Filosofia del linguaggio

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Filosofia del linguaggio

Filosofia del linguaggio 11-02-02
di Carlo Penco

0. Introduzione*
La filosofia analitica del linguaggio trova le origini di molti dei suoi temi nell’opera di Gottlob Frege . Nel suo sforzo di ridefinire la logica e i suoi compiti Frege ha affrontato problemi nuovi e ha impostato in modo nuovo problemi vecchi, influenzando la filosofia del linguaggio di tutto il XX secolo. In questa introduzione darò le linee di fondo di alcuni problemi individuati da Frege, che formeranno l’intelaiatura di questo saggio. Di essi - tutti connessi alla concezione fregeana di senso - presenterò le principali soluzioni, e accennerò in alcuni casi a sviluppi più recenti.
1. Senso, tono e forza Il senso è per Frege quella parte del linguaggio che è rilevante per la logica, cioè per la deduzione . E’ il contenuto concettuale che i nostri enunciati (e le parole che li compongono) esprimono. Lo stesso senso può essere espresso in diverse lingue, in diversi dialetti o anche in diversi modi nella stessa lingua. Ad esempio:
“il poliziotto ha colpito il lestofante”
“the policeman shoot the criminal”
“il pula ha beccato il compare”
“il lestofante è stato colpito dal poliziotto”
pur esprimendo diverse sfumature connotative, sono enunciati con lo stesso senso, cioè da esse si possono derivare le stesse conclusioni (che il lestofante è stato ferito, che il poliziotto ha usato un'arma, che la persona colpita è soggetta a essere incriminata, ecc.). In tal modo il concetto di senso diviene uno strumento per individuare, attraverso le diverse forme grammaticali, non solo uno stesso contenuto, ma una forma logica comune, essenziale per la costruzione di un linguaggio formale .
Un altro punto importante della definizione di senso è l’idea che lo stesso senso, o contenuto concettuale di un enunciato, può essere usato in modi diversi, quando viene asserito e quando di esso si domanda se è vero. Frege chiama “forza assertoria” l’uso di un enunciato che esprime il riconoscimento della sua verità . Egli ricorda però che anche le ipotesi della scienza hanno un senso ben determinato, che deve essere afferrato dallo scienziato, anche se in seguito l’ipotesi si rivelasse falsa. Una ipotesi corrisponde dunque a una domanda e si potrebbe individuare nella domanda un tipo di forza differente dalla forza assertoria . Fino a che punto si può generalizzare questa distinzione tra senso e forza?
Resta infine un altro aspetto; come abbiamo visto, usando un enunciato esprimiamo non solo il suo senso, ma anche altri aspetti del linguaggio come il tono e la forza. A volte esprimiamo anche qualcosa che si vuole fare intendere, ma non si dice: prendiamo il caso della differenza tra “quel cane abbaiò tutta la sera” e “quel botolo abbaiò tutta la sera” Entrambi hanno lo stesso senso, eppure con il secondo intendo far capire qualcos’altro, ad esempio che io ho una bassa opinione del cane. Frege non elabora molto queste idee, ma nella filosofia del linguaggio più recente la differenza tra ciò che viene detto e ciò che viene implicato diventerà un'idea centrale.
2. Senso e riferimento In uno dei suoi saggi più famosi, Über Sinn und Bedeutung, Frege definisce il concetto di senso in contrasto con il concetto di riferimento. Il punto di partenza della sua analisi è come spiegare che asserti di identità del tipo a=a e a=b abbiano diverso valore cognitivo. Infatti a=a è una enunciazione del principio di identità ed è una verità analitica e a priori, mentre a=b è un enunciato a posteriori, tale che, se vero, accresce la nostra conoscenza. In cosa consiste dunque l’identità? Prendiamo un esempio di Frege: “la Stella del mattino = la Stella della sera.”
Le espressioni “Stella del mattino” e “Stella della sera” indicano entrambe Venere, l’ultimo corpo luminoso a scomparire il mattino e il primo ad apparire la sera. Non basta però dire che, dato che le due espressioni si riferiscono allo stesso oggetto, l'identità riguarda l'oggetto stesso; infatti non si distinguerebbe un tale asserto da una qualsiasi applicazione del principio di identità. Né basta dire che l’identità è un rapporto tra nomi, tra etichette diverse date allo stesso oggetto perché il valore cognitivo non riguarda semplicemente la scelta arbitraria di termini intercambiabili. C’è un terzo elemento da prendere in considerazione, oltre al nome e all’oggetto, e cioè quello che Frege chiama “senso”. Un asserto di identità del tipo a=b comporta il riconoscimento che uno stesso oggetto è presentato in due modi differenti; Frege chiama “senso” il modo di presentazione dell'oggetto, e ci invita a distinguere sempre tra espressione linguistica (il nome in questo caso), il senso, o modo di presentazione dell'oggetto, e il riferimento, cioè l'oggetto stesso .
Frege propone la distinzione tra senso e riferimento per il suo linguaggio formale, ma vede un problema per il linguaggio naturale: parlanti diversi possono attribuire sensi diversi allo stesso nome proprio. Ad esempio per qualcuno Aristotele avrà come senso “l’allievo di Platone” e per altri “il maestro di Alessandro”. Già Wittgenstein nel Tractatus criticava implicitamente Frege sostenendo che i nomi non hanno senso, ma si riferiscono direttamente agli oggetti. Chi ha ragione? Questo contrasto apre il problema di definire il ruolo dei nomi nel linguaggio naturale, e diviene il fulcro di uno scontro con il paradigma fregeano.
3. Senso e verità Il tema principale del saggio sopracitato è il problema del senso e del riferimento degli enunciati. Frege definisce “pensiero” il senso di un enunciato e “valore di verità” il suo riferimento. Egli collega così senso e verità; il senso è ciò che è rilevante per la verità. In particolare il pensiero, o senso di un enunciato, è ciò che afferriamo quando comprendiamo un enunciato, e cioè le condizioni a cui è vero. Questa idea diverrà centrale nella filosofia del linguaggio e nel progetto di una semantica formale. Frege non la esplicita fino in fondo, anche se accenna ad essa nei Principi fondamentali dell’aritmetica .
La semantica di Frege è definita dal principio di composizionalità, dall’idea cioè che il senso e il riferimento di un enunciato sono funzione del senso e del riferimento delle sue parti. Accanto e a controprova di questo principio Frege usa la legge di sostitutività di Leibniz: espressioni identiche (con lo stesso riferimento) si potranno sostituire l’una all’altra restando inalterata la verità del tutto. Se, nell’enunciato “Stella del mattino è un pianeta,” sostituisco un temine con lo stesso riferimento, ad esempio “Stella della sera”, il riferimento del tutto (cioè il valore di verità dell’enunciato) non cambia. Il principio di composizionalità e la legge di sostitutività valgono anche per gli enunciati; il riferimento o valore di verità di un enunciato composto dipende dal valore di verità degli enunciati componenti, e sostituendo un enunciato con un altro coreferenziale (con lo stesso valore di verità) la verità del tutto non cambia.
