Camus Albert

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Camus Albert

Albert Camus:

il male, la libertà e il valore (Roberto Gatti)

1. La “libertà assurda”: Sisifo
Il problema della libertà ne Il mito di Sisifo (1942) si collega strettamente a quello di “destino” ed è collegato alla categoria di autenticità: “Sentire la propria vita, la propria rivolta e la propria libertà il più intensamente possibile, equivale a vivere il più possibile […]. Il presente e la successione dei presenti davanti a un’anima perennemente cosciente è l’ideale dell’uomo assurdo” . La libertà consiste quindi nel vivere con lucidità la condizione assurda e si concretizza nella morale della quantità, cioè nell’equivalenza di tutte le scelte.
Se la si intende così, essa si contrappone, nella prospettiva assunta da Camus, alla concezione cristiana. Infatti, come egli sottolinea, dove c’è un Dio come ”padrone” non può esserci libertà. Il problema, nell’ambito del cristianesimo, non è quello della libertà, ma quello del male: “Conosciamo l’alternativa: o non siamo liberi, e Dio onnipotente è responsabile del male; o siamo liberi e responsabili, ma Dio non è onnipotente” .
Si distingue, peraltro, anche dalla concezione “metafisica” della libertà, cui Camus contrappone l’idea di libertà come esperienza situata e propria di ogni singolo soggetto umano: “Non m’interessa sapere se l’uomo è libero; io non posso provare che la mia propria libertà […]. Tale è la ragione per cui non posso perdermi nell’esaltazione o nella semplice definizione di una nozione, che mi sfugge e perde senso dal momento in cui oltrepassa la cornice della mia esperienza individuale” . La libertà, se è “ragionevole”, non fa affidamento sul domani , ma sul ”disinteresse” tipico del condannato a morte: disinteresse a tutto tranne che alla “pura fiamma della vita” . Questa libertà nasce quando si sperimenta, incontrando l’assurdo, l’infondatezza delle possibilità legate alla morte come stigma della condizione umana e come estrema manifestazione del male che incombe sull’uomo, senza che questi possa arrivare a sondarne pur minimamente il mistero e potendo unicamente rivendicare, semmai, al cospetto di esso, la propria “innocenza irreparabile” : “Pensare al domani, fissarsi uno scopo, avere preferenze, tutto suppone la credenza nella libertà, anche se a volte si è sicuri di non averne la prova. Ma, a questo punto, so bene che la libertà superiore, la libertà di essere, che sola può fondare una verità, non esiste. La morte è là, di fronte, come la sola realtà. Dopo questo tutto è finito” . Destino è, in tale prospettiva, l’accettazione della propria condizione da parte dell’uomo, dunque per Camus l’accettazione dell’“assurdo”, che è inseparabile dalla “rivolta cosciente” come spazio dell’unica libertà che sia plausibile pensare: “Vivere un’esperienza, un destino, è accettarlo pienamente. Ora, non si vivrà tale destino, sapendolo assurdo, se non si farà di tutto per mantenere davanti a sé quell’assurdo posto in luce dalla coscienza. Negare uno dei termini dell’opposizione di cui esso vive, significa sfuggirgli” . Ne nasce, com’è noto, la definizione della “rivolta metafisica”, che è “la certezza di un destino schiacciante, meno la rassegnazione che dovrebbe accompagnarla” . La “libertà assurda” sconta l’assenza di valori oggettivi e di criteri qualitativi, puntando non a vivere “meglio, ma il più possibile” e presupponendo che l’unico vero “fallo” sia appunto la morte, che interrompe l’esercizio di questa “divina disponibilità”: “Dove regna la lucidità, la scala dei valori diventa inutile […]. L’universo qui suggerito vive soltanto in opposizione a quella costante eccezione che è la morte” .

2. “Nessuno è innocente”: Caligola
La prospettiva entro la quale viene collocato il problema della libertà nel Caligola è importante poiché manifesta il primo emergere dell’idea di libertà non più tanto come accettazione consapevole del “destino” e dell’invalicabile vagare umano nell’oscurità dell’equivalenza, ma come spazio di una scelta i cui termini eccedono i confini fissati dalla “morale della quantità”. Ora -seppure nella trama di un dramma in cui si sovrappongono continuamente temi, tonalità, spunti quanto mai diversi e sovente ancora in uno stato magmatico- il negativo non sembra costituire più lo sfondo oscuro e subìto da un soggetto umano sgravato da ogni responsabilità nei confronti di esso, come era anche, oltre che ne Il mito di Sisifo, in Il rovescio e il diritto, in Nozze, ne Lo straniero . Comincia invece appunto a collegarsi con la “colpevolezza” umana, quella colpevolezza che ne Il mito di Sisifo era esplicitamente negata . Si può partire dal finale del dramma, con i due Caligola allo specchio: quello che ha voluto l’ “impossibile”, la “luna”, e quello (per così dire, il “diritto” mai del tutto eliso dall’esperienza tragica di questo personaggio, come appare anche dal suo confronto con Scipione ) che si chiede se forse l’ “amore” può bastare di fronte all’ostilità del mondo, a “un mondo senza giudice, dove nessuno è innocente”. Al termine estremo emerge in primo piano il Caligola che perviene alla coscienza di non aver avuto ragione: quello che riconosce di non aver “preso la giusta via” e ammette che “uccidere non è la soluzione” : “la mia libertà non è quella buona” . Sembra qui evidente che la colpevolezza -“saremo colpevoli in eterno” sono tra le ultime parole di Caligola - è nel modo in cui l’uomo affronta l’assurdo. Quindi, in questo dramma l’essere umano comincia a configurarsi come il soggetto e come l’artefice del male morale, che coincide con il cattivo uso della libertà dinanzi al negativo. Il male, detto in altro modo, corrisponde alla dimissione di responsabilità nei confronti degli altri, a quella ricerca dell’ “impossibile” che appare come un’evasione da ciò che dobbiamo al prossimo in termini di lotta contro le forme della sofferenza evitabile. Morte, dolore, ecc., entrano adesso nella riflessione di Camus non semplicemente come quel “rovescio” della condizione umana di fronte a cui si trova un essere “innocente” -il “diritto” essendo identificato solo con l’esistenza e con la contemplazione estatica della “luce del mondo” -, ma come vere e proprie sfide di fronte alla quali ognuno è chiamato ad assumere, al cospetto dei propri simili e uscendo dal rassicurante rifugio materno della “natura”, un atteggiamento attivo diverso dalla mera sopportazione, titanica ma passiva, tipica di Sisifo.
Ci si può chiedere, entro tale prospettiva, in che modo bisogna interpretare Caligola quando afferma che “in un mondo senza giudice […] nessuno è innocente” . La risposta potrebbe essere: nel senso che ognuno è, appunto, chiamato all’uso della sua libertà e quindi accetta, necessariamente imbarcato, direbbe Pascal, la sfida che la libertà comporta, assume il peso della scelta, della decisione, le quali, in quanto umane, non possono mai essere pure, senza ombre. In questo senso responsabilità per il mondo e assenza di innocenza si richiamano e il concetto di “destino” viene, almeno in parte, sgravato da quella accezione in cui sembrava prevalere, come ne Il mito di Sisifo, la passività (pur cosciente e lucida e, in ciò, appunto non priva di titanismo) che si prova verso ciò che non si ha il potere di cambiare, su cui non si è in grado di intervenire; insomma verso quei “giorni” di cui si diviene, paradossalmente, “padroni” esclusivamente subendone l’inspiegabile mistero con quella enigmatica “felicità” e con quel rifiuto della “rassegnazione” -la cui nobiltà è direttamente proporzionale alla sua infecondità-, che vengono attribuiti a Sisifo nella sterile “lotta verso la cima” .

