Filosofia della moda

Filosofia della moda

 

 

 

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Filosofia della moda

 

L'oggetto di studi del presente lavoro è la moda e l'approccio utilizzato per affrontarlo è di tipo filosofico. Ciò vuol dire che l'impulso che guida le mie riflessioni è dato dalla domanda filosofica per eccellenza: quella sul “che cos'è”. Nel nostro caso, dunque, che cos'è la moda? Per cercare una risposta a tale domanda si possono seguire varie strade: io ho scelto di adottare una prospettiva metodologica ispirata alla filosofia di Ludwig Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche, cioè orientata alla descrizione piuttosto che alla spiegazione dei fenomeni2. Wittgenstein «ritiene più propria l'attività di ricerca degli aspetti che mettono in correlazione i fenomeni e li compongono in un quadro di riferimenti reciproci di senso»3, piuttosto che la spiegazione di cause e fini dei fenomeni studiati.
Scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un'attività. Un'opera filosofica consta essenzialmente d'illustrazioni. Risultato della filosofia non sono «proposizioni filosofiche», ma il chiarirsi di proposizioni. La filosofia deve chiarire e delimitare nettamente i pensieri che altrimenti, direi, sarebbero torbidi e indistinti4.
Per poter illustrare il fenomeno moda e riflettere criticamente su di esso è opportuno tenere in considerazione anche aspetti che riguardano il “contesto” del fenomeno “moda”, ossia: il modo in cui esso è presente nelle società e le sue relazioni con le dinamiche sociali; il suo ruolo rispetto ad altre condizioni antropologiche; e non è da trascurare nemmeno la sua evoluzione storica. Inoltre, sempre in chiave wittgensteiniana, ma anche influenzata dal pensiero sistemico di Niklas Luhmann, sottoscrivo l'opinione che compito della ricerca intellettuale non sia solo l'analisi dell'oggetto di studio, bensì anche una meta-analisi di come si parla dell'oggetto, sia per come inteso dal senso comune, sia in merito alle implicazioni derivanti dagli assunti disciplinari e dal quadro metodologico utilizzato nella ricerca.
2 «Ogni spiegazione deve sparire e soltanto la descrizione deve subentrare al suo posto » (Ludwig Wittgenstein, Ricerche Filosofiche (1953), trad. it. di Renzo Piovesan e Mario Trinchero, Einaudi, Torino 1967, §109, p. 66.
3 Martino Cambula, Ludwig Wittgenstein: stili e biografia di un pensiero, Rubbettino, Catanzaro 2003, p. 81.
4 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, trad. it. di Amedeo G. Conte, Einaudi, Torino 1964,
§4.112.

La moda è stata spesso assente dalla riflessione intellettuale perché considerata argomento frivolo che non vale la pena approfondire: una «sfera ontologicamente e socialmente inferiore, non merita indagini problematiche; riguarda la superficie, dunque scoraggia l'approccio concettuale»5. Senza contare le difficoltà che si presentano nel tentativo di afferrare un fenomeno vivo e reale come quello della moda. Tuttavia, oggi si constata una volontà di consolidare la ricerca in questo campo, evidente anche dal fatto che la maggior parte degli studiosi lamenta la scarsità di ricerche e approfondimenti sul tema6.
Nel presente lavoro traccio una panoramica degli studi sulla moda, considerando prima il contributo di varie discipline e, successivamente, focalizzandomi sulla specificità del contributo che la filosofia può apportare. Presento il punto di vista della sociologia, in particolare quella classica, e le descrizioni delle manifestazioni sociali del fenomeno moda: sviluppo del fenomeno, pattern di diffusione, interazioni con rapporti sociali già costituiti (o costituzione degli stessi). Considero anche il punto di vista degli studi semiologici e semiotici, che intendono la moda come un sistema produttore di senso, che si costruisce e dispiega nella costruzione dei significati, studiando quindi l'abbigliamento come un linguaggio non-verbale. Tale prospettiva è fondamentale perché tocca la dimensione della costruzione di significati e le relazioni della moda con la cultura, quindi anche la produzione di una dimensione simbolica, la quale interseca la manifestazione e costruzione dei rapporti sociali, in particolare in merito alle questioni dell'identità e del potere.
Ho voluto inoltre considerare anche gli studi più recenti sulla moda, un ambito molto diversificato e multidisciplinare (con un'ambizione anche interdisciplinare) che prende il nome di fashion studies (o fashion theory), e la cui impronta è di analizzare il fenomeno moda descrivendolo dal punto di vista di diverse discipline. Il continuo ampliarsi di questo ambito dimostra che la moda sta acquisendo uno spazio sempre maggiore nel mondo della ricerca e dell'insegnamento accademico.
5 Gilles Lipovetsky, L'impero dell'effimero: la moda nelle società moderne (1987), trad. it. di Sergio Atzeni, Garzanti, Milano 1989, p. 7.
6 Cfr. Joanne Entwistle, Introduzione, in: Joanne Entwistle, Elizabeth Wilson, Body dressing, Berg, Oxford- New York 2001, pp. 1-2; Kawamura sottolinea che lo studio sistematico è di origine recente, prima la moda era considerata soprattutto come oggetto di critiche (cfr. Yuniya Kawamura, La moda (2005), trad. it. di Maria Luisa Bassi, il Mulino, Bologna 2006, pp. 14-16).

Infine, considero i rapporti tra la filosofia e la moda, rintracciando i commenti di quei pensatori che si sono confrontati, anche solo per poche righe, con la questione: Platone, Seneca, Bernard de Mandeville, gli autori dell'Encyclopedie, Jean-Jacques Rousseau, Adam Smith, Pietro Verri, Melchiorre Gioia, Antonio Rosmini, Immanuel Kant, Walter Benjamin, per giungere poi ai nostri contemporanei. In passato il rapporto tra filosofia e moda non è stato idilliaco, e spesso ciò viene spiegato indicando le resistenze derivanti da un supposto dualismo antropologico che separa lo spirito (anima, intelletto, mente, ecc.) dal corpo, atteggiamento che nascerebbe con Platone e attraverso la filosofia cristiana raggiungerebbe il suo apice con Cartesio; tale dualismo però, come si vedrà, è stato spesso indebitamente forzato.
Se ciò che deriva da queste considerazioni frammentate è un'immagine sfocata, questo non deve scoraggiarci dal tentativo di comprendere il fenomeno della moda, poiché non si è voluto ridurlo ad un solo punto di vista, ma presentarne la vitalità attraverso uno sguardo interdisciplinare, sebbene si sia consapevoli che «il tentativo di guardare la moda contemporaneamente attraverso vari tipi di occhiali – quelli dell'estetica, della teoria sociale, della politica – può dare come risultato una visione obliqua o addirittura astigmatica o sfocata»7. Confrontandosi con tali difficoltà metodologiche, alcune delle analisi sulla moda provenienti dal mondo della filosofia affrontano la questione definitoria del fenomeno e del termine «moda» da una prospettiva wittgensteiniana: più che darne una definizione esauriente e conclusiva, sarà più efficace avvicinare il termine e il fenomeno stesso in base a ciò che Wittgenstein denomina «somiglianze di famiglia», ossia considerando che non esiste una caratteristica essenziale che ci sorregga nell'operazione definitoria; piuttosto, se analizziamo le varie manifestazioni del fenomeno possiamo riconoscere che esse sono legate tra loro «da una complessa rete di somiglianze»8. Infatti, quando si ha a che fare in particolar modo con fenomeni reali, e non solo con concetti astratti, dare definizioni diviene complesso; a tal proposito Wittgenstein si domanda: «è sempre possibile sostituire vantaggiosamente
7 Elizabeth Wilson, Vestirsi di sogni. Moda e modernità (1985), trad. it. di Marinella Giambò, a cura di Lucia Ruggerone, Franco Angeli, Milano 2008, p. 24.
8 Cfr. Lars Fr. H. Svendsen, Filosofia della moda (2004), trad. it. di Cristina Falcinella, Guanda, Parma 2006, p. 14; vedi infra, cap. 4.

un'immagine sfocata con una nitida? Spesso non è proprio l'immagine sfocata ciò di cui abbiamo bisogno?»9.
Ad ogni modo, bisogna aspettare il XX secolo per avere una rivalutazione della moda, anche se ancora oggi viene vista come qualcosa che ha un'influenza eccessiva o negativa sulle nostre vite, e quindi è da ridimensionare10. Il mio intento, al contrario, è di mostrare che il fenomeno non può essere bollato come qualcosa di secondaria importanza, pur nella ambiguità comunicativa dell'abbigliamento e nella pluriformità della moda contemporanea11. Questo perché la nostra condizione nella società contemporanea è caratterizzata dal consumo, e l'abbigliamento è uno dei maggiori beni di consumo. Vi sono inoltre casi estremi, come quando si arriva ad uccidere per un paio di scarpe o per una giacca di marca12, che dovrebbero incentivare ancora di più la volontà di comprendere a fondo il ruolo della moda nelle nostre esistenze. Se consideriamo questi dati di partenza, è importante non sminuire il fenomeno ma comprendere le modalità con cui esso agisce nella società contemporanea, nella quale le mode non si mostrano solo nell'abbigliamento, bensì coinvolgono ormai tutti gli aspetti della nostra vita. Dato il nostro fondamentale ruolo di consumatori e le possibilità di informazione fornite dai media, possiamo sviluppare competenze critiche da mettere in pratica nel momento dell'acquisto, evitando di diventare marionette del sistema e non facendoci imporre il giudizio degli altri, ma piuttosto scegliendo autonomamente.
Per concludere questa introduzione, vorrei accennare ad alcuni concetti sui quali si è sviluppata un'abbondante riflessione filosofica e che possono essere compresi in un discorso sulla moda. Come si vedrà, il concetto di “moda” può essere inteso in un'accezione ampia – considerando le arti, ma anche le religioni, le filosofie, ecc. –, ma il suo primo sostrato materiale sono gli abiti, ai quali si aggiungono significati e propriet à

9 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., §71, p. 49. Questo è l'atteggiamento anche di Georg Simmel, descritto dal suo allievo György Lukács come «filosofo dell'impressionismo»: «l'impressionismo sente e valuta le forme grandi, rigide ed eterne, come violentatrici della vita, della sua ricchezza e della sua policromia, della sua pienezza e della sua polifonia: è sempre un magnificatore della vita e pone ogni forma al suo servizio» (György Lukács, Georg Simmel (1918), in: Georg Simmel, La moda (1911), a cura di Lucio Perucchi, SE, Milano 1996, p. 63.
10 È questa l'opinione di Lars Svendsen, cfr. infra, cap. 3, par. 7.
11 Davis mette in luce la profonda ambiguità che caratterizza la comunicazione attraverso moda (Cfr. Fred Davis, Moda, cultura, identità, linguaggio (1992), trad. it. di Fabrizio Macchia, Baskerville, Bologna 1993).
12 Cfr. ivi, pp. 60-61.

come “essere alla/di moda”. Credo sia interessante quindi considerare il concetto di “abito”, che ci rimanda immediatamente ai vestiti, ma che in un linguaggio più filosofico viene spesso accomunato alle “consuetudini” o al “carattere”. La parola “abito” trova corrispondenza nel termine greco ἕξις (héxis), e rimanda a ἔχειν (échein), al possedere o avere qualcosa13. In filosofia il termine viene spesso usato nell'ambito dell'etica e «allude ai caratteri acquisiti che il corpo o la mente (e quindi la persona) presentano nel loro relazionarsi con gli altri e, più in generale, con ciò che è esterno»14. Si tratta di qualcosa di cui si è «in possesso in modo sufficientemente stabilizzato»15, concezione adatta anche per il termine latino habitus. Se l'“abito” è un carattere esterno che acquisiamo nel rapportarci al mondo, il concetto rimanda alla funzione dei vestiti e, sebbene la moda contemporanea ne impedisca lo stabilizzarsi, nel passato le società più gerarchizzate e chiuse hanno fatto degli abiti una manifestazione dello status sociale, spesso creando un legame tra abito e valore intrinseco delle persone. Queste diverse concezioni non sono da sottovalutare in una riflessione sull'abbigliamento e sulla moda, e difatti me ne occupo nel capitolo 5, considerando il loro ruolo nella costruzione di identità individuali e sociali16.
Avvicinandoci più propriamente a quello che è il tema della tesi, cercando una derivazione etimologica per il termine “moda”, questo risale al latino modus, cioè “modo”, “maniera”17 – e ha un senso simile anche l'inglese fashion. Un'altra interpretazione legherebbe il termine “moda” al latino mos, cioè alla “consuetudine”, quindi ancora all'habitus, cioè ai caratteri acquisiti nel rapportarsi al mondo esterno, e che dipendono dal luogo in cui si vive, dalla «casa». Inoltre, mos indica per estensione «le
13 Cfr. Stefano Maso, L.Ph.G. Lingua philosophica graeca. Dizionario di greco filosofico, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 60.
14 Ibid.
15 Ibid.
16 In tempi più recenti il concetto di habitus è stato correlato anche alla dimensione economica e politica dal sociologo Pierre Bourdieu, per il quale è un concetto chiave che può spiegare molte dinamiche sociali (cfr. Pierre Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto (1979), trad. it. di Guido Viale, il Mulino, Bologna 1983).
17 Cfr. Maria Catricalà, Il linguaggio della moda, in: AA.VV., Enciclopedia Treccani online (consultata il 06/02/2015). Questa derivazione etimologica è rilevata anche da L. Svendsen, Filosofia della moda, cit.,
p. 10; anche Yuniya Kawamura, La moda (2005), trad. it. di Maria Luisa Bassi, il Mulino, Bologna 2006, p. 10.

tradizioni storico/culturali e i costumi tipici di un certo determinato luogo»18. In questo caso l'etimologia ci conduce più vicino al “costume” che alla “moda”.
Per quanto riguarda le definizioni, sebbene sia più conveniente affrontare la questione senza cercare descrizioni conclusive, può essere comunque interessante andare a vedere come la moda venga definita nell'ambito della filosofia. Nel Dizionario di filosofia compilato da Nicola Abbagnano si definisce la moda con particolare riferimento all'ambito della cultura: dopo un primo breve accenno alla trattazione kantiana della moda, nell'Antropolgia pragmatica19, l'autore mette in luce come l'analisi di Kant sia ormai superata perché si concentra prevalentemente sulla moda vestimentaria, e prosegue affermando che:
la Moda investe tutti i fenomeni culturali e anche quelli filosofici. Mode sono state nell'età moderna il cristianesimo, l'illuminismo, il newtonismo, il darwinismo, il positivismo, l'idealismo, il neoidealismo, il pragmatismo, ecc.: tutte dottrine che hanno avuto un'importanza decisiva nella storia della cultura. D'altronde sono state Mode anche movimenti culturali che poca o nessuna traccia hanno lasciato. Si può dire che la funzione della Moda è quella di inserire negli atteggiamenti istituzionali di un gruppo, o più in particolare nelle sue credenze, per mezzo di una rapida comunicazione e assimilazione, atteggiamenti o credenze nuove che, senza la Moda, dovrebbero combattere a lungo per sopravvivere e farsi valere. Questa funzione specifica per la quale la Moda agisce come un controllo che limita o indebolisce i controlli della tradizione rende inutile ogni esaltazione e ogni disdegno nei confronti della moda20.
Al di là di questa breve parentesi definitoria ed etimologica, ci tengo a sottolineare che l'intento principale del presente lavoro è quello di affermare che la filosofia ha il dovere di contribuire alla riflessione critica sul fenomeno della moda. Ma per procedere con la maggiore chiarezza possibile intorno a questo fenomeno dai contorni non certo netti è utile passare subito a considerare il fenomeno moda nella sua nascita e evoluzione storica, nella sua diffusione attraverso scrittori e letterati, e nelle dinamiche di diffusione entro il tessuto sociale.
18 S. Maso, L.Ph.G. Lingua philosophica graeca, cit., p. 96.
19 Cfr. infra cap. 3, par. 3.
20 Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, UTET, Torino 1961, pp. 572-573.

Parte 1
Capitolo 1
Concetti, storia, modelli
1. La moda
La moda è dappertutto, è un termine usato quotidianamente in contesti diversissimi fra loro (es. «quest'autunno va di moda il verde», «essere vegani è diventato di moda», ecc.), è un fenomeno che riguarda moltissimi comportamenti sociali – anche quelli che apparentemente si distanziano da essa, come ad esempio l'attività intellettuale – ed è un concetto sfuggente, forse altrettanto complesso quanto i concetti di «cultura» e «società».
Senza dubbio, però, il termine «moda» – o ancora meglio «la moda» – è usato principalmente in riferimento ad un insieme di attività riguardanti più o meno direttamente l'abbigliamento. E, pur avendo una sua ricca e dibattuta storia, è da molti ritenuto un fenomeno peculiare della modernità. «Qualunque sia il periodo storico di cui si parla, l'essenza fondamentale della moda è il cambiamento: il processo della moda spiega la diversità e i mutamenti degli stili»2. Insieme al cambiamento, anche la «novità» è considerata una componente essenziale dei fenomeni di moda, fino ad affermare che «la moda è la sacralizzazione del nuovo, la deificazione del presente. In altre parole, la moda è l'apoteosi del rinnovamento ludico e la santificazione del piacere di cambiare. È emancipazione dal passato e dal futuro»3. Sono questi due aspetti a rendere la moda un fenomeno così presente nelle società moderne e postmoderne, caratterizzate dal continuo desiderio di cambiamento, dalla mobilità sociale4 e da identità personali complesse.
Il fenomeno della moda nelle sue manifestazioni storiche ci appare diversamente a seconda della definizione che diamo del fenomeno stesso. Può sembrarci una condizione peculiare della modernità e del mondo occidentale, una serie di mutamenti
2 Y. Kawamura, La moda, cit., p. 12.
3 Massimo Baldini, L'invenzione della moda. Le teorie, gli stili, la storia, Armando, Roma 2005, p. 34.
4 Cfr. Y. Kawamura, La moda, cit., p. 41.

che riguarda solo l'abbigliamento, o l'indice di nuove configurazioni di valori che riguardano la società nel suo insieme.
Il vestito, dice Barthes, è come il linguaggio per Saussure: una massa eteroclita al cui interno è possibile trovare di tutto; aspetti fisici, tecnologici, economici, estetici, psicologici, sociologici, ecc., studiati ognuno dalla rispettiva disciplina. Questa massa eteroclita non deve essere però diluita nei vari punti di vista disciplinari che possono esaminarla, per poi sparire come oggetto unitario. Il vestito – come la lingua saussuriana – può invece trovare un punto di vista interno attraverso cui descriverne, per così dire, lo specifico5.
Riconoscere alcune costanti che siano trasversali a diverse epoche, società, interessi disciplinari, ecc. è una scelta metodologica che permette di indagare più a fondo le varie manifestazioni del fenomeno moda. Tra le costanti riconosciute come emblematiche della moda vi sono appunto i concetti di «cambiamento» e «novità», ma ritengo che anche il concetto di «identità» abbia un valore precipuo in questo ambito. Pertanto, darò particolare importanza ad esso nel presente lavoro, prendendolo in considerazione da varie angolazioni in rapporto alle dinamiche di identificazione/distinzione legate ai processi della moda. Affrontare il nostro tema con un'attenzione particolare alla questione dell'identità è certamente una scelta metodologica che non rende giustizia alla complessità del tema, ma è comunque importante perché mi permette di focalizzarmi su un aspetto cruciale e problematico per le società contemporanee e gli individui che vivono in esse.
Le nostre identità sociali sono di rado quegli amalgama stabili che riteniamo siano. Stimolate dal cambiamento sociale e tecnologico, dalle diminuzioni biologiche del ciclo vitale, da visioni utopistiche e occasioni di disastro, le nostre identità sono sempre in fermento e provocano dentro di noi numerosi conflitti, paradossi, ambivalenze e contraddizioni. È di queste instabilità di identità collettivamente sperimentate e talvolta storicamente ricorrenti che la moda si nutre6.
Prima di addentrarmi nel discorso sugli aspetti storici, sociali e identitari della moda, però, è opportuno fare alcune considerazioni sui termini e i concetti che utilizzerò in seguito. Come regola generale, per uniformità del discorso molte delle considerazioni avanzate nel presente lavoro faranno riferimento quai esclusivamente all'abbigliamento, ma la loro validità può essere estesa ad altri oggetti di studio a cui sia comunemente applicabile il concetto di moda o la qualifica «alla moda».
5 Gianfranco Marrone, Introduzione, in: Roland Barthes, Il senso della moda. Forme e significati dell'abbigliamento, trad. it. di Lidia Lonzi e Gianfranco Marrone, Einaudi, Torino 2006, p. xvi.
6 F. Davis, Moda, cultura, identità, linguaggio, cit., p. 19.

2. Termini e concetti
Nella lingua italiana, la parola moda entra in uso nel XVII secolo, diffondendosi ampiamente nei testi letterari italiani (assieme al tema della moda) per indicare i mutamenti nell'eleganza e nelle convenienze sociali, negli arredamenti, nei modi di scrivere e pensare diffusi in particolare nella classe agiata7. In un'accezione simile sono però attestate occorrenze precedenti del termine francese mode (1482), intendendo con esso il modo collettivo di vestirsi8, e del termine inglese fashion (1489), con il significato di «uso convenzionale» in riferimento all'abbigliamento e allo stile di vita. L'accezione attuale del termine fashion emerge invece nel XVI secolo, indicando «una maniera speciale di confezionare abiti»9.
L'origine del concetto è dunque legata alla civiltà e alla cultura europee moderne, e ad un contesto sociale agiato ed elitario. Infatti, sebbene in ogni civiltà siano riscontrabili un'attenzione e delle consuetudini riguardanti l'abbigliamento e l'ornamento del corpo, la moda come concetto e fenomeno sociale è una creazione della modernità occidentale, che pone in relazione la libertà di scelta dell'individuo con gli usi e le forme di vita della collettività10. In questo senso:
La Moda è il fenomeno sociale del mutamento ciclico dei costumi e delle abitudini, delle scelte e del gusto, collettivamente convalidato e reso quasi obbligatorio. L'abbigliamento è uno dei suoi campi più ovvi e comuni, ma non il solo. Dalle malattie ai modi di fare l'amore dalle bevande agli scrittori, dagli ideali politici ai detersivi, dalle religioni alle strade, dai colori ai santi, tutto può essere oggetto di moda e di fatto tutto lo è, nella società dominata dalla Forma Moda11.
7 Cfr. Daniela Calanca, Storia sociale della moda, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 8.
8 Dictionnaire de la mode au XXe siècle (citato in Y. Kawamura, La moda, cit., p. 10).
9 Ingrid Brenninkmeyer, The Sociology of Fashion (citato in Y. Kawamura, La moda, cit., p. 10).
10 Nella Parte II del presente lavoro farò riferimento in modo più approfondito alla filosofia di Wittgenstein; per ora basti sapere che utilizzo il termine «forme di vita» nel senso di dato antropologico di base: «ciò che si deve accettare, il dato, sono – potremmo dire – forme di vita» (L. Wittgesntein, Ricerche Filosofiche cit., p. 295). Ad esempio, condizione imprescindibile per la moda nell'abbigliamento è una minima adeguatezza alle forme del corpo umano. Più in generale, la moda, come «la grammatica consegue alla natura di chi si attiene ad essa; vale a dire, ai comportamenti e alle reazioni spontanee di chi fruisce il linguaggio che ha quelle regole grammaticali» (Alberto Voltolini, Guida alla lettura delle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 38-39). Come nell'articolazione di un linguaggio il dato di partenza sono le forme prelinguistiche, così anche nella moda vestimentaria non si può prescindere dalle forme del corpo umano.
11 Ugo Volli, Contro la moda, Feltrinelli, Milano 1989, p. 50. Per Blumer la moda può riguardare «la pittura, la musica, il teatro, l'architettura, l'arredamento, l'intrattenimento, la letteratura, la pratica medica, la gestione aziendale, le dottrine politiche, la filosofia, le scienze sociali e psicologiche e persino aree particolari come le scienze fisiche e la matematica» (Herbert Blumer, Fashion, in: Massimo

La moda in senso stretto, quindi, riguarda solo l'ambito vestimentario, invece in senso più ampio «può assumere qualsiasi contenuto e qualsiasi forma esistente del vestire, dell'arte, del comportamento, delle opinioni»12. Secondo il sociologo Blumer la moda può essere intesa come un «processo selettivo» il cui elemento principale è il comportamento di «personaggi di prestigio che attraverso l'adozione di un modello danno a quest'ultimo una legittimazione o un sostegno sociale»13. Ciò è particolarmente evidente nella società contemporanea, in cui la capillare diffusione dei mass media e dei social media dà una visibilità altissima ai personaggi influenti. La moda contemporanea è estremamente variegata e frammentata ma nonostante ciò non è un fenomeno distinto dalla moda della modernità, anzi, ha una continuità storica con essa. Essendo caratterizzata dal cambiamento e dalla novità, ogni moda si situa nel tempo ed è in relazione con le precedenti mode e stili14, differenziandosi necessariamente da essi, ma la condizione postmoderna ha coinciso con l'aumento della consapevolezza del fenomeno moda, portando anche alla comparsa di riferimenti e ad un recupero di mode antecedenti, creando una sorta di continuità “intertestuale” con il passato.
Nella società contemporanea la moda è così pervasiva da comprendere anche fenomeni cosiddetti di «antimoda» e «non moda». La prima coinvolge coloro che sono contro la moda, gli «avversari irriducibili» che si oppongono alle tendenze dominanti, come ad esempio gli Hippy, i Teddy boys o i Punk; la seconda invece riguarda gli
«indifferenti assoluti», che ritengono di non essere coinvolti nei processi della moda e pertanto se ne disinteressano, e i «tradizionalisti impenitenti», che rimangono fedeli ad uno stile indipendentemente dal passare del tempo o dal contesto in cui appaiono15. Il concetto di «non moda» caratterizza anche le scelte di coloro che sono estranei ai processi dominanti e più visibili della moda, come per esempio chi è troppo povero per acquistare vestiti prodotti e distribuiti attraverso i più comuni canali commerciali. L'«antimoda», invece, può essere posta in una relazione più diretta con la moda, poiché
Baldini, Semiotica della moda, Armando, Roma 2005, p. 51).
12 G. Simmel, La moda, cit., p. 62.
13 H. Blumer, Fashion, cit., p. 52.
14 Cfr. ivi, p. 54.
15 M. Baldini, Semiotica della moda, cit., p. 10; già Elizabeth Wilson sottolineava che nelle società moderne l'abbigliamento non è mai al di fuori del sistema moda (cfr. E. Wilson, Vestirsi di sogni. Moda e modernità, cit., pp. 17-18). Cfr infra, cap. 4, par. 3, per una descrizione in chiave wittgensteiniana di tale dinamica.