Frege trova però un controesempio nel discorso indiretto: se in un enunciato composto che supponiamo vero, ad es. “Pia crede che la Stella del mattino è un pianeta” , sostituiamo la sottoparte “la Stella del mattino è un pianeta” con “la Stella della sera è un pianeta” (enunciato altrettanto vero), dovremmo ottenere di nuovo un enunciato vero. Ma non è così; Pia potrebbe non credere che la Stella della sera è un pianeta, e pensare che sia una vera stella e che comunque sia un’altra cosa dalla Stella del mattino. Si dirà che Pia è ignorante; ma questo non è rilevante. Se lei non crede che la Stella della sera sia un pianeta, l’enunciato “Pia crede che la Stella della sera è un pianeta” è falso, nonostante si sia sostituito un sottoenunciato vero con uno altrettanto vero. Il principio di composizionalità non funziona più e non posso applicare la legge di Leibniz.
Frege risolve il problema con una mossa originale: il senso e il riferimento non sono proprietà assolute delle espressioni linguistiche, ma dipendono dall’uso che di queste espressioni si fa. Se una espressione viene usata in un discorso indiretto (come quello retto da “…crede che….”, allora non ha più il suo senso e riferimento normale. Il suo riferimento sarà quello che è in un contesto normale il suo senso. Questo funziona anche intuitivamente perché nei discorsi indiretti ci riferiamo ai pensieri intrattenuti dal parlante e non ci impegniamo nella verità di ciò che il parlante dice di credere. Se dico “Pia crede che 2+2=5” non intendo certo dire che 2+2=5 è vero, ma solo che questo è un pensiero intrattenuto da Pia. Nel discorso indiretto ci riferiamo a pensieri, non a valori di verità.
Frege individua così il problema di quelli che Russell 1918 chiamerà “atteggiamenti proposizionali”. Credere, pensare, sapere sono atteggiamenti che riguardano proposizioni (pensieri). Ma che tipo di entità sono i contenuti degli atteggiamenti proposizionali ? E’ davvero praticabile la soluzione fregeana?
4. Senso e contesto La soluzione data da Frege al problema del discorso indiretto può essere considerata un esempio di un altro suo principio metodologico generale: non pensare al significato delle parole in isolamento, ma solo nel contesto dell’enunciato. Questo principio è stato chiamato “principio del contesto” ed è considerato un altro principio cardine della filosofia fregeana . Il principio del contesto assume un ruolo guida nel pensiero degli interpreti e dei prosecutori di Frege, in particolare in Wittgenstein e Quine. Il principio esprime l’idea che l’enunciato è, come appunto affermerà Wittgenstein, “la minima mossa di un gioco linguistico”. Una parola da sola non ha significato; per dire qualcosa sensatamente occorre almeno proferire un enunciato completo. Il problema che ci porremo è: fino a che punto si può estendere tale principio?
Vi è un’altra concezione dell’importanza del contesto presente in Frege, anche se con diversa terminologia. Questa riguarda non tanto il contesto dell’enunciato, ma il contesto del proferimento linguistico, cioè la situazione in cui un enunciato viene proferito. Frege si rende conto benissimo che se a volte un enunciato esprime più del senso o contenuto concettuale (ad esempio, come abbiamo detto sopra, esprime anche tono e forza), a volte esprime meno del senso. Il senso di un enunciato infatti è il pensiero espresso; e il pensiero è ciò che è rilevante per determinare la verità. Ma per sapere quale pensiero è espresso da un enunciato a volte la sola espressione linguistica non basta. Si pensi a “l’erba del prato è verde” o “io sono stanco” o “oggi piove”. Questi sono enunciati che non esprimono compiutamente un senso, e non è possibile dunque valutarne la verità, a meno che non si conosca il contesto in cui sono stati emessi, cioè il tempo, il luogo e il parlante. In bocche diverse, in tempi e luoghi diversi questi stessi enunciati potranno dire ora il vero e ora il falso. Questo sembra essere un ostacolo insormontabile per un progetto di formalizzazione del linguaggio naturale, e Frege ha avuto l'accortezza di segnalare la difficoltà. Come affrontarla?
5. Senso e giustificazione Frege ha sempre insistito, sulla scia di Kant, sulla differenza tra questioni di fatto e questioni di diritto, o sulla differenza tra cause e ragioni. Ha così sempre messo in evidenza il problema della giustificazione, come elemento centrale dell’analisi. Frege, come Kant e Leibniz prima di lui, sosteneva l’importanza di una distinzione fondamentale tra proposizioni analitiche e proposizioni sintetiche (verità di fatto e di ragione per Leibniz). Egli però dovette ridefinire il concetto kantiano di analiticità; infatti credeva nella possibilità di ridurre la matematica a logica, ed era per lui essenziale sostenere - contro Kant - che la matematica era costituita di verità analitiche (cioè determinate dalle sole leggi del pensiero), eppure era produttiva di nuova conoscenza. La soluzione stava, come Frege scriveva a Peano in diverse lettere , nella distinzione tra senso e riferimento. Le equazioni matematiche come 7+5=15-3 accrescono la nostra conoscenza perché ci mostrano come uno stesso riferimento (il numero 12 in questo caso) può essere dato da espressioni che hanno diverso senso. La riduzione dell’aritmetica alla logica come l’aveva pensata Frege si rivelò un fallimento , ma la distinzione di senso e riferimento e l’idea di una distinzione di proposizioni analitiche, cioè giustificate solo per via logica e proposizioni giustificate per via empirica restò sempre centrale in Frege.
Ma Quine 1951 porterà una critica devastante alla distinzione tra analitico e sintetico, critica che coinvolge il concetto stesso di senso o significato. Cosa si può salvare di queste idee di Frege dopo la critica di Quine?

I. Atti linguistici e conversazione
I.1. Performativi e constativi Il concetto fregeano di forza assertoria non suscitò l’attenzione dei logici e il segno di forza rimase una strana peculiarità del suo simbolismo . Ma il concetto di forza venne ripreso e sviluppato in modo originale da un filosofo di Oxford, J.L. Austin, traduttore del libro di Frege I fondamenti dell’aritmeitca. Negli anni '40 e '50 Oxford e Cambridge rappresentavano il centro della filosofia nel mondo anglosassone; alla Cambridge di Russell e Wittgenstein si contrapponeva la Oxford di Ayer e Austin. Aleggiava comunque l’influenza del secondo Wittgenstein che ebbe una influenza determinante nella formazione della filosofia del linguaggio ordinario oxoniense . Lo spunto polemico per le riflessioni di Austin sul linguaggio nasce dalla critica alla tesi neopositivista, sostenuta anche da Ayer, per cui enunciati che non avessero condizioni di verità (o di verifica) ben determinate non erano sensati . Un enunciato sensato deve poter essere o vero o falso. Ma, osserva Austin, abbiamo enunciati dichiarativi che non sono né veri né falsi, ma di cui è difficile negare la sensatezza. Ad esempio:
- "battezzo questa nave 'Queen Mary'" detto mentre si lancia la bottiglia per il battesimo della nave.
- "accetto di prendere in sposa la sig.na y", detto di fronte al sindaco o al prete.
Austin definisce questi enunciati “enunciati performativi” perché con essi si esegue (dal verbo “to perform”). I performativi si distinguono dagli enunciati “constativi” o “constatativi”, con i quali si danno descrizioni vere o false dei fatti. A differenza dei constativi, i performativi non hanno condizioni di verità (una azione non è né vera né falsa), ma condizioni di felicità; in quanto atti vanno valutati in quanto felici o infelici, corretti o scorretti rispetto a certe convenzioni e intenzioni: se mi sposo di fronte a un barista e non di fronte a un prete il matrimonio è nullo.
