'altro senso. Cade allora anche ciò che è spento, che indebolisce e che può addirsi al mero anelito; questo mostra piuttosto di che cosa è capace. Da sempre si pretende dagli uomini che facciano il passo secondo la gamba, essi l'hanno imparato, ma i loro desideri e sogni non hanno obbedito. Qui praticamente tutti gli uomini sono futuri, superano quel che è divenuta per loro la vita. Finché sono scontenti si ritengono meritevoli di una vita migliore, anche se questa è dipinta come piatta ed egoistica; percepiscono l'inadeguato come barriera e non solo come abitudine. In tal misura perfino lo wishful thinking più privato e ignaro è da preferire all'inconsapevole marciare in fila; perché può essere informato. Esso è capace di coscienza rivoluzionaria, può salire sul carro della storia senza che debba essere lasciato indietro il buono dei sogni. Tutt'al contrario, il carro non è così stretto come se l'immaginano o trovano adatto a sé tempi aridi, grami o ignoranti. Il progresso sociale pretende bensì senz'altro, eventualmente in maniera aspra, che pregiudizi, falsa coscienza, superstizione, vengano gettati via e restino indietro, ma proprio per questo non pretende mai che restino indietro, i sogni in avanti. L'obiettivamente possibile, cui deve attenersi il sogno, se deve servire a qualcosa, tiene anche il sogno stesso, disponendolo preventivamente in ordine. Il sogno da svegli di una vita perfetta, obiettivamente mediato e proprio per questo non rinunciatario, supera così sia il suo andar soggetto all'inganno sia la stessa mancanza di sogni. Quest'ultima, legata a un trattenersi o a un realismo che sembra essere tale solo se rassegnato, è la condizione predominante di uomini che pensano molto ma conoscono poco in una società senza prospettive (insieme con la ricchezza di imprecisioni). [...] La mancanza di sogni in avanti è una protezione che appare quasi filosofica e tuttavia così poco veramente filosofica; senza attesa delle cose che devono venire. Così in questo scetticismo volontario-involontario c'è paura invece di speranza, e un antifinale invece di una concezione del futuro come della maggiore dimensione del presente, come Leibniz dice; fino alla morte, se non al fallimento con gli occhi distolti. Particolarmente la paura, dice Sartre, è una condizione che sopprime l'uomo; ovviamente della speranza vale, soggettivamente come e ancor più obiettivamente, il vivificante opposto. E anche se un più o meno di costi conta poco nel costruire meri castelli in aria, da cui risultano appunto i sogni di desiderio mal condotti e infine usati truffaldinamente, la speranza con progetto e con aggancio all'attuale e possibile è la cosa più forte e migliore che ci sia. E anche se la speranza si limita a oltrepassare l'orizzonte, mentre solo la conoscenza del reale per mezzo della prassi lo sposta solidamente, è però di nuovo essa sola che fa conseguire la comprensione del mondo, eccitante e consolante, cui conduce, allo stesso tempo come la più solida e tendenzialmente concreta. Indubbiamente la consolazione di questa comprensione del mondo deve venir formata con partecipe fatica. Sarebbe stato più facile costruire in un giorno Roma che non Atene, e che difficile via, spesso esigente a ogni passo, si allunga fino alla festa d'inaugurazione del regnum humanum. «Ma il realismo socialista deve avere una prospettiva», dice anche Lukàcs della tendenza da lui favorita, «altrimenti non può essere socialista». La ragione non può fiorire senza speranza, la speranza non può parlare senza ragione, entrambe le cose in unità marxista; altra scienza non ha futuro, altro futuro non ha scienza. L'andatura eretta distingue dagli animali e non l'abbiamo ancora. C'è solo come desiderio, quello di vivere senza sfruttamento e padrone. Qui soprattutto ondeggiava, durevole e necessario, il sogno a occhi aperti su ciò che finora era stato e non riuscito, e gli passava davanti. E di volta in volta i vari cercatori dell'andatura eretta gli passavano davanti ammonitori, come Ludwig Bòrne giustamente si espresse in Frammenti e aforismi: «Prima che un'epoca si apra e prosegua manda avanti sempre uomini capaci e fidati a prepararle un nuovo quartiere. Se si lasciassero andare questi messaggeri, li si seguisse e osservasse, si verrebbe a sapere presto dove vuole andare l'epoca. Ma non lo si fa; si chiamano quei precursori sobillatori, seduttori e fanatici e li si trattiene con la violenza. Ma l'epoca va avanti con tutto il suo seguito e poiché non trova niente di pronto e ordinato si acquartiera dove le piace e prende e distrugge più di quello di cui ha bisogno e che pretende». A partire da Marx, o piuttosto in quei paesi in cui il marxismo è diventato potere, le cose sono indubbiamente cambiate: qui si prepara un quartiere per il futuro. E anche il sogno a occhi aperti del regnum humanum sta qui non più in aria o in cielo o solo in opere d'arte, così che le vie a quella volta vengano prese solo come vie di fuga e su loro vada quella rassegnazione per la quale il bello fiorisce solo nel canto. Dunque in luogo della notte di Valpurga «da dove mirabile vedi / Mammone dentro il monte ardere», è certo data ora occasione a un altro oro di precipitare dal miscuglio di utopia e ideologia finora avutosi. Ma certo l'anticipante deve fiorire, seguita ad avere il suo ufficio, proprio e anche se ha luogo nella sobrietà invece che nel fanatismo e nelle nubi. Ugualmente l'entusiasmo assiste la sobrietà, affinché non accorci la prospettiva in maniera astratta e immediata invece di tenerla sul globo della possibilità concreta. L'entusiamo è fantasia in azione, e l'acido della sobrietà deve qui divenire l'ingrediente più prezioso invece che quello più diffuso e a buon mercato [...]