3. “Innocenza” e responsabilità per il male: I giusti
E’ possibile sviluppare questa linea interpretativa concentrando l’attenzione sul concetto di “colpevolezza ragionevole” e, innanzitutto, su alcuni brevi spunti tratti da I giusti (1950). Mi soffermo su un passaggio apparentemente marginale dell’opera, cioè quello in cui troviamo accennata l’idea secondo cui si può scegliere di essere “innocente”, come fanno appunto i terroristi, che pagano con la propria vita l’uccisione degli altri. E’ quanto sostiene alla fine del secondo atto Kaliayev, figura tipica dell’ “uccisore delicato”, rispondendo a Stepan, personaggio in cui invece già si preannuncia il terrorista di Stato che si affermerà con il totalitarismo comunista: “Ho scelto di morire perché l’omicidio non trionfi. Ho scelto di essere innocente” . A differenza della posizione cristiana, a parere di Camus gli uomini non nascono colpevoli per effetto della caduta originaria; allo stesso tempo mi pare non attribuibile a Camus l’altra linea di lettura del problema del male che Del Noce fa derivare, ne Il problema dell’ateismo, da Anassimandro e che identifica la matrice del male nella finitezza, nel destino di morte del finito . Forse quest’ultima potrebbe essere una plausibile chiave di lettura del Camus fino a Il mito di Sisifo, ma non più (o almeno non più con la stessa coerenza) del Camus delle opere successive. In fin dei conti è il punto intorno al quale gravita gran parte dell’interpretazione che qui propongo: pur progressivamente, emerge in primo piano il nucleo concettuale costituito dalla riflessione sulla libertà intesa come decisione volontaria e fallibile del soggetto umano chiamato ad assumere la sua responsabilità verso la propria vicenda personale, verso gli altri e verso la storia. Ciò comporta che venga abbandonata o che comunque retroceda sullo sfondo (certo in modo non sempre lineare, senza zone d’ombra, tensioni, anche aporie) l’idea secondo cui il male è muta presenza del “rovescio” della realtà, che non chiama in causa la responsabilità umana. Il nesso tra libertà e male permette anche di intercettare alcuni spunti utili per un confronto con due autori, Agostino e Pascal, verso i quali, pur nella distanza che lo separa da essi, Camus ha contratto un debito del quale vorrei cercare di evidenziare, proseguendo, alcuni forse non secondari risvolti teoretici. Il rigetto -varie volte da Camus ribadito con forza- non solo ovviamente del dogma della caduta, ma anche della visione della storia come vicenda incardinata intorno alla categoria della “colpa” (per l’elaborazione della quale Camus ritiene Agostino un autore centrale ), non fa venire meno il debito accennato sul punto specifico che è qui in discussione, cioè appunto il rapporto tra libertà e male.
Ritengo si possa riassumere così il senso della questione: l’aspetto rilevante non è per Camus la risposta al problema dell’unde malum, nel senso della ricerca (qualunque poi ne possa essere l’esito) della radice primigenia del male, problema che s’inscrive in una prospettiva teologica e/o metafisica nel senso tradizionale, che egli esplicitamente esclude. Rilevante è invece l’idea che l’uomo è colpevole nella misura in cui risponde in modo inadeguato alla presenza del “rovescio” nel mondo. Se si ritiene persuasiva tale prospettiva interpretativa, ne deriva ovviamente la necessità di rivedere a fondo la tesi secondo cui una delle caratteristiche della riflessione camusiana sarebbe costituita, da Lo straniero fino a La caduta , dall’idea dell’ “innocenza” umana a fronte di un male che si erge di fronte all’uomo come un dato che non chiama in causa la responsabilità di quest’ultimo , ma che semplicemente è lì, nella sua muta datità, come qualcosa di “esterno” alle dinamiche della soggettività . Credo invece -come vorrei ulteriormente mostrare sviluppando questa linea interpretativa- che si possa schiudere una possibilità di lettura diversa, consistente nell’inquadrare la tesi dell’innocenza umana in un orizzonte etico al centro del quale, secondo quanto già accennato, sta la libertà come possibilità di scelta tra bene e male. In tal senso l’affermazione che nessuno può essere considerato innocente (Caligola) e la scelta di essere innocente (Kaliayev) non si contraddicono, a condizione che l’innocenza non sia vista come connotazione antropologica originaria, ma come l’esito, quale si profila nella ricca fenomenologia che Camus delinea dell’esperienza morale, di una faticosa, lacerante e mai ovviamente compiuta tensione verso il buon uso della libertà. Nessuno può essere del tutto innocente perché la libertà umana è limitata e finita, ma si può scegliere di essere innocenti nel senso di lottare con la maggior coerenza e perseveranza contro i mali del mondo, accettando fin dall’inizio quello che umanamente è solo, in verità, perseguibile, cioè una colpevolezza ragionevole.
Per riprendere il filo del discorso accennato: rispondere in modo non adeguato alla presenza del “rovescio” del mondo significa innanzitutto dire sì al negativo, acconsentire ad esso.
In questo sì, che coincide con l’accettazione e con la giustificazione del male in vista di un riscatto finale -una sorta di regno dell’innocenza ritrovata dopo la caduta, secondo l’ottica del cristianesimo, o raggiunta nel corso del divenire storico, secondo l’ottica dello “storicismo”- s’incontrano, per Camus, la teodicea cristiana e quella secolarizzata di Hegel e Marx. Tale accettazione e tale giustificazione, per l’autore de L’uomo in rivolta, collegano indissolubilmente teologia della storia biblica e filosofia della storia moderna come immanentizzazione dell’eskaton. Mi soffermo su quest’ultima posizione, ricordando un passo di Camus: “Entro la fissità del pensiero dell’epoca, il pensiero tedesco ha introdotto ad un tratto un moto irresistibile. Verità, ragione e giustizia si sono bruscamente incarnate nel divenire del mondo […]. Questi valori hanno cessato d’essere punti di riferimento per divenire fini. Quanto ai mezzi di perseguire questi fini, cioè la vita e la storia, nessun valore preesistente poteva guidarli […]. Norma dell’azione è dunque divenuta l’azione stessa, che deve svolgersi nelle tenebre aspettando l’illuminazione finale” . E’ da Hegel che i rivoluzionari del ventesimo secolo “hanno tratto l’arsenale che ha definitivamente distrutto i principi formali della virtù”, reintegrandoli totalmente entro il flusso del divenire storico . Ed è a partire da Hegel che prende forma il profetismo rivoluzionario di Marx: “quanto affermava Hegel della realtà in cammino verso lo spirito, Marx lo affermava dell’economia in cammino verso una società senza classi” . In questa prospettiva la fede nella società perfetta riscatta le sofferenze delle generazioni destinate a prepararla: “Cent’anni di dolore sono fuggevoli allo sguardo di colui che afferma, per l’anno centesimo primo, la città definitiva […]. L’età dell’oro, rinviata al termine della storia e coincidente […] con un’apocalisse, giustifica dunque tutto […]. L’utopia sostituisce a Dio l’avvenire. Essa identifica allora avvenire e morale: solo valore, quello che serve tale avvenire” .
L’ “utopia” della conquista dell’innocenza definitiva al termine della storia (quindi una sorta di regno del “bene assoluto”) è l’espressione della colpevolezza più radicale e nefasta che sia dato pensare (dunque il “male assoluto”) , poiché si fonda sull’oblio della finitezza e del fatto che l’innocenza può essere un ideale regolativo, ma giammai divenire un dato costitutivo.
D’altra parte, nell’ambito del frastagliato percorso della secolarizzazione, ci s’imbatte, percorrendo altre vie, anche in Nietzsche: qui il sì senza riserve trova espressione nell’amor fati, cioè nel consenso a tutto ciò che esiste, in quanto eterno ritorno dell’eguale . La sofferta consapevolezza che “il mondo non persegue alcun fine” e che quindi “non cade sotto giudizio poiché non si può giudicarlo su alcuna intenzione” si conclude con la sostituzione di “tutti i giudizi di valore” con “un’adesione intera ed esaltata a questo mondo”, vale a dire con l’affermazione che “lo spirito libero ama ciò che è necessario” . E’ così che il “moto di rivolta” viene eliso “nella sottomissione assoluta dell’individuo al divenire” , quella sottomissione che fa la grandezza del “superuomo”, il quale possiede “il dono sacro di dire sì”. E però, dietro l’affermazione di questa grandezza, “la divinità dell’uomo finisce per introdursi”: “L’uomo che da principio, nella sua rivolta, nega Dio, tende poi a sostituirlo”. Solo che “il messaggio di Nietzsche sta a significare che diventa Dio solo rinunciando ad ogni rivolta” . Come osserva Camus, “Nietzsche ha ben visto che l’umanitarismo altro non era se non un cristianesimo privo di giustificazione superiore, che conservava le cause finali respingendo la causa prima. Ma non ha scorto che le dottrine di emancipazione sociale dovevano, per una logica inevitabile del nichilismo, propugnare quello che egli stesso aveva vagheggiato: la superumanità”. Insomma, “Nietzsche, almeno nella sua teoria della super-umanità, e prima di lui Marx con la società senza classi, sostituiscono ambedue, all’aldilà, il poi […]. Le loro due rivolte, che ugualmente si concludono con l’adesione a un certo aspetto della realtà, si fonderanno nel marxismo-leninismo, incarnandosi in quella casta, di cui già parlava Nietzsche, che doveva ‘sostituire il sacerdote, l’educatore e il medico’” .
Ma l’uomo diventa “colpevole”, oltre che pronunciando un sì assoluto, anche proferendo un no altrettanto assoluto: si pensi all’interpretazione camusiana di De Sade o dei “romantici” e, dal punto di vista delle realizzazioni storiche, del nazismo, considerato notoriamente da Camus come la rivoluzione basata sull’esaltazione dell’irrazionale, all’opposto del comunismo, in cui si parte della deificazione della ragione .
La prima alternativa (il sì totale a ciò che è o, meglio, a ciò che diviene e che tende, attraverso le sofferenze e i drammi della vicenda umana, a una prospettiva salvifica) parte non paradossalmente dalla volontà di elidere il negativo, ma finisce, nel cristianesimo, per rinviare tale elisione oltre il mondo mentre in questo mondo viene a patti col male. Nei messianismi rivoluzionari e nelle precedenti filosofie della storia il riscatto dovrebbe invece avvenire entro il mondo; ma per arrivare alla meta finale il male presente viene assunto e accettato come inevitabile e anche positivo in vista del risultato finale, cioè della parusìa inframondana. Siamo di fronte alla forma mentis che legittima il machiavellismo e il “cinismo” dei rivoluzionari di professione, per cui il fine giustifica i mezzi e per cui il bene futuro, garantito dalle leggi delle storia, riscatta, per Hegel non meno che per Marx, le vittime dell’oggi.
La seconda alternativa (il no totale), una volta constatato il male, lungi dal combatterlo, lo assume dentro di sé in un agonismo che misura la sua potenza contro il male attraverso una sorta di sfida idolatrica a imitarlo. Qui rientrano de Sade e la sua singolare teodicea rovesciata, cioè la convinzione che il mondo sia retto da un Dio malvagio; ma trovano posto anche i “dandies”, tra cui Camus cita Blake, Lermontov, Byron, Baudelaire . Entrambe le posizioni sono nichiliste, perché ignorano la realtà così come essa è, cioè contraddittoria e imperfetta, composta dal “diritto” e dal “rovescio”, non semplice, non riducibile alla totalità: infatti “nichilista non è colui che non crede a niente, ma colui che non crede a quanto è” .
In ogni caso: l’ “innocenza”, anche per chi rifiuta, come Camus, di considerare la storia e l’esistenza attraverso la lente deformante delle categorie di “colpa” e di “castigo” , non può mai, come si è già evidenziato, essere integrale, proprio perché è scelta umana entro una realtà tragica, tragica, la tragicità consistendo nel fatto che permane l’istanza dell’unità, della chiarezza, della conciliazione, ma nella consapevolezza della sua radicale impossibilità. L’uomo, come essere finito, incorre inevitabilmente nell’errore e nella colpa quando si confronta con il negativo; per questo motivo il fine che egli si può proporre è al massimo una colpevolezza ragionevole , in cui si riflette l’ideale della misura. E’ il tema che consente di ampliare e approfondire il collegamento con L’uomo in rivolta.