I.2. Atti linguistici Dopo aver presentato la contrapposizione tra enunciati performativi e constativi, Austin propone un raffinamento della teoria che abolisce la distinzione appena presentata. Ogni proferimento linguistico ha una componente di azione: anche con cosiddetti “enunciati constativi” eseguiamo un'azione, l'azione dell'asserire. Pur non dicendolo esplicitamente, Austin qui si riallaccia al concetto fregeano di "forza assertoria", la forza che definisce il modo con cui viene proferito un contenuto proposizionale. Egli presenta una teoria della forza all’interno di una teoria generale degli atti linguistici, ove valgono le condizioni di felicità già proposte per i performativi. Ogni proferimento linguistico è una azione, un atto linguistico totale: esso ha sempre tre componenti che si possono definire nel modo seguente:
(i) atto locutorio (l’atto di dire qualcosa), definito dagli aspetti fonetici, sintattici e semantici, ove per semantica Austin intende una analisi nei termini fregeani di senso e riferimento. Dicendo “Sparale” mi riferisco a una certa persona e uso il concetto di “sparare”.
(ii) atto illocutorio (l’atto che si compie nel dire qualcosa) è ciò che prende il posto dell'enunciato performativo; è l'espressione della forza illocutoria. Nel dire qualcosa lo diciamo sempre in un certo modo che corrisponde, secondo certe convenzioni, a una particolare forza: asserzione, domanda, promessa, preghiera, comando, ecc. Ad esempio, dicendo “sparale”, compio un atto esercitivo, un ordine se sono un superiore convenzionalmente riconosciuto, un consiglio se sono un amico.
(iii) atto perlocutorio (l’atto che si compie col dire qualcosa) riguarda le conseguenze non convenzionali dell’atto linguistico. Con una richiesta posso convincere una persona a fare qualcosa; in questo caso l’atto illocutorio è la richiesta e l’atto perlocutorio è il convincimento da me ottenuto. Ad esempio, dicendo “sparale”, posso convincere o persuadere qualcuno a sparare.
Austin dà una classificazione di diversi tipi di atti illocutori. Ma la sua classificazione non ha sempre convinto e classificazioni alternative basate su criteri più uniformi sono state tentate da altri autori, a partire da John Searle 1969. L'analisi in termini di atti linguistici ha avuto una grande fortuna nell’ambito di diverse discipline, dalla psicologia alla filosofia del diritto all’intelligenza artificiale e fa ormai parte dell’armamentario base delle ricerche di pragmatica.
I.3. Massime della conversazione e implicature Se Austin aveva insistito sugli aspetti convenzionali dell’atto linguistico e delle condizioni di felicità, uno dei contributi più rilevanti di Grice è legato agli aspetti non convenzionali del linguaggio: il concetto di implicatura conversazionale. Implicatura è non ciò che viene detto esplicitamente, ma ciò che viene "fatto intendere" nella conversazione. Per chiarire tale concetto Grice analizza i processi sottostanti il funzionamento della conversazione. Egli ricorda che la conversazione segue certe regole, che scartano come “inadatti” certi comportamenti; tali regole sono espressione di un principio generale che sottende ogni conversazione e che chiama principio di cooperazione: “conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è richiesto dall'intento comune accettato, nel momento in cui avviene”
Si può interpretare il principio di cooperazione come il converso del principio di carità (di benevolenza), utilizzato in diverso modo da Quine e Davidson. Il principio di carità dice di interpretare i proferimenti di un parlante in modo da massimizzare la sua razionalità; per Quine serve a scegliere tra traduzioni differenti, per Davidson regola tutta la pratica dell’interpretazione. Se Quine e Davidson sono interessati al punto di vista dell’interprete, Grice è interessato prima di tutto al punto di vista del parlante. Ma il principio di Grice è rilevante anche per la interpretazione del discorso; infatti il contributo di chi partecipa a una conversazione viene valutato sempre secondo questo principio; ciò equivale anche a dire che ogni violazione apparente o effettiva dà sempre un'informazione rilevante sull'interlocutore. Questo diviene chiaro con le “massime” che specificano ulteriormente il principio:
- quantità: dai un contributo tanto informativo quanto richiesto (non di più!)
- qualità: non dire ciò che ritieni falso o ciò per cui non hai prove adeguate.
- relazione: sii pertinente.
- modo: sii perspicuo (evita oscurità e ambiguità inutili, ecc.)
Se un parlante accetta di conversare, ogni suo proferimento sarà interpretato in funzione del principio di cooperazione; anche una violazione apparente o effettiva di una massima diviene per il parlante un modo per far intendere qualcosa (e per l’interprete un modo di capire ciò che il parlante vuol fare intendere). L'implicatura conversazionale è un modo di sfruttare le massime conversazionali, e anche un proferimento a prima vista poco chiaro trova il suo senso se fatto rientrare in una massima: se dico “ho finito la benzina” e mi si risponde “dietro l'angolo c'è un garage”, la risposta pare violare la massima della relazione (pertinenza); ma se riconosciamo razionalità all’interlocutore, dobbiamo inferire che la massima non sia violata e che il garage venda benzina, sia aperto, ecc.
I.4. il modello standard- A partire dalle distinzioni di Grice si definisce un modello standard di una teoria del significato con diversi livelli: (i) il significato linguistico, (ii) il contenuto semantico, (iii) ciò che viene implicato. Occorre capire il significato linguistico di “io sono italiano” per interpretare la frase; per cogliere il contenuto semantico o veritativo occorre saper a chi si riferisce la parola “io” nel contesto di emissione; e per capire ciò che viene implicato occorre riferirsi al contesto della conversazione (ad esempio, se la frase è una risposta a “sai cucinare?”, l'implicatura conversazionale è: sì, so cucinare molto bene).
In tal modo la teoria del significato diviene una teoria di ampio raggio, che include al suo interno le tematiche più specifiche del senso, del riferimento e della verità. Carnap e Morris, allievi rispettivamente di Frege e Peirce, avevano distinto nella semiotica o teoria generale dei segni tre livelli: sintassi (rapporto segno-segno) semantica (rapporto segno-oggetto) e pragmatica (rapporto segno-parlante). La definizione di questi livelli di analisi è oggi in discussione , ma una semantica, ossia una teoria del rapporto tra segni e oggetti cui i segni si riferiscono, è comunque una componente ineliminabile di una teoria generale degli atti linguistici e della conversazione. Resta dunque sempre viva l’esigenza di caratterizzare il rapporto di riferimento. Ed è qui che Frege ha subito alcune delle critiche più radicali.

II. Riferimento diretto
II.1. Denotazione e riferimento Se per Frege i nomi propri avevano senso e riferimento, Russell riteneva che i nomi propri fossero abbreviazioni di descrizioni definite . Ma le descrizioni definite a loro volta erano per lui espressioni la cui forma grammaticale nascondeva la vera forma logica di simboli incompleti. Ad esempio una descrizione definita come “l’attuale re di Francia” è traducibile, in un linguaggio disambiguato, con una formulazione del tipo “esiste un x, che è attuale re di Francia e per tutti gli y se x è attuale re di Francia y=x”. Questa traduzione in una forma logica normale permette di rendere vere o false tutte le frasi in cui le descrizioni compaiono, con vantaggi di semplicità e coerenza . Per Russell infatti un enunciato come “l’attuale re di Francia è calvo” è falso, perché corrisponde a: "esiste un x, tale che x è re di Francia, ed è calvo, ecc.”; dato che non esiste alcun attuale re di Francia, l’enunciato è palesemente falso .