può venire inglobata da questa, come è successo per esempio con lo stile Punk che negli anni '60 ha cominciato ad influenzare le collezioni della stilista Vivienne Westwood. L'antimoda «[...] è figlia della moda […], qualsiasi forma prenda, l'antimoda deve, tramite un meccanismo simbolico di opposizione: rifiuto, studiata trascuratezza, parodia, satirica azione, ecc..., rivolgersi alla moda in ascesa o alla moda dominante del tempo»16.
Riassumendo, il concetto di «moda» è strettamente correlato ad alcune condizioni fondamentali. Per essere una moda – o «di/alla moda» – è necessario che un oggetto:
• sia indossato da un numero consistente di persone, così da essere riconosciuto come oggetto a cui è rivolto l'interesse comune di una collettività;
• sia approvato da qualcuno che viene considerato autorevole in merito a questioni di stile e di moda17.
Tutte e due queste condizioni mettono in luce come quello di «moda» sia un concetto ed un fenomeno definibile esclusivamente in relazione ad un contesto spazio-temporale e ad un gruppo di individui specifici. Inoltre, la sua relatività è accentuata dal fatto che sia necessario il riconoscimento da parte di un individuo o gruppo di individui che abbiano un'autorità all'interno del contesto e del gruppo di riferimento, poiché quello di autorità è un concetto a sua volta relativo e non è necessariamente legato alla professionalità. Infine, è importante tenere presente anche la fondamentale dinamica fra volontà individuale e riconoscimento collettivo.
La moda non è però l'unico fenomeno sociale riguardante l'abbigliamento, vi sono infatti altri concetti, come quello di «costume», che descrivono pratiche e consuetudini affini ma diverse. Secondo il sociologo francese Gabriel Tarde, la moda è imitazione nello spazio e si differenzia dal costume che è invece imitazione nel tempo, imitazione di ciò che facevano i propri antenati. Il costume è allora esaltazione dei tempi passati, mentre la moda lo è del presente. Il costume predomina nelle società chiuse e statiche ed è immediatamente simbolico poiché è in evidente continuità con degli usi riconosciuti da tutti come parte della storia di una società, o comunità18. Ad esempio, un'uniforme o un vestito sacerdotale hanno un chiaro significato. Nonostante questa distinzione fra moda
16 F. Davis, Moda, cultura, identità, linguaggio (citato in Baldini, Semiotica della moda, cit., p. 10).
17 Cfr. Anya Farennikova e Jesse Prinz, What makes something fashionable?, in: Jessica Wolfendale e Jeanette Kennett, Fashion. Philosophy for Everyone, Wiley-Blackwell, Malden-Oxford 2011, pp. 15-30.
18 Cfr. M. Baldini, Semiotica della moda, cit., pp. 46-47.

e costume, non è però possibile separare nettamente i due ambiti, poiché si contaminano reciprocamente. Ad esempio, vi sono abiti che richiamano elementi delle uniformi senza però avere lo stesso significato.
Un altro concetto utilizzato negli studi sull'abbigliamento è quello di fads. Derivanti dall'aggettivo inglese faddish (bizzarro), i fads sono “piccole mode passeggere”, fenomeni di portata più limitata rispetto alle mode, sia per le quantità di persone che vi aderiscono sia per il tempo della loro durata. Si tratta di tendenze che si diffondono in determinati gruppi di persone, avendo quindi un target molto specifico, e non modificano la moda o il comportamento generale nel suo insieme. Spesso sono comportamenti che fin dalla loro comparsa sono destinati a svanire entro breve tempo, adottati e abbandonati molto velocemente senza quasi lasciare traccia della loro esistenza, come ad esempio i tagli di capelli alla Beatles o i cagnolini portati nella borsetta. Le condizioni necessarie per lo sviluppo delle mode e le limitazioni alla loro diffusione non valgono per i fads, i quali possono infatti sorgere in qualsiasi società senza continuità rispetto alle mode precedenti e senza che siano adottati da gruppi o persone influenti19. Di genere molto simile sono i cosiddetti craze (manie), comportamenti particolarmente eccentrici a cui «solo pochi possono (moralmente o economicamente parlando) permettersi il lusso di aderire»20.
Fads e craze sono comunque fenomeni che hanno qualcosa in comune con la moda ma a cui non è riconosciuto il valore storico, culturale e sociale delle mode. Nel presente lavoro mi occuperò prevalentemente della moda, quindi di fenomeni di più ampia portata; questa scelta mi permette di proporre riflessioni quantitativamente più fondate su aspetti importanti della condizione di esistenza individuali e collettive all'interno delle società contemporanee. In particolare, come si vedrà, la moda riguarda l'economia e la sociologia dei consumi, la presenza di comportamenti e stili dominanti all'interno della società, e i processi individuali e collettivi di differenziazione/identificazione legati a valori dominanti o a valori alternativi.
Un'ultima distinzione che è utile avere presente è quella tra moda e abbigliamento: la moda è un'interpretazione allo stesso tempo individuale e collettiva all'interno di un
19 Cfr. H. Blumer, Fashion, cit., p. 56.
20 René König, Il potere della moda (citato in M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., p. 49).

sistema di senso in vigore21. In questo senso, l'abbigliamento e i vestiti sono la «materia prima» con cui si costruisce la moda ed è attraverso gli abiti che si manifestano gli orientamenti e le tendenze della moda. «La moda come insieme di credenze, orientamenti, atteggiamenti si manifesta attraverso gli abiti»22. Inoltre, poiché la moda è un fenomeno che non riguarda solo l'abbigliamento, vi sono altri tipi di sostrato di cui la moda può essere proprietà accidentale. Persino una credenza o un sistema di valori possono diventare di moda, come ad esempio una religione o un certo tipo di alimentazione, senza essere necessario che ad essi corrispondano dei comportamenti effettivi, parlarne in un certo modo può renderli comunque di moda. Tale distinzione fra moda e abbigliamento è da tenere in considerazione ogni volta che questi termini ricorrono nel presente lavoro, poiché parlando di certi tipi di abbigliamento farò riferimento al loro valore all'interno del sistema moda, come mezzo attraverso cui sono messi in gioco un insieme di significati.
3. Nascita della moda
Per molti storici e studiosi della moda questo fenomeno non esiste da sempre e in tutti i luoghi, non è un fenomeno universale. La sua esistenza è legata ad alcune peculiari condizioni delle società occidentali moderne23 e la sua estensione odierna, oltre all'Occidente, riguarda anche quei Paesi interessati dai processi di globalizzazione.
La nascita della moda viene collocata da parte di molti studiosi nel XIV secolo, epoca in cui lo stile con cui sono fatti gli abiti comincia a mutare e l'aspetto esteriore si fa più curato24. Questa tesi è sostenuta dalle parole del mercante e storico fiorentino Giovanni Villani (1280-1348):
in questo tempo cominciò la gente smisuratamente a mutare di abiti e vestimenti. Cominciarono a fare le punte lunghe ai cappucci. Cominciarono a portare panni stretti alla catalana, a portare collane, scarselle alla cintura, e in capo a mettere cappelli sopra il
21 Questa dimensione dialettica della moda è un aspetto tenuto in considerazione fin dagli studi di G. Simmel (cfr. infra, cap. 2, par. 1).
22 Y. Kawamura, La moda, cit., p. 8.
23 Burckhardt, Ribeiro e Lipovetsky sono tutti d'accordo su questo punto (cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., pp. 35-36).
24 Il luogo d'origine può però variare: secondo la storica Aileen Ribeiro la moda è nata alla corte di Borgogna, mentre per Burckhardt durante il rinascimento fiorentino (cfr. ibid.).

cappuccio. Poi portavano barbe larghe e folte. Prima di quel tempo non c'erano tutte queste cose. Si radevano le persone le barbe e portavano abiti larghi e onesti25.
Fuori dal mondo occidentale, invece, ad esempio in Cina, Giappone, ed Egitto, bisogna aspettare più a lungo per osservare modifiche nel modo di confezionare e portare abiti, e anche in tempi recenti i cambiamenti nei tagli o nelle stoffe degli abiti sono molto rari, così come anche nelle acconciature26.
L'ipotesi di Baldini sulla nascita della moda riconosce la validità di queste osservazioni ma, tenendo in considerazione anche la moda dei capelli e non solo quella vestimentaria, retrodata la sua nascita alla Grecia del V sec. a.C., durante la democrazia retta da Pericle. All'epoca, infatti, erano più mutevoli il modo di acconciarsi i capelli e tagliarsi la barba piuttosto che l'abbigliamento, il quale si è mantenuto pressoché invariato per lungo tempo27. Secondo questa tesi la moda capelli precede di molto la nascita e la diffusione della moda vestimentaria e, quindi, la moda tout court sarebbe nata come moda capelli, arrivando in seguito ad interessare anche l'abbigliamento, fino a toccare, in epoca contemporanea, molti ambiti della vita quotidiana.
Il gusto delle donne greche [...] si sbizzarrì nelle acconciature sia perché i capelli non erano nella loro cultura soggetti a tabù religiosi sia perché erano (e sono) il più economico degli ornamenti, ma anche e soprattutto perché Atene fu il primo centro economico cosmopolita che riuscì a creare una vera e propria società aperta28.
Da questa affermazione si può capire quali siano i parametri ritenuti fondamentali per la nascita e lo sviluppo della moda: un certo grado di possibilità di cambiamento (in questo caso, per l'assenza di vincoli religiosi ed economici), e l'esistenza di una società aperta. Baldini riprende le tesi sviluppate da Karl Popper in La società aperta e i suoi nemici, secondo il quale il passaggio da società chiuse a società aperte avvenne proprio in Grecia in quel periodo29. La nascita e la diffusione della moda ha per Baldini come prerequisito l'apertura della società: le società chiuse, o collettiviste, di solito tribali, non conoscono cambiamenti nell'abbigliamento, il quale rimane sempre lo stesso ed è legato ai ruoli nella società e alle professioni. Le società con strutture sociali rigide e statiche nelle quali non è possibile migliorare la propria condizione economica o il proprio status sociale

25 Giulia Mafai, Storia della moda (citato in M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., p. 36).
26 Cfr. M. Baldini, Semiotica della moda, cit., p. 9.
27 Cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., pp. 35-42.
28 Ivi, p. 41.
29 Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici (citato in M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., pp. 27-28).

(ad esempio, a causa della suddivisione in caste) conoscono solo «mode fossili» o «mode immobili», e possono mantenere lo stesso tipo di abiti per secoli30. Le società aperte, invece, sono il luogo in cui l'individualità può svilupparsi ed esprimersi, dove l'individuo ha la possibilità di prendere decisioni per sé e non solo come parte di una collettività31. È in questo tipo di società, legate alla storia del mondo occidentale che gli uomini hanno la libertà individuale necessaria perché emerga il fenomeno della moda.
A questo proposito, è possibile menzionare alcuni fattori che hanno portato a periodi di intenso sviluppo delle mode proprio perché correlati a condizioni di vita più libere. Le città sono state, e sono tuttora, l'ambiente ideale per la comparsa di mode. I centri più ricchi e commercialmente più attivi garantiscono le risorse economiche necessarie per sostenere il mercato della moda e sono luoghi in cui la varietà degli stimoli dovuta all'incontro di culture diverse porta ad una relativizzazione dei costumi locali. Questi fattori spingono i cittadini più abbienti a volersi differenziare dagli altri, anche sperimentando nuove forme di acconciature e di abbigliamento. Un altro ambiente fertile per la nascita di mode, talvolta in concomitanza con un contesto urbano, come per esempio nei casi di Firenze e Venezia, è quello delle corti rinascimentali. In particolare, sono le cortigiane ad aver determinato un forte fermento delle mode in questi ambienti, puntando sulla bellezza e la raffinatezza dei propri atteggiamenti per garantirsi la considerazione della nobildonna o del nobiluomo di turno32.
Un evento di particolare rilievo per la nascita della moda è l'abolizione delle leggi suntuarie nel XVIII secolo33. Queste prescrivevano alle varie classi sociali quali tessuti o colori potessero indossare, oltre a dare particolari indicazioni per le donne sposate e per le prostitute. Già nel medioevo gli abiti si differenziavano sulla base della classe sociale
30 Cfr. M. Baldini, Semiotica della moda, cit., p. 9.
31 Cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., p. 28. Nel discorso sulla moda il rapporto dialettico tra l'espressione della propria individualità e la contemporanea appartenenza ad un gruppo/classe sociale è fondamentale. Su questo punto sono concordi Simmel, Lipovetsky e Monneyron. La moda è un fenomeno legato all'avvento delle società moderne perché legato a società in cui il massimo valore è attribuito all'individuo e alla manifestazione della propria individualità. La moda infatti concede al singolo la libertà di seguirla o meno (cfr. Frédéric Monneyron, Sociologia della moda (2006), trad. it. di Gianluca Valle, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 10-11).
32 Cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., pp. 30-33.
33 «Suntuario» deriva dal latino sumptus (spesa); le leggi suntuarie sono «leggi intese a limitare le spese voluttuarie e di lusso» (cfr. AA.VV., Suntuario, in: AA.VV., Enciclopedi Treccani online (consultata il 01/02/2015)).

di appartenenza, e la nobiltà e il clero esprimevano il loro status e i rapporti sociali anche tramite gli abiti, così come all'interno del terzo stato si potevano distinguere forme di abbigliamento legate ai diversi mestieri. Secondo il sociologo Monneyron, un passaggio storico fondamentale è stato l'abolizione delle leggi suntuarie nel 1793, poiché ha marcato il passaggio da una società in cui l'abbigliamento è prettamente legato al costume ad un tipo di società che stabilisce l'importanza delle scelte individuali:
Nessuna persona dell'uno e dell'altro sesso potrà costringere un cittadino a vestirsi in modo particolare, senza essere considerata e trattata come sospetta e perturbatrice dell'ordine pubblico: ciascuno è libero di portare il vestito o l'abbigliamento che conviene al proprio sesso34.
Si assiste quindi al passaggio da un abbigliamento regolato esclusivamente dalla sfera pubblica al riconoscimento di una maggiore libertà personale nel vestire.
Seguendo queste coordinate la moda è evoluta storicamente avvicinandosi sempre più ad essere quel fenomeno che conosciamo noi oggi. Nel XIX secolo la moda ha raggiunto una visibilità così elevata in vari ambiti della società da spingere molti sociologi ad interessarsi ad essa, cercando di descriverne le dinamiche in relazione alle condizioni di vita dell'epoca35. È il secolo delle macchine da cucire, dei grandi magazzini e delle riviste di moda, tre innovazioni che hanno inciso profondamente sulla crescita del fenomeno della moda, apportando cambiamenti significativi nell'ambito dei mezzi di produzione, nelle modalità di commercializzazione e nella cultura: tre aspetti strettamente connessi36.
Il secolo in cui si assiste al massimo sviluppo della moda è però il XX: periodo in cui questo fenomeno arriva ad inglobare molti aspetti della vita quotidiana, mutando anche alcune delle caratteristiche che aveva avuto nei secoli precedenti. A quella che era prevalentemente una moda di classe, riguardante il continuo tentativo della nobiltà di distinguersi dalle masse, segue una moda sempre più regolata dai cambiamenti economici, dapprima come strumento di affermazione sociale della classe media e, successivamente, adottato anche come elemento di distinzione dai gruppi di controcultura giovanile. L'ultimo grande mutamento, come tanti altri riguardanti le
34 Decreto dell'8 brumaio dell'anno II (29 ottobre 1793) (citato in F. Monneyron, Sociologia della moda, cit., p. 14).
35 Cfr. infra, cap. 2, par. 1.
36 Cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., pp. 13-14.

forme di vita associata, è iniziato nella seconda metà del XX secolo con la diffusione della televisione e poi dei media digitali, alla quale sono correlati molti cambiamenti legati alla sempre più pervasiva presenza di immagini nella vita quotidiana.
Baldini distingue tre processi caratteristici della moda del XX secolo che possono essere emblematici dei valori che dominano alcuni periodi storici: il passaggio dalla maturità alla giovinezza, quello dalla malattia alla salute, e quello dall'eleganza alla seduzione37. Il primo processo investe molti aspetti della società novecentesca e trova nella moda uno dei campi di espressione. L'ideale che guida le scelte di abbigliamento, le acconciature, ecc., non è più la maturità – la quale è sempre stato un valore in molte società, qualcosa a cui aspirare, una condizione rispettata – bensì la giovinezza, la permanenza di un aspetto fanciullesco. Un tempo le figlie volevano assomigliare alle madri, ora è il contrario e si segue uno stile che pretende mostrare che è possibile fare le proprie scelte indipendentemente dalle convenzioni sociali e dall'età. Il secondo processo riguarda il passaggio dall'ideale “maledetto” e malaticcio in voga nell'Ottocento alla valorizzazione di un aspetto salutare e sano. Questo cambiamento deve molto all'influenza di Coco Chanel negli anni '20 ed è stato in seguito un valore sempre presente, portando a porre l'accento sempre più fermamente sulla perfezione del corpo modellato dallo sport e senza difetti. Infine, il terzo processo vede l'affermarsi della seduzione al posto dell'eleganza, in particolare per quanto riguarda la donna. Anche questo è un cambiamento che riguarda molti altri aspetti della società, legato ad un generale indebolimento dei tabù sessuali, ma ha interessato in particolare la moda perché essa offre molti elementi attraverso i quali è possibile esprimere il rapporto con il proprio corpo.
È questo tipo di processi storici ad aver suscitato le domande che hanno permesso il costituirsi di un campo di studi che ha la moda come proprio oggetto: esistono delle dinamiche tipiche della moda? Che cosa causa i cambiamenti della moda? Come si diffondono le mode? Attualmente la moda appare come un fenomeno incontenibile che sembra regolare tutti gli aspetti della quotidianità, le scelte estetiche e non. È un fenomeno dalle molte sfaccettature difficile da illuminare, che però merita una
37 Cfr. M. Baldini, Semiotica della moda, cit., pp. 14-16.

riflessione approfondita poiché, in quanto prodotto della società e della cultura, ci mostra aspetti importanti della condizione di vita nel presente.
4. Lo studio della moda
Nel passato e oggi la moda è stata ed è spesso oggetto di scritti, articoli di giornale e libri di sociologi, filosofi, scrittori e poeti, letterati, giornalisti, uomini di chiesa, economisti, storici e stilisti. Il percorso per guadagnarsi il diritto ad essere inclusa fra gli oggetti degli studi accademici, però, non è stato facile. Tuttora permane un pregiudizio di frivolezza nei confronti del tema, ed in passato vi sono state anche aspre critiche per questo fenomeno, in particolare da parte del mondo religioso e filosofico. Ma vi sono stati anche molti scrittori che hanno dedicato al tema della moda pagine in cui hanno mostrato la sua importanza come manifestazione estetica e sociale.
Da una prospettiva religiosa, teologi e moralisti hanno avversato la moda perché era considerata come una manifestazione dei vizi dell'anima umana: lussuria, vanità e superbia. Ad esempio, nel XVII secolo Giuseppe Passi scrive che le acconciature sono
«nidi di superbia» e «stendardi di lussuria»38, e un celebre proverbio italiano dice che «il diavolo è sempre vestito all'ultima moda». Anche i filosofi hanno spesso mostrato un atteggiamento ostile alla moda. Jean-Jaques Rousseau nel Discours sur les sciences et les arts (1750) critica la moda, in particolare il lusso, perché condurrebbero alla corruzione della morale39. E Kant, nell'Antropologia pragmatica, afferma che la moda non è altro che una forma di vanità e di follia40.
Il tema ha interessato però anche scrittori e letterati che hanno mostrato di avere una concezione più positiva della moda e dell'abbigliamento. Sono emblematiche le parole di Anatole France:
Se mi fosse concesso di scegliere tra la moltitudine di libri che saranno pubblicati cent'anni dopo la mia morte, sapete quali chiederei? No, non è un romanzo l'eletto di questa futura biblioteca, né un libro di storia che, se ha qualche interesse, è ancora un romanzo. Semplicemente, amico mio, domanderei una rivista di moda, per vedere come
38 Giuseppe Passi, I donneschi difetti (citato in M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., p. 26).
39 Cfr. Y. Kawamura, La moda, cit., p. 15.
40 Cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., p. 43.

vestiranno le donne un secolo dopo la mia dipartita. E quei veli saprebbero dirmi sull'umanità futura più che tutti i filosofi, i romanzieri, i predicatori, i sapienti41.
Sono proprio le riviste di moda a sancire pubblicamente l'esistenza di un diffuso interesse per la moda e a dare avvio ad una vasta produzione scritta sul tema. Tra le più famose vi erano il Journal des dames et des modes e La mode che, fondata nel 1829, consigliava alle lettrici di non essere passive recettrici delle mode lanciate da altri, ma di anticipare la moda e manifestare tramite gli abiti il proprio stile e la propria eleganza42. Questa rivista acquistò molto prestigio e ospitò i lavori di scrittori e disegnatori famosi, come ad esempio Balzac che pubblicò in questa sede il Traité de la vie élégante. Anche le riviste specializzate in letteratura, come il Journal de la vie littéraire, contenevano molti scritti sulla moda: descrizioni di abiti ma anche considerazioni sulle professioni del mondo della moda. Vi è stato anche il caso interessante di una rivista di moda diretta per un periodo dal poeta Mallarmé, La dernière mode, sui cui scrisse anche Émile Zola. La peculiarità di queste riviste fu l'interesse rivolto alla moda tenendo in considerazione non solo il punto di vista dell'arte ma anche quello dell'industria, e l'inclusione di articoli riguardanti sport, cronaca, gastronomia e decorazione, temi che dimostrano come la moda fosse già intesa come un fenomeno dalla portata molto ampia.
Accanto alle riviste, nel XIX secolo sono comparsi anche le prime monografie e i primi studi di tipo accademico43. George Brummel nel Book of Fashion (1835) si occupa di teoria dell'eleganza vestimentaria della donna e, soprattutto, dell'uomo, fornendo le regole di base che permettono al dandy di dominare l'eleganza44. Il testo riceve critiche ma anche approvazioni: Thomas Carlyle (1795-1881) afferma che Brummel rivela la povertà spirituale della società a loro contemporanea, mentre Balzac si basa sulle sue idee per sviluppare nel 1830 il già citato Traité de la vie élégante. Balzac cerca di formulare anche una visione sociologica della moda, suggerendo che il passaggio dall'ancien régime all'epoca moderna segna anche il passaggio dal lusso all'eleganza. Dopo questa transizione il vestito non manifesta più le differenze di classe, come l'appartenenza
41 Citato in M. Baldini, Semiotica della moda, cit., p. 11.
42 Cfr. F. Monneyron, Sociologia della moda, cit., pp. 14-16.
43 Per i primi testi di sociologia dedicati alla moda, cfr. infra, cap. 2, par. 1.
44 Cfr. F. Monneyron, Sociologia della moda, cit., pp. 17-18.

all'aristocrazia, ma le differenze socioculturali: «il bruto si copre, il ricco o lo sciocco si agghinda, l'uomo elegante si veste»45.
Sull'eleganza maschile, e in particolare sulla figura del dandy, si pronuncia anche Baudelaire in Le peintre de la vie moderne (1863-69). Egli cerca di contrastare l'immagine stereotipata del dandy affermando che l'eleganza nei modi e vestiti non sono per il dandy la cosa fondamentale bensì la manifestazione esteriore del suo essere aristocratico. Al di là delle riflessioni sulla bellezza e l'eleganza esteriore che riflettono la nobiltà di spirito del dandy, è interessante notare il valore sociologico e filosofico attribuito al dandismo, il quale è considerato un'importante espressione di ribellione sociale e di forza morale, poiché con la loro eleganza e semplicità i dandy devono essere in grado di dissimulare sempre la propria sofferenza. In questo senso per Baudelaire il dandismo «confina con lo spiritualismo e lo stoicismo»46.
In Italia, Giacomo Leopardi rende la moda protagonista di una sua opera, il Dialogo della moda e della morte (1824), in cui le due interlocutrici sono sorelle, poiché entrambe figlie di Caducità47 e fanno soffrire le persone. Così afferma infatti la Moda:
«generalmente parlando, io persuado e costringo tutti gli uomini gentili a sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi, e spesso dolori e strazi, e qualcuno a morire gloriosamente, per l'amore che mi portano»48. Secondo Leopardi, la “colpa” principale della moda è proprio quella di aver portato a dimenticare i buoni costumi degli antichi 49, ma in un'opera dello stesso anno, il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani (1824), egli afferma che non tutto è perduto. Infatti, nel contesto di una generale corruzione dei valori morali, in Paesi come Francia, Inghilterra e Germania si è affermata una forma di convivenza sociale che Leopardi chiama «società stretta», in cui:
gli uomini politi di quelle nazioni si vergognano di fare il male come di comparire in una conversazione con una macchia sul vestito o con un panno logoro o lacero; si muovono a fare il bene per la stessa causa e con niente maggiore impulso e sentimento che a studiar esattamente ed eseguir le mode, a cercar di brillare cogli abbigliamenti, cogli equipaggi, coi mobili, cogli apparati: il lusso e la virtù o la giustizia hanno tra loro lo stesso principio,
45 Honoré De Balzac, Traité de la vie élégante (citato in F. Monneyron, Sociologia della moda, cit., p. 23).
46 Charles Baudelaire, Le peintre de la vie moderne (citato in F. Monneyron, Sociologia della moda, cit., p. 21).
47 Cfr. Giacomo Leopardi, Dialogo della moda e della morte, in: Operette morali (1824), introduzione e note di Saverio Orlando, BUR, Milano 1994, edizione elettronica Liber Liber. pp. 35-36.
48 Ivi, p. 37.
49 Cfr. ivi, p. 38.