4.La “colpevolezza ragionevole”: L’uomo in rivolta
Ne L’homme revolté il tema centrale è costituito dal tentativo di individuare le radici storico-filosofiche dei delitti di logica che si vestono di “innocenza”, perché intendono preparare una “super-umanità”. Così si crea il paradosso per cui, osserva Camus, è l' “innocenza”, quella autentica, a doversi giustificare . Ci si deve però chiedere, continuando nel percorso indicato e cercando di precisarlo ulteriormente, quale sia il senso di questa innocenza. E ciò proprio alla luce di quello che viene affermato a proposito della “rivolta”, ora chiamata ad affrontare l’omicidio di massa introdotto dai messianismi rivoluzionari. Si tratta di sapere, scrive infatti Camus, se, “senza pretendere a un'impossibile innocenza, essa possa scoprire il principio di una colpevolezza ragionevole” .
Più oltre l’uomo viene collocato tra colpevolezza e innocenza. Non è totalmente colpevole perché “non ha dato inizio alla storia”; e ciò va inteso nel senso che in essa si trova gettato già da sempre come nello spazio proprio della sua condizione. Ma non è totalmente innocente “poiché la continua”, vale a dire perché agisce entro di essa; e può farlo scegliendo tra le alternative che sempre gli si offrono . L’elemento che ha rilevanza teoretica è appunto nel fatto che adesso l’essere umano, a differenza di quanto accadeva nel Mito di Sisifo, ci si presenta come responsabile del proprio destino; insomma, non sembra ora più accreditabile a Camus una prospettiva di titanismo nella quale tutto tende a consumarsi in una introversione del moto di “rivolta” che la riduce al coraggio introflesso dello sguardo lucido rivolto coraggiosamente al non-senso della realtà, ma sembra profilarsi un’ottica interpretativa in cui la “rivolta” diviene estroflessione verso il mondo degli uomini e, con ciò stesso, assume il rischio della libertà. Così -a conferma di quanto accennato precedentemente- credo sia da intendere la duplice affermazione che la “rivolta” pone l’uomo “sul cammino di una colpevolezza calcolata” e che ciò che va evitato è cercare l’innocenza assoluta, poiché è la via che porta alla “colpevolezza definitiva”, in quanto oblio della finitudine della libertà come libertà umana. Da sottolineare qui è la delineazione della dialettica negativa della “rivolta”: “Ogni rivolta è nostalgia d’innocenza e anelito all’essere. Ma la nostalgia prende un giorno le armi e si assume la colpevolezza totale, cioè l’omicidio e la violenza”. Si può commentare il breve passo rilevando che l' “innocenza” non è un fatto (come appariva in Il rovescio e il diritto, in Nozze, ne Il mito di Sisifo), ma una “nostalgia” e l'uomo crea da sé la propria “colpevolezza” nel momento in cui tradisce lo spirito della “rivolta”. Quindi affiora in maniera sempre più netta una responsabilità umana nel male che il primo Camus non pareva ammettere: ed è questa una prospettiva interpretativa che si precisa man mano che la riflessione camusiana procede, come vedremo.
Consapevolezza del limite e richiamo alla misura sono strettamente congiunte: l’uomo non può introdurre “l’unità nel mondo”, unità che priverebbe la rivolta delle sue ragioni . Mai potranno essere realizzate integralmente “la sincerità, l’innocenza, e la giustizia” . Non dovrebbe sfuggire che, tra le condizioni irrealizzabili, c’è l’ “innocenza”. Quindi, andando anche oltre quanto già è stato messo in luce nei primi tre paragrafi, bisogna ammettere la traccia (per quanto indefinita dal punto di vista della sua delineazione teoretica) di una colpevolezza che sembra risiedere a monte di ogni agire ; essa è ribadita anche nell’affermazione, che denuncia la sua radice paolina, secondo cui l’uomo “sa il bene e fa suo malgrado il male” . La situazione dell’uomo, “incatenato al male”, è di “trascinarsi disordinatamente verso il bene” .

5. La peste: un inciso su Camus e Pascal.
E’ la “peste”, nell’omonimo romanzo (1947), che spinge gli abitanti di Orano a situare in una nuova luce tutta l’esistenza condotta prima del suo arrivo. Costituisce una sorta di acceleratore della consapevolezza del negativo, è ciò che interrompe la serialità e può condurre a una diversa consapevolezza della realtà umana, non più affidata alla routine quotidiana della ripetitività che occlude gli interrogativi fondamentali dell’esistenza, inchiodandola così all’inautenticità.
La “peste” è la metafora della condizione umana come condizione segnata dalla negatività e tale che di fronte ad essa vari e diversi atteggiamenti possono essere assunti; ognuno dei personaggi del romanzo incarna versioni significative di tale possibilità di scelta. Rambert rappresenta la lacerazione tra felicità personale e assunzione di responsabilità per gli altri; Cottard è colui che vive bene nella peste e non solo l’accetta ma vorrebbe che si perpetuasse; Tarrou è l’uomo alla ricerca di una santità senza Dio, ciò che a Rieux appare eccessivo, bastandogli (emulo si potrebbe dire del Candide voltairiano, pur con un accento tragico che questi non conosceva), la lotta contro la “malattia”, qui ed ora, senza rinvii.
E’ giustificato affermare, quindi, che il tema centrale del romanzo è, in tale prospettiva, la libertà umana alla prova del male. Vorrei soffermarmi su un solo personaggio, il padre Paneloux. Singolare gesuita che studia Agostino, propone, nella sua prima predica in una chiesa frequentata da uomini e donne irrigiditi dalla paura del contagio, la versione cristiana della peste: essa è un castigo di Dio, meritato dagli uomini, che trasforma il male in bene, in quanto può essere occasione di riscatto e purifica dai peccati. “ ‘Fratelli miei -proclama- voi siete nella sventura, fratelli miei, voi lo avere meritato’ ”. E aggiunge: “Dal principio d’ogni storia, il flagello di Dio mette ai suoi piedi gli orgogliosi e gli accecati. Meditate e cadete in ginocchio” . “Lo stesso flagello che vi martirizza -continua Paneloux- vi eleva e vi mostra la via […]. Ai nostri spiriti più chiaroveggenti, mette soltanto in rilievo il prezioso bagliore d’eternità che giace in fondo a ogni sofferenza […]; manifesta la volontà divina, che, senza mancamenti, trasforma il male in bene” . Dio non è “tiepido” e anche in questo modo mostra il suo amore .
Accade poi però che Paneloux assista alla morte per peste di un bimbo innocente: sperimenta così in prima persona questo estremo scandalo del male. Entra a far parte delle squadre dei volontari. A questo punto si colloca la seconda fondamentale predica, in cui l’accento cade sull’incomprensibilità del male e non più, come nella precedente omelia, sulla giustificazione di esso in vista della redenzione, cioè sulla tesi che il male è la punizione per i peccati dell’umanità e che Dio trae comunque sempre il bene dal male. Un Paneloux ormai profondamente mutato afferma invece che la fede consiste nell’accettazione anche di tale incomprensibilità del male, incomprensibilità che include la morte degli innocenti. Quindi fede è non più pacificata adesione alla provvidenza che sa far nascere il bene dal male, ma affidamento totale a Dio, anche in presenza delle forme più scandalose del male, quelle in cui il negativo non è redento da nulla e resta, semplicemente, quello che è: morte, sofferenza, disperazione, lacerante incertezza del domani. E’, in sintesi, una fede senza più una teodicea . E Rieux, a questo punto, tende l’orecchio, proprio quando ascolta dire da Paneloux che certo al mondo ci sono il bene e il male, ma che “le difficoltà comincia[no] nell’ambito del male”, visto che accanto al male “apparentemente necessario” c’è il “male apparentemente inutile”, insomma c’è “Don Giovanni sprofondato agli inferi e la morte d’un bambino”, quella morte che è la cosa più “importante” sulla terra, con tutto il suo carico di “orrore”. Certo, pensa Rieux memore della prima predica, Paneloux avrebbe potuto “scalare il muro” delle difficoltà e gli “sarebbe stato facile dire che l’eternità di delizie che aspettavano il bambino potevano compensarlo della sofferenza”. Ma in verità il sacerdote questa volta si astiene dal sondare questo abisso con quelli che, ora, gli appaiono evidentemente troppo facili strumenti. Si arresta al dubbio: “chi poteva affermare, infatti, che l’eternità d’una gioia potesse compensare un attimo di dolore umano?”. “No, il padre sarebbe rimasto ai piedi del muro. Fedele al supplizio di cui la croce è il simbolo, di fronte alla sofferenza d’un bambino” . E infatti così conclude Paneloux, “bisogna tutto credere o tutto negare” e “la più grande virtù [è] quella del Tutto o Nulla” : è “necessario scegliere di odiare Dio o di amarlo” .
Trascorrono pochi giorni, Paneloux muore ; e muore come “caso dubbio”, dopo aver rifiutato il medico, finché arriva Rieux, ma troppo tardi per salvarlo e incerto che si tratti veramente di peste.
Ci si può chiedere se quello narrato nel quarto capitolo de La peste non sia interpretabile -mettendo a frutto le categorie de Il mito di Sisifo e in particolare quella del “salto” nella fede rimproverato ai protagonisti del “suicidio filosofico”, da Kierkegaard a Chestov a Jaspers, a Heidegger, a Kafka- come una sorta di salto, ovviamente in senso del tutto diverso, del padre Paneloux. E’ il salto da una fede aproblematica, un po’ astratta, dotta e lontana dall’inquietudine , quella cioè della prima predica, a una fede che non solo -dopo essere stata posta di fronte al confronto vivo, sperimentato in prima persona, con la sofferenza estrema e con la morte degli innocenti- è diventata inquieta, ma che arriva non paradossalmente, proprio nel momento in cui si pone dinanzi questo dilemma, alla sua assoluta e necessaria radicalità e autenticità. In Paneloux la peste purifica la fede portandola alla più forte tensione interna che sia possibile immaginare, la tensione cioè che la proietta nella prospettiva del nascondimento di Dio e dell’inquietudine, cifre (questa è l’ipotesi che vorrei suggerire) riconosciute da Camus come caratteristiche della religione di Pascal, che in ciò si distaccherebbe allora, se si accetta questa linea interpretativa, dalla religione di Agostino. Si tratta di una religione cui non solo non è ignara, ma per la quale diviene centrale, l’angoscia che inevitabilmente segna, come appunto avviene in Pascal, una fede collocata sullo sfondo dell’acosmismo moderno, quell’acosmismo che conduce a prendere congedo da ogni ipotesi di partecipazione in senso analogico tra Dio e mondo, tra finito e infinito , ponendo invece al centro la “contraddizione” che segna l’esistenza umana nel modno. E la presa di congedo coinvolge inevitabilmente anche ogni rassicurante teodicea in cui il male, mera privatio boni, è, pur frutto di un atto di libertà contro Dio, passibile di essere recuperato in positivo nell’economia della salvezza.
In estrema sintesi: se si punta l’attenzione sullo snodo tematico che trova il suo riflesso in questo solo apparentemente secondario personaggio che è Paneloux, diventa legittimo rilevare che qui Pascal è, per Camus, diverso da quanti hanno compiuto il “suicidio filosofico”, poiché il “salto” nella trascendenza e/o nel soprannaturale in senso specificamente cristiano non si presenta, nell’autore dei Pensieri, quale soluzione delle contraddizioni, ma si pone innanzi a queste assumendole come l’ “impronta di ciò che è umano” . Quello che si potrebbe definire il secondo Paneloux incarna esattamente tale posizione: il cammino che egli compie è opposto al “suicidio filosofico” denunciato ne Il mito di Sisifo: non va verso la fede come apparente soluzione delle “opposizioni” tipiche dell’uomo, della sua “sproporzione” rispetto al “silenzio” degli “spazi infiniti” , ma verso la sua configurazione tragica, in cui il riscatto, se c’è, sta nel condurre la fede fino al tutto o nulla. La sofferenza di un bambino -afferma Paneloux- è “umiliante”, ma proprio per questo bisogna accoglierla e “slanciarsi al cuore di quest’inaccettabile che ci [è] offerto” e che costituisce il nostro “pane amaro”, senza il quale l’anima morirebbe di fame spirituale”: “bisognava volerla in quanto Dio la voleva” e “soltanto per tale via il cristiano non avrebbe risparmiato nulla e, chiuse tutte le uscite, avrebbe toccato il fondo della scelta sostanziale” . Qui -mi pare di poter dire (anche in questo caso cercando di indicare una strada certo non molto percorsa dagli interpreti di Camus)- c’è per così dire ante-litteram una risposta possibile alla denuncia dello scandalo della sofferenza innocente avanzata da Ivan Karamazov ne L’uomo in rivolta (1951) . Verso questa risposta Camus, pur ovviamente resistendole, mostra non solo il massimo rispetto sul piano morale e psicologico, ma porta pure la sua attenzione sul piano teoretico. E la risposta è che una fede còlta, vissuta e sofferta nella sua estrema radicalità richiede anche l’accettazione dello scandalo generato da un tal genere di inaudita sofferenza: è appunto lo “slanciarsi al cuore” di quanto per Ivan è ancora l’inaccettabile, quell’inaccettabile che lo conduce a rifiutare la “verità” in nome della “giustizia”, se la prima deve portare a rinnegare la seconda.
Se questa ipotesi di lettura risulta accettabile, allora si spiega non solo come ridondanza retorica l’affermazione camusiana che ogni filosofia la quale non arrivi a rispondere a Pascal è inutile. Infatti quella di Pascal è la sfida più forte proposta a un pensiero dell’ “assurdo” che, come quello camusiano, non intenda venire a patti con la religione cristiana. E lo è perché mantiene l’assurdo entro la scelta di fede, non anestetizzandolo attraverso il “salto” e accettando di misurarsi con la contraddizione, la sproporzione, la dismisura, come cifre della condizione umana: “Qualunque termine a cui pensiamo di legarci e di fermarci oscilla e ci abbandona […]. Nulla si ferma per noi […]. Ogni fondamento scricchiola e la terra si apre sino agli abissi […]. Nulla può fissare il finito” .
Ed è anche una sfida che comporta l’impegno concreto contro i mali nel mondo, impegno che rigetta la passività assoluta, ma che non pretende neppure di sostituirsi ai disegni imperscrutabili di Dio, né di anestetizzare la tragicità del male. Verso la fine della sua seconda predica Paneloux afferma infatti che non bisognava “pensare di emulare quegli appestati persiani che buttavano i loro stracci sulle pattuglie sanitarie cristiane, invocando ad alta voce dal cielo di mandar la peste agli infedeli che volevano combattere il male inviato da Dio”; ma non bisognava neppure “imitare i monaci del Cairo che nelle epidemie del secolo passato davano la comunione prendendo la particola con le pinze, per evitare il contatto delle bocche umide e calde in cui poteva dormire l’infezione”. Bisognava semplicemente “cominciare a camminare in avanti, nelle tenebre, un po’ alla cieca, e tentare di far del bene. Ma per il resto bisognava restare, e accettare di rimettersi a Dio, anche per la morte dei bambini” .
Siamo di fronte a un’accettazione tragica che comporta il volere ciò che non si può umanamente capire: “Ecco la difficile lezione che volevo dividere con voi”, conclude il padre rivolto ai fedeli, “ecco la fede, crudele agli occhi degli uomini, decisiva agli occhi di Dio, a cui bisogna avvicinarsi” . Il carattere tragico emerge anche dal fatto che ora, a proposito della morte dei bambini, Paneloux parla di “scandalo”, di “orrore” , e ha almeno un momento di esitazione di fronte all’idea che le “delizie” della vita ultraterrena possano compensare anche un solo minuto di sofferenza e di dolore in questo mondo . Non sorprende certo che agli occhi di un giovane e zelante diacono la predica-congedo di Paneloux appaia come un’omelia con più “inquietudine” che “forza”; giudizio che va letto non dimenticando quello di Tarrou, secondo il quale, “quando l’innocenza è accecata, un cristiano deve perdere la fede o accettare d’essere accecato” .