Strawson (1950a) rispondeva a Russell che si potrebbe usare “l’attuale re di Francia” anche per riferirsi a qualche persona reale. Strawson distingue cioè tra "denotazione" e "riferimento" e sostiene che Russell si occupa solo di denotazione, ma dimentica il riferimento. Per "denotazione" si intende la relazione tra una espressione e ciò che denota a prescindere da specifici contesti; per "riferimento" si intende la relazione tra una espressione e ciò a cui il parlante nella specifica occasione d’uso si vuole riferire (si potrebbe dire che la denotazione è una relazione tra frasi [sentences] e oggetti denotati, il riferimento fra proferimenti [utterances] e oggetti del mondo).
II.2. Contro la "teoria descrittivista" Sulla scia della distinzione di Strawson i cosiddetti “teorici del riferimento diretto” hanno rivolto una critica alla teoria “descrittivista” dei nomi. Tra i primi troviamo Donnellan (1966) che distingue tra uso referenziale e uso attributivo di una descrizione: nell'uso referenziale il parlante intende riferirsi a una certa persona, usando una qualche descrizione, sia essa appropriata o no. Nell'uso attributivo il parlante si vuole riferire a qualsiasi persona soddisfi la descrizione. Vi è dunque un uso delle descrizioni che serve a fissare il riferimento, anche nel caso che la descrizione sia sbagliata. Se dico "suo marito è gentile con lei" indicando colui che è a mia insaputa l’amante, intendo riferirmi a lui, e non all’altrettanto ignaro marito della signora .
C’è dunque un modo diretto di riferirsi a individui che prescinde dalla valenza descrittiva delle espressioni usate. Dopo le analisi di Donnellan inizia così una critica al paradigma dominante, chiamato da Kripke (1972) “teoria descrittivista del riferimento”. Per “teoria descrittivista” Kripke intende una visione che unisce alcune idee di Frege, Russell e Searle. Ogni nome ha un senso e il senso è dato da una o più descrizioni definite; ad es. il senso di “Aristotele” è dato dalle descrizioni “Discepolo di Platone”, “Maestro di Alessandro”, “l’autore della Metafisica”, ecc.. Per Searle (1958) il senso è un grappolo (cluster) di descrizioni definite, e il nome proprio svolge la funzione di gancio cui appendere un insieme aperto di descrizioni definite. Possiamo dubitare se questa teoria sia davvero la teoria di Frege; molti, tra cui Dummett, ne dubitano. Ma è vero che questa è la "vulgata", il modo comune di interpretare Frege e Russell e ha certi solidi appoggi testuali.
Dove trovare un’alternativa? Una vecchia tradizione che risale a John Stuart Mill, distingue connotazione e denotazione, e sostiene che i nomi non hanno connotazione, ma solo denotazione . Kripke - con il rischio di assimilare troppo facilmente il concetto fregeano di senso con il diverso concetto milliano di connotazione - si richiama dunque a Mill nel presentare una visione alternativa del comportamento logico dei nomi propri .
II.3. La critica di Kripke Secondo Kripke è errato pensare che i nomi propri abbiano un senso (come sostiene Frege), e che questo senso consista in una o più descrizioni definite (come sostiene Russell o Searle). Diversi argomenti, basati sulla differenza di comportamento logico tra nomi e descrizioni , mostrano che la teoria descrittivista è falsa e fuorviante, e principalmente:
- argomento modale-metafisico: un nome proprio è modalmente rigido, mentre una descrizione no. Clinton avrebbe potuto non essere presidente degli USA se non fosse stato eletto, ma non avrebbe potuto cessare di essere se stesso, cioè Clinton. Dunque un nome proprio è modalmente rigido e una descrizione no.
- argomento epistemico: Se venissimo a sapere che Aristotele non è stato maestro di Alessandro Magno, sarebbero vere di Aristotele certe proprietà che sono false del maestro di Alessandro. Dunque se il nome fosse una abbreviazione di descrizioni enunciati contenenti il nome diverrebbero falsi.
- argomento linguistico: di fatto ipotizziamo continuamente situazioni controfattuali (situazioni che avrebbero potuto sussistere e non sono accadute realmente). Per usare enunciati controfattuali dobbiamo assumere che i nomi propri designino rigidamente l'individuo cui si riferiscono. Es.: Se Pia non fosse stata bocciata si sarebbe laureata prima. Non posso riferirmi a Pia come “colei che è stata bocciata” se parlo della situazione controfattuale in cui non è stata bocciata.
La tradizione fregeana diceva che il senso di un nome è un modo di dare il suo riferimento. Come dunque viene dato il riferimento, se non è più praticabile questa via? Kripke propone la seguente immagine: un nome viene attribuito a un individuo con un battesimo iniziale, che instaura una relazione diretta tra nome e oggetto; di persona in persona, come in una catena, viene mantenuta l'intenzione originaria di riferirsi sempre allo stesso oggetto. Nasce la teoria del riferimento diretto (anche detta “teoria causale del riferimento”). Tale teoria viene estesa da Kripke 1973 all’analisi dei termini di generi naturali, come “tigre”, “acqua”, “oro”, ecc., e sviluppata a partire dall’immagine iniziale in una teoria con diverse applicazioni e formalizzazioni .
II.4. Putnam e le teorie duali Il nuovo paradigma è divenuto paradigma dominante soprattutto tra i filosofi statunitensi. Tra i suoi esiti vi è lo sviluppo di teorie “duali” del riferimento, dove si distingue una componente mentale e una componente reale del contenuto di un'espressione linguistica (o, in altri termini, contenuto stretto e contenuto ampio) . Non si nega che i nomi propri e i nomi di generi naturali abbiano senso o siano connessi a descrizioni. Si nega che, se pure il senso ha una componente cognitiva, tale componente determini il riferimento o la componente reale. Si dovrebbe dunque distinguere due tipi di teorie del significato: teorie della comprensione che riguardano le pratiche di uso dei parlanti e teorie del riferimento che riguardano gli aspetti causali e oggettivi della fissazione del riferimento.
Il punto di partenza di questo tipo di distinzione è stato chiarito da Putnam (1973, 1975) il quale sostiene che è impossibile aderire contemporaneamente a due tesi entrambe sostenute da Frege e cioè: (1) il senso determina il riferimento (2) il senso viene afferrato mentalmente. Egli propone un esperimento mentale in cui si immagina che su una terra “gemella” (del tutto simile alla nostra) un liquido del tutto simile all'acqua abbia diversa formula chimica (sia XYZ invece di H2O). Prima di conoscere la chimica terresti e gemelliani credevano di usare lo stesso liquido. Il significato di “acqua” era lo stesso e parlando di “acqua” gemelliani e terrestri erano nello stesso stato mentale; ma , pur nello stesso stato mentale, i gemelliani e i terrestri si riferivano, senza saperlo, a due tipi di realtà differenti, che le loro descrizioni non riuscivano a discriminare. Quindi lo stato mentale e le descrizioni connesse a un nome di tipo naturale non determinano il riferimento, che viene determinato invece da una relazione diretta con il mondo .