non solo rimotamente parlando, il che è da per tutto e fu quasi sempre, ma parlando immediatamente e particolarmente50.
Un siffatto tipo di società, in cui il bon ton («buon tuono») e l'opinione pubblica sono i fondamento dei buoni costumi, non è certo da lodare, ma secondo Leopardi è sempre meglio della condizione italiana, in cui dominano la diversità d'opinioni e l'individualismo, i quali non possono certo essere utili alla creazione di una morale condivisa.
Nel XIX secolo la moda è ormai riconosciuta come un fenomeno sociale a tutti gli effetti e vengono colte anche alcune delle implicazioni più intime del rapporto tra l'aspetto esteriore e la condizione esistenziale degli uomini. A partire da questo momento la moda sarà studiata da prospettive differenti e i prossimi capitoli del presente lavoro sono dedicati a mostrare la specificità della conoscenza apportata da ciascuna disciplina che si è occupata della moda. Prima di fare ciò è però opportuno che mi occupi di un aspetto che è trasversale a tutti gli studi disciplinari poiché riguarda la dimensione intersoggettiva e collettiva della moda, ossia le condizioni e le modalità della sua diffusione.
5. Teorie di diffusione della moda
Dal '700 in poi e in particolare nell'ambito della sociologia sono state sviluppate riflessioni sulla diffusione della moda all'interno delle società.
Trickle down
La teoria del trickle down effect, o “gocciolamento verso il basso”, detta anche Troepfelmodell, conosce grande fortuna soprattutto nel XIX secolo51. Secondo questo modello la moda si diffonde seguendo un movimento verticale a partire dalle classi sociali più elevate verso quelle inferiori, dal vertice della piramide sociale alla base. Ciò significa che gli unici individui capaci di creare mode appartengono alle classi agiate, che l'innovazione si genera solo negli strati più alti della società, e che coloro che
50 Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani (1824), in: Tutte le opere, a cura di Walter Binni, Sansoni, Firenze 1969, edizione elettronica Liber Liber, pp. 6-7.
51 Cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., pp. 50-56.

appartengono alle classi inferiori sono solo riceventi passivi, ai quali la moda giunge per “gocciolamento”.
Questo tipo di dinamica riflette una concezione della società legata in particolar modo alla competitività sociale, la quale si manifesta tramite la moda nei processi di imitazione e distinzione, due movimenti che si configurano come il motore del fenomeno moda. La possibilità di differenziazione fra le classi che la moda garantisce è allo stesso tempo anche un fattore di assimilazione e riconoscimento all'interno delle classi agiate, i cui membri si differenziano tutti nello stesso modo rispetto alle classi inferiori. Un presupposto implicito di questa teoria è che la società sia simile a quella ottocentesca descritta da Georg Simmel in Die Mode (1895-1911), strutturata in classi sociali, o che vi sia la possibilità di un'alta mobilità sociale in una società stratificata in base a differenti status sociali, come quella americana in cui viveva Thorstein Veblen (1857-1929)52.
Il modello trickle down è stato descritto da sociologi come Simmel, Veblen, Gabriel Tarde (1843-1904) e Herbert Spencer (1820-1903)53, ma esso compare anche in testi filosofici come il commento a La favola delle api (1714) di Bernard de Mandeville, in cui l'autore sostiene che tutti sono portati a osservare e cercare di copiare i comportamenti di coloro che stanno al di sopra e che la moda nasce proprio dal tentativo di emulare l'abbigliamento di corte e delle classi più elevate, che a loro volta, quando si sentono imitate, inventano subito qualcosa di diverso e nuovo54. Anche Kant nell'Antropologia pragmatica (1798) descrive questo processo di imitazione dello stile, affermando che «è una tendenza naturale dell'essere umano quella di paragonarsi, nel proprio contegno, a qualcuno che sia più importante di lui (il bambino all'adulto, l'inferiore al superiore), e imitarne i modi di fare»55.
Secondo il sociologo Tarde l'imitazione è il principale motore sociale, non solo a proposito della moda. I processi di imitazione avvengono sempre in una direzione, da

52 Cfr. Giorgia Mavica, Processi di inclusione ed esclusione sociale attraverso la moda, Tesi di dottorato, Università di Catania, Catania 2010, pp. 23-24.
53 Cfr. infra, cap. 2, par. 1.
54 Cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., pp. 50-51.
55 Immanuel Kant, Antropologia pragmatica (1797), trad. it. di Mauro Bertani e Gianluca Garelli, Einaudi, Torino 2010, p. 134. Si trovano accenni a questo modello, sebbene non ancora formalizzato, anche nei testi di Pietro Verri e Melchiorre Gioia (cfr. infra, cap. 3, par. 4).

parte delle masse nei confronti delle classi dominanti, e nel corso dei secoli sono infatti stati imitati «i re, la corte e le classi superiori nella misura in cui esse [le masse] hanno accettato il loro dominio», è così che la moda si diffonde per «propagazione imitativa dall'alto versi il basso»56. L'imitazione avviene più facilmente quando le distanze tra le classi sociali non sono molto ampie, ossia quando il potere delle classi superiori si indebolisce e sono possibili dei processi di democratizzazione, i quali dunque si manifestano non solo sul piano politico ma anche attraverso la cultura e l'estetica.
Anche Simmel prospetta un quadro simile. Le mode per lui sono sempre e solo mode di classe, e sempre mode prodotte dalla classe elevata e poi copiate da altri. Si tratta di un processo continuo di imitazione e distinzione: «non appena le classi inferiori cominciano ad appropriarsene superando i confini imposti dalle classi superiori e spezzando l'unità della loro reciproca appartenenza così simbolizzata, le classi superiori si volgono da questa moda ad un'altra, con la quale si differenziano nuovamente dalle grandi masse e il gioco può ricominciare»57.
Secondo Blumer, invece, le teorie di Simmel e degli altri sociologi classici sono limitate, poiché ritiene che le classi agiate non possano compiere scelte di moda in maniera completamente libera: la moda è un processo dotato di una certa continuità storica poiché essendo un prodotto umano ha necessariamente una natura temporale. Ogni nuova moda è quindi in relazione con quelle precedenti. Ciò che le élite fanno avviene all'interno del «continuo processo della moda» ma senza che queste se ne preoccupino o agiscano in maniera premeditata. Blumer parla infatti di modello di selezione collettiva: «lo stile deve corrispondere alla direzione del gusto incipiente del pubblico consumatore di moda»58. Scrivendo oltre cinquant'anni più tardi, Blumer ha una prospettiva diversa che gli permette di criticare la teoria classica del gocciolamento alla luce dei cambiamenti avvenuti nella società del secondo dopoguerra. La diffusione della moda non è legata solamente al desiderio di differenziazione o imitazione tra classi sociali; questi movimenti non possono più essere considerati come centrali nella strutturazione del fenomeno moda poiché le società contemporanee sono ben più
56 Gabriel Tarde, Scritti sociologici (citato in M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., p. 52).
57 G. Simmel, La moda, cit., p. 20.
58 H. Blumer, Fashion: From Class Differentiation to Collective Selection (citato in Y. Kawamura, La moda, cit., p. 48).

complesse e non presentano una stratificazione in classi sociali definite, e pertanto la competitività sociale non può avere un ruolo fondamentale come avveniva in passato59.
Blumer non è l'unico a criticare il modello trickle down, altri autori si rendono conto dei limiti della teoria di Simmel e Veblen perché la società è cambiata e le dinamiche sociali non possono più corrispondere a quelle di una società divisa in classi. Nelle società del Novecento, da quella post-industriale fino alle più contemporanee, non è più così semplice determinare pattern di diffusione:
una volta, nei tempi felici in cui la borghesia era la Borghesia e la moda era la Moda, vigeva il modello a goccia. Gli usi, i costumi, l'etichetta, i capricci sgorgavano solo in quel vertice ristretto della piramide sociale dove imperava l'agiatezza dissipatrice e, con la lentezza ma con la costanza dell'acqua che cala nella terra, essi si diffondevano via via in basso, dagli aristocratici sopravvissuti [...] ai grandi borghesi, e poi giù ai ceti professionali, agli impiegati, fino alle sartine e ai garzoni60.
Questo modello è però insufficiente a spiegare alcune delle dinamiche della moda.
Trickle up
Più o meno a partire da The psychology of clothes (1930) di John Carl Flügel si è cominciato a parlare di teoria trickle up, detta anche bottom up, o percolating up. Flügel integra la teoria del trickle down aggiungendo tre considerazioni: (i) la competitività sociale non è sufficiente a spiegare la diffusione della moda, ma è fondamentale anche la competitività sessuale; (ii) “l'aristocrazia della moda” non è più formata solo dalle classi più elevate poiché importanti influenze vengono anche dalla classe media, o da altri gruppi sociali influenti, come per esempio il mondo dello sport o dello spettacolo (una tendenza che si è sempre più accentuata fino ai giorni nostri); (iii) la direzione di diffusione delle tendenze di moda può andare dall'altro verso il basso ma anche in direzione opposta61.
Blumer offre una prospettiva ancora più aggiornata di quella di Flügel, criticando le teorie della moda basate su una concezione della società legata alle distinzioni di classe e proponendo riflessioni che sorgono anche dalla sua partecipazione diretta agli eventi di moda parigini, durante i quali egli osserva come i redattori delle riviste specializzate, i buyers e i consumatori in genere giochino un ruolo fondamentale nell'influenzare la
59 Cfr. G. Mavica, Processi di inclusione ed esclusione sociale attraverso la moda, cit., pp. 30-31.
60 U. Volli, Contro la moda, cit., p. 103.
61 Cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., pp. 56-57.

direzione dello stile e della moda62. Un discorso simile è valido anche oggi, vista la sempre maggiore influenza di trend setter e fashion blogger, figure che non necessariamente appartengono ai gruppi più abbienti della società.
Altri sostenitori della teoria trickle up contemporanei di Blumer sono Paul Blumberg, in The Decline and the Fall of the Status Symbols: some Thoughts on Status in a Post-Industrial Society (1974), e George A. Field, in The Status Float Phenomenon. The upward Diffusion of Innovation (1970). Entrambi propongono revisioni della teoria classica di diffusione della moda sulla base dei profondi cambiamenti che hanno portato al formarsi della moderna società post-industriale. In particolare, secondo Blumberg i beni e status symbol dei ricchi sono talmente al di là delle possibilità della classe media da non essere nemmeno considerati oggetti di desiderio ma solo di battute di spirito. L'autore aggiunge inoltre che molte delle mode lanciate negli anni '60 e '70 hanno avuto origine nei gruppi di controcultura giovanili, diffondendosi poi secondo un pattern verticale verso l'alto della società63.
Trickle across
Un terzo modello di diffusione è il trickle across, conosciuto anche come diffusione a virulenza o teoria del contagio. I sostenitori di questo modello rifiutano le interpretazioni che vedono nella moda dei movimenti verticali, sostenendo invece che essa si diffonda in orizzontale o a raggiera, potendo originare in vari contesti o gruppi sociali. In Macht und Reiz der Mode (1971), il sociologo René König afferma che sono le classi medie a svolgere il ruolo di innovatori nel campo della moda, mentre Fred Davis, in Fashion, Culture and Identity (1992)64, sostiene che vi siano «sacche di leadership» ad ogni livello della società e in ogni subcultura. Altri sostenitori di questa teoria sono Charles W. King, in Fashion Adoption: a Rebuttal to the “trickle down” theory (1963), il quale sostiene che i cambiamenti della moda si originano all'interno di ogni strato sociale e si diffondono secondo un pattern orizzontale. In Italia tale modello è stato sostenuto da Francesco Alberoni e Giampaolo Fabris, i quali propongono un'analisi dei consumi nella società contemporanea che li porta ad allontanarsi dalle teorie di Simmel e Veblen. I beni
62 Cfr. Y. Kawamura, La moda, cit., p. 48.
63 Cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., p. 57.
64 F. Davis, Moda, cultura, identità, linguaggio, cit.

soggetti alle mode non si distinguono più tra beni per i ricchi o per i poveri, sono beni di largo consumo, ossia rivolti alla maggior parte della popolazione. In Consumi e società (1964) Alberoni sostiene che molti dei beni non rappresentano uno status sociale ma piuttosto l'appartenenza al sistema, alla società dei consumi. E Gianpaolo Fabris, in Il comportamento del consumatore (1970), sottolinea come le tendenze negli acquisti siano determinate all'interno dei gruppi sociali dall'influenza di persone vicine – ogni gruppo sociale ha i suoi consumer leader – e la classe che più tende ad anticipare le mode o le abitudini nei consumi è quella media65.
Una questione fondamentale nello studio della diffusione e creazione di nuove mode è quella della passività/attività degli attori sociali. Nella teoria di Simmel e Veblen, le classi alte sono le uniche attive nella produzione di novità, mentre le classi inferiori non fanno altro che copiare ciò che osservano o viene loro “imposto” dall'alto. Tale aspetto è ribadito anche nelle versioni più contemporanee della trickle down theory, riabilitata dai cosiddetti neo-simmelvebleniani tra cui vi sono Gerardo Ragone, Baudrillard, Lloyd Fallers e Nicola Squicciarino66. Questi autori pongono un forte accento sul fatto che i consumatori in epoca contemporanea sono estremamente passivi e completamente soggiogati al controllo del sistema industriale e mediatico – quindi sottostanno alle scelte di un gruppo/classe dominante – sono considerati dei compratori “marionette”. Il nuovo modello viene infatti chiamato “modello delle marionette” o “trickle down effect perfezionato”. I consumatori sono inconsapevoli e quasi “narcotizzati” dalla pubblicità, controllati dal sistema economico come se fossero delle marionette67.
Secondo questo modello la moda illude i consumatori – soprattutto coloro che appartengono alle fasce sociali più basse – di poter veramente cambiare il proprio status sociale, mentre in realtà per la maggior parte questo «successo differenziale» non è realmente possibile68. Per Baudrillard la moda crea un'illusione di eguaglianza: «è una
65 Cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., pp. 60-62.
66 Cfr. ivi, pp. 62-65.
67 In opposizione a ciò, è interessante notare come in anni recenti si assiste a iniziative volte a spingere i consumatori alla consapevolezza negli acquisiti e al “consumo critico”, tramite riviste o campagne informative, normative sui contenuti dei prodotti, sui modi e luoghi di produzione, ecc.
68 Lloyd A. Fallers, A note on the “Trickle Effect” (citato in M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., p. 63).

delle istituzioni che meglio ricostruisce e fonda, facendo le viste di abolirla, l'ineguaglianza culturale e la discriminazione sociale»69.
Tra i neo-simmelvebleiani anche Grant McCracken, in The Trickle Down Theory Rehabilitated (1985), propone alcune modifiche che andrebbero apportate alle teorie classiche per poter essere utilizzate ancora oggi: la distinzione della società in classi sociali non è più uno schema valido, è preferibile invece parlare di gruppi determinati dall'età, dal sesso, dall'etnia, ecc. E nel considerare i pattern di diffusione della moda bisogna tenere in considerazione che i gruppi prendono da altri gruppi solamente alcuni capi d'abbigliamento o stili, non un modo di abbigliarsi in toto. McCracken fa l'esempio delle donne in carriera che per ottenere più autorevolezza nel mondo del lavoro – ambito nel quale partono svantaggiate rispetto agli uomini – acquisiscono elementi dello stile che caratterizza l'abbigliamento maschile del manager, uno stile che simboleggia autorità e successo70.
I vari modelli che nel tempo sono stati proposti per spiegare la diffusione della moda tengono conto, quale più quale meno, di numerosi fattori sociali, economici, psicologici, politici, culturali, estetici, ecc. Anche la filosofia può dire qualcosa a questo proposito. Si è visto come Baudelaire abbia avvicinato filosofia e moda, ritenendo che la relazione fra l'aspetto esteriore e la condizione d'animo di un uomo possa essere espressione di un atteggiamento stoico. E una trentina di anni più tardi la contessa Marie de Villermont, nella Histoire de la coiffure féminine (1891), scrive che «il filosofo che si desse la pena di penetrare a fondo le cause, non tarderebbe a constatate che le mode sono così intimamente legate con lo spirito umano che ne sono come il riflesso»71. Il presente lavoro vuole interrogare alcune delle possibili relazioni fra filosofia e moda, ma per capire meglio il valore del contributo che la filosofia può dare allo studio di questo fenomeno è opportuno approfondire i risultati della ricerca svolta nell'ambito di due altre discipline: la sociologia e la semiotica.

69 Jean Baudrillard, Per una critica della economia politica del segno (1972), trad. it. di Mario Spinella, Mazzotta, Milano 1978, p. 36.
70 Cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., pp. 66-67. Anche Simmel mette in relazione certi tipi di abbigliamento con il ruolo svolto nella società: ad esempio, l'impossibilità di affermarsi socialmente grazie alle loro caratteristiche porta le donne a mostrare il proprio valore tramite la cura dell'abbigliamento (cfr. G. Simmel, La moda, cit., p. 41).
71 Marie De Villermont, Histoire de la coiffure féminine (citato in M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., p. 44).

Capitolo 2
Sociologia, semiotica e fashion studies
Come si vedrà nel corso del presente lavoro, il campo di studi della moda è estremamente variegato, poiché si occupa di un fenomeno reale e mutevole che deve essere considerato in tutta la sua complessità e vitalità: è un fenomeno sociale, quindi prodotto ma anche produttore di dinamiche e rapporti sociali; è un fenomeno linguistico, o meglio un linguaggio non-verbale, un mezzo di comunicazione tramite il quale quotidianamente si costruisce e si manifesta la propria identità; ed è anche un fenomeno culturale che riguarda questioni di genere, la sessualità e i rapporti di potere.
Nel primo capitolo ho tratteggiato una breve storia della moda, per mostrare come essa sia caratteristica delle società aperte e come siano stati formulati dei modelli per descriverne i pattern di diffusione, modelli che però oggi sembrano ormai riduttivi, dato il cambiamento avvenuto negli ultimi decenni circa le modalità di circolazione e diffusione della moda, ma data anche la possibilità di tutti a partecipare alla creazione della moda. Il presente capitolo, invece, vuole essere una panoramica sulle competenze disciplinari che sono state messe in gioco per studiare la moda, a partire dal suo costituirsi come oggetto di ricerca specifico fino ai più recenti approcci interdisciplinari.
1. Sociologia della moda
Verso la fine dell'Ottocento sono stati pubblicati alcuni importanti saggi nell'ambito della sociologia sul tema della moda. I sociologi di quel periodo hanno cominciato a studiare la moda in modo più sistematico rispetto al passato, come fenomeno che coinvolge la collettività sociale, e il carattere che le attribuiscono più frequentemente è quello di essere il campo in cui si manifestano dinamiche di imitazione e distinzione.
Gli studi della sociologia classica sono imprescindibili nell'approcciarsi al fenomeno della moda, perché le loro osservazioni verranno riprese, criticate e ampliate in numerosi studi successivi, anche al di fuori dell'ambito propriamente sociologico. Tra i lavori più importanti e conosciuti vi è Die Mode di Georg Simmel (1858-1918), frutto di un

quindicennio di riflessioni dell'autore. Inizialmente pubblicato come contributo nella rivista Die Zeit con il titolo Zur Psychologie der Mode. Soziologische Studie nel 1895, è poi diventato un libro, pubblicato nel 1911 con il titolo Philosophie der Mode2.
György Lukács – allievo di Simmel – lo definisce uno dei contributi più brillanti del sociologo, un'analisi acuta del fenomeno moda e delle dinamiche sociali ad esso legate, che non si lascia sfuggire il carattere di indefinitezza di ogni fenomeno reale, della totalità della vita, difficilmente racchiudibile entro forme statiche o categorie astratte3. Infatti, più che una sostanza del fenomeno, Simmel cerca la funzione della moda e si chiede quale ruolo abbia nell'ambito dei rapporti sociali. La sua tesi è che essa contribuisca «in un processo di reciprocità a quell'articolarsi della società in classi, ceti, cerchie e professioni di cui è allo stesso tempo conseguenza»4.
Alla base di questi processi sociali legati al fenomeno moda vi è una dialettica fondamentale fra una volontà di imitazione e un desiderio di distinzione, se mancano queste due tendenze non si assiste alla nascita e alla diffusione della moda. Questa dialettica riguarda i tentativi di inclusione, ossia di appartenenza, e di esclusione da una classe sociale, da un gruppo o da parte di esso. Secondo Simmel «le mode sono sempre mode di classe»: l'imitazione e la moda favoriscono la coesione all'interno del gruppo sociale di riferimento, mostrando allo stesso tempo la separazione di quel gruppo dagli altri. La dialettica imitazione/distinzione è fondamentale per Simmel poiché, sebbene il fenomeno moda possa sembrare maggiormente legato all'imitazione di un modello, la diversità è fondamentale per la sua esistenza, infatti l'uniformità generalizzata nell'abbigliamento segnerebbe la fine della moda. Quindi, creando unità in un gruppo la moda ha allo stesso tempo anche la funzione di separare alcuni individui da altri, e viceversa, separando dagli altri, unifica.
L'essenza della moda consiste nell'appartenere sempre e soltanto a una parte del gruppo mentre tutto il gruppo è già avviato verso di essa. Non appena si è completamente diffusa, non appena cioè tutti, senza eccezione, fanno ciò che originariamente facevano solo alcuni, come avviene per alcuni elementi dell'abbigliamento e per alcune forme di convenienza sociale, non la si definisce più moda. Ogni crescita la conduce alla morte perché elimina la diversità. La moda appartiene perciò a quel tipo di fenomeni che
2 Cfr. Lucio Perucchi, Simmel e la moda, in: G. Simmel, La moda, cit., pp. 73-74.
3 Cfr. György Lukács, George Simmel, in: G. Simmel, La moda, cit., pp. 61-69.
4 L. Perucchi, Simmel e la moda, cit., p. 75.

tendono a un'estensione illimitata e una realizzazione perfetta, ma che con il conseguimento di questa meta assoluta si contraddirebbero distruggendosi da sé5.
Nella società tale processo si realizza poiché le classi inferiori tendono sempre all'emulazione di quelle superiori e modificare il proprio aspetto esteriore è la via più immediata, accessibile e visibile per fare ciò. La moda è quindi una sorta di capitale simbolico tramite cui la classe agiata manifesta il suo status e si differenzia da quelle inferiori. Quando però queste ultime si appropriano di tali simboli le classi agiate devono nuovamente differenziarsi tramite la produzione di nuovi simboli, poiché quelli vecchi hanno perso il proprio valore.
L'importanza del lavoro di Simmel sta nell'aver colto la natura dialettica della moda, la quale vive delle pulsioni di imitazione e distinzione che determinano i rapporti fra le classi sociali. Oltre a questo aspetto, però, Simmel mette in evidenza una seconda dialettica altrettanto fondamentale per il fenomeno moda: quella individualità/collettività; da un lato, infatti, la moda soddisfa i bisogni di appartenenza sociale, quindi di accettazione, ma allo stesso tempo permette l'espressione della propria individualità6. Ognuno compie le proprie scelte cercando di trovare ciò che gli permette di essere unico e distinguersi dagli altri, ma tali scelte sono comunque guidate in parte da un processo di obbedienza sociale, poiché comportamenti troppo eccentrici otterrebbero un effetto opposto per chi cerca la propria individualità: il non riconoscimento e l'emarginazione. Le due coppie dialettiche imitazione/distinzione e collettività/individualità sono due facce della stessa medaglia, un aspetto cruciale per la moda che da Simmel in poi sarà tenuto in considerazione da tutte le ricerche sul tema.
Il lavoro di Simmel è imprescindibile per qualunque studio sulla moda ma vi sono state anche altre interpretazioni sociologiche del fenomeno. Dello stesso periodo è Les lois de l'imitation (1890) di Gabriel Tarde (1843-1904), il quale concepisce la società come una somma di individui che si imitano reciprocamente o imitano dei modelli ereditati dal passato, e quindi si trovano ad avere comportamenti simili. L'imitazione è motore della vita sociale e il concetto fondamentale anche della sua sociologia della moda, non solo vestimentaria: egli considera anche i modi di fare, il linguaggio e i vizi7. Tarde elabora
5 G. Simmel, La moda, cit., pp. 26-27.
6 Cfr. ivi pp. 32-37.
7 Cfr. F. Monneyron, Sociologia della moda, cit., pp. 27-28.

delle leggi generali dei processi di imitazione e si concentra sulla loro applicazione nell'ambito del costume e della moda: il primo è un'imitazione nel tempo, o degli antenati, la seconda invece imita nello spazio; il costume tramanda modelli dal passato, la moda ci fa imitare individui contemporanei che in qualche modo spiccano, solitamente appartenenti alle classi superiori8.
Un altro classico è il capitolo dedicato alla moda in The Theory of Leisure Class (1899) di Thorstein Veblen (1857-1929), intitolato L'abbigliamento espressione della cultura finanziaria. Secondo Veblen l'abbigliamento è il mezzo privilegiato tramite il quale si manifesta immediatamente agli altri la propria condizione economica; ed è così che le classi superiori si differenziano da quelle inferiori: lo «sciupio vistoso dei beni [...] è un ottimo segno prima facie di successo finanziario, e quindi di dignità sociale»9. È per questo motivo che le spese più grandi si fanno per l'abbigliamento rispetto ad altri tipi di consumi: la moda ha una funzione ostentativa e dimostrativa10. Gli abiti non solo devono dimostrare di essere costosi ma anche di essere alla moda, delle vere «insegne dell'agiatezza» – motore della moda e dei suoi cambiamenti è sempre la legge dello
«sciupio vistoso» – e devono mostrare anche di essere scomodi, suggerendo che chi li indossa è estraneo ad ogni tipo di attività lavorativa manuale11. Ciò vale in particolare per le donne che secondo Veblen hanno il ruolo di «donne trofeo» e di «consumatrici cerimoniali», e tramite il loro abbigliamento mettono in mostra la ricchezza e il prestigio della famiglia di appartenenza, e il successo ottenuto nel lavoro dal capo famiglia12.
Le ricerche e i contributi da parte dei sociologi continuano anche in epoca contemporanea, spesso rielaborando i temi o gli approcci proposti dalla sociologia
8 Cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., p. 46; cfr. anche Y. Kawamura, La moda, cit., p. 34. Anche Herbert Spencer, in The Principles of Sociology (1876-1896), caratterizza il sistema moda come sistema basato prevalentemente sull'imitazione, e ne distingue due tipologie: reverenziale ed emulativa; il primo tipo nasce da un sentimento di reverenza nei confronti di qualcuno che si reputa più grande o migliore, il secondo invece dal desiderio di eguagliare la persona che si ammira (cfr. Giorgia Mavica, Processi di inclusione ed esclusione sociale attraverso la moda, cit., pp. 11-12).
9 Thorstein Veblen, La moda e la legge dello «sciupìo vistoso», in: M. Baldini, Semiotica della moda, cit., p. 64.
10 Cfr. G. Mavica, Processi di inclusione ed esclusione sociale attraverso la moda, cit., p. 15.
11 Cfr. T. Veblen, La moda e la legge dello «sciupìo vistoso», cit., p. 65.
12 «La scarpetta della donna aggiunge il cosiddetto tacco alla francese all'evidenza di forzata agiatezza offerta dalla sua vernice, poiché questo tacco alto rende naturalmente assai difficile anche il più semplice e necessario lavoro manuale» (ibid.); oltre ai tacchi alti comunicano qualcosa di simile anche il busto, la gonna ampia, le complicate acconciature, ma anche semplicemente l'uso di tenere i capelli eccessivamente lunghi (cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., pp. 54-56).