. Dunque è ugualmente poco saggio ed estraneo al marxismo dare una mano alla realtà con nient'altro che sobrietà o mettere le mani sulla realtà con nient'altro che entusiasmo; il reale, quale reale della tendenza, viene colto solo dalla costante oscillazione dei due aspetti, uniti in una prospettiva addestrata. Così scriveva Lenin nel quarto anniversario della rivoluzione di ottobre: «Non direttamente sull'entusiasmo, ma con l'aiuto dell'entusiasmo nato dalla grande rivoluzione, basandovi sullo stimolo personale, sull'interesse personale, sul calcolo economico, prendetevi la pena di costruire dapprima un solido ponte che, in un paese di piccoli contadini, attraverso il capitalismo di stato, conduca verso il socialismo altrimenti voi non arriverete al comunismo, altrimenti voi non condurrete decine e decine di milioni di uomini al comunismo» (Ausgewählte Werke, II, p. 890). Con questo freddo realismo è e resta però strettamente intrecciato quello oggettivo-appassionato, che Lenin caratterizza nello scritto sul radicalismo di sinistra come adeguato allo slancio (e non al freno) nella stessa realtà: «La storia in generale, la storia delle rivoluzioni in particolare, è sempre più ricca di contenuto, più varia, più multilaterale, più viva, più “astuta”, di quanto immaginino i migliori partiti, le più coscienti avanguardie delle classi più avanzate. E ciò si comprende, giacché le migliori avanguardie rappresentano la coscienza, la volontà, le passioni, la fantasia di decine di migliaia di uomini; ma la rivoluzione viene attuata in un momento di slancio eccezionale e di eccezionale tensione di tutte le facoltà umane, dalla coscienza, dalla volontà, dalle passioni, dalla fantasia di molte decine di milioni di uomini» (Ausgewählte Werke, II, p. 739). E il modello della corrente fredda per amore di questa corrente calda, della corrente calda di cui la corrente fredda dell'analisi ha bisogno proprio per mostrare i suoi stadi distinti, si trova, ovviamente, in Marx stesso. Per esempio in questa profezia empirica (quasi Antonio più Tasso corretti in una volta sola): «Il diritto non può mai essere più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale, da essa condizionato, della società. In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto tra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l'angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: “Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni”» (Kritik des Gothaer Programms, Berlin, 1946, p. 21). Solo con un'analisi del genere (eventualmente, in corrispondenza di difficili acque navigabili, addirittura un'analisi ad pessimum), solo con una prospettiva del genere c'è la consolante comprensione del mondo che si chiama marxismo e che appunto per questo non è contemplativa ma un'indicazione per l'azione. L'inadeguatezza delle forze produttive, da lungo tempo divenute sociali, alla loro forma di appropriazione capitalistica privata, questa contraddizione fondamentale della società capitalistica sviluppata, può essere sì occultata in modo effimero da frenetiche congiunture fra le crisi e da teorie ciarlatanesche, però rimane, e solo il marxismo è sia il detective sia il liberatore, la soluzione sia teoretica sia pratica di questa costantissima fra tutte le contraddizioni. E solo il marxismo ha occasionato la teoria-prassi di un mondo migliore, non per dimenticare quello attuale, cosa solita nella maggior parte delle teorie sociali astratte, ma per mutarlo economicamente e dialetticamente. Mai senza eredità, meno che mai senza quella del primissimo intendimento: quello dell'età dell'oro; il marxismo, che in tutte le sue analisi è il detective più freddo, prende però sul serio la fiaba e in pratica il sogno dell'età dell'oro; comincia un vero dare e avere di una vera speranza. La situazione finora non era tale da entrare anche in carne e ossa nella prospettiva più perfetta, la stessa situazione del più perfetto non lo è, poiché infatti questo non c'era ancora, poiché è stato tenuto particolarmente lontano nell'alienazione finora imperante. Il rapporto del bisogno con ciò che riscalda e perfino con l'entusiastico della maggior parte delle immagini di desiderio configurate in ciò che finora è stato, era dunque, al di là della contemplazione, rassegnazione o, cosa che in tal caso risulta simile, religione. Ma se la vera essenza dei contenuti di speranza deve incidere sufficientemente sull'esistenza, acquistando terreno, mani e piedi, allora il luogo d'ingresso, provvisto al tempo stesso di prosa e di valore simbolico, si chiama società senza classi, usque ad finem.
E. Bloch, Il principio di speranza, Garzanti, Milano 1994, vol. III, p. 1575.

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