Un aspetto problematico di questa teoria è che essa implica l’essenzialismo (quello che Quine combatteva combattendo la necessità della logica modale, in particolare della logica modale quantificata). Dobbiamo dunque ammettere richiami alla “natura essenziale” delle cose e degli individui cui ci riferiamo, indipendentemente dalle descrizioni che diamo, e che possono sempre essere errate? Se Kripke risponde positivamente, altri si domandano polemicamente se, accettando tale teoria, non saremo forse costretti a dire che il flogisto esiste, e che è in realtà quello che ora viene chiamato “ossigeno.”
II.5. Lessico e divisione del lavoro linguistico Se il richiamo all’essenzialismo implicito o esplicito delle teorie duali ha creato molte reazioni polemiche è invece stata più facilmente accettata un’altra idea di Putnam, che rielabora alcune intuizioni del secondo Wittgenstein sul carattere pubblico e sociale del linguaggio . L’idea di Putnam è che nessun singolo parlante conosce in modo esaustivo il significato delle parole appartenenti al lessico di una lingua. La mia comprensione della parola “oro” differisce largamente dalla comprensione che ne ha un orefice o un cercatore del prezioso metallo. Come facciamo dunque a capirci, se i concetti, le immagini e le credenze connesse alla parola "oro" sono differenti in ciascun parlante? La risposa di Putnam è che, prima di tutto, il significato è qualcosa di condiviso dalla comunità dei parlanti (che spesso usano una parola deferendo ad altri la responsabilità del suo uso corretto o del suo significato preciso), e di questa condivisione fa parte anche uno stereotipo tendenzialmente comune a tutti gli individui della comunità. L’idea di stereotipo è anch’essa uno sviluppo originale di idee wittgensteiniane, in fattispecie della sua discussione sui concetti per somiglianza di famiglia e sull’uso schematico di immagini o paradigmi. Tale idee hanno avuto sviluppo non solo in filosofia del linguaggio, ma anche in intelligenza artificiale con la nozione di “frame” di Minsky, che si richiama esplicitamente a Wittgenstein, e in psicologia con lo sviluppo del concetto di prototipo da parte di Eleanore Rosch .
Se i suggerimenti di Putnam sulla divisione del lavoro linguistico e sullo stereotipo sono stati in generale accettati e sviluppati, è più complesso dire lo stesso dell’idea di una teoria “duale” del significato, che ha avuto forti critiche. Essa è peraltro stata ed è al centro di interessanti sviluppi, almeno in due direzioni: (i) una visione psicologista e mentalista del significato sviluppata in particolare da Fodor 1975 e (ii) una visione “esternista-sociale” del significato sviluppata da Burge 1979. La discussione in questo campo mette in gioco non solo la definizione del significato, ma il problema della comprensione, e pone così il problema della competenza semantica. A questo proposito Marconi 1997 distingue la semantica lessicale, che riguarda la conoscenza condivisa del lessico, dalla semantica strutturale, che riguarda gli aspetti più astratti della forma logica. Nessuna teoria logica potrà dare una risposta esaustiva ai problemi specifici della competenza lessicale, che ha non solo una componente inferenziale, ma anche una ineliminabile componente referenziale. D’altra parte lo studio della componente inferenziale della competenza lessicale richiede di considerare quanto sviluppato nella tradizione della semantica dopo Frege. Ed è questo tema più tradizionale che analizzeremo nel prossimo paragrafo.

III Verità e mondi possibili
III.1 Significato come condizioni di verità Se il problema del significato dei nomi ha dato adito a innumerevoli dibattiti, molti filosofi si sono trovati grosso modo d’accordo su una forma generale che una teoria del linguaggio deve avere e sul concetto attorno a cui deve ruotare. La forma viene chiamata “semantica modelteorica” (ossia basata sulla teoria dei modelli) e il concetto attorno a cui deve ruotare è l’idea del senso come condizioni di verità, che era stato abbozzato da Frege e definito con maggior chiarezza nel primo Wittgenstein. Il Tractatus ha due componenti base: la teoria dell'immagine e la teoria delle funzioni di verità. La seconda componente, che ci interessa in questo contesto, è quella che si basa sulla definizione delle tavole di verità ed è stata assorbita dalla storia della logica come sua parte propria. Qui troviamo la prima chiara definizione del significato di un enunciato come consistente nelle sue condizioni di verità . Ciò è facilmente afferrabile con un esempio di tavola di verità:
pq p e q
1 VV V
2 VF F
3 FV F
4 FF F
Nella prima colonna abbiamo le quattro possibilità di combinazione di Vero/Falso degli enunciati p e q. Possiamo chiamare queste quattro possibilità “situazioni possibili” o, come in seguito più usuale, “mondi possibili” . Il significato (Wittgenstein diceva, fregeanamente, "senso") dell'enunciato p e q è dato dalla sua tavola di verità, o meglio "si mostra" nella sua tavola di verità. Cosa esprime la tavola di verità? Esprime le condizioni alle quali l'enunciato è vero. Ad es. p e q è vero a condizione che siano veri sia p che q, e falso in tutti gli altri casi. Quando capisco questo capisco il significato dell'enunciato.
III.2. Intensione, estensione e necessità. Carnap 1947 sviluppa la visione di Frege e Wittgenstein, rielaborandola alla luce del lavoro del logico polacco Alfred Tarski, iniziando così la tradizione della semantica modelteorica . Egli riscrive in termini di intensione ed estensione parte di quello che Frege dava in termini di senso e riferimento . Nei termini della sistemazione data in seguito da Montague, l'estensione di un termine singolare è un individuo, e la sua intensione una funzione da mondi possibili a individui (un concetto individuale); l'estensione di un predicato è una classe, e la sua intensione una funzione da mondi possibili a classi (una proprietà); l'estensione di un enunciato è un valore di verità, e la sua intensione una funzione da mondi possibili a valori di verità (una "proposizione"). Pur con diversa terminologia, si mantiene l'idea ispiratrice di fondo: il significato di un enunciato è dato dalle sue condizioni di verità, ovvero è una funzione da mondi possibili a valori di verità.
La distinzione intensione/estensione permette a Carnap di rispondere alla sfida di Frege sui contesti indiretti. Carnap rifiuta l’idea fregeana di far variare il riferimento a seconda del contesto; al contrario fa variare le regole di sostitutività a seconda se il contesto sia estensionale o intensionale. I contesti “estensionali” sono quelli in cui vale il principio di sostitutività di Leibniz, già usato da Frege: due espressioni con la stessa estensione sono sostituibili, mantenendosi la verità del tutto. I contesti “intensionali” - ad esempio i contesti modali - sono i contesti in cui non vale la sostitutività tra espressioni con la stessa estensione, ma solo tra espressioni con la stessa intensione. Prendiamo ad esempio un’inferenza in un contesto modale come:
Necessariamente 9 > 7
il numero dei pianeti = 9
----------------------------------------------------------
Necessariamente il numero dei pianeti > 7
È un fatto contingente, e non necessario, che il numero dei pianeti sia 9; quindi l'inferenza non vale e i termini, pur equiestensionali ("9" e "il numero dei pianeti"), non possono essere sostituiti salva veritate. Carnap restringe dunque il principio di sostitutività nei contesti modali agli enunciati che hanno la stessa intensione, cioè a quelli che sono veri negli stessi mondi possibili . Questa mossa viene fatta nel quadro di una ridefinizione dei concetti di necessità e possibilità.