classica, applicandoli o criticandoli a partire dalla sempre maggiore complessità e mobilità che caratterizza le società contemporanee. Un contributo fondamentale è quello di Pierre Bourdieu, il quale in La distinction. Critique sociale du jugement (1979), inserisce la moda in un insieme di pratiche culturali molto vasto tramite le quali si esplicano rapporti sociali di identificazione e distinzione. L'importanza di questo contributo è legata anche ad un aspetto filosofico: come si può comprendere dal titolo originale dell'opera, il saggio di Bourdieu è una sorta di risposta alla Critica del giudizio kantiana, un tentativo di affermare il ruolo fondamentale che le dinamiche sociali e i conflitti di potere hanno nella formulazione dei giudizi e quindi anche nelle scelte di gusto o estetiche. Secondo il sociologo francese, infatti, la moda, così come altre pratiche legate al mondo dello sport e della musica, è un fenomeno che rende manifeste le dinamiche di appartenenza di classe e la tensione tra il possesso del capitale economico e del «capitale culturale». In sintesi, le tendenze della moda rifletterebbero simbolicamente le contrapposizioni nei rapporti di produzione:
mentre le classi popolari, concentrate su beni e virtù di prima necessità, rivendicano l'igiene e la comodità, le classi medie, già affrancatesi dall'urgenza, aspirano ad una casa calda, intima, confortevole o curata, o ad un vestito alla moda e originale. Valori che le classi privilegiate mettono in secondo piano, poiché li hanno conquistati da molto tempo e dunque sembrano loro ovvi13.
La moda, come ogni fenomeno che possiamo considerare prettamente estetico, non riguarda scelte di gusto dettate dalle preferenze individuali ma è un fenomeno «che produce e mantiene le divisioni sia tra le classi dominanti e quelle dominate, sia al loro interno. Il gusto è così [...] uno degli elementi chiave dell'identità sociale»14.
Il discorso di Bourdieu viene ripreso da Paul Yonnet (1948-2011), il quale si differenzia da questi individuando la peculiarità della moda rispetto ad altre pratiche sociali di tipo estetico, ossia il fatto che nessuno può sfuggire alla «pratica vestimentaria» e «nessuna pratica vestimentaria sfugge alle variazioni della moda»15. Al contrario di Bourdieu, per Yonnet la moda non riflette necessariamente i conflitti nei rapporti di produzione, ma è piuttosto un fenomeno correlato ad alcuni cambiamenti sociali: ad esempio, l'abbigliamento dell'inizio del XX secolo non riflette le distinzioni sociali tra

13 P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, cit, pp. 274-275.
14 Y. Kawamura, La moda, cit., p. 45.
15 Paul Yonnet, Jeux, modes et masses. La société française et le moderne (citato in F. Monneyron, Sociologia della moda, cit., p. 43)

classi ma piuttosto le differenze d'età, vi è cioè principalmente una differenziazione tra abbigliamento dei giovani e quello degli adulti16.
Al di là delle differenti interpretazioni date alle dinamiche di imitazione/distinzione, non tutti i sociologi sono d'accordo nell'assumere questi concetti come fondamento per descrivere la moda. Herbert Blumer (1900-87), nell'articolo Fashion: From Class Differentiation to Collective Selction (1969), critica le teorie che considerano la rivalità sociale (tra classi) come motore dei cambiamenti sociali, perché le ritiene obsolete in relazione alle società contemporanee. Secondo Blumer le teorie di Simmel sono valide solo per le società strutturate su classi e non per le più complesse società contemporanee 17: la moda oggi è il risultato di una selezione collettiva, non si diffonde per imitare i più influenti o potenti ma per essere al passo coi tempi o per essere trendy. «Non è il prestigio delle élite a rendere lo stile trendy ma, al contrario, sono la credibilità o la potenzialità trendy dello stile che permettono di conferirgli il prestigio dell'élite»18. E i gruppi più influenti, cioè le élite, sono tali perché sono in grado di assecondare con prontezza la direzione della moda; non è quindi da una decisione delle élite che nascono e muoiono le mode, ma sono le mode che prendono piede mandando nell'ombra quelle a loro precedenti: la moda è frutto di una selezione collettiva19.
Fra i contributi della sociologia recente, il più citato è sicuramente Fashion and its Social Agendas. Class, Gender and Identity in Clothing (2000) di Diana Crane. La sociologa
16 Cfr. F. Monneyron, Sociologia della moda, cit., pp. 46-47.
17 Cfr. Y. Kawamura, La moda, cit., pp. 47-48. Un sociologo contemporaneo che invece, pur criticandola, mantiene la base concettuale posta da Simmel è René König (1906-1992), il quale in Kleider und Leute. Zur Soziologie der Mode (1967) dice che i caratteri distintivi della moda sono proprio la «propensione all'imitazione e la voglia di distinzione». König ribadisce l'aspetto dialettico dei due concetti affermando che affinché ci si distingua, cioè affinché la distinzione venga riconosciuta come tale, il gruppo o l'individuo che vuole distinguersi deve accettare i valori dominanti: quindi integrazione ed esclusione vanno sempre di pari passo. Le critiche alle tesi di Simmel riguardano principalmente due aspetti: (1) il concetto di imitazione non viene considerato il motore che costituisce nuove relazioni sociali ma un processo che si verifica solo tra individui tra i quali vi siano già delle relazioni sociali instaurate, confermandole o rafforzandole; (2) il fatto di considerare solo le dinamiche fra classi sociali: l'imitazione avviene da parte delle masse che imitano un numero ristretto di persone, ma queste non coincidono necessariamente con le classi agiate, le élite sono persone o gruppi di persone che vengono riconosciuti come tali e imitati, come ad esempio i calciatori (cfr. F. Monneyron, Sociologia della moda, cit., pp. 50-51).
18 Herbert Blumer, Fashion: From Class Differentiation to Collective Selection (citato in Y. Kawamura, La moda, cit., p. 48).
19 Cfr. G. Mavica, Processi di inclusione ed esclusione sociale attraverso la moda, cit., pp. 30-33.

americana si propone di indagare l'abbigliamento in quanto «ambito strategico per studiare i mutamenti nel significato dei prodotti culturali in relazione ai mutamenti nelle strutture sociali, nel carattere delle organizzazioni culturali e in altre forme di cultura» 20. Tema ricorrente del suo lavoro è la costruzione di identità, che viene esplorata tenendo conto di vari fattori: le disuguaglianze di classe e genere nell'esprimere e negoziare posizioni sociali; le codificazioni simboliche e ideologiche dell'abbigliamento; la frequentazione degli spazi pubblici, sia legati al lavoro sia nel godimento del tempo libero. Inoltre, studiando le cosiddette «società frammentate» emergono nuove categorie da tenere in considerazione, cioè la varietà degli stili di vita, le relazioni fra processi creativi e produttivi, nonché il ruolo dei media21. Nelle società contemporanee:
la frammentazione del pubblico all'interno e trasversalmente alle classi sociali, in combinazione con i mutamenti nel carattere delle organizzazioni della moda [...] ha portato allo sviluppo di tre distinte categorie di moda: quella firmata di lusso, quella industriale e gli stili di strada. […] L'importanza relativa di queste tre categorie varia nei diversi paesi a seconda della natura delle organizzazioni della moda e dei loro rapporti con i consumatori22.
Due attori sociali diventano fondamentali per capire la moda al giorno d'oggi: le grandi aziende e i consumatori, poiché gli interessi commerciali e la spinta alla diversificazione – sia da parte dei designer che voglio proporre cose innovative, sia da parte della grandissima varietà di consumatori che hanno gusti differenti – rendono le dinamiche della moda altamente complesse. A ciò si aggiunge il ruolo giocato dalla cultura mediatica nel favorire una più libera consapevolezza di sé, la quale si riflette anche in scelte di abbigliamento più individualizzate o di nicchia23. In sintesi, un aspetto molto importante del lavoro di Crane è l'insistenza sul fatto che i consumi, i significati, gli spazi e la produzione devono essere considerati nelle loro relazioni reciproche per poter comprendere al meglio le varie forme di cultura, fra cui vi è anche la moda, naturalmente24.
Fra gli studi di sociologia della moda più recenti, merita una menzione anche la collaborazione tra Diana Crane e Laura Bovone, le quali hanno identificato cinque modi
20 Diana Crane, Questioni di moda. Classe, genere e identità nell'abbigliamento (2000), a cura di Emanuela Mora, trad. it. di Marinella Giambò, Franco Angeli, Milano 2004., p. 52.
21 Cfr. ivi, pp. 53-54.
22 Ivi, p. 191.
23 Cfr. ivi, pp. 223-224, a proposito degli uomini, e pp. 253-255, in merito all'emancipazione femminile.
24 Cfr. ivi, p. 258.

diversi di studiare la moda e l'abbigliamento come «cultura materiale», ossia focalizzandosi su: (1) i processi di significazione legati ai vestiti; (2) i sistemi i produzione culturale, all'interno dei quali vengono attribuiti valori simbolici alla cultura materiale attraverso l'attività collettiva di persone e organizzazioni differenti (designer, manifattura, media, ecc.); (3) la comunicazione di valori simbolici e le modalità di diffusione tra i consumatori; (4) l'attribuzione di valori simboli alla cultura materiale da parte dei consumatori, e la loro risposta ai valori attribuiti ad essa dai produttori o da altre fonti;
(5) il confronto fra le modalità di attribuzione di valori simbolici alla cultura materiale in diversi Paesi o regioni25.
L'approfondimento della sociologia della moda potrebbe continuare naturalmente con molti altri nomi importanti e contemporanei, probabilmente anche ampliarsi al pertinente ambito della sociologia dei consumi. In questa sede, però, l'approccio predominante alla questione sarà quello filosofico, e sebbene non si possa comunque prescindere dai contributi della sociologia, l'intento di questa carrellata non è quello di essere una ricostruzione esauriente ma di dare le coordinate principali fornite dalla sociologia.
2. Semiologia e semiotica della moda
Un altro campo di interesse dal quale non si può prescindere è quello degli studi linguistici applicati al linguaggio della moda, avanzati soprattutto nell'ambito della semiologia e della semiotica. Secondo il progetto originale di Charles Morris (1901- 1979), la semiotica è una scienza unificata dei segni, un tipo di indagine fondamentale per comprendere gli esseri umani, poiché «l’essere umano si trasforma e trasforma il mondo per mezzo di segni che egli stesso produce […]. Nella capacità di plasmarsi attraverso i segni che produce, l’uomo è unico. La misura dei suoi segni è la misura della sua libertà»26. Non sono solo le parole ad essere segni, ma qualsiasi oggetto o evento che possa essere usato per riferirsi a qualcos'altro. In questo senso, la semiotica i vestiti come segni che possono rimandare ad idee, sentimenti, significati; e considera la moda come
25 Diana Crane e Laura Bovone, Approaches to material culture: The sociology of fashion and clothing, in
«Poetics», vol. 34, n. 6 (dicembre 2006), pp. 321-324.
26 Charles Morris, The Open Self, Prentice-Hall, New York 1948, p. 52 (citato in Giovanni Fornero e Salvatore Tassinari, Le filosofie del Novecento, vol. 1, Brun Mondadori, Milano 2006, p. 352).

un sistema di significazione, nel quale ogni scelta d'abbigliamento ha un significato in quanto parte di un più ampio sistema di segni: cioè ogni vestito viene interpretato in riferimento ad altre scelte possibili all'interno del sistema27. Roland Barthes ha marcato la differenza fra sociologia e semiotica sostenendo che la prima studia le pratiche e i comportamenti reali, mentre la seconda si interessa delle rappresentazioni collettive28.
All'interno degli studi di semiologia e semiotica della moda l'opera di Barthes è considerata la più ampia e rilevante; ma egli non è stato il primo ad occuparsene: infatti, già Ferdinand de Saussure nel Cours de linguistique générale (1916) afferma che la semiologia dovrebbe essere applicata non solo al linguaggio verbale e considera l'abbigliamento come un sistema di segni confrontabile con tanti altri sistemi appartenenti alla nostra cultura, come ad esempio la scrittura e i riti simbolici. De Saussure parla esplicitamente della moda in due soli momenti ma le sue osservazioni mettono in luce alcuni aspetti fondamentali: il primo è che la moda, in quanto sistema di segni, è un fattore che agisce sulle nostre scelte di abbigliamento, ma queste scelte non sono mai del tutto stabilite arbitrariamente da tale sistema di significazione poiché «non ci si può allontanare oltre un certo limite dalle condizioni dettate dal corpo umano»29. Il secondo riguarda i cambiamenti della moda: «si sa solo che dipendono dalle leggi di imitazione [...]. Soltanto dove sia il punto di partenza dell'imitazione, questo è il mistero»30. Come si vedrà, nel modello analitico presentato nella seconda parte di questa tesi entrambi gli aspetti verranno tenuti in considerazione.
La possibile omologia fra linguaggio e abbigliamento è stata messa in luce in modo più esplicito da Pëtr Bogatyrëv (1893-1971) nel testo Le funzioni dell'abbigliamento popolare nella Slovacchia morava (1937), in cui l'autore afferma che per «capire la funzione sociale degli abiti dobbiamo imparare a leggere questi segni (gli abiti), così come impariamo a leggere e a capire lingue diverse»31. Inoltre, sottolinea la diversa funzione del «costume» e
27 Il modello più ricorrente all'interno degli studi di semiotica è quello che studia il significato in base alla combinazione e selezione dei segni all'interno di un sistema, cioè le relazioni istituite sull'asse sintagmatico e su quello paradigmatico (cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., pp. 98-101).
28 Cfr. Roland Barthes, Il sistema della moda (1967), trad. it. di Lidia Lonzi, Einaudi, Torino 1970, pp. 11- 12.
29 Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale (citato in M. Baldini, Semiotica della moda, cit., p. 18).
30 Ibid.
31 Pëtr Grigor'evič Bogatyrëv, Semiotica della cultura popolare (citato in M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., p. 84). Cfr. l'analogia fra lo studio del costume nel quadro dell'antropologia e quello della fonetica

della «moda», due forme di abbigliamento che seguono tendenze completamente opposte: mentre il primo tende a restare quasi immobile, il vestito alla moda invece cambia rapidamente. Ciò non esclude però che essi siano soggetti ad influenze reciproche: infatti, il costume non è realmente immutabile, bensì ingloba elementi presi dalla moda. Bogatyrëv rileva anche altre differenze: il costume è maggiormente conservatore e tradizionale ed è sottoposto alla censura della comunità, mentre la moda dipende dalla creatività dei sarti e mira a diversificarsi da ciò che è già in uso – anche la moda però non è completamente libera e ha bisogno del consenso dalla comunità per potersi diffondere32. Al di là di questa utile distinzione, l'impostazione semiotica di Bogatyrëv sottolinea un aspetto molto importante, evidente già dal titolo del suo testo: l'abbigliamento, come il linguaggio, ha molte funzioni, non una sola – ad esempio, magica, religiosa, tale da indicare il ceto, il sesso, ecc. – e, soprattutto, ha allo stesso tempo la funzione di oggetto e segno, può essere indossato e/o interpretato in vari modi.
A tale proposito, merita di essere menzionata la breve riflessione di Jurij Lotman che mette in luce il valore semiotico della moda ed il ruolo sociale che essa può avere:
inserire un determinato elemento nello spazio della moda significa renderlo rilevante, dotarlo di significato. La moda è sempre semiotica. L'inserimento nella moda è un processo di trasformazione dell'insignificante in significante. La semiotica della moda si manifesta, in particolare, nel fatto che essa sottintende sempre un osservatore. Il parlante del linguaggio della moda è un creatore di informazione nuova, inaspettata per il pubblico e ad esso incomprensibile33.
Secondo Lotman la moda è un sistema semiotico in cui risulta particolarmente importante l'interazione sociale fra chi indossa certi abiti e l'osservatore che, percependo un elemento di distinzione, un'«informazione nuova», è spinto a tentare di comprendere ciò che essi possono significare.
Questi ed altri aspetti sono stati presi in considerazione dal semiologo che più estensivamente si è occupato della moda, Roland Barthes, nel libro Le système de la mode

nell'ambito della linguistica: Nikolaj Trubeckoj, Fondamenti di fonologia (1939), ed. it. a cura di Giulia Mazzuoli Porru, Einaudi, Torino 1971. Cfr. anche l'interesse per lo studio dei sistemi semiotici applicati – fra cui anche l'abbigliamento – del linguista Roman Jakobson, Language in Relation to Other Communication Systems, in: Roman Jakobson, Selected Writings, vol. 2, The Hague, Mounton 1971.
32 Cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., pp. 83-84.
33 Jurij Mikhailovich Lotman, La cultura e l'esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità (citato in M. Baldini,
L'invenzione della moda, cit., pp. 85-86) .

(1967) e in numerosi articoli e saggi, il quale riprende le considerazioni di de Saussure sulla possibilità di utilizzare l'approccio semiologico non solo per il linguaggio verbale ma anche per altri tipi di linguaggio. Per Barthes la moda è un sistema in cui c'è molto di più del solo abbigliamento, vi sono anche istituzioni, immagini e linguaggio verbale:
la moda usa la lingua come sua materia dell'espressione per costruire [...] un “tipo di discorso” [...] al cui interno si situano forme di vita, valori, organizzazioni plastiche, procedure retoriche e così via. La semiologia di Barthes [è] uno studio dei diversi tipi di discorso che circolano nella società – di cui la moda è un tipo al contempo molto particolare e del tutto esemplare34.
L'analisi che Barthes fa del sistema moda è molto articolata e si focalizza soprattutto sul ruolo che il linguaggio verbale – le didascalie delle fotografie sulle riviste di moda – ha nell'intero sistema. L'importanza del suo lavoro è di aver riconosciuto che la moda è un sistema in cui intervengono molte modalità di espressione, anche se può apparire troppo radicale l'affermazione che «la moda esiste soltanto attraverso il discorso che si fa sulla moda, senza di cui la si può riportare a una sintassi molto rudimentale, non più ricca di quella del codice stradale»35. Detto altrimenti: «la moda non è fenomeno sociale ma mitologico; ha bisogno di un discorso che, parlandola, la produca: la rivista di moda è il luogo privilegiato di questo discorso; valorizzando l'abito come utopia, lo trasforma: dal campo del costume realmente indossato lo trasporta in quello onirico della moda»36. La moda è un mito nel senso che gode di un'autonomia di significato che è costruito tramite il discorso su di essa ed è indipendente dal valore istituzionale e sociale degli abiti, come ad esempio il costume o le uniformi.
Paragonando l'abbigliamento al linguaggio, Barthes riconosce la difficoltà di cogliere i significati dei singoli indumenti all'interno del sistema moda, poiché «il significato viene dato sempre mediante i significati “in atto”; la significazione è un tutto indissolubile che tende a svanire nel momento stesso in cui la si divide»37. Allo stesso tempo però riconosce anche che vi è un sistema astratto che è possibile studiare e descrivere: «è il vestito di moda, quello che viene proposto sotto forma grafica o descrittiva nei giornali e nei periodici. In questo caso, il significato è dato esplicitamente, anteriormente persino al significante; viene nominato (un abito d'autunno, un tailleur delle cinque pomeridiane
34 Gianfranco Marrone, Introduzione, cit., pp. xii-xiii.
35 R. Barthes, Il senso della moda, cit., p. 103.
36 G. Marrone, Introduzione, cit., p. xxi.
37 R. Barthes, Il senso della moda, cit., p. 36.

eccetera)»38. Nel fare ciò, Barthes riprende la distinzione tra langue e parole introdotta da de Saussure, secondo il quale la langue è un'istituzione indipendente dai singoli individui, basata su norme, mentre la parole è l'appropriazione del sistema da parte del singolo. La prospettiva è dialettica: la parole è compresa dagli altri perché pur essendo individuale è allo stesso tempo collettiva in quanto contestualizzata nel sistema della langue. Ma la parole precede storicamente la langue, che è il suo sistematizzarsi39. La distinzione era già stata applicata da Trubeckoj al binomio costume/abbigliamento: il costume è l'istituzione riconosciuta a livello sociale di cui l'individuo si appropria tramite il suo vestito individuale. Questo paragone mette in luce che la parole o il vestito non sono creazioni pure ma atti combinatori all'interno di un sistema linguistico/vestimentario. Secondo Barthes il costume40 si manifesta in «forme» e «colori ritualizzati», negli «usi fissi», nel vestire un abito secondo quanto imposto dalla norma in merito ai bottoni, a quali debbano essere gli indumenti intimi e quali quelli visibili, alle maniche, alle lunghezze, ecc. L'abbigliamento, invece, si esprime nelle caratteristiche individuali del modo di portare un certo vestito: il «grado di usura», le riduzioni o aggiunte, la scelta di portare i bottoni sbottonati o le maniche non infilate, «la scelta dei colori», ecc.41.
La distinzione fra un sistema astratto strutturato e la sua manifestazione attualizzata è secondo Barthes particolarmente importante perché
permette di descrivere con esattezza tutti i movimenti propriamente dialettici che regolano gli scambi incessanti tra il vestito istituzionale e il vestito indossato: come i fenomeni di costume divengono fenomeni di abbigliamento (è il caso della moda femminile, diffusa nell'abbigliamento a partire da veri e propri modelli); come i fenomeni di abbigliamento divengono a loro volta fenomeni di costume (è il caso degli usi individuali ripresi collettivamente per imitazione: per esempio i fads e i crazes frequenti nel dandismo)42.
Tale modello può essere esaustivo per descrivere la cosiddetta «moda scritta», il sistema astratto studiato da Barthes, ma egli riconosce anche che all'interno dei ritmi determinati da questa dialettica vi è un altro processo che contribuisce al mantenimento della moda
38 Ibid.
39 Cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., p. 94.
40 In questa analogia con il termine langue, il concetto di «costume» per Barthes risulta avere un'accezione abbastanza ampia: non indica solamente la tradizione vestimentaria, il folclore, bensì anche la moda come sistema astratto di regole.
41 Cfr. R. Barthes, Il senso della moda, cit., p. 33.
42 Ivi, p. 34.

nell'abbigliamento «reale»: il rapporto fra un ritmo di usura (u) e un ritmo di acquisto (a). Il primo è «costituito dal tempo naturale di rinnovamento di un capo o di un corredo, sul piano esclusivo dei bisogni materiali» – anche se in realtà «non c'è bisogno “puro”, specialmente astratto dall'intenzione di comunicare» - il secondo è invece «costituito dal tempo che separa due acquisti dello stesso capo o dello stesso corredo».
La Moda reale è, se si vuole a/u. Se u=a, se l'indumento si acquista in quanto si usa, non c'è Moda; se u>a, se l'indumento si consuma più di quanto non si acquisti, c'è pauperizzazione; se a>u, se si compra più che consumare, c'è Moda, e più il ritmo di acquisto supera il ritmo di usura, più forte è l'assoggettamento alla moda43.
Dimostrando grande acutezza analitica, Barthes ammette che la descrizione di un fenomeno «reale» richiede strumenti ulteriori rispetto a quelli sviluppati per lo studio della struttura astratta di tale fenomeno. È interessante anche che indichi l'acquisto di vestiti come una prassi fondamentale per l'esistenza della moda: in linea di principio, infatti, acquistare capi non è un'attività necessaria né per le dinamiche di imitazione/distinzione, né per il rinnovamento delle mode, come dimostrato ad esempio dalla moda punk e da quella vintage44. L'acquisto di abiti nuovi è però un'attività centrale nelle società contemporanee ed il consumo è una delle forme più importanti nel nostro rapporto con gli oggetti, quindi anche un fattore che interessa il costituirsi delle mode45. Inoltre, come riconosciuto anche da Barthes, vi possono essere influenze fra le dinamiche di imitazione/distinzione e quelle di usura/acquisto: ad esempio, «talvolta la Moda scritta può fare della stessa usura un valore (cioè un significato): “Lo chic di un capo di cuoio aumenta con l'invecchiamento come il valore dei vini” (“Vogue”)»46.
Quello di Barthes è senz'altro un approccio di grande valore per lo studio della moda perché mostra molti degli aspetti dell'articolazione del sistema moda, il quale viene creato non solo tramite la confezione degli abiti, bensì anche grazie ad una certa organizzazione delle istituzioni e ad un'insieme di discorsi fatti con altri tipi di linguaggio (fotografia, scrittura, ecc.). Tuttavia, risulta essere un approccio limitante perché si interessa di un sistema astratto postulato solo sulla base dell'analisi di fotografie e delle
43 R. Barthes, Sistema della moda, cit., pp. 301-302.
44 Cfr. infra, cap. 5, par. 2.
45 Cfr. ibid.
46 R. Barthes, Sistema della moda, cit., p. 302, nota 2.