6. La “duplicità profonda della creatura”: La caduta
Clamence a Parigi vive un’esistenza all’insegna della serialità, e soprattutto della banalità, la banalità del bene come perbenismo, come esibizione di azioni caritatevoli, come ciò che conduce alla “gioia di stimarsi” riflettendosi allo specchio della propria ambizione . E’ protagonista di una vicenda al cui centro sta una persona senza profondità interiore e che rimane costantemente “alla superficie” delle cose , come lo stesso Clamence ripete insistendo sul suo “orrore” per “le carboniere, le stive, i sotterranei, le grotte, le voragini”, anfratti pericolosi poiché schiudono verso spazi che insidiano la serena tranquillità di una “vita in presa diretta” . Si tratta di un uomo sul quale, prima del misterioso episodio della risata udita una notte traversando un ponte, “tutto scivolava”: non abbastanza grande da perdonare le offese, ma sufficientemente cinico per “dimenticarle” . Nel ricostruire il suo passato di fronte all’interlocutore incontrato nel bar “Mexico-City” rammenta come all’inizio trascorresse l’esistenza in un’unità apparente con se stesso e con gli altri: “il mio accordo con la vita era totale” . E’ un’unità che si fonda proprio su quest’assenza di introspezione, di profondità, “senz’altra continuità che quella dell’io-io-io”: “In fondo, non v’era niente che contasse. Guerra, suicidio, amore, miseria, costretto dalle circostanze vi prestavo attenzione, certo, ma in modo cortese e superficiale” . “Familiare quando occorreva, silenzioso se necessario, capace di essere sia disinvolto che grave, ero -ricorda Clamence- senza intoppi” . Qui il “mirare in alto” e lo stare a proprio agio solo “nei luoghi elevati”, sulle “vette” , indicano prima di tutto, appunto, il rifuggire dal ripiegamento su se stessi, la ritrosia a scendere nelle profondità interiori, quelle profondità che, come già Camus aveva annotato ne Il rovescio e il diritto ricordando il suo viaggio a Praga, generano sempre “lo stordimento” tipico di quanti “hanno guardato troppo in un crepaccio senza fondo” . Sono, questi ultimi, tutti elementi che si oppongono alla lineare semplicità della vita vissuta alla superficie delle cose; e come non pensare a quanto questa vita assomiglia, richiamandola anche dal punto di vista letterario, a quella praticata dall’honnête homme che è obiettivo costante della critica di Pascal? Clamence a Parigi è l’uomo del divertissement, atteggiamento che non trova mai riposo e che spinge a passare dalla ricerca di un piacere a un altro, non consentendo che ci si soffermi su quel “segreto degli esseri e del mondo” che pure al culmine della stanchezza talvolta traluce; ma “la stanchezza spariva il giorno dopo, e con essa il segreto” . Ed è inoltre l’uomo che si identifica con la propria corporeità: “ero fatto per avere un corpo”; “il lato fisico” gli procurava “gioie costanti” . Si può notare, per inciso, che ora il tema della corporeità è affrontato ora in modo tale da evidenziare un sensibile contrasto rispetto a quanto accadeva nei primi scritti di Camus, in cui dominava l’esaltazione del corpo, qui invece avvertito come limitante e difettivo. Clamence è molto vicino, nel modo di trattare le donne e l’amore , al Don Giovanni de Il mito di Sisifo: “La sensualità, ed essa sola, regnava nella mia vita amorosa. Miravo soltanto al piacere e alla conquista” . Si rileggano brevemente alcuni passaggi del testo del 1942 su Don Giovanni: “Amare e possedere, conquistare ed esaurire” sono il suo modo di essere e di conoscere in “un’esistenza dedita alle gioie senza domani” .
Certamente nel racconto di Clamence, al bar “Mexico-City”, appaiono anche i risvolti di cui, quando viveva le esperienze che rammenta, non era consapevole: ora si rende conto del fatto che i suoi comportamenti di ostentata generosità, benevolenza, amicalità, erano nient’altro che un modo per primeggiare, per essere al centro dell’attenzione, per emergere , e scorge anche con lucidità le debolezze, l’egoismo degli uomini di cui si circondava; in essi vede riflessa la radice dei propri atteggiamenti nel corso della vita mondamente “ben riuscita” condotta a Parigi . Ma la conquista di tale autoconsapevolezza è il prodotto di eventi che solo il tempo ha fatto affiorare e che hanno condotto a una radicale frattura nel corso piano di questa vita, partendo dalla risata udita una notte sul ponte delle Arti. E’ da qui che comincia ad essere compresa con chiarezza progressiva quella duplicità, appunto quell’alterità interiore, che a Parigi non affiorava alla coscienza. “Ero salito sul ponte delle Arti […]. Sentivo crescere in me un profondo sentimento di potenza e, come dire? di compiutezza, che mi dilatava il cuore. Inorgoglito, stavo per accendere una sigaretta, la sigaretta della soddisfazione, quando, nello stesso istante, dietro di me scoppiò una risata. Sorpreso feci un brusco voltafaccia: non c’era nessuno”. E dopo, a casa, ricorda il protagonista del romanzo, “la mia immagine sorrideva nello specchio, ma mi sembrò che il mio sorriso fosse doppio” . La risata è l’occasione che innesca la svolta nella vita di Clamence e che dà inizio al processo consistente nel farsi presente dell’altro io, quello che era rimasto fino ad allora velato. Così cominciano ad apparire le fratture destinate a incrinare la trasparenza esteriore: anche dopo quella sera “di tanto in tanto mi sembrava di sentirla dentro di me”, rammenta Clamence . Il ripiegamento della coscienza su di sé è un argomento che già affiorava nel primo Camus, quando narrava per esempio del già ricordato viaggio a Praga; ma non aveva mai avuto uno spazio come ha ne La caduta, in cui le dinamiche della soggettività cui si è fatto riferimento in precedenza citando le opere anteriori a quest’ultima acquisiscono un ruolo che è ora assolutamente centrale.
Un altro spunto di riflessione sulla linea indicata: anche la giustizia e l’amore, i due grandi punti di riferimento e i due motivi di orgoglio di Clamence, mostrano il loro diritto e il loro rovescio, così come si presenta in questo personaggio che sembra incarnare emblematicamente la duplicità caratteristica della natura umana. Qui la duplicità indica, da un lato, il contrasto tra l’esibizione dell’altruismo e il radicamento egoistico a cui questa ostentazione si alimenta; dall’altro lato rinvia però oltre questo radicamento egoistico, rimanda cioè alla possibilità di un perseguimento effettivo di questi valori, possibilità (questo mi pare il punto su cui portare l’attenzione) che si fa presente a Clamence nel momento stesso in cui si abbandona alla seduzione del mondo delle apparenze e delle maschere. Siamo in un certo senso al cuore di quella dialettica tra miseria e grandezza che rinvia alle contraddizioni che caratterizzano un’interiorità ora sondata attraverso un movimento di introflessione in cui si evidenzia forse lo stacco più evidente che La chute segna rispetto agli altri scritti di Camus. Si tenga presente questa concisa affermazione di Clamence: “L’atto amoroso, per esempio, è una confessione. L’egoismo grida, ostentatamente, la vanità si mette in mostra, oppure si rivela la generosità vera” .
Non si può considerare certo un caso che la risata e, due o tre giorni prima, il suicidio della giovane donna cui Clamence non presta aiuto , avvengano su un ponte. Mi pare che non sia indebito interpretare il ponte come simbolo, appunto, della possibilità di una conciliazione dell’io con se stesso non nella forma dell’unità nell’apparenza e nella finzione (forma, come si è già messo in luce, esperita da Clamence a lungo in modo inconsapevole), ma dell’unità nell’autenticità. Ed è una possibilità che Clamence non coglie, in un primo momento opponendo ad essa l’indifferenza e lasciando la donna suicida al suo destino, poi mettendo in atto la logica del “giudice penitente”, cioè quella logica che consiste nel singolare tentativo di sottrarsi al peso della libertà attraverso il gesto che accomuna tutti nella colpa e che con ciò cerca di sgravare il singolo dalla sua responsabilità: “Adesso parlo con uno scopo: evidentemente, quello di far tacere le risate, di evitare personalmente il giudizio […]. Il grande ostacolo, per sfuggire al giudizio, non consiste forse nel fatto che siamo noi i primi a condannarci? Bisogna dunque cominciare coll’estendere la condanna a tutti, senza discriminazioni, al fine di stemperarla […]. Un tempo, non avevo sulle labbra che libertà. Per colazione la spalmavo sui crostini, tutto il giorno la masticavo, portavo fra la gente un alito deliziosamente fresco e profumato di libertà […]. Non sapevo che la libertà non è una ricompensa […] e neppure un regalo […]. Oh! no, anzi è un lavoro ingrato, una corsa di resistenza molto solitaria, molto estenuante […]. Alla fine di ogni atto di libertà, c’è una sentenza; per questo la libertà pesa troppo” .