Wittgenstein, nel Tractatus, aveva fatto notare come tautologia e contraddizione fossero rispettivamente vere e false a prescindere dalle combinazioni di verità degli enunciati componenti . Carnap sviluppa questa idea proponendo una definizione delle nozioni logiche di "possibile" e "necessario" rispettivamente come "vero in qualche mondo possibile" e "vero in tutti i mondi possibili". La verità logica - che è verità necessaria - è verità in tutti i mondi possibili. Le verità analitiche, realizzerà in un secondo tempo Carnap, si differenziano dalle verità logiche in quanto sono vere non in tutti i mondi possibili (come appunto le verità logiche), ma solo nei mondi possibili compatibili con i postulati di significato. Ad esempio "se Pia è nubile allora è non sposata" è una verità analitica che dipende dal postulato di significato "per tutte le x, se x è nubile allora x è non sposata", che esclude dalla valutazione semantica i mondi possibili in cui un individuo è nubile e sposato a un tempo).
III.3. Onniscienza logica Carnap nota che alcuni contesti sono ancora più difficili da trattare che non i contesti modali; è il caso, per esempio, dei contesti doxastici (contesti di credenza) ed epistemici (contesti di conoscenza). A prima vista abbiamo casi analoghi ai precedenti; per esempio non vale la derivazione seguente:
Edipo crede che Pa
a=b
---------------------------
Edipo crede che Pb
Si pensi ad es. che "P" voglia dire "da sposare" e "a" sia = Giocasta, mentre "b" sia uguale a "la madre di Edipo". Di certo Edipo voleva sposare Giocasta, ma non voleva sposare sua madre!
Ma ci si trova presto di fronte a un problema ben più grave, che riguarda anche espressioni con la stessa intensione o logicamente equivalenti, cioè vere negli stessi mondi possibili. Ad esempio, non vale la seguente derivazione:
Pia sa che 2+2 = 4
2+2=4  3492* 57 = 199044
-----------------------------------------------
Pia sa che 3492* 57 = 199044
In effetti le due espressioni matematiche sono vere in tutti i mondi possibili, quindi, a maggior ragione, hanno la stessa intensione. Ma non si può presumere che Pia conosca tutta la matematica, basandosi sul fatto che sa che 2+2=4! La logica intensionale è troppo potente, rappresenta il punto di vista della onniscienza logica, che non è accessibile agli umani. Pur rappresentando un ideale epistemico non può dunque rappresentare coerentemente i contesti di credenza, e in genere gli atteggiamenti proposizionali , che sono caratterizzati dalle restrizioni epistemiche degli umani.
Questo problema darà luogo a diverse ricerche di forme alternative di logica e a diversi tentativi di distinguere il concetto di equivalenza logica da forme più restrittive di equivalenza. Carnap suggerisce di utilizzare un criterio più forte dell’identità di intensione che consiste nel richiedere l'identità di struttura intensionale, concetto peraltro non ben definito e non sufficiente a risolvere i problemi della sostitutività . Altri autori hanno applicato soluzioni più drastiche, sviluppando diverse forme di logiche epistemiche e doxastiche con diversi tipi di restrizioni. Parallelamente a questo sviluppo nascono altre ipotesi “sintattiche”, come la teoria fodoriana del “linguaggio del pensiero”, ovverosia del meccanismo computazionale con cui si suppone funzioni il pensiero . In questa prospettiva a parole diverse corrispondono rappresentazioni sintattiche o computazionali differenti nel linguaggio del pensiero, sufficienti a impedire la sostitutività, e questo basterebbe non solo per giustificare Edipo a non voler sposare sua madre, ma anche per giustificare la limitatezza cognitiva di Pia.
III.4 Logiche intensionali e oltre Gli sviluppi della semantica modellistica sono rimasti a lungo tempo campo esclusivo di logici e filosofi, specialmente dopo la formulazione di Montague che rimane a tutt’oggi un paradigma di raffinatezza logica. Ma, almeno dopo Hall Partee 1975, anche i linguisti hanno iniziato ad apprezzarne le qualità (specialmente la sua preoccupazione per la verità) . Si è posto però il problema di confrontare teorie fondamentalmente rivolte alla precisione matematica con teorie rivolte alla simulazione cognitiva. La semantica è matematica o psicologia? Non è possibile dare una risposta, ma si può riconoscere che la semantica, come si è sviluppata recentemente, è qualcosa che riguarda entrambi i campi. Allievi di Montague come Hans Kamp e altri logici hanno sviluppato analisi semantiche più legate all’aspetto dinamico del significato. Tra questi emerge la Teoria della rappresentazione del Discorso di Kamp, che assieme a altre teorie contemporanee si dirige più strettamente verso la elaborazione di teorie linguistiche, e computazionalmente implementabili. Altro aspetto, in parte derivato dal lavoro di Montague e di Kamp, è quello di inserire nella logica modellistica un richiamo specifico al contesto di emissione (Kaplan 1979 e Lewis 1980). Questo permette di trattare formalmente in semantica anche espressioni indicali, come “ora”, “qui”, “io”, ecc. che variano a seconda del tempo, del luogo e del parlante, ampliando il campo di applicazione della semantica. Un'ulteriore direzione di ricerca è lo sviluppo di semantiche di tipo cognitivo, che cercano di dare una rappresentazione della competenza del parlante . Gli studi di semantica formale e di semantica cognitiva sono uno dei tanti possibili esiti della filosofia analitica, ma non il solo. Altri aspetti si rivolgono più a questioni “fondazionali” o di principio, ad esempio sulla forma che una teoria semantica o teoria del significato dovrebbe avere.

 

IV. Olismo e interpretazione
IV.1. Olismo del significato Abbiamo visto che per Frege il senso era dato sempre nel contesto di un enunciato. Quine proporrà una radicalizzazione di questo principio in un’ottica che colpisce alcune delle idee che Frege condivideva. Se Frege, Carnap e i neopositivisti avevano mantenuto netta distinzione tra enunciati analitici e sintetici, Quine 1951 contesta proprio la fondatezza di tale distinzione. La critica di Quine al neopositivismo riguarda due dogmi correlati: (1) la distinzione analitico-sintetico (2) il riduzionismo verificazionista (la tesi per cui un enunciato è accettabile se si può darne una verifica empirica). L'argomentazione di Quine a proposito di (1) è complessa e articolata; ne siamo qui solo i passi essenziali: (i) una teoria del significato (diversa dalla teoria del riferimento) dovrebbe occuparsi di definire la sinonimia o uguaglianza di significati (ii) Le verità analitiche dovrebbero dunque essere definite in termini di sinonimia. (iii) Purtroppo ogni definizione di sinonimia presuppone il concetto di analiticità. Ad esempio, per dire che “nubile” e “donna non sposata” sono sinonimi occorre in un modo o nell’altro ricorrere all’idea che l’enunciato “tutte le donne non sposate sono nubili” è analitico. (iv) ogni tentativo di definire la analiticità è dunque circolare. (v) Non è possibile perciò dividere gli enunciati in analitici e sintetici, distinguere nettamente componente linguistico e fattuale nella verità di un enunciato.