loro didascalie. Tale limite è riconosciuto anche da Umberto Eco47, il quale propone invece di considerare l'abbigliamento come un sistema semiotico vero e proprio, con le dovute distinzioni rispetto al linguaggio verbale o ad altri tipi di codice comunicativo. Secondo Eco il codice dell'abbigliamento è di tipo «debole», ossia è regolato da convenzioni che si modificano con rapidità, a tal punto che non è possibile coglierle e descriverle che sono già mutate, pertanto «il codice va spesso ricostruito sul momento, nella situazione data, inferito dai messaggi stessi»48. L'atteggiamento di Eco nei confronti delle dinamiche di comunicazione mostra una sensibilità e un'attenzione alla varietà di questo ambito che sono molto preziose per cogliere la complessità con cui si organizzano le società contemporanee; ma ancora più sorprendente è la vicinanza del suo pensiero con quello del sociologo Niklas Luhmann49, fatto che ci mostra come le separazioni disciplinari debbano talvolta essere superate:
la società, in qualsiasi forma si costituisca, come si costituisce, “parla”. Parla perché si costituisce e si costituisce perché comincia a parlare. Chi non sa ascoltarla parlare là dove essa parla, anche senza usare la parola, la attraversa a tentoni; non la conosce. Non la modifica50.
3. I fashion studies
Negli ultimi due decenni lo studio della moda è diventato una vera e propria disciplina, o meglio, un ambito disciplinare affermatosi con il nome di fashion studies: una corrente di studi eterogenea che considera la moda con uno sguardo ampio sul fenomeno nelle sue differenti e numerose manifestazioni. Si tratta di un approccio multidisciplinare, non di una disciplina singola, con una molteplicità di approcci teoretici e metodologici51. Lo
47 Umberto Eco, L'abito parla il monaco (1969), in: AA.VV., Psicologia del vestire, Bompiani, Milano 1972, p. 14.
48 Ivi, p. 22.
49 Cfr. infra, cap. 4, par. 4.
50 U. Eco, L'abito parla il monaco, cit., p. 25.
51 Ciò si constata anche dalla presenza di strumenti istituzionali: dipartimenti e corsi di laurea specifici, conferenze sul tema, enciclopedie e riviste dedicate, antologie di testi e volumi collettivi. Solo per citare alcuni esempi, si vedano: Sandy Black et al., The Handbook of Fashion Studies, Bloomsbury, London 2013; AA.VV., The Fashion Reader. Second Edition, a cura di Linda Welters and Abby Lillethun, Berg, Oxfrod-New York 2011; Valerie Steele, Encyclopedia of Clothing and Fashion, Thomson Gale, Detroit 2005; AA.VV., The Fashion History Reader: Global Perspectives, a cura di Giorgio Riello e Peter McNeil, Routledge, Londra 2010; le riviste «Vestoj. The journal of Sartorial Matters», «Der schöne Mann. Das Magasin», «Fashion Theory. The Journal of Dress, Body and Culture»; i convegni: Fashion Issues: Critical Fashion Studies, 16-17 maggio 2014, Università di Stoccolma e IUAV; Fashion Thinking –

sviluppo di questo ambito di studi è stato inizialmente legato ai cultural studies, in particolare per quanto riguarda il tentativo di posizionare l'abbigliamento e la moda nella produzione culturale, poiché «il corpo rivestito è il territorio fisico-culturale in cui si realizza la performance visibile e sensibile della nostra identità esteriore»52, sociale e individuale. Le questioni affrontate con maggior frequenza sono infatti quelle riguardanti l'identità e il ruolo che corpo e abbigliamento (il corpo vestito) giocano nella creazione e nella manifestazione dell'identità (concetto in bilico tra espressione individuale e riconoscimento sociale). Inoltre, la crescita dei fashion studies deve molto anche agli studi femministi, in particolare per quanto riguarda la costruzione di identità a livello sociale tramite i simboli che vengono associati all'essere donna, ossia tramite l'attribuzione al corpo di valori e significati costruiti culturalmente53.
L'accrescersi dell'interesse per la moda, infatti, non è casuale ed è probabilmente da collegare proprio all'onnipresenza del fenomeno – inteso in senso ampio – in molti degli aspetti che caratterizzano la nostra vita quotidiana, coinvolgendo non solo quelli materiali, ma anche, ad esempio, le religioni54. Inoltre, l'impatto che la diffusione della moda ha sull'economia e sui sistemi di produzione ha attirato su di essa l'interesse di discipline che si occupano di problematiche legate alla società dei consumi, alla sostenibilità, al capitalismo e allo sfruttamento di risorse, animali e lavoratori. L'attualità
Theory, History, Practice, 30 ottobre – 1 novembre 2014, University of Southern Denmark; Global Fashion 2014, Rethinking and Reworking Global Fashion, 19-21 novembre 2014, University College Ghent; e i centri di ricerca: MIC. Moda, immagine, costumi (Università degli Studi di Milano), MODACULT (Università Cattolica di Milano), Center for Fashion Studies (Università di Stoccolma), Center for Sustainable Fashion (University of the Arts, Londra).
52 G. Mavica, Processi di inclusione ed esclusione sociale attraverso la moda, cit., p. 43; un contributo pionieristico nell'ambito dei cultural studies è quello di Elizabeth Wilson, Vestirsi di sogni. Moda e modernità, cit..
53 Cfr. Anne Hollander, Sex and Suits. The Evolution of Modern Dress, Kodansha International, New York 1994, secondo la quale la storia della moda si intreccia con quella dell'emancipazione femminile; e Valerie Steele, Fetish: Fashion, Sex and Power, Oxford University Press, New York 1996, la quale analizza la moda in rapporto al potere (citati in F. Monneyron, Sociologia della moda, cit., pp. 68-73). Ma la relazione tra moda e donne è sempre stata stretta: Simmel sosteneva che le donne sono le più soggette alla moda per motivi sociali, perché non possono affermarsi in nessun altro modo (cfr. G. Simmel, La moda, cit., pp. 40-41); mentre per Veblen la donna è stata per molto tempo trofeo che riflette i successi del marito (cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., p. 55); e Monneyron afferma che appropriarsi del vestito maschile significa per le donne avere accesso ad ambiti che sono stati prettamente maschili, ma è anche un modo per definire la propria identità (cfr. F. Monneyron, Sociologia della moda, cit., pp. 104-105).
54 Ad esempio, il grande numero di musulmani che vivono nelle società occidentali ha certamente influito sulla quantità e varietà di scialli e veli che è possibile trovare in catene di grande distribuzione di abbigliamento come H&M e Zara.

e la novità di tali linee di ricerca hanno portato ad un'ulteriore ampliamento e diversificazione dei fashion studies, anche mettendo in luce come la ricerca contemporanea sulla moda debba occuparsi di questioni che non sono mai state affrontate negli studi di sociologia e di semiotica della moda.
Essendo un ambito ancora in via di affermazione riuscire a mappare il territorio dei fashion studies è un'impresa piuttosto ardua che va oltre gli obiettivi del presente lavoro. Tuttavia, credo sia importante accennare in via generale alle linee di indagine perseguite all'interno di questo campo di studi, poiché questo permette di rendersi conto della maturità raggiunta dalla ricerca specializzata, anche in merito alla complessità riconosciuta al fenomeno nelle società contemporanee e globalizzate55.
I fashion studies sono caratterizzati da approcci diversificati a partire da diverse discipline e non è possibile fornire qui una descrizione esaustiva della specificità degli approcci che ricadono sotto tale nome. Tuttavia, per dare un'idea della ricchezza di tale ambito di studi può essere utile distinguere delle aree tematiche, e per fare ciò seguirò la suddivisione proposta da un testo che ha avuto molto successo: The Fashion Reader. Second Edition, curato da Linda Welters e Abby Lillethun. Il libro è composto di sedici sezioni: 1. Breve storia della moda, 2. Fashion theory, 3. Psicologia della moda, 4. Moda e identità, 5. Moda: spazi e luoghi, 6. Etnicità, cultura e abbigliamento, 7. Politiche della moda, 8. La moda e il corpo, 9. Moda e arte, 10. Moda, media e comunicazione, 11. Dall'alta moda alla strada, 12. Design e manifattura, 13. Marketing e merchandising, 14. Il business della moda e l'economia globale, 15. Sostenibilità e moda, 16. Il futuro della moda. Come è evidente, gli aspetti presi in considerazione sono molto vari e non è possibile che un solo individuo padroneggi la quantità di competenze specialistiche richieste per indagare il fenomeno moda in tutti i suoi aspetti: si tratta di un fenomeno altamente complesso e i fashion studies sono un'impresa multidisciplinare che tenta di organizzare la conoscenza intorno a tale fenomeno.
55 Anche nel panorama italiano si è assistito ad una proliferazione di questi studi; il problema qui rimane che quello della moda non è ancora un campo di ricerca affermato e, pertanto, il dialogo accademico è frammentato in singoli discorsi e non organizzato in un unico, seppur diversificato e multidisciplinare, discorso che permetterebbe un confronto più fecondo (cfr. Emanuela Mora, Introduzione. Moda e società. Questioni italiane, in: Diane Crane, Questioni di moda, cit., p. 10).

Il valore degli studi classici sulla moda è senz'altro riconosciuto, e difatti nell'antologia compaiono estratti di importanti lavori di sociologia, semiotica e psicologia – Veblen, Barthes, McCracken, Flügel – a cui però sono accostati contributi che mettono in luce aspetti di cui si è diventati maggiormente consapevoli dopo la stagione postmoderna e con lo studio delle società complesse e dell'economia globalizzata. In particolare, i contributi più attuali sottolineano: il ruolo di internet e delle serie tv nel creare nuovi percorsi di diffusione della moda e nel rendere possibile una partecipazione democratica e informale nei vari ruoli del sistema moda (creatori, autorità, commentatori, fotografi, ecc.); gli effetti della globalizzazione sulle mode dei Paesi in via di sviluppo, in Africa e Asia; il ruolo delle strategie di marketing nella creazione e sopravvivenza delle mode; l'impatto crescente della tecnologia indossabile e la sua integrazione con materiali tradizionali e con il corpo; le variazioni apportate da cambiamenti demografici quali la sempre più precoce emancipazione adolescenziale e l'invecchiamento della popolazione europea.
Per il discorso portato avanti in questa sede, sono due le aree tematiche di particolare interesse: identità e sostenibilità, poiché sono questioni che riguardano in modo incisivo la società contemporanea. In merito alla questione dell'identità, uno dei contributi più rilevanti proveniente dai fashion studies è quello di Joanne Entwistle, la quale mette in evidenza il ruolo fondamentale del corpo nella costruzione della cultura, dell'identità e della moda. A partire da una prospettiva legata ai cultural studies e agli studi femministi, Entwistle cerca di creare delle connessioni tra gli studi sull'abbigliamento e quelli sul corpo. Sebbene questi siano strettamente legati, spesso le ricerche che hanno considerato uno dei due aspetti hanno però ignorato l'altro, con il risultato che le relazioni tra i due sono rimaste inesplorate, relazioni fondamentali in quanto contribuiscono a dare senso a entrambi. «Dress and the body exist in dialectic relationship to one another. Dress operates on the phenomenal body; it is a very crucial aspect of our everyday experience of embodiment, while the body is a dynamic field, which gives life and fullness to dress »56. Il corpo è sempre in qualche modo vestito e il vestito ha senso quando è vivo e viene indossato, ed entrambi sono dotati di senso in quanto esistono all'interno della cultura.
56 Joanne Entwistle, The Dressed Body, in: AA.VV., The Fashion Reader, cit., p. 139.

La pratica del vestirsi è intesa sia come pratica individuale che sociale: il corpo è il confine tra l'individuo e la società, è quindi allo stesso tempo «metafora visiva per l'identità»57, espressione dell'individualità, ma anche mezzo di espressione sociale per, ad esempio, criticare la cultura dominante o ottenere l'accettazione sociale58. Per sviluppare una sociologia del corpo vestito, inteso come pratica corporea contestualizzata (situated bodily practice59) Entwistle suggerisce che «Foucault's notion of discourse can enable the analysis of fashion as a discursive domain which sets significant parameters around the body and its presentation»60, così da poter concepire il corpo come istanza definita culturalmente e discorsivamente, anche all'interno di dinamiche di potere. Inoltre, l'autrice si rifà al pensiero di Merleau-Ponty e di Goffman61, poiché entrambi assumono la spazialità del corpo come elemento cruciale del nostro essere nel mondo: il corpo non è solo uno strumento passivo, ma il nostro punto di vista sul mondo, «our bodies are not just the place from which we come to experience the world, but it is through our bodies that we come to see and be seen in the world»62.
La seconda area tematica dei fashion studies per me di particolare interesse è quella della sostenibilità, un concetto che riassume l'interesse verso tre questioni: la crescita economica, la protezione dell'ambiente e l'uguaglianza sociale. In relazione alla moda, la sostenibilità riguarda, da un lato, le modalità di produzione di fibre e tessuti, la manifattura, distribuzione e vendita dei vestiti; dall'altro lato, la cura dei capi acquistati e il loro smaltimento63. Come è evidente, gli approcci tradizionali alla moda non sono in grado di prendere in considerazione tutti questi aspetti, poiché le discipline coinvolte nel loro studio sono molte: dall'economia agli studi ambientali, dall'ingegneria dei materiali
57 F. Davis, Moda, cultura, identità, linguaggio, cit., p. 26 (citato in J. Entwistle, The Dressed Body, cit., p. 141).
58 Si pensi anche al caso contrario, in cui ci si ritrova vestiti in un modo inappropriato alla situazione e questo ci fa sentire fuori luogo; Entwistle cita un'esempio tratto da Q. Bell, On human finery (1976), per evidenziare come anche chi non è particolarmente interessato alla moda, o non cura più di tanto il proprio abbigliamento, si veste comunque in modo da non attirare critiche da parte della società (cfr.
J. Entwistle, The Dressed Body, cit., p. 142).
59 Ivi, p. 45.
60 Ivi, pp. 39-40.
61 Ervin Goffman, antropologo canadese pubblica, nel 1956, The presentation of Self in Everyday Life: a partire da una prospettiva che egli chiama teatrical performance considera i modi in cui gli individui si presentano o affrontano le situazioni sociali quotidiane.
62 J. Entwistle, The Dressed Body, cit., p. 44.
63 Cfr. Linda Welters, Introduction: Sustainability and Fashion, in: AA.VV., The Fashion Reader, cit., p. 573.

al management aziendale, per giungere all'etica. Ma non sono solamente queste le questioni più critiche: arrivare ad un sistema sostenibile della moda non è un obiettivo che può essere raggiunto tramite delle azioni unidirezionali, non sono solo le aziende a doversi impegnare, bensì anche ciascun consumatore, e perciò è necessario che la consapevolezza di tali problemi si diffonda, anche tramite adeguate forme di educazione. A tal fine, entrano in gioco anche competenze che riguardano lo studio dei media e le cosiddette forme di «cittadinanza digitale», dato che internet è ormai il mezzo più rapido e capillare per la diffusione di informazione e la creazione di consenso64.
Più recentemente, anche la filosofia ha fatto la sua parte nel delinearsi del campo di studi dei fashion studies, ma non sono mancati, anche nel passato, filosofi che si sono interessati al fenomeno in questione. Credo che il contributo della filosofia possa essere particolarmente importante nel processo di articolazione e chiarificazione dei limiti e delle peculiarità offerte dagli approcci delle singole discipline, ma anche circa le questioni affrontate e gli strumenti utilizzati. Inoltre, poiché il mio approccio è soprattutto filosofico e passa attraverso pensatori di questo ambito, è particolarmente importante considerare non solo questioni strettamente riguardati la moda/abbigliamento ma, allargando lo spettro, anche il tema del corpo e dei valori ad esso attribuiti, poiché questa sembra essere la causa della scarsa considerazione di cui la moda ha goduto in ambiti filosofici.
64 Cfr. Sarah Scaturro, Digital and Democratic, in: AA.VV., The Fashion Reader, cit., pp. 586-588; cfr. anche
D. Crane, Questioni di moda, cit., pp. 265-266.

Capitolo 3
I filosofi e la moda
Oggi il corpo e l'abbigliamento vengono considerati elementi fondamentali per determinare l'identità di una persona; ciò perché nella società contemporanea anche gli aspetti esteriori, i caratteri dell'immagine esteriore, hanno una loro importanza nel darci, non solo un ruolo sociale, ma anche caratteristiche individuali. Tale convinzione si riflette anche nel mondo accademico, e difatti si è visto come il corpo sia diventato oggetto di considerazione dei cultural studies; tuttavia, non è sempre stato così nell'ambito degli studi umanistici: la tradizione filosofica e quella religiosa, infatti, hanno spesso anteposto il valore dell'anima a quello del corpo, in particolare nelle questioni riguardanti l'identità. Di conseguenza è comprensibile perché la filosofia non si sia occupata particolarmente del fenomeno della moda, considerato un aspetto secondario e superficiale dell'esistenza che doveva rivolgersi piuttosto all'edificazione dell'anima.
Tra le ipotesi più diffuse per spiegare l'origine e le cause di questa negligenza per il mondo dell'abbigliamento e della moda vi è quella di ricondurla alla tendenza della filosofia antica – in particolare quella platonica, medievale e cristiana – di considerare il corpo e l'anima come ontologicamente differenti, sminuendo il primo come inferiore e accidentale. L'anima, che si troverebbe per più o meno tempo imprigionata in esso, vive questo passaggio nel mondo come una continua lotta con il corpo e le sue passioni, nel tentativo di sottomettere questa parte irrazionale alla razionalità, vera essenza dell'umano. La conseguenza di questa impostazione è l'estensione della scarsa considerazione per il corpo anche ad altri aspetti della materialità, come i vestiti e la moda. È difficile sfuggire ad un simile retaggio e difatti non si può negare che un certo attrito tra l'autenticità dell'interiorità e la cura dall'esteriorità si percepisca anche in molti dei discorsi che sentiamo oggi.
Tuttavia, è opportuno precisare che il modo in cui le filosofie antiche e medievali sono state tramandate ha portato ad un'interpretazione che ha estremizzato il loro atteggiamento nei confronti della dimensione corporea e materiale, arrivando persino a travisarne il contenuto. Anche se la questione non riguarda direttamente la moda e

l'abbigliamento, può comunque essere utile considerare in maniera più approfondita di quale tipo sia il rapporto che il corpo ha con l'anima nella tradizione platonica e secondo alcuni pensatori fondamentali della tradizione cristiana; infatti si tratta delle radici del nostro pensiero, e riflettere su questi temi può aiutarci a comprendere anche il mondo di oggi e i nostri rapporti con le cose: nel caso specifico, una certa avversione riguardo ai temi del corpo e dell'abbigliamento. Inoltre, tali conoscenze possono aiutarci anche a comprendere l'importante lavoro di un filosofo contemporaneo che si è occupato di moda: Gilles Lipovetsky. Chiarire questi concetti è particolarmente importante oggi, epoca nella quale l'esteriorità e la materialità hanno un ruolo fondamentale nella determinazione dell'identità, la quale non è più considerata come esclusivamente legata all'autenticità dell'anima, bensì si costruisce anche dando forma al nostro corpo e circondandoci di cose2. Vediamo quindi quale sia stata la concezione del corpo sviluppata da alcuni filosofi in epoca antica e medievale, per andare più a fondo nella questione del disinteresse nei confronti della moda da parte della filosofia.
1. Platonismo
Platone afferma la priorità dell'anima sul corpo e che l'anima immortale appartiene alla realtà divina, la quale si situa ad un altro livello ontologico rispetto al corpo, parte del mondo di quaggiù. Se ne trova un esempio nel Fedone: in questo dialogo il filosofo è presentato come una persona che già in vita medita la morte e tende ad allontanare l'anima il più possibile dalle influenze e dalle passioni del corpo, poiché queste assoggettano l'anima rendendo l'uomo schiavo. Di conseguenza, certamente non privilegerà i piaceri del corpo «quali sono per esempio cibi e bevande», ma nemmeno il piacere sessuale – afferma Socrate rivolgendosi a Simmia: e «delle altre cure del corpo? Pensi che un uomo del genere le debba considerare importanti? Per esempio il possesso di vesti e calzature straordinarie, nonché gli altri abbellimenti del corpo, ti pare che il filosofo li apprezzi o li disprezzi, nella misura in cui non sia assolutamente necessario averci a che fare?»3.
2 Cfr. infra cap. 5.
3 Platone, Fedone, a cura di Franco Trabattoni, trad. it. di Stefano Martinelli Tempesta, Einaudi, Torino 2011, 64d-e, p. 33.

Il giudizio di Platone sul corpo e sulle passioni non è però semplicemente negativo: nel terzo discorso presentato nel Fedro, infatti, narrando il mito della biga alata, Socrate descrive l'anima umana nella sua condizione escatologica, ossia una volta che si sia separata dal corpo, e le tre dimensioni dell'anima – qui concepita in via paradigmatica – cioè la dimensione razionale, quella animosa e quella appetitiva, sono descritte come tutte ugualmente strutturali rispetto all'anima umana4. Ciò contrasta con la visione di un Platone cartesiano che privilegia in modo assoluto l'anima rispetto al corpo. Il mito, al contrario, mostra che le dimensioni passionale ed emozionale sono altrettanto essenziali all'anima quanto lo è la razionalità5; altra cosa è poi l'ordine che deve essere istituito affinché i rapporti interni alla stessa anima siano convenienti e si realizzi l'armonia a lei propria.
Il mito descrive l'anima dell'uomo attraverso l'immagine della biga alata che si trova nella volta celeste in compagnia delle altre anime, divine e umane, e può finalmente godere della visione delle idee, anche se in modo parziale. Le anime degli uomini, secondo la descrizione mitica, sono composte da un auriga e due cavalli; ma mentre uno dei due è «nobile e di nobile stirpe, l'altro è tutto il contrario», perciò la guida dell'auriga risulta difficoltosa6: infatti, il secondo è meno ubbidiente ed «è di peso, tira verso terra in basso e sfianca l'auriga che non lo ha addestrato bene»7. È semplice intuire come nella descrizione mitica siano presenti la facoltà intellettiva e razionale (l'auriga) e quelle emotiva (il cavallo buono) e passionale (il cavallo riottoso) e come sia in particolare quest'ultima a rendere difficoltosa la vista delle essenze perfette8. Sebbene l'auriga debba faticare per tenere a bada il cavallo nero, questo non può essere amputato: l'anima è un tutt'uno e si tratta piuttosto di educarne le dimensioni emozionale e passionale per ottenere una condizione più armonica.
4 Cfr. Paolo Pagani, La geometria dell'anima. Riflessioni su matematica ed etica in Platone, Orthotes, Napoli 2012, pp. 128-130.
5 Ibid.
6 Platone, Fedro, trad. it. di Mauro Bonazzi, Einaudi, Torino 2011, 246b, p. 95.
7 Ivi, 247b, p. 99.
8 «Cavalli e aurighi degli dei sono tutti buoni e di buona razza» ; «i carri degli dei, ben equilibrati e facili da guidare, procedono agevolmente [...]. [Le anime divine] giunte sulla volta suprema, fuoriescono e stanno sul dorso della volta celeste, lasciandosi trasportare dalla rivoluzione circolare: e contemplano quello che sta al di fuori dell'universo» (Platone, Fedro, cit., 246a, p. 93; 247b-c, p. 99).

Per realizzare l'armonia tra le tre facoltà l'uomo deve intraprendere il percorso educativo: la paideia, che comincia con discipline più vicine alla dimensione corporea, cioè la ginnastica e la musica, la cui utilità è proprio quella di creare l'armonia di base tra anima e corpo9. Dunque sembrerebbe che per Platone non si debba soffocare o rinnegare gli impulsi passionali ed emozionali ma piuttosto educarli, facendo in modo che si instauri il giusto rapporto tra le tre dimensioni, cioè che la ragione instauri il suo governo deciso sulla dimensione passionale tramite il sostegno dell'emotività, poiché la comunicazione tra ragione e irrazionalità non può avvenire spontaneamente10.
Tenendo conto degli aspetti appena menzionati, è chiaro che non è possibile considerare il pensiero di Platone semplicemente in chiave dualistica: esso deve essere visto nella sua complessità, che coniuga le dottrine orfiche con testi come il Fedro, in cui traspare una ben diversa concezione della sensibilità e della materialità. Lo stesso tipo di considerazione è valido anche per Plotino, pensatore neoplatonico che è stato spesso frettolosamente rubricato come dualista antropologico. Plotino, in realtà, non fa affermazioni simili a quelle degli gnostici a lui contemporanei – i quali credevano in una teoria dualistica, secondo la quale l'uomo sarebbe composto da due principi: la carne e lo spirito, la «materia inerte» e il «principio vivificatore»11 –; anzi, si rivolge loro criticamente nelle Enneadi.
La filosofia di Plotino si sviluppa intorno ad un monismo metafisico: tutta la realtà proviene e partecipa del medesimo principio divino. Nella seconda Enneade il filosofo neoplatonico dice che non bisogna disprezzare la natura, intesa in senso ampio (la
«natura dell'universo»); chi lo fa, come ad esempio gli gnostici, «non si rende neppure conto che non è lecito mancare di rispetto a qualcosa solo perché è meno perfetto delle
9 Cfr. P. Pagani, La geometria dell'anima, cit., pp. 8-12. «Io direi che un qualunque dio abbia dato due arti agli uomini, la musica cioè e la ginnastica, dirette all'elemento irascibile e al filosofico, e non all'anima e al corpo se non in via accessoria, bensì proprio a quei due elementi affinché siano tra loro accordati, venendo tesi e allentati sino alla giusta misura» (Platone, Repubblica, trad. it. di Francesco Gabrieli, BUR, Milano 1986, vol. I, III, 411c-412a, pp. 113-114). La paideia prosegue poi con le discipline più propriamente razionali, come la matematica (aritmetica e geometria), la stereometria e l'astronomia fino a culminare nella dialettica (cfr. P. Pagani, La geometria dell'anima, cit., pp. 9-12).
10 Possiamo pensare la facoltà irascibile come una sorta di mediatore o traduttore dei discorsi razionali in simboli e immagini, ai quali anche la passione è ricettiva. Altrimenti le facoltà razionale e passionale non sarebbero in grado di comunicare, perché la seconda è “sorda” ai discorsi razionali; e ciò significherebbe anche l'impossibilità dell'armonia poiché le tre parti andrebbero in direzioni diverse disaggregandosi (cfr. ivi, pp. 131-134).
11 Cfr. AA.VV., Gnosticismo, in: AA. VV., Enciclopedia Treccani online (consultata il 01/02/2015).

realtà prime»12. Il mondo è un tutto organico ed è «in armonia con sé e con le sue parti, e queste, nobili o infime che siano, sono sempre in pari misura utili»13.
Plotino affronta anche la questione più specifica dell'uomo e dei rapporti interni tra l'anima e il corpo, descrivendo le modalità attraverso cui l'anima si incarna: essa discende e vi entra, perché il corpo è la sua sede naturale, infatti, senza di esso «non ci sarebbe alcun procedere dell'anima»14; perciò «se vuole procedere, deve da se stessa crearsi un luogo e quindi anche un corpo»15. L'uomo è «anima che si individua, rispetto all'anima del mondo» e risulta quindi dal determinarsi dell'anima del mondo nel suo decadimento in un corpo16. In quanto l'anima è il principio attivo, Plotino arriva a far coincidere l'uomo con essa17, ma ciò non significa che la sua concezione del corporeo – e quindi anche della materia – sia negativa e radicalmente dualistica. Infatti, il corpo non rimane estraneo all'anima come un carcere che la imprigioni, avviene invece tutto il contrario:
«quando è nel corpo, essa gli conferisce la figura che è confacente a se stessa, e produce un'altra immagine dell'uomo per quanto il corpo riesce a recepirla. In questo modo, del resto, si comporterebbe un pittore che, ritraendo un uomo, lo facesse con caratteristiche ancora più attenuate, con figura, proporzioni, costumi, atteggiamenti e facoltà che sono propri dell'uomo, ma tutti in forma inferiore, perché non si tratta più del primo uomo» 18. Il corpo costituisce quindi una sorta di autoritratto visibile dell'anima19.
Nel pensiero plotiniano, il corporeo non è una dimensione malvagia e opposta all'anima, ma piuttosto una sua espressione, che risulta dal rilascio dell'energia dell'anima, ma con una gradazione impoverita20.
12 Plotino, Enneadi, trad. it. di Roberto Radice, a cura di Giovanni Reale, Arnoldo Mondadori, Milano 2002, II, 9, 13, p. 465. Plotino accenna agli gnostici subito dopo in II, 9, 14.
13 Ivi, III, 2, 3, pp. 523-525.
14 Ivi, IV, 3, 9, pp. 861-862.
15 Ibid.
16 Cfr. Paolo Pagani, Uomo animale razionale: storia e critica di una definizione, Appunti per la prima parte del corso di Filosofia morale, Università Ca' Foscari, Venezia 2014-15, p. 18.
17 Cfr. Plotino, Enneadi, cit., IV, 7, 5, pp. 1085-1089.
18 Ivi, VI, 7, 6, pp. 1769-1771.
19 Cfr. P. Pagani, Uomo animale razionale: storia e critica di una definizione, cit., p. 18.
20 Cfr. ivi, pp. 19-20; cfr. anche Plotino, Enneadi, cit., IV, 3, 9, pp. 859-863.