Dopo la risata Clamence avverte che gli altri lo giudicano e, come tutti, cerca di evitare con ogni mezzo che questo avvenga, cosa difficile in un mondo dove ognuno mira innanzitutto proprio a giudicare . Da adesso in poi Clamence coglie, nei rapporti “sottilmente stonati” con il prossimo, non più il “circolo” di cui egli era il “centro”, ma il mettersi in fila degli altri “come in un tribunale”, ed emergono allora le “dissonanze” . Sembra che lo si guardi con “un sorriso nascosto” . Scopre di avere dei “nemici”, sia tra i conoscenti sia tra chi non lo conosceva affatto: il motivo di tale avversione che improvvisamente diventa palpabile, almeno quello più immediato, è il successo mondano di Clamence e i rancori che suscita . Importante, al di là di altre considerazioni possibili, è notare che la frattura interiore e quella con l’altro procedono insieme: “I miei amici non erano cambiati. Quando capitava, continuavano a lodare l’armonia e la sicurezza che sentivano stando con me. Ma io ero sensibile solo alle dissonanze, al disordine di cui ero pieno” . Dal momento in cui è stato “chiamato” (“perché sono stato realmente chiamato” ), Clamence ha dovuto cercare la “risposta” e il primo passo è stata la scoperta della “duplicità profonda della creatura”. Ora riconosce -con toni in cui non è certo difficile scorgere l’eco pascaliana- che “la modestia mi aiutava e brillare”: “facevo la guerra con mezzi pacifici”, “tutte le mie virtù avevano un rovescio meno imponente” . E della duplicità, adesso fatta oggetto di autoriflessione consapevole, era parte, come Clamence ha progressivamente compreso, anche l’incapacità di “prendere la vita sul serio”: “Certo, a volte fingevo di prendere la vita sul serio. Ma presto la serietà mi appariva in tutta la sua frivolezza, e mi limitavo a continuare a recitare la mia parte meglio che potevo” . Così l’ “astrazione” finisce per essere scoperta da Clamence stesso come la cifra della sua esistenza passata .
La prima strategia di Clamence per evitare il giudizio è di gettare questa doppiezza in faccia a tutti, rompendo “il manichino che presenta[vo] in giro” ; ma “non basta accusarsi per riconoscersi innocenti” e, finché Clamence non scopre il modo giusto per accusarsi, la “risata [continua] ad aleggiar[gli] intorno” . Poi subentra l’abbandono del mondo attraverso il rifugio nelle donne, “tutto ciò che ci rimane del paradiso terrestre” ; si tratta di un amore che vorrebbe essere autentico e invece è solo la continuazione della tendenza ad amare esclusivamente se stesso (“rimasi un velleitario della passione” ). Da qui si origina il progressivo disgusto per la passione amorosa e si delinea la terza strategia, cioè l’abbandono al mero piacere sensuale, un modo per assicurarsi l’immortalità o, meglio, un surrogato di essa , visto che l’ebbrezza sensuale “è una giungla senza passato né futuro”; “i luoghi in cui si pratica sono separati del mondo”, entrandovi bisogna abbandonare “timore” e “speranza” . Ma anche questa via, nella quale si sperimentano “stanchezza” e “indifferenza” (“il piacere […] non ha niente di frenetico” e non è “altro che un lungo sonno” ), fallisce e che sia fallita è dimostrato dalla reazione allarmata e angosciata di Clamence durante un viaggio in mare alla vista di un “punto nero” scambiato per un “annegato”. Allora Clamence comprende che il grido udito anni addietro ha continuato a inseguirlo e lo ha aspettato, continuerà ad aspettarlo sui fiumi o sui mari, “ovunque [sia] l’acqua amara del mio battesimo” : “Non usciremo mai -come egli stesso afferma- da questa immensa acquasantiera” . Credo si possa affermare che, accanto al ponte, l’acqua costituisca qui un altro simbolo importante: indica infatti la nascita alla coscienza di sé da parte di Clamence, è un battesimo laico. Solo che, come si è già accennato, Clamence risolve per una via distorta le possibilità che questa nascita può aprire, facendosi “giudice-penitente” invece che scegliere, nel riconoscimento della sua sempre possibile caduta nella non-innocenza, il perdono e la solidarietà. Usa quindi male della libertà che lo connota nella sua umanità: libertà fragile, ma appunto in ciò segno dell’umano, in quanto non garantita da un disegno divino, dalla natura, dalle leggi della storia.
E’ quindi ne La caduta che, sviluppando gli aspetti qui richiamati in precedenza e presenti ne I giusti come ne L’uomo in rivolta, Camus pone al centro della sua riflessione il tema della libertà intesa come facoltà che fa dell’uomo ciò che egli può essere: il problema non è tanto quello dell’innocenza e/o colpevolezza originarie dell’uomo stesso, quanto piuttosto quello della libertà in questa ben determinata accezione. Si tratta della libertà intesa come radicale e irriducibile facoltà di scelta tra il bene e il male, che espone il soggetto umano alla colpevolezza potenziale e, in un certo senso, inevitabile. E proprio nel più o meno esplicito riconoscimento di questa inevitabilità sta, per molti versi, la croce del pensiero del Camus dell’ultimo periodo, perché non si può evitare di chiedersi quale sia il motivo di questa inevitabilità che emerge evidente a ogni passo. Il sì e il no, originariamente legati alla delineazione dell’ “assurdo” e della “rivolta” come esperienza umana nel mondo, ora assumono un significato ulteriore e certamente molto diverso: vengono riferiti infatti ad una drastica opzione che va compiuta sul terreno antropologico e che comporta, come punto di partenza, un deciso spostamento della riflessione verso l’interiorità. Si tratta di orientare la riflessione avendo come prospettive di riferimento, da un lato, una concezione dell’uomo che implica la passiva accettazione della sua inclinazione al male (Clamence) e, dall’altro, una concezione che apre invece alla resistenza contro questa inclinazione e quindi non solo all’impegno per il miglioramento della sua condizione mondana, ma al passaggio previo per l’esperienza interiore, alla ricerca della radice profonda di tale inclinazione e in vista della lotta, per quanto è umanamente possibile, contro di essa. A questa rivolta Clamence ha rinunciato, ma nella consapevolezza, progressivamente acquisita dopo la notte in cui ha udito la risata sul ponte, dell’alternativa possibile. Più compiutamente e più esplicitamente di quanto avveniva negli scritti anteriori (e pur nella forma letteraria del romanzo, non in quella del trattato filosofico) si evidenzia che la dinamica della libertà in interiore homine diventa ora il fulcro attorno al quale ruota il problema del male. Pronunciarsi per l’ “innocenza” umana significa impegnarsi positivamente per il buon uso della libertà, in termini individuali e collettivi; pronunciarsi per la “colpevolezza” comporta la rinuncia a questo e l’abbandono passivo alle componenti deteriori presenti nella natura umana. Sulla base di queste indicazioni può essere letta tutta la parte che segue de La caduta e che culmina nella “soluzione definitiva” del costituirsi “giudice-penitente”: questa singolare funzione-vocazione sta nell’estendere la colpa tanto da stemperarla per quanto ci riguarda personalmente, facendo quindi di tutti dei colpevoli, senza attenuanti. Ormai auto-investito di tale funzione Clamence afferma che“da me […] non si distribuiscono assoluzioni”: “In filosofia come in politica, io sono per ogni teoria che rifiuti l’innocenza all’uomo”, cioè “un fautore illuminato del servaggio” .