A questo punto il discorso si riallaccia al “secondo dogma”: l'idea che un enunciato sia verificabile in isolamento dagli altri è erronea perché ogni enunciato di una teoria scientifica dipende strettamente dagli altri enunciati. Una teoria scientifica non è un mero insieme di enunciati veri, ma un insieme di enunciati veri che si sostengono tra di loro. Detto con uno slogan, l'unità di conferma empirica di una teoria non è il singolo enunciato, ma la teoria stessa. . Ne nasce un'immagine di teoria scientifica (e anche di linguaggio) come un tutto in cui solo la periferia è connessa direttamente con il mondo dell'esperienza. Una teoria o un linguaggio è come un campo di forze, in cui tutto si tiene in modo sistematico. La distinzione tra componente fattuale e linguistica non è netta e definita una volta per tutte; è sono questione di gradi.
Per "olismo", a partire da questo saggio di Quine, si intende quella posizione filosofica che insiste, sulla scia di un allargamento del principio del contesto fregeano, sulla dipendenza del significato delle singole parti dal tutto. Ispirandosi al secondo Wittgenstein Quine ricorda che capire una parola vuol dire capire un enunciato; ma per capire un enunciato occorre capire tutto il linguaggio. Il significato di una singola parola dipende, in qualche modo, dalla totalità del linguaggio in cui è inserita. Quine non ha sostenuto esplicitamente questa tesi (anche perché tende a rifiutare ogni discorso sul "significato"). Ma molti che lo hanno seguito hanno aderito, implicitamente o meno, a una tesi del genere, che comporta numerosi problemi.
IV.2. Davidson e la teoria del significato:
Tra i primi a sviluppare le idee di Quine in filosofia del linguaggio troviamo Davidson 1968 che, senza citare Wittgenstein, vede un analogo allargamento del principio del contesto di Frege dato anche da Quine: “Frege diceva che una parola ha significato soltanto nel contesto di un enunciato; nello stesso spirito, avrebbe potuto aggiungere che un enunciato (e pertanto una parola) ha significato solo nel contesto del linguaggio.” Sulla scia di Quine , per Davidson capire un linguaggio è qualcosa di simile a tradurre: occorre avere qualcosa di simile a un manuale di traduzione o una teoria. Davidson chiama questa teoria "teoria dell'interpretazione" o "teoria del significato". Un teoria dell'interpretazione dovrebbe infatti darti il significato di tutti gli enunciati di una lingua. Ma quale forma dare a questa teoria? La risposta di Davidson è un richiamo alla tradizione classica della semantica logica, la teoria tarskiana della verità .
Mentre Tarski voleva dare una definizione di verità, Davidson vuole dare una definizione di significato, e quindi assume il concetto di verità come primitivo. La teoria del significato è una teoria che dovrebbe avere come conseguenza tutti i bicondizionali del tipo: «"p" è vero sse p» ove il primo "p" è il nome dell'enunciato nel linguaggio oggetto, e il secondo p è l'enunciato nel metalinguaggio. Questo è un modo di presentare la visione classica del significato come condizioni di verità: il significato di “p” è dato dalle condizioni a cui p è vero . Come facciamo a sapere se il bicondizionale che ho derivato dal mio manuale di traduzione (di interpretazione) è vero? Basandoci, come già ricordava Quine, sull'assenso o dissenso dei parlanti .
IV.3. Dummett, Davidson e l’olismo: Dummett ha criticato Quine e Davidson sia sulla riducibilità di una teoria del significato a una teoria della traduzione o interpretazione sia sull’olismo. Qui ci limitiamo al secondo problema. L’argomento di Dummett (1973) segue queste linee: se è vero che che non vi è distinzione analitico-sintetico il significato di una parola non ha una definizione (tipo postulati di significato), ma dipende dall’insieme del linguaggio. Ma se il significato di una parola dipende dalla totalità del linguaggio in cui è inserita, come è possibile per due persone condividere lo stesso significato? Infatti, se ciascun individuo dà diverse interpretazione a espressioni del suo linguaggio, due individui qualsiasi non potranno condividere alcun significato. Ma se ognuno usa le parole con un diverso significato, perché sono inserite nel suo linguaggio-idioletto, non può esserci né accordo né disaccordo. La comunicazione diviene un mistero inspiegabile. Per questo motivo, Dummett sostiene che una teoria del significato non può essere una teoria della traduzione o dell’interpretazione olistica, ma una teoria dell’uso condiviso dei parlanti una lingua. In tale teoria il significato delle parole dipenderà da una sottoparte del linguaggio, se non data come definizioni analitiche, comunque costituita da requisiti specifici: Dummett suggerisce l’idea che enunciati complessi presuppongono enunciati meno complessi, in una visione “molecolarista”.
A queste critiche Davidson ha però obiezioni altrettanto forti: la comunicazione diviene un mistero solo se si assume che la comunicazione sia condivisione di significati; ma l’olismo si può salvare se si cambia la nostra visione della comunicazione, intesa non come condivisione di significati ma come processo di convergenza verso teorie del significato comuni tra parlanti. Abbiamo d’altra parte un grosso vantaggio: la presunzione che gli umani, condividendo uno stesso mondo, condividano anche le stesse credenze. Se non ci capiamo è facile che diamo significati diversi alle parole, pur condividendo le stesse credenze. Se mi dici che hai un ippopotamo nel frigo, mi chiedo se forse non dai a “ippopotamo” un significato diverso da quello che dò io. Se poi descrivi il tuo ippopotamo come rotondo, arancione e utile per fare spremute, io lo chiamo “arancio” e, per oggi, posso anche chiamarlo “ippopotamo”. Le credenze sono condivise, i significati convergono nella conversazione.
Dummett a sua volta ha le sue contro obiezioni. E così via. La discussione sulla forma che deve avere una teoria del significato ha occupato gran parte del dibattito del XX secolo; se resta comune alle diverse ipotesi la preoccupazione di salvare il principio di composizionalità, la radicalizzazione del principio di contestualità ha posto sia innegabili problemi, sia inediti suggerimenti alternativi .

V. Uso e giustificazione
V. 1. Linguaggio e gioco linguistico
Per salvare la oggettività del concetto di senso Frege pone i sensi nel “terzo regno,” un regno platonico di entità astratte ed eterne; il “secondo” Wittgenstein riporta il concetto di senso, o significato, nel linguaggio e nella pratica dei parlanti. Cosa è il significato? Per Wittgenstein è ciò che viene detto quando si spiega il significato (quindi le giustificazioni che si danno nello spiegare; ma su questo vedi dopo). Il significato è prima di tutto ciò che il parlante comprende, quando comprende un enunciato. E, come abbiamo visto, comprendere un enunciato è comprendere un linguaggio. Cosa intende Witgenstein con i termini (i) “comprendere” e (ii) “linguaggio”? (i) Per Frege la comprensione è un processo misterioso in cui lo psichico e il regno dei pensieri, il “terzo regno”, vengono a contatto tra di loro. Ma il secondo Wittgenstein, riportato sulla terra il terzo regno, lega il comprendere alle pratiche linguistiche, senza postulare misteriosi processi. Il filosofo studierà la comprensione dal punto di vista non dei processi psichici interni, ma dal punto di vista delle pratiche sociali oggettive e controllabili. Comprendere è saper usare i segni . (ii) Per il Tractatus il linguaggio è principalmente un mezzo per raffigurare il mondo. Ma per il secondo Wittgenstein il linguaggio è sempre inestricabilmente connesso a un contesto di azione. Non vi è un’essenza unica, ma solo un miscuglio di "giochi linguistici", contesti di azioni e parole in cui si definiscono gli usi - ossia i significati - delle parole stesse.