2. Cristianesimo
Anche intorno ai pensatori della tradizione cristiana si diffonde l'idea che attribuisce loro un pensiero dualistico, e quindi anche una netta separazione tra anima e corpo, con una forte svalutazione di quest'ultimo. Anche tale lettura risulta erronea perché forzata, derivante da una proiezione del cartesianesimo su autori antecedenti allo stesso Cartesio e dalla predicazione religiosa che molto spesso associa banalmente a peccati e vizi le passioni che coinvolgono il corpo.
Ma se ci rifacciamo al pensiero di uno dei Padri della Chiesa come Agostino, si vedrà che egli non ha una visione completamente negativa del corporeo; anzi, questa contrasterebbe con i suoi assunti fondamentali. Il rapporto con il corpo è una dimensione di rilievo negli scritti agostiniani, ed è particolarmente rilevante in relazione alla sua biografia: nelle Confessioni, infatti, Agostino racconta di come da giovane sia stato preda delle passioni del corpo e di una smodata concupiscenza21. Queste pagine mostrano un Agostino contrariato dalle esperienze della gioventù che lo hanno visto suddito della concupiscenza. Inoltre, un'altra fase della vita che lo porta vicino ad una visione negativa della materia è il periodo di adesione al manicheismo; ma successivamente il Vescovo di Ippona prenderà con forza le distanze da questa dottrina22.
Il manicheismo, dottrina ad impostazione dualistica, postula l'esistenza di due principi, il bene e il male, che convivono nel mondo in continua lotta reciproca: essi hanno quindi un'esistenza sostanziale: esiste un principio del bene e uno del male. I Manichei credono nella negatività della materia, identificata con il male, che trattiene e imprigiona lo spirito (il bene)23. Ma Agostino si allontana presto da questo dualismo, in
21 Un esempio delle descrizioni che si possono trovare nelle pagine autobiografiche delle Confessioni:
«Una cosa sola mi sorrideva: amare ed essere amato: ma non ne mantenevo la misura, da anima ad anima, il luminoso limite dell'amicizia: invece su dalla fangosa concupiscenza della carne e dai gorghi della pubertà vaporavano nebbie che onnubilavano e offuscavano il mio cuore sì che non si distingueva la serenità dell'affetto dalle tenebrosità della libidine. Questo e quello ardevano in un'unica fiamma e travolgevano l'età debole giù per i sentieri scoscesi della passione, l'affondavano nei vortici del vizio» (Agostino, Le confessioni, trad. it. di Carlo Vitali, a cura di Cristine Mohrmann, BUR, Milano 2009, Libro II, 2, pp. 77-78).
22 Cfr. ivi, III, 6- 12, pp. 97-108.
23 Cfr. ivi, nota 18, p. 100.

favore di una dottrina cristiana più ortodossa: «il male non è altro se non la privazione del bene»24.
L'allontanamento da una teoria dualistica è quindi fondamentale nella svolta del pensiero di Agostino e segna la definitiva conversione al cristianesimo: guardare al corpo e alle passioni come le descrive nel periodo giovanile può condurre a credere che queste siano malvagie per natura e quindi derivanti da un principio maligno; ma ciò non è identificabile con il pensiero di Agostino nella sua totalità: nel pensiero della maturità, infatti, tutto ciò che esiste nel mondo viene da Dio e quindi è intrinsecamente buono, poiché partecipa del Bene supremo. Ne La natura del bene Agostino si pone proprio con intenti critici nei confronti dei Manichei:
Consideriamo allora quanti, non riuscendo a comprendere che ogni natura, cioè ogni spirito e ogni corpo, sono naturalmente buoni, si lasciano impressionare dalla malizia dello spirito e dalla mortalità del corpo e per questo motivo si sforzano d’introdurre un’altra natura per lo spirito malvagio e il corpo mortale, non creata da Dio25.
Tutti i beni vengono da Dio ed è per questo che partecipando del Bene assoluto sono beni a loro volta26.
Se si vuole introdurre una distinzione è piuttosto quella della gradazione dei beni: essi possono essere migliori o peggiori rispetto al grado della loro partecipazione al Bene, ma bisogna ricordare che «i beni di qualunque grandezza, per quanto siano grandi oppure piccolissimi, non possono provenire se non da Dio»27. Quella mancanza nella
24 Ivi, III, 7, p. 100. La dottrina verrà ripresa anche da Tommaso D'Aquino ne La Somma Teologica (cfr.
ivi, nota 18, p. 100).
25 Agostino, La natura del bene, in: Agostino, Opere di Sant'Agostino, trad. it. di Luigi Alici e Antonio Pieretti, vol. XIII/1 Polemica con i manichei, Città Nuova, Roma 1997, 2, p. 351.
26 «Noi, cristiani cattolici, adoriamo Dio, dal quale dipendono tutti i beni, sia grandi che piccoli; da lui dipende ogni misura, sia grande che piccola; ogni forma, sia grande che piccola; ogni ordine, sia grande che piccolo» (ivi, 3, p. 351).
27 Agostino, Il libero arbitrio, in: Tutti i dialoghi, trad. it. di Maria Bettetini, Giovanni Catapano, Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2006, II, xviii, 46, pp. 1053. «Quanto più tutte le cose sono secondo misura, forma ed ordine, tanto più sono certamente buone; invece quanto meno sono secondo misura, forma ed ordine, tanto meno sono buone. Prendiamo dunque questi tre aspetti: misura, forma e ordine, per non parlare di altri innumerevoli, che risultano riconducibili ai tre; ebbene proprio questi tre aspetti, misura, forma e ordine, sono come dei beni generali nelle realtà fatte da Dio, sia nello spirito che nel corpo. [...] Dove questi tre aspetti sono grandi, sono grandi i beni; dove sono piccoli, sono piccoli i beni; dove non ci sono, non c’è alcun bene. Ancora: dove questi tre aspetti sono grandi, sono grandi le nature; dove sono piccoli, sono piccole le nature; dove non ci sono, non c’è nessuna natura. Dunque ogni natura è buona» (Agostino, La natura del bene, cit., 3, p. 351-353).

natura delle cose per la quale non partecipano del Bene è il male (naturale), che quindi non viene associato con la materialità ma con una mancanza di essere.
Non bisogna farsi ingannare nemmeno dalla preminenza che Agostino concede all'anima come luogo della verità: essa è «un bene maggiore del corpo» 28, ma non per questo il corpo è da considerare un male. Ci sono beni di grado superiore e beni di grado inferiore; appurato che il corpo rientra in quest'ultima categoria, Agostino afferma che «tra i beni del corpo ne troviamo alcuni che l'uomo può usare in modo non retto[...]. Vedi infatti quanto bene manchi a un corpo al quale manchino le mani, eppure usa male le mani chi opera con esse atti violenti e vergognosi»29. Infine, non può essere ignorato che la dottrina cristiana prevede anche la resurrezione del corpo per coloro che saranno accolti da Dio nel giorno del Giudizio universale, tema affrontato in modo approfondito da Agostino nel libro ventiduesimo de La città di Dio.
Sempre nell'ambito della filosofia cristiana, un altro autore convinto sostenitore di una concezione unitaria dell'uomo è Tommaso D'Aquino. A differenza di Agostino, però, l'Aquinate trova ispirazione in Aristotele. Egli introduce la sua concezione dell'uomo nella parte prima della Summa Theologiae, e in particolare nelle questioni 75 e 76, dove conduce un'indagine circa la natura dell'anima e la sua relazione con il corpo, e sulla questione «se l'anima sia l'uomo»30.
Tommaso sfrutta la distinzione aristotelica tra materia e forma, le quali non sono da concepire separatamente: «la forma essenzialmente richiede di stare unita alla materia: infatti essa attua la materia, non mediante un accidente, ma in forza della sua essenza; altrimenti dall'unione della materia con la forma non risulterebbe una unità sostanziale, ma accidentale»31. Il prodotto dell'unione dei due è un composto (compositum) dotato di esistenza sostanziale, mentre forma e materia non sono di per sé sostanze32. Tommaso

28 Agostino, Il libero arbitrio, cit., II, xviii, 48, p. 1057.
29 Ibid.
30 S. Tommaso D'Aquino, La somma teologica, trad. it. dei domenicani italiani, Edizioni studio domenicano, Bologna 1985, vol. 5, I, q. 75, a.4, p. 188.
31 Ivi, I, q. 76, a.1, p. 208; cfr. Aristotele, De Anima, III, 8.
32 Cfr. P. Pagani, Uomo animale razionale: storia e critica di una definizione, cit., pp. 27-28. Tommaso si domanda se l'anima sia qualcosa di sussistente e affronta la questione riflettendo sul concetto hoc aliquid, che indica un essere concreto, e pone la seguente questione: se l'uomo in quanto compositum è sussistente, ciò di cui è composto, anima e materia, non potranno essere allora singole sostanze (cfr. Tommaso, La somma teologica, cit., I, q. 75, a.2, p. 180); non si potrà quindi dire che l'anima è

dimostra, quindi, di avere una prospettiva non dualistica negando che la materia possa sussistere di per se stessa in qualità di sostanza.
Quanto detto vale anche per il corpo dell'uomo e per l'uomo in generale. «L'uomo è un composto di spirito e materia», in quanto è l'unione di materia, ossia gli elementi corporei, e forma, cioè l'anima; e in quanto compositum egli è sostanza. Mentre la forma è
«identità strutturale», la materia sono le componenti che si ricambiano continuamente nel processo di crescita e poi di invecchiamento degli uomini. Da questi cambiamenti l'anima non rimane immune, modificandosi a sua volta, coinvolta nei mutamenti materiali del corpo33. La stretta relazione che intercorre tra i due principi, forma e materia, fa sì che il corpo sia pensato da Tommaso come una “estroflessione” dell'anima, la sua parte esteriore e visibile.
Tommaso quindi pensa l'uomo come un'unità:
talora viene chiamato uomo, quello che è principale in lui, e cioè: a volte, con ragione, la parte intellettiva, la quale viene denominata uomo interiore; a volte invece, secondo l'opinione di chi è immerso nelle cose sensibili, la parte sensitiva insieme al corpo. E questa viene chiamata uomo esteriore. Non ogni sostanza particolare è ipostasi o persona, ma solo quella, la quale possiede la natura completa della specie. Perciò la mano o il piede non possono dirsi ipostasi o persona. Così neppure l'anima, che è solo parte della specie umana34.
Anche nella dottrina cristiana, dunque, il corpo non è inquadrato in una prospettiva dualistica, pertanto non è lecito attribuire ad esso una funzione accidentale o strumentale. Si tratta piuttosto di una dimensione imprescindibile della condizione umana, perciò di esso bisogna prendersi cura, perché corpo e anima non possono essere separati.
sussistente, anche perché né opera né vi sono attività che essa possa compiere senza il corpo (cfr. ivi, I, q.75, a.2, p. 182). Al problema posto in questi termini, Tommaso risponde «dobbiamo necessariamente affermare che il principio dell'operazione intellettiva, cioè l'anima dell'uomo, è incorporeo e sussistente» (ibid.). Ciò è dovuto alla constatazione che l'anima ha un suo proprio modo di operare, di conoscere, e perciò essa deve sussistere per se stessa; infatti, nulla può operare autonomamente se non è anche sussistente (ivi, I, q. 75, a. 2, p. 184). La problematica si risolve mettendo in luce la duplice valenza dell'espressione hoc aliquid, che può indicare «qualunque essere sussistente», quindi non solo l'anima, ma anche la mano, ecc., ma anche un essere che è sussistente e completo «nella natura di una data specie», quindi l'uomo, ma non l'anima (cfr. ibid.).
33 Cfr. ivi, pp. 28-29.
34 Tommaso, La somma teologica, cit., I, q. 75, a.4, pp. 190-192.

3. Cartesianesimo
È solamente con Cartesio che possiamo legittimamente parlare di dualismo antropologico e di una netta frattura tra l'ambito spirituale e quello materiale: le due realtà, o sostanze, la res cogitans e la res extensa, sono separate e reciprocamente indipendenti. L'antropologia cartesiana, che si basa su questo assunto fondamentale, ha avuto grande fortuna nel periodo della modernità, tanto da essere proiettata sul pensiero cristiano dell'età medievale, arrivando ad oscurare l'antropologia tomista35.
Nelle Meditationes de Prima philosophia (1641) Cartesio affronta il noto dubbio, che lo porta ad affermare l'esistenza della res cogitas, «assolutamente incorporea e indipendente dal corpo», e in seguito e con maggiori difficoltà l'esistenza del corpo, cioè la res extensa: la natura stessa – secondo il filosofo francese – ci insegna tramite sentimenti come il dolore, che siamo presenti in un corpo; con ciò Cartesio afferma l'esistenza della seconda sostanza che però rimane irrimediabilmente separata dalla prima; infatti «tutta la vita fisiologica si spiega secondo Cartesio in modo puramente meccanico, con materia- estensione e moto locale»36. Agli animali, o animali-macchina, spetta solo questo secondo ambito e, ne Les passions de l'âme (1649), Cartesio spiega come sia possibile per gli animali muoversi volontariamente sulla base di dinamiche puramente fisiologiche che coinvolgono gli «spiriti», ossia le parti più sottili del sangue, e che hanno un ruolo fondamentale, insieme al cervello e ai muscoli nella determinazione di un movimento, per il quale gli animali non necessitano dell'anima37.
A differenza di quanto si è visto in riferimento agli altri filosofi considerati, nella teoresi cartesiana si riscontra effettivamente un dualismo antropologico e la separazione fa sì che nel costituirsi del singolo uomo, il corpo non sia qualcosa di intrinsecamente legato all'anima. L'unità dell'essere umano e la compenetrazione di anima e corpo vengono sostituite dalla funzione della ghiandola pineale, unica valvola di comunicazione tra le due realtà38.
35 Cfr. Sofia Vanni Rovighi, Uomo e natura: appunti per una antropologia filosofica, Vita e pensiero, Milano 1996, pp. 73-74.
36 Ivi, pp. 87-88.
37 Cfr. ivi, p. 88.
38 Cfr. Ludovico Geymonat, Cartesio, in: Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. 2, Garzanti, Milano 1978, pp. 289-291.

La distinzione tra anima e corpo, tra materia pensante e estesa – tra l'anima, che è caratterizzata da volontà e intelletto, e il corpo, che è conoscibile in termini quantitativi – apre una strada sicura per la scienza moderna, che guadagna con ciò un oggetto fisico conoscibile in termini propriamente scientifici, cioè quantitativi e oggettivi, e che non concerne le questioni della metafisica tradizionale (qualità, forma, essenza, ecc.), le quali potrebbero interferire nel suo metodo di ricerca: l'elaborazione di questa nuova fisica si oppone a quella scolastica in favore di una misurazione più scientifica. In breve, ciò che Cartesio prospetta è una fisica meccanicistica: è in questi termini che viene vista e caratterizzata la realtà fisica, e perciò anche l'uomo nella sua dimensione corporea, una sorta di «uomo-macchina», accomunato a tutti gli altri corpi fisici e studiato secondo le medesime modalità e leggi39.
Questo excursus mi ha permesso di presentare con più chiarezza quali siano state le principali concezioni filosofiche antiche e cristiane sul corpo e sul suo rapporto con la dimensione dell'anima. Sebbene non si possa trovare fino a Cartesio un vero e proprio dualismo sul quale basare una svalutazione della materialità, bisogna ricordare che sia nella filosofia platonica che in quella cristiana l'ambito dell'anima è prioritario rispetto al corpo, in quanto sede della Verità. In conseguenza di ciò, l'anima è ritenuta più degna di essere coltivata, mentre al corpo non andrebbe riservata una cura eccessiva che potrebbe risultare fuorviante, e deviare l'attenzione da ciò che è essenziale.
4. I filosofi e la moda
Al di là della questione della corporeità, la filosofia non hanno offerto riflessioni molto approfondite su temi connessi alla moda. Anche oggi che, come si è visto nel capitolo precedente, il tema è diventato più di rilievo in ambito accademico e per varie discipline, i testi scritti da filosofi rimangono in numero molto ridotto.
Sfogliando i testi di filosofia troviamo disseminate in vari autori critiche ad un'eccessiva attenzione rivolta all'abbigliamento e all'aspetto esteriore. Gli esempi sono numerosi: ho accennato ad un brano del Fedone in cui Platone dice che il filosofo non dovrebbe aver troppa cura dei vestiti e delle cose esteriori, e si trova un altro brano
39 Ibid.

nell'Ippia Maggiore. La discussione si articola intorno al bello e al conveniente, e quest'ultimo – dice Ippia – «è ciò che fa apparire belli gli oggetti. Se, per esempio, uno si mette abiti e calzari che si armonizzano, anche se ridicolo, apparirà più bello». Socrate ribatte chiedendo se allora questo "conveniente" non faccia apparire gli oggetti più belli di quanto siano in realtà: «una specie di inganno rispetto al bello» quindi, che non è ciò che Ippia e Socrate stanno cercando: «ciò per cui tutte le cose sono belle»40. La bellezza che qui viene associata agli abiti sarebbe quindi una bellezza ingannevole.
Anche Seneca nel dialogo De brevitate vitae critica coloro che si perdono in un cattivo otium – i cosiddetti «indaffarati» –, e tra questi coloro che si prendono eccessiva cura della loro immagine:
trascorrono ore e ore dal barbiere a farsi radere i pochi peli cresciuti durante la notte, a tenere consiglio su ogni capello [...]. E come si arrabbiano se il barbiere è stato un po' trascurato, convinto di avere a che fare con un uomo! Come si scaldano se qualche ciocca della loro folta capigliatura è stata sacrificata, se qualche capello è rimasto fuori posto e non tutti ricadono in morbidi riccioli! [...] Chi non preferisce essere di bella presenza, piuttosto che onesto?41
Bisognerà però aspettare il Settecento perché la moda diventi argomento più diffuso, e ciò avverrà in particolar modo in merito alla relazione tra virtù e vizi morali e beneficio pubblico. Sebbene molti degli autori considerino la moda, e il lusso, come vizi morali, essi li ritengono utili in vista dello sviluppo del commercio e dell'economia, ma anche delle arti, quindi per la prosperità dello stato nel suo complesso; questi si oppongono a posizioni più moraleggianti, che contrastano i vizi preferendogli lo sviluppo delle virtù, e mantenendosi più a distanza da considerazioni prettamente economiche.
40 Platone, Ippia Maggiore, in: Platone, Opere complete, trad. it. di Francesco Adorno, vol. 5, Laterza, Roma- Bari 1996, 294 a-b, pp. 318-319. Socrate afferma: «Il conveniente non può essere il bello, poiché esso fa apparire le cose più belle di quello che sono, se dobbiamo seguire il tuo ragionamento, e non le fa apparire quali sono. Ecco invece, quel che dobbiamo sforzarci di definire: che cosa sia il quid che le fa essere belle» (Ivi, 294 b-c, p. 319).
41 Seneca, La brevità della vita, in: Seneca, Dialoghi morali, trad. ti. di Gavino Mavica, a cura di Carlo Carena, Einaudi, Torino 1995, 12, 3, p. 347. Da ricordare che secondo Baldini la moda nasce già in Grecia e in relazione alle acconciature (cfr. supra cap. 1, par. 3). Ma già in tempi più remoti troviamo accenni ad un contrasto tra ricercatezza esteriore e valore interiore; così appare da queste parole di Archilocoo (VII secolo a.C.): «Non mi aggrada un capitano che con lunghi passi incede, che di riccioli si adorna e si rade il mento. A me basta uno piccino, anche se ha le gambe torte, ma che sia di saldo cuore e abbia fermo il piede» (Bruno Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad it. di Vera Degli Alberti, Einaudi, Torino 1963, pp. 94-95).

Bernard de Mandeville
Il primo autore che è interessante considerare è Bernard de Mandeville (1670-1733), il quale pubblica una favola, The Fable of Bees, or Private Vices, Publick Benefits (1705-14), che fa scalpore nell'Inghilterra del tempo, poiché antepone «le ragioni dell'economia a quelle della morale»42. La favola mette in scena l'opposizione tra due alveari: il primo, nel quale prosperano il vizio, la ricchezza, il lusso e i piaceri è prospero, «fiorente, ammirato e temuto»43; il secondo, invece, si oppone al primo perché in esso ciò che fiorisce è la virtù degli uomini, ma in questo secondo alveare «ogni commercio, ogni iniziativa produttiva, tutte le arti, tutte le manifatture, tutti i saperi e le raffinatezze del vivere declinano rapidamente e infine si spengono»44. Secondo Mandeville, quindi, l'aumentare della virtù va di pari passo con il regresso della società, che regredisce ad una sorta di “stato naturale”45.
Per Mandeville il fatto che ognuno persegua i propri fini e desideri, basta a fare da stimolo allo sviluppo delle società moderne e complesse: questi, infatti, mettono in moto le attività produttive, e lo sviluppo del lavoro, portando ricchezza alla società nel suo complesso, per cui anche i più poveri ne beneficiano46.
Le passioni mondane, il lusso, l'ambizione, la competizione, la volontà di prevalere e di accumulare, di possedere e di consumare, persino il ridicolissimo amore per la “moda”,
42 Carlo Sini, Introduzione, in: Bernard de Mandeville, La favola delle api. Vizi privati e pubbliche virtù (1714), trad. it. di Clara Valenziano, BUR, Milano 2011, p. 7.
43 Cfr. ibid. «Un grande alveare affollato di api,/ che viveva nel lusso e negli agi,/ e, tuttavia, tanto famoso per leggi e armi,/ quanto fecondo di numerosi e vitali sciami,/ era considerato la grande culla/ delle scienze e delle arti» (Bernard de Mandeville, La favola delle api. Vizi privati e pubbliche virtù (1714), trad. it. di Clara Valenziano, BUR, Milano 2011, p. 33). Il riferimento è alla società inglese del primo Settecento (cfr. C. Sini, Introduzione, cit., p. 7).
44 Ibid. «E mentre vanità e lusso diminuiscono,/ anche le vie del mare sono abbandonate./ Non ci sono più mercanti,/ e intere fabbriche vengono chiuse» (B. de Mandeville, La favola delle api, cit., p. 41).
45 Cfr. ivi, p. 8. In questo stato naturale si tornerà ad essere più onesti, ma si perderà in qualità di vita, il riferimento è al fatto che si dovranno mangiare delle «ghiande», riferimento che evoca la povertà cui si andrebbe incontro in uno stato di quel genere Nella Repubblica Platone descrive uno stato virtuoso e giusto, caratterizzato dalla frugalità dei costumi, ma alle obiezioni dei suoi interlocutori, secondo i quali «una siffatta condizione di vita, sembra più adatta alla vita dei porci, che si nutrono di ghiande, che non al vivere civile degli essere umani», Socrate descrive una città simile all'alveare prospero di Mandeville, ma corrotta (cfr. ibid.).
46 «La radice del male, l'avarizia,/ pessimo, dannato, pestifero vizio,/ era schiava della prodigalità,/ nobile peccato, mentre il lusso/ dava da vivere a un milione di poveri/ e l'odiosa superbia a un altro milione./ Perfino l'invidia e la vanità/ favorivano l'industria» (B. de Mandeville, La favola delle api, cit., pp. 35-36).

sono certamente tutti “vizi”, se considerati sotto un profilo personale e privato, ma sono socialmente grandi incentivi e […] incrementano la ricchezza e il progresso nelle arti, nelle scienze, nell'artigianato, nelle manifatture, nell'industria e in generale nelle opere dell'ingegno47.
Nel testo, oltre al discorso che connette lussi e sviluppo, ci sono alcuni accenni alla moda, la quale ha la medesima funzione del lusso: «è incredibile quanti lavori si facciano e quante persone siano impiegate per soddisfare la moda volubile e il lusso delle donne»48; anche se non si può dire che nel testo la moda sia valutata positivamente, ma connottata più nei termini di follia.
Già ne La favola delle api troviamo una descrizione della modalità di diffusione della moda dalle classi superiori verso quelle inferiori, che successivamente verrà indicata come trickle down theory:
Il tessitore, il calzolaio, il sarto, il barbiere e tutti coloro che esercitano umili mestieri e vivono con poco, non appena guadagnano i primi denari, hanno l'impudenza di vestirsi come ricchi commercianti. […] La moglie del commerciante, che non può tollerare l'arroganza di questi lavoratori, va a rifornirsi all'altro capo della città, e disdegna di seguire altra moda che non sia quella che viene di là; questa superbia mette in allarme la Corte, le donne di alto rango temono di vedere le mogli e le figlie dei commercianti vestite come loro […]. I sarti vanno mandati in giro per il mondo, e la ricerca di nuovi modelli diviene la loro unica occupazione, di modo che le dame possano sempre indossare vestiti di nuova moda non appena le insolenti borghesi cominciano a imitare quelli che esse già portano49.
L'Encyclopedie
Passando a considerare autori più moderni, nell'Encyclopedie (1751-1772) di Diderot e d'Alembert le voci riguardanti la moda e i vestiti svelano una concezione critica e sarcastica dell'abbigliamento alla moda e dei comportamenti che si possono osservare a corte50. Nell'opera l'abbigliamento viene considerato da un punto di vista funzionale, secondo le sue tre funzioni di base: pudore, protezione e ornamento. La critica si rivolge in particolare a quest'ultima funzione, soprattutto perché le mode si susseguono ricercando sempre la novità, senza alcuno scopo, se non la moda stessa. Nella voce ad essa dedicata nell'Encyclopedie, la moda viene connessa a «coutume, usage, maniere de s'habiller,
47 C. Sini, Introduzione, cit., p. 12.
48 B. de Mandeville, La favola delle api, cit., p. 189.
49 Ivi, p. 116.
50 Costanza Baldini, Sociologia della moda, Armando, Milano 2008, p. 12.