7. Il valore tra “natura” e “arte”
A questo punto il percorso tracciato può essere integrato introducendo un’ulteriore apertura interpretativa che anticipa la questione finale, cioè il rapporto tra la libertà e il valore. Partendo dalle premesse appena delineate Camus pone la secca alternative tra l’accettazione della “libertà”, con le “sentenze” che inevitabilmente l’accompagnano, e la subordinazione a un’ “autorità” che ci sollevi dal peso della libertà stessa: “Per chi è solo senza Dio né padrone, il peso dei giorni è terribile. Perciò, visto che Dio non è più di moda, bisogna scegliersi un padrone” . Il “padrone” può essere inteso in chiave politica, ma anche e, anzi, qui soprattutto morale. Rappresenta ogni etica eteronoma, ogni “morale formale” nel senso inteso a proposito dell’Illuminismo ne L’uomo in rivolta, cioè una morale che -inchiodata ancora a una forma di trascendenza, quella dei “principi”- eviti di caricarsi della tragica dimensione della libertà. Ma certo Camus intende alludere anche a una morale fondata religiosamente, essendo la religione la massima espressione dell’eteronomia (e questo va pur brevemente annotato per mostrare che non sembrano esserci vie facilmente percorribili per smussare la permanenza, anche in questo romanzo, dell’ateismo camusiano). Comunque sia: tragica tale libertà lo è proprio per questo essere caratterizzata dalla tensione tra l’assoluto cui spinge il moto della “rivolta” e la problematicità cui si va incontro quando ci si pone alla ricerca di un criterio e di una “misura” della libertà stessa che le impediscano di essere soltanto un perenne ruotare a vuoto su se stessa (ciò che farebbe riaffiorare il carattere sartriano di “angoscia” della libertà). L’uomo in rivolta è forse l’opera in cui C. ha cercato con il maggior impegno teorico di affrontare il problema; e ad essa bisogna far riferimento per cercare di comprenderne contorni e aporie.
Quindi rimane da vedere il rapporto tra libertà e valore. Mi limito a indicare i nuclei essenziali per procedere in questa parte, ricapitolando anche quanto si ho esposto sin qui:
a)Il primo è il nesso, posto ne Il mito di Sisifo, tra “assurdo”, “morale della quantità” e “libertà” come accettazione del “destino”. Si tratta di un aspetto già esaminato.
b)Il secondo è quella che a me pare giustificato intendere, almeno per certi aspetti, come l’implicita autocritica di Camus, svolta ne L’uomo in rivolta, rispetto alla posizione assunta ne Il mito di Sisifo. In continuità con quest’opera Camus sottolinea come già in essa si era posto il valore della vita, condizione della stessa "scommessa assurda", valore che affiora nel "confronto disperato tra l'interrogazione umana e il silenzio del mondo": "per dire che la vita è assurda, bisogna che la coscienza sia viva" . Anche il suicida, in fin dei conti, conserva il rispetto per un “valore” -la vita altrui o quei fini e principi per i quali avrebbe voluto vivere- e quindi non arriva alla “negazione assoluta” . Nel leggere questa parte dell’opera il problema che emerge consiste nel fatto che uno sguardo neppure troppo smaliziato non fa fatica a individuare l’assenza di ogni fondamento e/o di ogni possibilità di giustificazione di tale valore se si permane nell’ambito della morale dell’equivalenza . Credo si possa legittimamente sostenere che Camus, a questo punto del suo itinerario di riflessione, comprenda come la sua precedente posizione, cioè quella de Il mito di Sisifo, fosse destinata a rimanere interna alla logica dell’ “assurdo” senza poterne in realtà uscire se non con uno scatto esigenziale e quindi puramente moralistico. E’ come se, compiuto ormai un lungo itinerario di pensiero, scorgesse quanto fosse allora, di fatto, vicino a Sartre, cioè a una filosofia che non riesce a oltrepassare l’ “assurdo” e quindi, stando a quanto sostiene Camus stesso, non può non precipitare nel “nichilismo”. Permanere nell' "assurdo" è impossibile, perché lo stesso "respirare" comporta l'adesione al mondo, così come lo stesso denunciare l' "assurdo". E’ quindi "contraddizione" l' "assurdo" che si avvita su se stesso: "Ogni filosofia della non-significanza vive sulla contraddizione per il fatto stesso d'esprimersi" . Se l' "uomo assurdo" parla -aggiunge Camus- è o per autocompiacimento o perché ritiene l'assurdo una posizione "provvisoria" ; l' "assurdo" è come il "dubbio" cartesiano, punto di partenza, non di arrivo . L' "evidenza" che si dà nell'ambito dell' "assurdo" è la "rivolta", la quale è intrinseca al grido con cui denuncio l' "assurdo" stesso . Ma (e siamo all’esito di questo esordio dell’opera), se non si vuole che la “rivolta” rimanga passione inutile, nasce il problema di mostrare come possa trarre da se stessa la legittimazione delle azioni che fa nascere, non potendole trarre da altro: "l'uomo è la sola creatura che rifiuti di essere ciò che è", afferma Camus, con un recupero in chiave laicizzata della tematica pascaliana della dialettica tra “misère” e “grandeur”. E c'è da capire se questo deve condurre alla distruzione di sé e degli altri o a una "colpevolezza ragionevole" , cioè appunto -recuperando quanto ho cercato di evidenziare nella parte precedente- a un uso della libertà in cui l’investimento normativo non sia destinato a implodere senza risultati .