Se il significato è definito come uso nel gioco linguistico si toglie ogni aurea metafisica al significato: contro il platonismo e il mentalismo, per Wittgenstein il significato di una espressione non è né un oggetto né un'immagine mentale. L'uso è qualcosa di osservabile oggettivamente, non è una qualche strana entità platonica. Si può dunque dare una descrizione oggettiva degli usi linguistici, dei significati delle nostre espressioni, riconducendole al contesto in cui vengono originariamente applicate. Spesso molti fraintendimenti linguistici dipendono dall'usare una parola fuori dal contesto che le è appropriato. Identificando il significato di un parola con l'uso Wittgenstein parrebbe così sfuggire alla critica di Quine contro il significato come entità indefinibile, misteriosa e quindi da eliminare dalla nostra visione del linguaggio. E’ questo sufficiente a ridare valore a una distinzione tra analitico e sintetico? Wittgenstein propone una distinzione analoga in termini di giustificazione, non in termini di classi di enunciati: grammaticali saranno quegli usi di enunciati proferiti con lo scopo di chiarificare gli usi del linguaggio; empirici saranno quegli usi degli enunciati che cercheranno di descrivere il mondo. Le giustificazioni per la verità degli uni e degli altri è differente . E uno stesso enunciato potrà fungere, a seconda del contesto di uso, sia proposizione grammaticale sia da proposizione empirica.
V.2. Gentzen e un modello di significato come uso E’ sul concetto di giustificazione che si appoggia Dummett (1979) per dare sostanza allo slogan wittgensteiniano “il significato è l’uso”, criticando la troppo vaga applicazione dello slogan fatta da molti filosofi oxoniensi. Dummett propone una teoria sistematica del significato richiamando un'idea che Wittgenstein espresse in appunti degli anni ‘30, la tesi che il significato di un enunciato è dato dalle sue condizioni di giustificazione, o di asseribilità. Dummett contrasta questa tesi con la più tradizionale e consolidata tesi del significato come condizioni di verità. Infatti in alcuni casi non abbiamo alcuna idea di cosa possa voler dire capire una condizione di verità (ad es. in enunciati controfattuali, o in enunciati al passato, o in enunciati su totalità infinite). E’ invece più facilmente accettabile la tesi per cui conoscere il significato di un enunciato è sapere quale giustificazione si può dare o si potrebbe dare per esso. Non si può dire che una persona conosce il significato di un enunciato se non ha alcuna idea di come giustificare la sua asserzione.
Dummett trova una chiara applicazione di queste idee alla definizione delle costanti logiche. Egli contrasta il tradizionale metodo delle tavole di verità con il metodo della deduzione naturale presentato da Gentzen (1935) negli stessi anni in cui Wittgenstein sviluppava le sue riflessioni sul significato come uso. In Gentzen il significato dei connettivi logici è dato dalle regole di uso, dalle regole che giustificano l'introduzione o l'eliminazione di un connettivo, secondo le ormai usuali formulazioni :
p q p&q p&q
--------- (&-introduzione) ------ ------- (&-eliminazione)
p&q p q
Dummett unisce queste idee alla visione generale del linguaggio di Frege, il cui centro nodale è la distinzione tra senso e forza. Una teoria del significato deve presentare sia una teoria del riferimento, sia una teoria del senso, sia una teoria della forza illocutoria. Dummett 1991 discute diverse linee guida di una teoria del genere, collegando le idee di condizioni di giustificazione all'uso della logica intuizionista, influenzando diversi autori, tra cui lo svedese Dag Prawitz.
V.3. Significato e inferenza Uno sviluppo originale delle idee di Wittgenstein e Dummett è dato nel lavoro di Robert Brandom 1994 che tenta di costruire un sistema che non parte dall’idea di verità e oggettività, ma dall’idea delle pratiche inferenziali che ci portano a definire cosa è oggettivo e cosa è vero. La visione del significato che ne deriva è una visione di significato come ruolo inferenziale . Il significato di un enunciato è dato dalla rete di inferenze in cui è inserito, sia dalle premesse che ne giustificano l’asserzione sia dalle conseguenze che siamo tenuti a trarre. Brandom traduce la terminologia di premesse e conseguenze in termini di “diritti” e “impegni” a fare certe asserzioni. Per avere diritto a fare una asserzione devo avere una giustificazione; ma fare una asserzione mi impegna anche a riconoscerne le conseguenze. E’ un punto di vista dove la filosofia del linguaggio si tocca con l’etica e la responsabilità. Al di là delle specifiche soluzioni di Brandom è comunque da accogliere con interesse questa nuova direzione di ricerca che costringe a capire cosa vuol dire assumersi la responsabilità di fare una asserzione (contro la forte tendenza ad asserire e poi smentire ciò che si è asserito per non volerne affrontare le conseguenze).

6. Conclusioni
Alla fine di questo excursus mi accorgo di quanti temi classici non ho quasi nemmeno sfiorato: la naturalizzazione del significato, la convenzione, l’olismo locale, i criteri di identità, i concetti sortali, la conoscenza tacita, teorie del significato modeste e teorie ricche, il rapporto internismo esternismo, la vaghezza, il rapporto realismo-antirealismo, la metafora, l’intenzionalità, la citazione, le attribuzioni de re e de dicto, le teorie deflazioniste di verità e significato, la semantica del tempo, i controfattuali, la comunicazione, gli aspetti causali, la bivalenza, ecc. La quantità di argomenti e autori lasciati fuori dal mio excursus basterebbero a ricordare la vivacità della filosofia analitica del linguaggio oggi che, oltre che sviluppare temi suoi propri, continua a confrontarsi con altri campi del sapere, dalla linguistica teorica all’intelligenza artificiale, dalla psicologia alla filosofia della mente e scienze cognitive.
Se un tempo la filosofia del linguaggio dominava quasi sovrana sulle altre discipline sviluppate in ambito analitico, il fatto che oggi si situi accanto alle altre, quantomeno per quantità di produzione, testimonia la fecondità della sua storia. Che parte del lavoro dei filosofi del linguaggio sia confluito e confluisca nella linguistica e nella psicologia è un segno di robustezza di una disciplina che continua a proporre nuove soluzioni e nuovi problemi. Mentre da tempo i linguisti hanno discusso il problema del rapporto tra sintassi e semantica, tra i temi più scottanti di oggi vi è quello del rapporto tra semantica e pragmatica. Da una parte assistiamo al tentativo di tradurre il più possibile i problemi di pragmatica all’interno di una semantica formale (Kaplan), dall’altro il tentativo di inglobare la semantica come componente di una più ampia visione pragmatica (Recanati). In questo dibattito un ruolo centrale viene assunto dalla nozione di contesto, anzi dalle differenti nozioni di contesto in gioco .

Fonte: http://www.dif.unige.it/epi/hp/penco/pub/filing.doc

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