de s'ajuster, en un mot, tout ce qui sert à la parur et au luxe»51. Nasce da «l'envie del plaire plus que soi-même» e «quoiqu'elles naissent encore de la frivolité de l'esprit, elles [les modes] sont un objet important, dont un état de luxe peut augmenter sans cesse les branches de son commerce»52. Infatti, secondo Diderot e d'Alembert, i francesi hanno avuto un vantaggio sugli altri popoli perché hanno potuto vendere le loro mode agli altri stati.
Con il termine mode si intendono gli «ornemens, dont on enjolive les habits et les personnes de l'un et l'autre sexe. C'est ici le vrai domaine du changement et du caprice. Les modes se détruisent et se succedent continuellement quelquefois sans la moindre apparence de raison, le bizarre étant le plus souvent préferé aux plus belles choses, par cela seul qu'il est plus nouveau. Un animal monstrueux paroît-il parmi nous, les femmes le font passer de son étable sur leur têtes »53. La voce modes lancia una critica al susseguirsi delle mode che insegue solo il cambiamento fine a se stesso – critica che risuonerà anche in Kant – anche se questa viene smussata dalla considerazione economica che porta a lodare «l'industrie d'un peuple qui cherche à faire payer aux autres ses propres moeurs et ajustemens»54. Inoltre, si legge anche che la moda è una follia ed è da biasimare quando le assoggettiamo quello che riguarda «le goût,le vivre, la santé, la coscience, l'esprit et les connoisances»55 ; ma, il giudizio non si esaurisce nella negatività: «on devroit seulement admirer l'inconstance de la légereté des hommes qui attachent successivement les agrémens et la bienséance à des choses tout opposées, qui emploient pour le comique et pour la mascarade ce qui leur a servi de parure grave et d'ornement très-sérieux»56.
Jean-Jacques Rousseau
Nel periodo illuminista, anche Rousseau (1712-1778) accenna alla questione della moda, ma prevalentemente da un punto di vista biografico: nelle Confessioni, infatti, ci narra delle sue scelte di abbigliamento e del suo rapporto personale con la moda. Racconta dei cambiamenti nel passaggio da un abbigliamento lussuoso e modaiolo ad uno più
51 Denis Diderot e Jean le Rond d'Alembert, Encyclopedie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, Briasson, David, Le Breton, Durand, Parigi 1751-1772, voce: modes.
52 Ibid.
53 Ibid.
54 Ibid.
55 Ibid.
56 Ibid.

austero, persino un po' trascurato, per il quale si sentiva a volte fuori luogo frequentando la società57. L'abbandono della moda e le descrizioni di Rousseau non sono estranee però alla sua filosofia: nell'Emilio esprime le sue convinzioni circa l'importanza di un ritorno ad uno stato di vita più naturale, che si discosti dall'artificialità della società moderna. Perciò vi è anche un rifiuto degli abiti alla moda e complessi, magari anche eccessivamente scomodi: «tutto ciò che impaccia e costringe la natura è di cattivo gusto»58. Se questo vale per gli adulti – e Rousseau mette in pratica per primo le proprie convinzioni – è ancora più importante per i bambini: affermando l'importanza dell'attività fisica, per «esercitare il più possibile il corpo dei bambini», Rousseau aggiunge alcune considerazioni sull'abbigliamento più adatto alla corretta crescita: «le membra di un corpo che cresce devono muoversi liberamente negli abiti; nulla deve intralciare i movimenti e la crescita, quindi nulla di attillato, nulla che si incolli al corpo, nessuna allacciatura che stringa. L'abbigliamento francese, fastidioso e nocivo per gli adulti, è pernicioso soprattutto nei bambini»59. Quindi, come gli altri illuministi, Rousseau ha una concezione critica della moda, in particolare verso gli eccessi del suo tempo60.
57 Cfr. C. Baldini, Sociologia della moda, cit., pp. 13-14. Così Rousseau racconta: «la mia riforma dell'abbigliamento: abbandonai dorature e calze bianche, presi una parrucca tonda, deposi la spada, vendetti l'orologio» (Jean-Jacques Rousseau, Le confessioni (1782), trad. it. di Giorgio Cesarano, Garzanti, Milano 2000, p. 376). Ed in seguito al furto della pregiata biancheria parigina che ancora lo teneva ancorato ad un lusso cui voleva rinunciare completamente: «avendo perfezionato così la mia riforma, non pensai più che a renderla solida e durevole, lavorando a estirpare dal mio cuore quanto ancora si legava al giudizio degli uomini, quanto poteva stornarmi, per paura di biasimo, da ciò che fosse buono e ragionevole di per se stesso» (ivi, p. 377).
58 Jean-Jacques Rousseau, Emilio, o dell'educazione (1762), trad. it. di Emma Nardi, La Nuova Italia, Firenze 1995, p. 448. «Il luccichio dell'abbigliamento è scomodo sotto mille aspetti. Per conservare tra gli uomini tutta la libertà possibile, vorrei essere vestito in modo da sembrare a posto in qualsiasi rango, e da non farmi notare in alcuno; senza affettazione e senza grossi cambiamenti, vorrei sembrare un popolano all'osteria ed una persona di riguardo al Palais Royal» (ivi, p. 425).
59 J-J. Rousseau, Emilio, o dell'educazione, cit., p. 129; il brano prosegue con indicazioni circa le tipologie di vestiti e i colori migliori, la scelta degli abiti a seconda dello stile di vita e dei cambiamenti stagionali, e i copricapo (cfr. ivi, pp. 129-131).
60 Cfr. C. Baldini, Sociologia della moda, cit., pp. 15-16. Rousseau critica in particolare alcune pratiche dell'abbigliamento femminile, come l'uso di corsetti di stecche di balena, perché «deformano il punto vita» e, per di più, «non è affatto gradevole vedere una donna tagliata in due come una vespa» (J.-J. Rousseau, Emilio, o dell'educazione, cit., p. 448).

Adam Smith
Un altro filosofo che si è occupato della questione della moda è Adam Smith (1723- 1790) che nel testo Teoria dei sentimenti morali pone la moda in relazione al costume, riflettendo sulle loro differenze e sottolineando come la moda sorga e si diffonda a partire dalle classi sociali più elevate, per poi essere copiata da quelle inferiori61. L'influenza della moda, associata da Smith alla consuetudine, non si limita all'abbigliamento e all'arredamento, «ma si estende a qualsiasi cosa sia oggetto di gusto: musica, poesia architettura»62. Mentre i cambiamenti nella moda nei primi due ambiti sono molto rapidi, «le produzioni delle altre arti durano molto di più»63. Inoltre, Smith arriva ad estendere l'influenza della moda e della consuetudine fino all'ambito morale:
«poiché i nostri sentimenti su ogni genere di bellezza sono così tanto influenzati dalla consuetudine e dalla moda, non ci si può aspettare che quelli sulla bellezza della condotta siano del tutto estranei al dominio di questi due principi»64.
Anche nell'Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni sono presenti alcuni accenni ai vestiti: data la natura economica dell'opera, si trovano prevalentemente considerazioni sul prezzo di prodotti e materie prime, sulle innovazioni tecnologiche nella lavorazione e produzione di abiti, e su come ciò influisca sui prezzi di mercato65. Vi è anche un accenno alle leggi suntuarie: «nel 1463, nel terzo anno del regno di Edoardo IV, fu decretato che “nessun servo agricolo, nessun lavoratore comune, nessun servo artigiano abitante fuori di una città o di un borgo, potrà usare o portare nel suo vestiario una stoffa che costi più di due scellini la iarda”»66. Ciò che è più interessante, però, è la distinzione tra beni necessari e beni di lusso: le cose necessarie per Smith non sono solamente ciò che è strettamente necessario al sostentamento della vita, come ad
61 Cfr. C. Baldini, Sociologia della moda, cit., pp. 15-16. «Dalla nostra tendenza ad ammirare e, di conseguenza, a imitare il ricco e il potente, deriva il fatto che essi riescono a lanciare delle mode, e a guidarle» (Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali (1759), trad. it. di Stefania Di Pietro, BUR, Milano 2001, p. 172). Il modello di diffusione qui richiamato è il trickle down (cfr. supra, cap. 1, par. 5; cfr. anche L. Svendsen, Filosofia della moda, cit., pp. 40-41).
62 A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, cit., p. 394.
63 Ibid.
64 Ivi, p. 401; il discorso prosegue riconoscendo che l'influenza della moda è però molto meno incisiva nell'ambito morale, rispetto all'influenza che ha in altri ambiti (cfr. ivi pp. 401-403).
65 Cfr. Adam Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, trad. it. di Franco Bartoli, ISEDI, Milano 1973, pp. 52, 116, 143, 163, 174, 246-247, 553.
66 Ivi, pp. 248-249.

esempio l'alimentazione, ma anche «tutto ciò di cui, secondo gli usi del paese, è considerato indegno che la gente rispettabile, anche dell'ordine più basso, sia priva»; tra queste vi è anche la biancheria: «una camicia di tela, a rigor di termini, non è una necessità vitale», ma in Europa «un lavoratore giornaliero che si rispetti si vergognerebbe di apparire in pubblico senza camicia di tela, dato che la sua mancanza verrebbe ritenuta il segno di un grado di povertà tanto ignominioso, da presumere che nessuno ci possa cadere se non per una pessima condotta»67. Lo stesso discorso vale anche per le scarpe di cuoio68. Ciò che è interessante notare delle riflessioni di Smith è che i vestiti, considerati insegne esteriori nella società, vengano collegati all'ambito morale.
Pietro Verri
Restando su tematiche affini a quelle trattate da Smith, si possono citare le Considerazioni sul lusso di Pietro Verri (1728-1797), il quale si avvicina a questo tema da una prospettiva economica, definendo il lusso come qualcosa di non necessario alla vita degli uomini, di cui essi fanno uso «per fasto, ovvero per semplice opinione»69. Verri non si addentra in considerazioni morali, se non accennando brevemente al fatto che il lusso è un vizio, ma affermando che non sempre i vizi morali coincidono con quelli politici70. Le sue considerazioni sono principalmente di natura economica: in primo luogo, afferma che il lusso prodotto della manifattura nazionale non può essere proibito, perché altrimenti si toglierebbe lavoro agli artigiani e ciò andrebbe a «discapito della nazione» 71. Secondo Verri, infatti, se la nazione basa le sue ricchezze sulla agricoltura, è importante che vi sia una valvola di sfogo nella quale i proprietari terrieri possano incanalare il superfluo che
67 Ivi, p. 862. Da notare qui che l'apparenza, e l'abbigliamento, si intrecciano con l'ambito della moralità; Wilson rileva che «le implicazioni morali degli abiti che indossiamo sono […] fermamente radicate nella nostra coscienza sociale» (cfr. E. Wilson, Vestirsi di sogni, cit., p. 20).
68 Cfr. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezzaa delle nazioni, cit., p. 862.
69 Pietro Verri, Considerazioni sul lusso (1764), in: Pietro Verri, Opere filosofiche e di economia politica, tomo II, Società tipografica de' classici italiani, Milano 1835, p. 371.
70 Se il lusso è un vizio morale non è però un vizio politico (cfr. ibid.).
71 Cfr. ivi, p. 372. E se il lusso proviene dalle manifatture di altre nazioni? «È male che il superfluo di una nazione esca per pagare gli artigiani forestieri del lusso; sarebbe bene che altrettanti artigiani si stabilissero nella nazione; così accrescerebbesi la popolazione, e non uscirebbe il denaro» (ivi, pp. 372- 373). Diderot nell'Encyclopedie fa riferimento agli intellettuali italiani che si lamentano del fatto che molti beni di lusso vengono importati dalla Francia (cfr. D. Diderot, Encyclopedie, cit.).

deriva loro dai prodotti agricoli, che essi possono cambiare «in denaro» per procurarsi ciò che soddisfa i loro desideri72. Il lusso, che qui viene fatto coincidere con la passione o con un desiderio, è motore dell'azione: «non si dà azione senza moto, non si dà moto senza un principio impellente». Qualunque passione che possa stimolare la produttività dovrebbe essere benvoluta dai politici: e in questo caso «la vanità de' terrieri, spingendoli al lusso, è quella stessa che serve di uno sprone e stimolo incessante a tener risvegliata l'industria de' coltivatori»73. Il lusso, inoltre, (i) è prodotto della distribuzione disomogenea delle ricchezze nella nazione, ma contribuisce a riportare una situazione omogenea, perché «dissipando i pingui patrimoni torna a dividerli»74; e (ii) attraverso di esso si manifesta la ricchezza e la prosperità, la quale fa da stimolo ai poveri e alla loro
«speranza d'arricchirsi» tramite il lavoro, mantenendoli quindi attivi75. Fra le altre opere di Verri, ricordo che la parola «moda» è menzionata, con intenti satirici, negli almanacchi intitolati Il gran Zoroastro (1758, 1759) «dove sotto il velo delle predizioni astrologiche sono messi alla berlina letterati e pedanti, maestri di scuola maneschi e medici alla moda»76.
Melchiorre Gioia e Antonio Rosmini
Altri due intellettuali italiani che si sono occupati del tema della moda sono Melchiorre Gioia (1767-1829) e Antonio Rosmini (1797-1855), il quale riprende polemicamente la valutazione della moda fatta dal primo ne Il primo e nuovo galateo (1802)77.
Gioia dedica l'intero Articolo quarto dell'opera al tema degli abiti, e inizia le sue riflessioni affrontando la questione della «pulitezza degli abiti»78: «sebbene l'abito non
72 Cfr. ivi, p. 373.
73 Cfr. ivi, pp. 373-374. Perciò Verri ritiene dannosa ogni legge suntuaria e che limiti la possibilità di convertire «il denaro in un dato genere di merci» (ibid.).
74 Cfr. ivi, p. 375.
75 Cfr. ivi, p. 376.
76 Carlo Capra, Verri, Pietro e Alessandro, in: AA. VV, Enciclopedia Treccani online (consultata il 06/02/2015).
77 Melchiorre Gioia, Il primo e nuovo galateo (1802), vol. 1, Tipografia della Svizzera italiana, Lugano 1847. Il testo ha avuto una discreta fortuna, essendone stata ristampata una seconda edizione nel 1820, una terza ne 1822, e una quarta nel 1827.
78 Cfr. ivi, p. 238.

faccia il monaco, pure la maggior parte degli uomini, i quali hanno più occhi che intelletto, dall'abito giudicano le persone»79. Perciò è importante che gli abiti coi quali ci si presenta in pubblico siano in primo luogo puliti80; che siano pudichi, in particolare quelli femminili81; che siano convenienti all'età, al sesso e alla condizione sociale82; e che siano in linea con le usanze del luogo in cui si vive83. Il brano si conclude rilevando le classiche funzioni dell'abbigliamento: «oltre a difenderci dalle intemperie delle stagioni e servir di velo al pudore, sono destinati a procurare alla persona un'aria di vaghezza, di brio, di nobiltà, di grazia»84, e si mette in rilievo come gli ornamenti vengano scelti non tanto sulla base del fatto che questi ci fanno «comparir belli ed eleganti» ma piuttosto per
«comparir ricchi ed agiati», anche se a volte un'eleganza forzata può far sembrare più ridicoli che belli85.
Gioia prosegue con un'Apologia della moda, nella quale ne prende le difese contro gli attacchi di cui molto spessa è stata oggetto, in particolare da parte dei poeti satirici e dei moralisti. La tesi di Gioia è che la moda non è qualcosa di negativo: infatti, (i) non è contro natura, anzi è consono alla natura umana cercare di abbellirsi: «tale è l'indole dell'uomo che d'occupazione abbisogna e di trastullo: l'uniformità lo annoia, la novità lo diletta», e impegnando coloro che hanno tempo e denaro a disposizione, fa sì che questi cadano più difficilmente nella corruzione86; (ii) «le variazioni della moda non sempre
79 Ivi, pp. 238-239. Questo non ha solo un'accezione negativa, in quanto «l'opinione [altrui] è uno dei freni che dal traboccare del vizio ritengono» (ivi, p. 239).
80 Cfr. ibid.
81 Cfr. ivi, pp. 240-241.
82 «L'abito deve corrispondere allo stato economico: quindi sì l'eccedente e sì la meschina spesa merita censura. Il desiderio di imitare le classi superiori induce talvolta le inferiori a fare pompa d'abiti sproporzionati alle loro rendite» (ivi, pp. 242-243). Gioia rileva come le classi inferiori imitano le inferiori, movimento che in seguito verrà elencato tra i pattern di diffusione della moda come trickle down theory (vedi supra, cap. 1, par. 5).
83 Secondo Gioia «l'instabilità dell'umana fantasia, i progressi della civiltà, il bisogno di piacere, la noia che nasce dall'uniformità, richieggono necessariamente de' cambiamenti negli abiti: volere resistere a questo movimento ondulatorio e progressivo, è volere singolarizzarsi per inezie, e talora contro ragione» (M. Gioia, Il primo e nuovo galateo, cit., p. 243). È interessante che si mettano in rilievo cause di diffusione della moda che si considerano ancora oggi come valide (cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., pp. 67-74). Per Gioia è meglio non indisporre gli animi «colla singolarità dell'abito», poiché questo a suo parere porta le altre persone ad essere più critiche (cfr. M. Gioia, Il primo e nuovo galateo, cit., pp. 243-244).
84 Ivi, p. 244.
85 Cfr. ivi, pp. 245-246.

sono irragionevoli e ridicole», per es. l'uso di tagliarsi i capelli porta una maggiore igiene87; (iii) la moda accresce la ricchezza, perché dà valore a materie prime altrimenti inutilizzate (ad esempio l'ambra), ed è «il mezzo per cui le ricchezze concentrate nelle mani degli uni, sugli altri si distribuiscono, e per cui il ricco alimenta il povero non a titolo di limosina, ma di lavoro»88; (iv) le nuove mode sono prima accessibili solo per i più ricchi e divengono oggetto dei desideri delle classe più basse, allora
gli artisti imitano con materie meno costose e minor finezza di lavoro la prima foggia, dimodochè divenuta questa quasi comune, le persone ricche restano eclissate. Il desiderio di distinguersi induce allora i ricchi ad abbandonare quella foggia ed a seguire una seconda recentemente inventata89.
A questo punto – prosegue Gioia – la prima foggia scende notevolmente di prezzo, diventando accessibile anche alle persone meno abbienti «le quali perciò vengono messe a parte dei piaceri, da cui senza le variazioni della moda resterebbero escluse»90; (v) la moda funziona come stimolo contro l'ozio «che d'ogni specie di vizi è fonte copiosa e inesauribile»91; (vi) ricollegandosi all'accusa rivolta ai prodotti della moda, cioè di essere contro natura e finti, Gioia, si appella al fatto che anche le arti sono prodotte dall'uomo, ma ciò non le rende meno gradevoli92; (vii) le donne usano la loro bellezza, esaltata dagli ornamenti della moda, per contrastare il dominio maschile93. Infine, (viii) Gioia si pone contro l'argomento morale, secondo il quale la moda sarebbe portatrice di corruzione,
86 Cfr. ivi, pp. 248-249. «Per le persone che la necessità non costringe a lavorare per vivere, crescerebbe la somma de' momenti noiosi, e quindi gli stimoli alla corruzione, se intorno a' loro abiti, a' loro vezzi, a' loro gioielli seriamente non si occupassero» (ivi, p. 248). Gioia articola anche un confronto tra le mode dei selvaggi – coloro che sono più vicini a uno stato naturale – e quelle dei popoli «inciviliti»: i primi modificano il corpo, i secondi gli abiti; le prime «offendono la ragione e il senso comune» e sono irreversibili: ad esempio, schiacciare la testa per renderla piatta o sferica, forarsi il naso o le labbra, allungare le orecchie, gonfiarsi le guance, ecc., le seconde «sono per lo più indifferenti, giacché si può tosto disfarsene allorché più non aggradano» (ivi, pp. 248-249).
87 Cfr. ivi, pp. 249-252. Inoltre, «grazie ai reclami della filosofia sono scomparsi i tormentosi busti che rendevano il corpo femminile simile a quello della vespa» (ivi, p. 249). cfr. anche J.-J. Rousseau, Emilio, o dell'educazione, cit., p. 448
88 Ivi, p. 252.
89 Ivi, p. 253.
90 Ibid. Si trova qui una formulazione del modello di diffusione detto trickle down theory (vedi supra, cap. 1, par. 5), oltre ad una precisa descrizione di ciò che avviene oggi nell'ambito del fast fashion, dove si produce un pezzo ispirato a quelli visti sulle passerelle, ma a costi più bassi, e di qualità inferiore, che viene venduto persino prima di quello originale (cfr. John Sims, 100 Ideas that Changed Street Style, Laurence King, Londra 2014.p. 180).
91 M. Gioia, Il primo e il nuovo galateo, cit., p. 253.
92 Cfr. ivi, pp. 253-255.
93 Cfr. ivi, pp. 255-256.

sostenendo che grazie alla moda possa verificarsi anzi una diminuzione della corruzione. Qui l'analisi si fa maggiormente articolata, ed è di particolare interesse perché su questo punto insisterà molto Rosmini.
Secondo Gioia, sia nel caso dei poveri sia dei ricchi la moda ha l'effetto di diminuirne la corruzione: infatti, i primi, dovendo lavorare per potersi permettere l'acquisto di beni costosi e alla moda, resteranno lontani dalla corruzione94; i secondi dovranno invece destinare parte del loro capitale alla moda, perciò questa parte verrà sottratta alla corruzione95. Inoltre, la bellezza delle donne amplificata dalla moda contribuisce a renderle oggetto d'amore e di maggior rispetto da parte degli uomini96. Gioia conclude la sua Apologia sostenendo che le fogge della moda non sono «segni di corruzione, come non sono segni di virtù i cenci della rozzezza»97 e che la moda non può essere guardata
«some segno e causa della corruzione de' costumi» come, allo stesso modo, la vernice non può essere guardata come causa della corruzione del legno98.
Andando a considerare le opinioni e le critiche di Rosmini, è utile in primo luogo mettere in evidenza come i due contributi abbiano caratteri differenti: mentre Gioia, con sensibilità più economica, affronta la questione della moda sulla base di una morale utilitaristica, Rosmini non può essere d'accordo con questa mossa e insiste invece sull'educazione più propriamente morale, che porta l'uomo ad essere virtuoso.
Nell'Esame delle opinioni di Melchiorre Gioia in favor della moda Rosmini considera in particolare le argomentazioni di Gioia in favore della moda e contro i moralisti e ne articola un esame, che si connota di certo per dei toni ben più critici nei confronti del fenomeno. La critica si articola per punti, (i) si considera l'affermazione per cui la moda, perché accresce i bisogni, spinge a lavorare di più e ciò allontana dalla corruzione; al contrario secondo Rosmini l'aumento di mezzi a disposizione porta ad un aumento della corruzione99, inoltre, aggiunge che dal desiderio di acquistare determinati beni alla moda
94 «Aumento di lavoro è uguale a decremento di corruzione» (ivi, p. 256).
95 «Da un lato la moda diminuisce il capitale disponibile per la corruzione, dall'altro presenta alla sensibilità del ricco mille rinascenti piaceri diversi, e l'esaurisce in parte» (ivi, p. 257).
96 Cfr. ivi, pp. 258-259.
97 Ibid.
98 Ivi, p. 259.
99 Cfr. Antonio Rosmini, Opuscoli filosofici, volume II, dalla Tipografia Pogliani, Milano, 1827-28, pp. 107- 108.

o costosi non ne consegue che l'uomo diventi più laborioso100; anzi secondo Rosmini dedicarsi alla moda ha proprio l'effetto opposto: la donna «è meno sollecita della casa, i lavori domestici le si fanno intollerabili e rozzi», ma anche «il giovane dottore lascia lo studio, il mercante il banco, il letterato lo scrittoio, allorchè troppo insegue le mode»101. Rosmini aggiunge anche che instillare l'amore delle cose esterne è negativo perché accresce la vanità e la leggerezza e non è «un mezzo che necessariamente accresca gli onesti travagli»102; inoltre - e qui risulta particolarmente il carattere morale della critica - Rosmini evidenzia che Gioia tesse le lodi della moda considerandolo come una sorta di “male minore”: «collo stesso argomento si può lodar l'ubriachezza perché accrescendo lo smercio del vino è utile ai bettolieri che lo vendono; si possono lodar le malattie perché sono lucrose ai medici che le curano; si possono lodar i litigi perché sopra di quelli vivono ed arricchiscono gli avvocati»103. Perciò, secondo Rosmini, più che da stimolo per la produttività, la moda fa stimolo alla corruzione: «il lavoro non può venire accresciuto che dall'aumento della moralità: la moda ed il lusso senza di quest'elemento intellettuale e morale, non fa che aumentar le ingiustizie, e render l'uomo invidioso frodolento, ladro, assassino: pieno insomma di tutti que' vizi onde può giungere ad appropriarsi in mala guisa i beni altrui»104. Anche per quanto riguarda i ricchi, Rosmini ritiene che la moda non allontani, ma anzi spinga alla corruzione: egli rileva i limiti dell'argomentazione di Gioia: questi ritiene infatti che la parte di capitale spesa per la moda venga tolta alla corruzione, ma Rosmini sostiene che ciò sarebbe valido solo se il capitale potesse quantificarsi e definirsi una volta per tutte, ma esso si accresce 105. Ciò
100 Cfr. ivi, pp. 108-109. Secondo Rosmini «i poveri più impazienti […] più esigenti sono ben sovente anche i più pigri, i più oziosi, quelli che hanno meno voglia di lavorare anche quando se ne dà loro l'occasione. La natura umana non bisogna immaginarsela, ma bisogna osservarla: i vizi anche più contrarii si trovano insieme» (ibid.). Piuttosto, perché un uomo diventi più laborioso, bisogna che si adoperino «mezzi morali» e che gli si mostri che «la causa de' suoi mali non è altra che la sua infingardaggine, perché altrimenti egli ne darà la colpa a tutt'altro» (ibid.).
101 Ivi, p. 110.
102 Ivi, pp. 110-111.
103 Ivi, p. 111.
104 Ivi, pp. 114-115. Rosmini è qui estremamente attuale, come si vedrà oggi assistiamo a casi di cronaca nera che coinvolgono giovani disposti ad uccidere per avere delle scarpe di marca, e allo stesso tempo mette in rilievo l'importanza di un'educazione, unico mezzo che possa guidare attraverso tutti gli aspetti della vita, tra i quali anche la moda (vedi infra, cap. 5, par. 1).
105 Cfr. A. Rosmini, Opuscoli filosofici, cit., pp. 116-117. Questo discorso è valido solo nella nazione
assolutamente corrotta, nella quale tutto il capitale sia destinato alla corruzione, in questo caso la moda fungerebbe da “male minore”, ma in tutti gli altri casi essa aumenta la corruzione della nazione (cfr. ivi, pp. 119-121). Lo stesso discorso vale anche per i piaceri: secondo Gioia, la moda offre molti

che Rosmini sottolinea con vigore è l'importanza e l'utilità di un'educazione morale, che renda l'uomo virtuoso, e che lo renda quindi capace di gestire i suoi capitali con sapienza, mentre la moda e il lusso fanno semplicemente sperperare i capitali: «rendete l'uomo più istruito, e voi dalla vanità delle mode e dalla prodigalità del lusso lo condurrete alla moderazione e ad una savia economia, senza bisogno che diminuiate le sue ricchezze, che gli sottraiate questi mezzi che non sono necessariamente mezzi di corrompersi. Rendete l'uomo più virtuoso, e voi senza bisogno che lo sproniate alla leggerezza della moda e ad un lusso stolto, l'avrete reso liberale e benefico: egli userà de' suoi redditi, ma con sapienza»106.
Rosmini critica lo scritto di Gioia perché (i) pur muovendosi nell'ambito dell'economia pretende di poter arrivare a conoscere l'animo umano, (ii) a partire da fatti storici particolari giunge ad affermare sentenze generali107, ma soprattutto (iii) pur di fare l'elogio della moda arriva ad edulcorare i vizi che distruggono l'uomo e la società 108. «La virtù, secondo Gioia, è l'arte della utilità: l'utilità è calcolata da ognuno secondo le sue vedute: la vanità per esempio, è una virtù pel sig. Gioia, perché dal suo calcolo risulta utile: e perciò egli ne fa la lode del secolo»109. È soprattutto in queste considerazioni che è visibile la distanza tra la morale di Gioia e di Rosmini.
Dietro il breve episodio di questa polemica tra Gioia e Rosmini si intravede la più ampia polemica che il secondo rivolge agli intellettuali italiani suoi contemporanei per la loro adesione all'utilitarismo britannico, del quale Mandeville è stato capostipite.
stimoli a coloro che non devono lavorare distogliendoli dalla corruzione, secondo Rosmini si tratta di “moralismo superficiale” che suppone che il capitale (monetario e spirituale) disponibile per la corruzione sia di quantità costante (cfr. ivi, pp. 126-128).
106 Cfr. ivi, pp. 121-123.
107 Cfr. ivi, p. 137. Rosmini rileva anche l'erroneità dei riferimenti storici, cfr. ivi, pp. 143-144. Alla tesi di Gioia, secondo la quale nei periodi di maggior rozzezza era anche più alta la corruzione dei costumi, mentre dove regnava la moda anche lo spirito degli uomini era più elevato, rosmini contrappone alcuni esempi storici che provano il contrario (cfr. ivi, pp. 144-146).
108 Cfr. ivi, pp. 137-140.
109 Ivi, p. 141.