c)Il terzo passaggio è quindi la ricerca del fondamento normativo della “rivolta”, se questa non deve configurarsi come una “passione senza domani” , cioè come un mero desiderio, in quanto tale destinato a non avere alcuna influenza storica. Nella rivolta emerge la trascendenza del “bene” rispetto all’individuo e quindi l’irriducibilità alla dimensione meramente individuale del “valore” per cui si lotta: “Perché rivoltarsi se non s’ha, in se stessi, nulla di permanente da preservare? E’ per tutte le esistenze a un tempo che insorge lo schiavo quando giudica che, da un determinato ordine, viene negato in lui qualche cose che non gli appartiene esclusivamente”. Questo “valore” eccede la logica “storicistica” e rinvia, “come pensavano i Greci”, a una “natura umana”, che tutti gli uomini condividono. La prospettiva che così si schiude implica il riferimento a un ideale regolativo che Camus stilizza nell’immagine di “luogo comune in cui tutti gli uomini, anche quello che […] insulta e […] opprime, hanno pronta una comunità” . Insomma, il significato filosofico della riflessione di Camus è ora nella ricerca di una giustificazione del “valore” a partire dall’asserzione secondo cui sono impraticabili:
-la via teologico-metafisica basata sull’idea di “partecipazione” (Plotino e Agostino sono in questo caso i riferimenti principali, ed il primo viene citato espressamente in relazione a questo tema );
-il “salto” nella fede, che si estende, attraverso Kierkegaard, a parte consistente dell’esistenzialismo contemporaneo; si tratta di un “salto” che non solo è incoerente, ma porta a dimettere ogni responsabilità per il male del mondo, anzi a giustificarlo;
-la posizione di quanti permangono inchiodati alla logica dell’ “assurdo” com’è declinata da Sartre (ma anche, come ho cercato di mostrare, dal primo Camus).
Ora, nel tentativo di introdurre una giustificazione del “valore”, il procedimento di Camus sembra seguire una strada che può essere schematicamente sintetizzata come segue. Il punto di partenza è la fenomenologia della “rivolta” alla luce del metodo della comprensione già illustrato ne Il mito di Sisifo . Nel contesto di questo procedimento Camus coglie il “valore”, che si identifica innanzitutto con la consapevolezza, intrinseca alla rivolta stessa, del “destino comune” che unisce gli uomini nella solidarietà, articolandosi attraverso il dialogo, la parola, la “comunicazione” . Così la “rivolta” definisce, “contro il nichilismo”, una “regola di condotta che non ha bisogno di attendere la fine della storia per rischiare l’azione e che, tuttavia, non è formale” ; quindi va oltre i limiti dello storicismo e dell’illuminismo. Ma questo valore richiama anche, quale suo fondamento ultimo, la “natura umana” come “essenza”, cioè come dato ontologico che la “rivolta” conduce, se così si può dire, a scoprire, porta alla luce, fa emergere agli occhi di chi intende mettere in atto una riflessione volta alla comprensione di essa nel suo significato più proprio. La storia diventa in tal modo solo un’ “occasione” in cui l’uomo può presentire il “valore” . La “rivolta” è il rifiuto di essere ridotti a mera storicità e affermazione di “una natura comune a tutti gli uomini”, cosicché “pone un limite alla storia” e su questo limite nasce “la promessa di un valore” . Ecco perché le sorti del mondo non si giocano nel contrasto tra “produzione borghese” e “produzione rivoluzionaria” (che in realtà vanno a uno stesso fine, il primato del progresso materiale), ma tra “rivoluzione cesarea” e “rivolta”. E quest’ultima deve rispondere alla sfida del totalitarismo, per il quale “non esiste una natura umana” . Quindi il compito del pensiero della “rivolta” -che a questo punto esibisce la sua componente giusnaturalistico, così poco (o niente) evidenziata negli studi su Camus)- è recuperare il concetto e il valore della “natura umana”, che è ciò che “sfugge al mondo della potenza” . E’ evidente anche l’istanza universalistica connessa al riferimento alla natura umana, istanza che si incarna nei due valori della “dignità” e della “bellezza”, “comuni” a tutti gli uomini . Ed affiora anche, pur mai definita rigorosamente, una concezione di “natura umana” che, preso definitivo congedo dal giusnaturalismo moderno (la “morale formale”), si riaggancia al teleologismo classico; ciò avviene, per esempio, là dove Camus sostiene che “l’uomo deve “conquistare […] quanto già possiede” .
Quando Camus tratteggia la sintesi della parabola della “rivolta” e delinea i contorni della “rivolta tradita” mette in evidenza, oltre a questi aspetti, la nota critica alla morale “formale” illuministica e alla morale storicista, indicando la necessità di procedere verso l’individuazione di una “norma, morale o metafisica, che equilibri il delirio storico” . La “rivolta tradita” coincide con la “negazione di ogni essere”; ed è questa una tesi da collegare all’affermazione che il “nichilismo”, cioè appunto l’espressione del tradimento della “rivolta”, è tutt’uno con l’accettazione totale, con il sì senza il no. Per non accettare tutto bisogna, com’è evidente, avere un criterio normativo di riferimento ; quindi la rivolta è un sì accompagnato da un no ed è fondata sulla “natura umana” come “valore”, sovrastorico ma non astorico. E questo valore è al contempo un “limite” che definisce il perimetro del giusto e dell’ingiusto nell’azione umana . La via indicata da Camus sembra chiara in generale, seppur vaga nella sistematizzazione: il riferimento è a “questo essere oscuro che già si scopre nel moto d’insurrezione” . Non si tratta dunque di contrapporre nettamente analisi fenomenologica e fondazione “metafisica”, ma di mostrare che la seconda può essere colta a partire dalla prima. “Esistenza” ed “essenza” vanno affermate insieme: “l’essenza si coglie solo sul piano dell’esistenza, ma l’esistenza riferita unicamente a se stessa finisce nel “nulla”. L’esistenza, come “divenire”, è niente senza l’ “essere”: “Qualche cosa, infine, ha un senso che dobbiamo conquistare sul non-senso. Allo stesso modo, non si può dire che l’essere sia soltanto sul piano dell’essenza. Dove cogliere l’essenza se non sul piano dell’esistenza e del divenire? Ma non si può dire che l’essere sia soltanto esistenza. Ciò che sempre diviene non ha la possibilità di essere, occorrere un inizio. L’essere non può esperimentarsi se non nel divenire, il divenire è nulla senza l’essere” .
Se si ammette la plausibilità di interpretare il percorso indicato da Camus come un camino segnato dal tentativo di guadagnare, nell’ambito di un metodo fenomenologico, un’apertura ontologica, fondamento a sua volta del piano normativo, diviene possibile forse sgravare il pensiero dell’autore de L’uomo in rivolta dalla critica secondo la quale in lui un “trascendentale morale” sostituirebbe il momento fondativo, l’ “universalità” limitandosi a un “atteggiamento” destinato a rimanere delimitato entro il ristretto, seppur ovviamente non privo di significato, perimetro della “testimonianza” .
Ma, anche se si riconosce questa possibilità di individuare un’eccedenza del pensiero camusiano rispetto ai confini del moralismo (sia pure della grande tradizione dei moralisti francesi), il meno che si possa dire è che si tratta, certo anche per la prematura morte dello scrittore, di un sentiero interrotto e mai giunto a una sua finale coerenza. A meno che non si voglia affermare che l’interruzione del sentiero, la sua incompiutezza, è affidata non alla contingenza del destino di una vita, ma è segnata da un’intrinseca impossibilità. Tale sottolineatura -che accenno soltanto, con piena consapevolezza dei suoi limiti e delle sue carenze - implica una breve aggiunta a quanto sostenuto sin qui.
Com’è noto, Alasdair Mac Intyre ha indicato l’aporia del progetto morale della modernità in un tentativo che definisce “donchisciottesco”, cioè nel reperire un “fondamento razionale per le […] credenze morali in una particolare comprensione della natura umana” che si pone in rotta radicale rispetto al teleologismo classico, ma allo stesso tempo eredita “un insieme di ingiunzioni morali” che da tale teleologismo sono inseparabili . Poiché, a suo avviso, “senza una struttura teleologica l’intero progetto della morale diviene inintellegibile” -e, com’è noto, teleologica, seppur con certe specificità, è per Mac Intyre anche l’impostazione del problema morale nell’ambito del cristianesimo -, ne deriva che siamo posti di fronte alla secca alternativa di dover scegliere tra “Aristotele” (con tutta la sua eredità) e “Nietzsche”, il quale ha almeno il vantaggio, rispetto ai vari esercizi incoerenti della filosofia morale moderna, di aver nutrito con “implacabile serietà” , la piena consapevolezza della posta in gioco implicita nel rifiuto della morale di matrice aristotelica .
Potrebbe essere interessante riflettere sulla possibilità di leggere Camus usando come prospettiva quella offerta appunto da Mac Intyre. E’ infatti evidente, per un verso, lo sfondo nietzscheano del pensiero di Camus; per altro verso è palese e dichiarato anche il tentativo di prendere le distanze dal “nichilismo” che, per lo scrittore francese, è implicito nella teoria dell’amor fati . Si è visto come ne L’uomo in rivolta tale tentativo assuma la forma del recupero di una concezione di “natura umana” nel senso di “essenza” e anche di fine (il divenire ciò che siamo), quindi con un significato in cui, per dirla con Mac Intyre, riaffiora qualcosa come una sia pur indefinita “struttura teleologica”. E’ forse degno di attenzione il fatto che, in questo contesto, quelle che si potrebbero definire con ovvia approssimazione l’anima nietzscheana e l’anima aristotelica di Camus permangono in perenne tensione, nella misura in cui l’una non perviene mai ad annullare l’altra. E così, tenute insieme nella loro ovvia aporeticità, impediscono al suo pensiero di acquisire una compiuta coerenza.
Rivelativa è a tal proposito la parte de L’homme revolté dedicata a “Rivolta e arte”. Mi soffermo rapidamente solo su alcuni passaggi del testo. Nell’arte, sostiene Camus, “la rivolta si lascia […] osservare, fuori della storia, allo stato puro” : “In ogni rivolta si scoprono l’esigenza metafisica di unità, l’impossibilità di conseguirla, e la fabbricazione di un universo che la sostituisca” . E l’arte fa lo stesso, cosicché si può dire che “l’esigenza della rivolta è, in parte, un’esigenza estetica” . L’arte si pone esattamente, come la “rivolta”, tra “rifiuto” e “consenso” . E il romanzo incarna emblematicamente tale logica interna della produzione artistica; non è certo quindi mera “evasione” . La “contraddizione” esistenziale fondamentale viene da Camus chiamata in causa per render conto, entro lo stesso orizzonte di riferimento, dell’arte e della vita, che in parte si richiamano, in parte sono in costitutiva tensione. Con chiaro accento pascaliano Camus osserva: “Gli uomini tengono al mondo […]. Lungi dal volerlo sempre dimenticare, soffrono invece di non possederlo abbastanza, strani cittadini del mondo, esuli in patria” . Da qui si origina il bisogno della permanenza, la volontà di “dominare il corso del fiume, cogliere finalmente la vita come destino” . L’ “invidia” che si prova di fronte alla vite degli altri nasce dal fatto che, dall’esterno, quella vita ci appare dotata di una “coerenza” e di una “unità” che solo l’ “osservatore” sembra poter conferire. E’ per questo che noi tendiamo a concepire e a vivere la vita come un’ “opera d’arte”. L’amore dovrebbe durare per sempre, ma anche il dolore; tutto cioè dovrebbe avere una rotondità, una durata, una coerenza, uno sviluppo concluso, contorni fermi, stile, che il romanzo offre costruendoli, ma che la vita non concede, giacché “gli esseri sfuggono sempre e noi pure sfuggiamo loro”, mentre la vita è “senza stile” , è un “movimento che va rincorrendo la propria forma senza trovarla”, senza mai conciliazione. “Non basta vivere, occorre un destino” , ed è un bisogno che il romanzo soddisfa. Il romanzo è dunque “quell’universo in cui l’azione trova una sua forma, in cui le parole finali vengono pronunciate, gli esseri concessi agli esseri”, è una “correzione di questo mondo” , “la curva nuda di un linguaggio senza pecca” : “Non esiste bella storia senza questa continuità imperturbabile che non c’è mai nelle situazioni vissute” . L’artista è colui che non imita, ma stilizza, come van Gogh, che “cerca di rifare questo abbozzo [il mondo] e di dargli lo stile che gli manca” per non lasciarlo “mal riuscito” com’è di per sé .
Annoto, a questo punto, solo brevissimi spunti, che mi paiono rilevanti per chiudere il già lungo itinerario abbozzato fin qui. Il primo riguarda la teoria estetica per la quale l’arte, e il romanzo in particolare, sono “fabbricazione” e “creazione”, intese, secondo una linea interpretativa tipicamente nietzscheana, come l’unico modo di dar forma, significato e valore ad una realtà che in sé non ha né “stile”, né ordine, né finalità. Questo è ovviamente il punto su cui concentrarsi. Infatti tale idea contrasta con la tesi di una “natura umana” che dovrebbe essere il fondamento, non creato ma dato, del “valore”, appunto quella natura che poco più avanti viene individuata come ciò su cui si basa “la comune dignità del mondo e dell’uomo” . Ora, introdurre il concetto di una “natura umana” come “essenza” implicherebbe (e in alcuni passaggi già citati dello stesso Camus così in effetti appare) l’ammissione di una sua interna normatività (o come tale comunque che tale normatività è quanto meno esigita, seppur non motivata teoreticamente in modo sistematico). Qui siamo posti invece di fronte alla contrapposizione tra una natura e un mondo, umani e non umani, privi di ogni connotazione valoriale intrinseca, da un lato, e, dall’altro, a una produzione artistica che, sola, può ordinare il non-senso della realtà nella forma della “creazione”, cioè in una forma in cui il valore viene riassorbito non in una dimensione ontologica, ma estetica (con ciò facendo riaffiorare, parrebbe, il dongiovannnismo morale degli eroi dell’ “assurdo” presentati ne Il mito di Sisifo). C’è da chiedersi, a mio avviso, se questa evidente dissimmetria tra la dimensione etico-politica e quella estetica della riflessione di Camus, tra il mondo del “valore” e quello dell’ “arte”, non sia un argomento da approfondire e in qualche modo rivelativo di aporie più generali non risolte. Per la sfera artistica conta la riduzione in “forma”; e ovviamente questa è, come Camus sottolinea esplicitamente, indipendente dai contenuti morali che tale forma, romanzesca o di altro genere, assume. Al contrario, nel campo del valore la “forma” non può esaurire il campo tematico dell’etica come precedentemente definito, a meno appunto di un’identificazione tra etica ed estetica che annullerebbe tutto lo sforzo che mi pare sia compiuto da Camus soprattutto (ma non solo) ne L’uomo in rivolta in direzione di un fondamento ontologico del valore.
Se si accetta questa chiave interpretativa, allora diviene plausibile sostenere che Camus esemplifica in modo emblematico, entro tutta la sua opera, la tensione tra quei poli che per Mac Intyre implicano una scelta la quale si presenta, sottratta a ogni mediazione, come un vero e proprio taglio del nodo di Gordio: o un coerente teleologismo o la dissoluzione nichilistica del valore. Il “pensiero meridiano” costituirebbe, in tale prospettiva, una delle tante e variegate espressioni, pur nel suo fascino letterario e nel suo pathos esistenziale, del fallimento della filosofia morale moderna e dei tentativi, per così dire, di correggerla senza prendere atto della contraddizione essenziale su cui si basa. E il caso di Camus è emblematico (ciò che giustifica il condurne un’analisi particolareggiata e a sé) proprio perché in esso si evidenzia in modo quanto mai chiaro e tangibile come la passione dello slancio esigenziale sia, se così si può dire, chiamata a colmare le aporie che investono la dimensione del fondamento filosofico, finendo per essere inversamente proporzionale, nella sua intensità, rispetto ad esso. Così realizza una delle massime espressioni di una tipologia del pensare fortemente caratteristica dell’epoca non solo di Camus ma anche del tempo di cui siamo testimoni diretti. Quasi che il destino del tempo che così mirabilmente Camus rappresenta e incarna sia di riassorbire nell’energia del pathos l’estenuazione del logos, compendiando in una sorta di atto di fede laicizzata lo smarrimento della ragione.
In fin dei conti Camus chiuderebbe il cammino che per Mac Intyre aveva già iniziato, insieme con il protestantesimo, il “cattolicesimo giansenista” , i quali costituiscono, pur nelle loro differenze, i decisivi esordi cristiani del moderno, esordi che possiamo cogliere in quel decisivo tornante storico e culturale in corrispondenza del quale si spezza, a seguito di un’interpretazione radicalizzata del peccato originale che va molto oltre Agostino, la fiducia in qualsiasi forma di “comprensione del vero fine dell’uomo” e quando inizia la lunga vicenda dello “scetticismo” moderno .
La grandezza di Pascal, agli occhi di Camus, è -mi sembra- di aver vissuto fino in fondo la fede come accoglimento senza riserve della volontà di Dio nel “silenzio degli spazi infiniti”, cioè in faccia all’ “assurdo”, tanto da giungere al “cuore dell’inaccettabile”. Eppure questa testimonianza religiosa non può nascondere il fatto che già in Pascal, per quanto concerne l’aspetto filosofico, la partita decisiva era stata già giocata con l’occlusione di qualsiasi spazio verso la conoscenza razionale della “natura essenziale” dell’uomo . Agostino si colloca prima di tale epocale frattura e per questo Pascal è il vero termine di confronto per Camus, in quanto riflette entro le coordinate dell’ “acosmismo antropologico” inaugurato nella modernità . Il punto però è che l’autore dei Pensieri ha già maturato la convinzione, sentita come inevitabile nel panorama così sinteticamente delineato, che non la filosofia, ma la fede a fronte del Deus absconditus è il banco di prova dell’uomo e l’unico orizzonte di comprensione della condizione umana: praticare veramente la filosofia è “se moquer”, cioè “beffarsi”, di essa . La fede e non la ragione è il fondamento del valore. Ma il valore, cioè il bene e il giusto, in ragione del peccato originale, possono ormai darsi solo nella dimensione del “desiderio”, della tensione inesaudibile, della nostalgia: “Siamo incapaci -scrive Pascal- di non desiderare la verità e la felicità, e non siamo capaci né di certezza né di felicità” . E ancora: “Su che cosa potrà l’uomo fondare l’economia del mondo che egli vuole governare? […]. Sulla giustizia? Non la conosce” . Qui risiede il nucleo dell’ “anti-umanismo” pascaliano e, per Hans Jonas, il filo rosso del percorso che lo accomuna al nichilismo di Nietzsche e dell’esistenzialismo contemporaneo. L’elemento fondamentale, per Pascal, è infatti il “silenzio” dell’universo di fronte all’uomo; la mente umana “non è più tramite per l’“integrazione del suo essere con la totalità dell’essere, ma, al contrario, segna un abisso insormontabile tra l’uomo stesso e il resto dell’esistenza” . Caduta la normatività dell’ordine naturale, la sua “teleologia” intrinseca, i valori restano “senza sostegno ontologico e l’io è abbandonato interamente a se stesso nella sua ricerca di un significato e di un valore” . Certo “la contingenza dell’uomo […] è ancora per Pascal una contingenza dipendente dalla volontà di Dio; ma quella volontà […] è imperscrutabile e il ‘perché’ della mia esistenza non trova risposta qui come non la troverebbe nell’esistenzialismo più ateo” .
Camus assume in pieno il problema-Pascal, che ai suoi occhi è il problema posto da una posizione di pensiero -che non poteva maturare in Agostino e Plotino ma che è emersa nella modernità- in cui l’ almeno apparente impossibilità di pensare un rapporto di partecipatio tra finito e infinito, la constatazione cioè della “sproporzione” e della “solitudine” come cifre della condizione umana, si risolvono nell’abbandono radicale alla fede nel senso che ho cercato di evidenziare trattando della figura del padre Paneloux ne La peste; e si risolvono, anche, con l’accettazione dell’ingiustizia nella vita terrena, per cui dovremmo accomodarci, secondo la secca e notissima affermazione di Pascal, a mettere la “forza” al posto della “giustizia” .
Una volta scartato per ovvi motivi il fideismo religioso pascaliano, Camus cerca di risolvere tale problema recuperando uno spazio per la ragione intesa come pensiero del “limite”, dell’ “ignoranza calcolata”, ostile alla “totalità”, pronto a fare i conti con la “contraddizione”. Il punto è che sul suo tentativo grava l’ipoteca di un acosmismo che egli accoglie senza sostanziali riserve e che rende filosoficamente velleitario il recupero di un finalismo antropologico entro un universo nel quale si ritiene non vi sia più spazio per alcuna forma di causalità finale. Infatti un teleologismo antropologico svincolato da un teleologismo cosmico non può non finire, portato alle sue conseguenze ultime, per equivalere alla posizione secondo cui (si ricordi la già citata lettera quarta all’ “amico tedesco”) il “senso”, nel vuoto di ogni altra “finalità”, c’è semplicemente perché l’uomo “esige di averlo”, e non “v’è altra ragione che l’uomo” . Insomma, volenti o nolenti, siamo ricondotti (sia consentita questa estrema semplificazione) a Max Weber, il quale, ponendo la questione del “senso” del mondo umano e del suo divenire storico alla luce del “destino” dell’epoca del “disincanto” , evidenziava che ormai non possiamo, a patto di venir meno alla coerenza, concepire il valore se non quale frutto di decisione, al di fuori di ogni possibilità di appellarci sia a una natura, umana o non umana, come sfondo normativo, sia alla ragione stessa, almeno se si pretende di intenderla, fraintendendone la natura, come facoltà dei fini e non solo dei mezzi . La “semplice probità intellettuale” a questo conduce e, per chi non voglia praticarla, restano aperte, con tutto il loro carico mitico, le “braccia delle antiche chiese” . Tra il ritorno illusorio all’attesa di nuovi “profeti” e la lucida accettazione dell’ “irrazionalismo etico del mondo” non c’è, almeno per quanti abbiano inteso veramente il significato e le implicazioni del “disincanto del mondo”, alcuna alternativa. E questo “irrazionalismo etico” implica “che la vita, in quanto deve fondarsi su se stessa ed essere compresa in se stessa, conosce soltanto il reciproco eterno conflitto di quelle divinità, ossia, fuor di metafora, l’impossibilità di conciliare e risolvere l’antagonismo tra le posizioni ultime in generale rispetto alla vita, vale a dire la necessità di decidere per l’una o per l’altra” .
Dinanzi a tale prospettiva la via tracciata da Camus -in quanto è segnata dalla tensione tra la tesi che l’unico “senso” possibile è quello che l’uomo conferisce a se stesso, al mondo, alla storia, e l’altra tesi, secondo cui invece un senso intrinseco al reale è ancora rinvenibile a patto di risalire alla comprensione dell’ “essenza” umana attraverso la decifrazione del suo interno finalismo, quindi superando la contingenza radicale dell’ “esistenza”- si presenta come una strada impraticabile, se non a prezzo di celare le aporie che implica. E così, malgrado Camus abbia voluto evitarlo (come si è cercato di evidenziare), la sua filosofia -o ciò che di filosofico è rintracciabile nel suo percorso intellettuale- finisce per essere, in ciò che forse mantiene di più vitale, una fede laica, ma pur sempre una fede, che prende il posto della fede religiosa pascaliana non nel segno e nel senso -fatti esprimere da Camus stesso a Paneloux- di atto di affidamento totale a Dio attraverso la partecipazione al “supplizio di cui la croce è il simbolo” , ma in quello, ben diverso per cui, in mancanza di una coerente base di giustificazione del valore, quest’ultimo, malgrado il tour de force fondativo messo in atto da Camus soprattutto ne L’uomo in rivolta, rimane appeso a uno slancio emotivo che si fonda esclusivamente su se stesso e che della fede come ciò che consente di possedere già le cose che si sperano e di conoscere le cose che non si vedono è l’esangue e tutto terreno surrogato. Si potrebbe dire che si tratta della fede di un Pascal cui non è stato dato di vivere la notte del Memoriale.
A mò di concisa conclusione: l’invito, che ritengo sia almeno in minima parte giustificato da quanto suggerito sino a questo punto, è di porci di fronte al pensiero di Camus come pensiero che (certo non unico in questo, ma contraddistinto da un spinta morale di rado eguagliata nel pensiero del nostro secolo, e che, mentre ne fa per un verso la forza ne svela anche la fragilità nel senso poco sopra esemplificato) ci invita -anche- a meditare se all’apparentemente così secca alternativa posta da Mac Intyre relativamente a una fondazione plausibile e non velleitaria della “filosofia morale” (“Nietzsche o Aristotele?”) sia da attribuire un significato che sarebbe opportuno e corretto non esaurire nella mera, irridente e in sostanza sterile provocazione senza conseguenze per il modo di intendere il lavoro filosofico oggi. Talvolta ci sono provocazioni fertili, anche se questo non significa che tutto ciò che in esse viene espresso è da condividere fino in fondo.

Roberto Gatti

 

Fonte: http://www.robertogatti.net/gatti/wp-content/uploads/2013/06/CAMUSETICAEPOLITICA.doc

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