Immanuel Kant
Accenni alla moda si trovano anche nella Antropologia pragmatica di Kant, il quale non ha però solo scritto di moda, ne ha anche seguito gli usi, perché era importante per lui non presentarsi in pubblico «in abito disgustante o soltanto vistoso»110; era quindi elegante e riteneva importante che gli altri si presentassero in ordine, anche se non era certo un fanatico della moda111. Leggendo il breve accenno alla moda fatto nella Antropologia, però, il giudizio di Kant appare critico: si afferma che (1) la moda è un tentativo di emulare chi è più importante112; (2) la moda si impone come una sorta di «coazione», ci si lascia «guidare in modo servile solamente dall'esempio che molti danno in società» a tal punto che il gioco della moda, cioè l'imitazione, si fissa nell'«uso», e non si considera più il «gusto», tanto che a volte le cose alla moda sono persino odiose; (3) la moda sacrifica l'«utile, o addirittura il dovere» in nome della mera vanità113.
Walter Benjamin
È solamente a partire dal XX secolo che comincia a sentirsi qualche voce filosofica esprimersi sulla moda in modo positivo. La prima fra queste è probabilmente quella di Walter Benjamin, il quale riconosce alla moda un potere anticipatorio, un valore correlato alla sensibilità femminile:
la moda, in virtù del fiuto incomparabile della collettività femminile per ciò che si prepara nel futuro, è in contatto molto più costante e preciso con le cose a venire. Ogni stagione porta nelle sue ultime creazioni un segnale segreto delle cose future. Chi imparasse a leggerli non solo potrebbe conoscere in anticipo qualcosa delle nuove correnti artistiche, ma anche dei nuovi codici, delle guerre, delle rivoluzioni. – Sta senza dubbio in ciò il grande fascino della moda, ma anche la difficoltà di renderlo fruttuoso114.
Ma è sicuramente il filosofo francese Gilles Lipovetsky lo studioso che nell'ultimo secolo ha rivalutato in modo più radicale la moda.
110 Ludwig E. Borowski, Descrizione della vita e del carattere di Immanuel Kant (citato in C. Baldini, Sociologia della moda, cit., p. 18).
111 Cfr. C. Baldini, Sociologia della moda, cit., p. 19.
112 Cfr. I. Kant, Antropologia pragmatica, cit., p. 134. Si tratta di nuovo del modello di diffusione trickle down
(cfr. supra, cap. 1, par. 5). Cfr. anche L. Svendsen, Filosofia della moda, cit., p. 41.
113 I. Kant, Antropologia pragmatica, cit., pp. 250-251.
114 Walter Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo. I “passages” di Parigi, a cura di Rolf Tiedeman, Einaudi, Torino 1986, p. 106.

5. Lipovetsky: grandezza e miseria della moda
La riflessione di Lipovetsky in L'empire de l'éphémère. La mode et son destin dans les sociétés modernes (1987) prende avvio dall'osservazione che:
La moda non è più svago estetico, accessorio decorativo, ma chiave di volta della vita collettiva. Ha completato il suo percorso storico, è arrivata all'apice della sua potenza, è riuscita a rimodellare a sua immagine l'intera società. Era periferica, ora è egemonica. […] In meno di mezzo secolo seduzione ed effimero sono divenuti principi organizzatori della vita collettiva. La società in cui viviamo, dominata dalla frivolezza, è l'ultima tappa della plurisecolare avventura capitalista-democratica-individualista.115
Tuttavia Lipovetsky non cede al lamento più condiviso fra gli intellettuali - la stigmatizzazione della moda - e propone un'interpretazione paradossale del mondo moderno, riconoscendo alla moda un «forza complessivamente positiva per quanto attiene alle istituzioni democratiche e all'autonomia delle coscienze»116. Per comprendere come Lipovetsky argomenti tale giudizio positivo è necessario descrivere come egli intenda ciò che chiama «moda matura». Quali sono, dunque, i caratteri di maturità della moda? La moda matura è una «forma generale che agisce in tutta la società»117 e i tre processi che ne definiscono la specificità sono effimero, seduzione e differenziazione marginale; ossia l'organizzazione di produzione e consumo secondo le regole dell'obsolescenza (mutevolezza), della seduzione e della diversificazione (iperscelta). Tre principi strettamente correlati a quella che, secondo Lipovetsky, è stata la condizione fondamentale della nascita della moda: la libertà di espressione individuale. Ovviamente vi saranno sempre convenzioni vestimentarie più o meno rigide, ma oggi la libertà delle scelte estetiche non è oggetto di repressioni particolari e, alla diversificazione data dalla successione cronologica delle mode, si è affiancata anche una sempre maggiore possibilità di espressione individuale tramite scelte alternative118.
115 Gilles Lipovetsky, L'impero dell'effimero: la moda nelle società moderne (1987), trad. it. di Sergio Atzeni, Garzanti, Milano 1989, p. 10. Lipovetsky colloca la nascita della moda nel tardo Medioevo (cfr. ivi, p. 23). In contrasto con tale interpretazione dell'evoluzione storica della moda è lìopinione di Barbara Vinken, la quale designa la pervasività attuale della moda nella società – cioè non più solamente espressione di una élite – con il termine «Mode nach der Mode», «postfashion» (Mode nach der Mode. Kleid und Geist am Ende des 20. Jahrhunderts, Fischer, Francoforte sul Meno 1994).
116 G. Lipovetsky, L'impero dell'effimero, cit., p. 11.
117 Ivi, p. 159.
118 Nella società contemporanea l'individuo gode del «tempo libero», è meno soggetto a costrizioni e
«norme istituzionali imposte dal lavoro, dagli obblighi familiari e dalle autorità politiche e religiose» (J. Dumazedier, France: Lisure Sociology in the 1980s; citato in D. Crane, Questioni di moda, cit., p. 39). Cfr. Michel de Certau, L'invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2001(citato in L. Svendsen, Filosofia della moda, cit., p. 128). Una teoria simile è esposta dallo studioso di media e cultura di massa

Già Herbert Marcuse e Jean Baudrillard avevano affermato che «le società contemporanee si articolano attorno ai principi del rinnovamento coatto, dell'obsolescenza programmata, dell'immagine, della sollecitazione spettacolare e della differenziazione marginale»119; ma, al contrario dei due pensatori marxisti, Lipovetsky ritiene che la moda non sia solo strumento di alienazione e dominio, espressione di una razionalità egemone che si maschera da irrazionale (Marcuse): al contrario, «la moda matura ha chiamato sul palcoscenico della storia l'astuzia della ragione [libera]: dietro la seduzione agiscono i Lumi, dietro la scalata delle futilità avanza il cammino plurisecolare dell'indipendenza individuale»120. Secondo Lipovetsky la moda è collegata alla
«problematica filosofica dell'“astuzia della ragione”: la “ragione” collettiva infatti progredisce tramite il suo contrario: il divertimento; l'autonomia delle persone si sviluppa passando per la via traversa dell'eteronomia della seduzione e la “saggezza” delle nazioni moderne è legata all'ebbrezza delle infatuazioni superficiali»121. Accanto alle questioni di potere e all'alienazione, quindi, vi è anche:
l'astuzia dell'irragionevolezza di moda. È qui che troviamo la più grande e più interessante lezione storica della moda: agli antipodi del platonismo è necessario capire che oggi la seduzione riduce l'irragionevolezza, ciò ch'è artificiale favorisce l'accesso al reale, ciò ch'è superficiale permette un uso accresciuto della ragione, la spettacolarità ludica è trampolino verso il giudizio soggettivo. L'approdo finale della moda non dà l'ultimo tocco all'alienazione delle masse, è vettore ambiguo ma effettivo dell'autonomia delle persone, e lo è proprio attraverso l'eteronomia della cultura di massa122.
È una situazione paradossale: la forma-moda genera esiti contraddittori sul breve periodo, ma sul lungo periodo essa è la risposta migliore alle richieste dell'economia e della società globale. Infatti, se da un lato vi è il rischio che si instauri una difesa di privilegi individuali e di interessi particolari che blocca la possibilità di cooperazione per una crescita collettiva; dall'altro lato, un ethos flessibile e una capacità di adattamento al rapido cambiamento sono ciò che è richiesto dalla società contemporanea. Senza una mentalità plastica gli individui difficilmente potrebbero sopravvivere in un tale ambiente;
John Fiske, il quale definisce la cultura del consumo come una «democrazia semiotica» in cui i consumatori interpretano le merci e attribuiscono ad esse valori simbolici liberamente (J. Fiske, Understanding Popular Culture, Unwin Hyman, Londra 1989; citato in L. Svendsen, Filosofia della moda, cit., p. 142).
119 G. Lipovetsky, L'impero dell'effimero, cit., p. 161.
120 Ivi, p. 162.
121 Ivi, p. 15.
122 Ivi, p. 14.

la forma-moda è uno strumento di «razionalità sociale» che ci aiuta ad adattarci123. Tuttavia, quello di Lipovetsky non è un atteggiamento positivista: la forma-moda è solo uno degli aspetti dell'organizzazione delle società, che convive con le incertezze quotidiane e le angosce individuali. Non c'è una fiducia incondizionata nel futuro delle democrazie perché «l'indipendenza d'opinioni cresce di pari passo con la frivolezza, la tolleranza si accompagna all'indifferenza e alla mancanza di tensione pensosa»124.
La moda matura genera coscienze essenzialmente ambivalenti, ma questa è la nuova forma assunta dallo spazio politico nelle democrazie contemporanee: la crescita della socializzazione non ostacola l'agire politico – al contrario di quanto sostiene Hannah Arendt125 – quello sociale è lo spazio in cui «l'azione umana, lucida, volontaria e responsabile sarà più che mai necessaria per progredire verso un mondo più libero e meglio informato». «La moda produce risultati ambigui: bisogna impegnarsi per diminuirne il verso “oscurantista” e accrescerne quello “illuminista” non tentando di cancellare d'un tratto il luccichio della seduzione ma usandone le potenzialità liberatrici per quanti più individui è possibile»126.
Lipovetsky riconosce la validità dell'analisi di Baudrillard, secondo il quale la moda riproduce la logica della lotta di classe, operando come forza di discriminazione sociale attraverso il valore statutario degli oggetti di consumo127. Ma se Baudrillard scriveva nel 1972, Lipovetsky nel 1987 ha già potuto vedere una diversa organizzazione della forma- moda, quella basata non solo sul «cambiamento» e sul «nuovo» – cioè il principio “classico” della moda, in base al quale avvengono i processi di distinzione – ma anche sui principi di «seduzione» e, soprattutto, di «iperscelta», tratti che sono diventati dominanti a partire dalla fine degli anni Settanta e che caratterizzano quella che da metà degli anni Ottanta si afferma in modo inequivocabile come la «società dell'iperconsumo»128.

123 Ivi, p. 182.
124 Ivi, p. 16.
125 Cfr. Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana (1958), trad. it. di Sergio Finzi, Bompiani, Milano 1989, pp. 85-115.
126 G. Lipovetsky, L'impero dell'effimero, cit., pp. 16-17.
127 Jean Baudrillard, Per una critica della economia politica del segno (citato in G. Lipovetsky, L'impero dell'effimero, cit., pp. 175-77).
128 Cfr. G. Lipovetsky, Una felicità paradossale. Sulla società dell'iperconsumo (2006), Cortina, Milano 2007, p. xix.

Ne l'Impero dell'effimero sono già delineati i tratti di questo tipo di società, in cui la moda matura ha portato ad una «desocializzazione del consumo», ossia «ha fatto arretrare il primato immemorabile del valore statutario degli oggetti favorendo il valore, oggi dominante, dell'uso e del piacere individuale»129. Si ricerca una soddisfazione privata data dal piacere e dalla funzionalità dell'uso degli oggetti: oggi il consumo di massa è guidato più dal principio dell'individualismo narcisista che del principio di distinzione. Si pensi, ad esempio, al grandissimo successo dei prodotti Apple: non c'è dubbio che il valore statutario di un MacBook o di un iPhone sia molto alto, dato anche il prezzo elevato, ma non è possibile sottovalutare il ruolo determinante svolto dall'efficienza e dal design di questi prodotti. Per molto tempo sono stati di gran lunga più belli di tutti i loro concorrenti, ed è innegabile che vi sia un piacere dovuto alla facilità d'uso e allo stress evitato in confronto all'utilizzo di altri dispositivi. Inoltre, se si pensa che ormai un iPhone può essere ottenuto tramite abbonamento ad un operatore telefonico spendendo poche decine di euro al mese, il suo valore distintivo viene ridimensionato ulteriormente poiché il prodotto è accessibile a molti, rendendo quindi più rilevante il suo valore d'uso.
Ma se la componente individualista ed edonista è così importante, come è possibile che la moda ci permetta di agire politicamente e in modo razionale? La risposta di Lipovetsky è che la moltiplicazione delle occasioni di scelta è un impulso fortissimo verso l'autonomia individuale: non siamo più disarmati e confusi di fronte a quindici corsie di supermercato o ad un negozio di abbigliamento femminile a cinque piani, siamo invece informati, conosciamo le novità, sappiamo dove trovare le offerte migliori e magari abbiamo consultato decine di riviste di moda e abbiamo già in mente qual è lo stile che vogliamo, e gli abbinamenti necessari per ottenerlo. «La cultura edonista non inebetisce affatto le persone con divertimenti programmati ma stimola ciascuno a diventare signore e padrone della propria vita, ad autodeterminarsi nelle relazioni con gli altri»130.
La libertà che caratterizza gli esseri umani non è però un valore astratto, è in parte modellato dalla società in cui viviamo: ossia, la forma-moda che domina la società dell'iperconsumo ha portato anche all'emergenza di un «individuo-moda […] che non ha
129 G. Lipovetsky, L'impero dell'effimero, cit., p. 177.
130 Ivi, p. 181.

legami profondi, è mobile, ha personalità e gusti fluttuanti»131; e talvolta soffre di questa condizione. La società dell'iperconsumo è incentrata sul paradosso: «nel regno della moda matura l'intelligenza è meno ferma ma più ricettiva alla critica, meno stabile ma più tollerante, meno sicura di sé ma più disponibile alla differenza, alla prova, agli argomenti dell'Altro»132. C'è moltiplicazione delle opinioni e proliferazione di microdifferenze individuali. La moda matura ha portato ad una neutralizzazione e civilizzazione dei conflitti, poiché l'iperscelta ci ha abituati alla diversità, ha favorito l'instaurarsi di abitudini democratiche in una pratica quotidiana e banale come il consumo, e ciò ha fatto sì che fra le abitudini dominanti nella società vi sia ora un relativismo pacificante133.
A mio avviso, la resistenza intellettuale più forte nei confronti di un'affermazione positiva come «il consumo può essere strumento di libertà» viene dalla difficoltà di accettare la proposizione negativa «la moda non è uno strumento di controllo»: è vero che vi sono individui e istituzioni a cui viene riconosciuta una certa autorità nell'influenzare le mode, tuttavia non è facile comprendere che il concetto di «autorità» può esistere all'interno di un sistema fortemente decentralizzato e distribuito come quello delle società complesse, le cui dinamiche non possono essere ridotte a processi di determinazione causale di tipo lineare. La moda ci mostra che «la conquista della libertà di pensiero è immaginabile al di fuori del modello prestigioso della ragione architettonica e può effettuarsi a tutt'altri livelli, molto più banali, grazie alle influenze molteplici, ai loro scontri e al gioco dei paragoni»134.
«Subiamo tante influenze ma più nessuna è determinante, più nessuna abolisce la capacità di “essere se stessi”. Lo spirito critico si diffonde con il mimetismo della moda e con le fluttuazioni dell'“opinione”. Questo è il più grande paradosso della dinamica dei Lumi: l'autonomia è inseparabile dall'eteronomia»135. Le rivendicazioni collettive sono basate sempre su diritti individuali, su una difesa della possibilità di scegliere e sull'affermazione della responsabilità ad essa legata, una modalità di azione politica che
131 Ivi, p. 182.
132 Ivi, p. 271.
133 Ivi, p. 288.
134 Ivi, pp. 273-74.
135 Ivi, p. 274.

nasce dal «gusto per l'indipendenza individuale, ampiamente diffuso nella sfera dei consumi»136. Ma vi è anche una tragicità nella moda: la brama insaziabile di autorealizzazione privata ci porta a fare richieste sempre più grandi all'Altro, per soddisfare i nostri desideri e per comunicare la nostra identità, ma facendo ciò ci scontriamo con gli interessi dell'Altro. La forma-moda garantisce organizzazioni spontanee della collettività per difendere i principi fondamentali ma genera anche frustrazione e sofferenza per l'incomprensione e il conflitto interpersonale, per la coscienza della superficialità delle relazioni. «Questa è la grandezza della moda: essa rinvia sempre più l'individuo a se stesso. Questa è la miseria della moda: rende sempre più problematico il rapporto con noi stessi e con gli altri»137.
6. Barnard: la moda come comunicazione
Malcolm Barnard si occupa principalmente di cultura visuale e ha dedicato alla moda un importante contributo: Fashion as communication138. La sua formazione filosofica è visibile nelle domande che pone nella sua analisi: si interroga sull'etimologia e sul modo in cui usiamo parole come «abbigliamento» e «moda», e con piglio decisamente filosofico introduce il concetto di «anti-moda»139; si chiede se abbia senso considerare la moda un fenomeno culturale, e se sia più appropriato considerarla cultura alta o cultura di massa; si chiede se la moda sia arte o piuttosto una forma di design, considerando i giudizi di valore impliciti in tali assunzioni. Ma la questione che approfondisce maggiormente riguarda la comunicazione: ossia, che tipo di comunicazione è la moda e che tipo di “cose” può dire? Ci si può interrogare sul significato dei vestiti ed eventualmente parlare anche di incomprensione? Stabilito l'interesse per un tale tipo di indagine, Barnard intraprende quella riflessione sulla moda come comunicazione auspicata già da Umberto Eco nel 1969140: indaga il significato dei vestiti e la sua origine; le correlazioni fra vestiti,
136 Ivi, p. 291.
137 Ivi, p. 297; in una società iperconsumista, disagio e violenza nascono dall'indigenza di individui fragili che non hanno le condizioni materiali per consumare (G. Lipovetsky, Una felicità paradossale, cit., pp. 155-164).
138 Malcom Barnard, Fashion as Communication, cit.
139 Ivi, pp. 12-19.
140 Cfr. supra, cap. 2, par. 2.

ideologia e questioni di potere; il valore statutario degli abiti e il loro uso nella costruzione di identità.
La tesi “ultima” di Barnard sulla questione moda e comunicazione è che i significati e valori generati tramite la moda e l'abbigliamento siano prodotti e distrutti nello stesso momento: sono conservatori e rivoluzionari, i vestiti hanno significati «indecidibili» perché parte di una rete infinita di collegamenti intertestuali, per dirla nei termini di Jacques Derrida141. In breve, è l'ambiguità il tratto caratteristico della moda come comunicazione. Per descrivere tale aspetto, Barnard fa riferimento anche ai concetti di
«ambiguità» del sociologo Zygmunt Bauman e «anomalia» dell'antropologa Mary Douglas, e accenna alle soluzioni proposte da questi autori per mostrare come gli esseri umani affrontino questa condizione esistenziale142. Molto semplicemente, le strategie adottabili sono due: combattere l'ambiguità riducendo la polisemia ad un significato definito, facendo quindi una scelta, nel bene e nel male; oppure convivere con il paradosso. Esempi di riduzione sono legati, ad esempio, a necessità operative, come quando per fini formativi ci si concentra sulla moda come insieme di possibilità di design; ma è una riduzione anche la scelta di considerare la moda un pericolo – cioè strumento di controllo che può creare dei fashion victim – perché in tal modo si evita di fare i conti con la complessità del fenomeno. In alternativa, si può cercare di convivere con l'ambivalenza, un atteggiamento che secondo Bauman è tipico della postmodernità: accettare che lo stesso oggetto o lo stesso discorso possa creare sia opportunità che pericoli. In ultima istanza, però, Barnard non sviluppa questo punto poiché esula dagli scopi del suo libro, limitandosi quindi a constatare l'ambiguità della moda143.
Intendere la moda come comunicazione per Barnard vuol dire ammettere che «for the most part, and for the most people, most of the time, fashion and clothing are not undecidable. The interpretation of meanings is largely reliable and finite»144. La comunicazione avviene nel momento in cui l'indecidibilità viene ridotta e si seleziona un
141 Cfr. M. Barnard, Fashion as Communication, cit., pp. 173-76.
142 Cfr. ivi, pp. 182-83.
143 Come si è visto, la paradossale convivenza di opportunità e rischi è il tema del lavoro di Lipovetsky, il quale accetta di vivere nell'epoca del dominio della forma-moda e argomenta in favore di un'etica e una politica responsabile del consumo (cfr. supra, par. 5).
144 M. Barnard, Fashion as Communication, cit., p. 188.

significato piuttosto che un altro, o un numero limitato di possibilità semiotiche145. In tale processo i vestiti svelano o nascondono alcuni significati rispetto ad altri, ma come questi vengano interpretati dipende dagli individui coinvolti e dal contesto. In generale, gli atteggiamenti più comuni sono di due tipi: da un lato vi sono coloro che cercano qualcosa al di là dell'apparenza – una stabilità o un fine oltre la rete di relazioni fra significati possibili – e pertanto considerano la moda un ostacolo fuorviante; dall'altro lato vi sono coloro che:
see fashion and clothing as evidence of creativity and cultural production, are those who realise that there is no such beyond and who are happy to enjoy the play of cultural difference as it is found in fashion and clothing. They are those who are happy with the idea that difference produces meanings, and who have no wish to see difference curtailed or escaped146.
7. Svendsen: critica della moda
Se Lipovetsky e Barnard hanno un'opinione positiva nei confronti delle opportunità offerte dalla moda, il filosofo norvegese Lars Svendsen mostra invece un atteggiamento differente nel suo libro Filosofia della moda147:
In questo mio studio prenderò una posizione critica ma non di condanna. Una delle ambizioni fondamentali è quella di stabilire con la moda un rapporto maggiormente basato sulla riflessione e, di conseguenza, cambiare il nostro modo di porci in relazione con essa. Non ce ne libererà totalmente, ma potremo raggiungere una relativa autonomia nei suoi confronti148.
Anche se non è da condannare, la moda è comunque qualcosa da cui doversi liberare: quella di Svendsen è una strategia di riduzione dell'indecidibilità tramite l'analisi critica del pericolo, direbbe Barnard. Ad ogni modo, egli riconosce la pervasività e l'importanza della moda nella società contemporanea e, pertanto, ritiene che una riflessione filosofica su di essa possa contribuire alla conoscenza di noi stessi e dei nostri comportamenti149. Più nello specifico, il suo oggetto di studio è il «discorso sulla moda» e la sua attenzione si
145 Tale concezione si oppone a quella di Baudrillard, secondo il quale «fashion turns communication into the “goal-less state of a signification without a message”» (ivi, p. 188). Come si vedrà, la soluzione da me proposta per concepire la moda come comunicazione ha molti punti in comune con quanto affermato da Barnard, e si discosta a sua volta dal pensiero di Baudrillard (cfr. infra, cap. 4).
146 M. Barnard, Fashion as Communication, cit., pp. 190-91.
147 Lars Svendsen, Filosofia della moda, cit.
148 Ivi, ap. 9.
149 Cfr. ivi, p. 5.

focalizza soprattutto «sul concetto di moda, sulle sue diverse rappresentazioni e le asserzioni riguardo a ciò che può offrire»150.
Osservazioni importanti riguardano il rapporto fra moda e identità personale: viviamo in una società in cui l'identità «non ci viene più data dalla tradizione, bensì è qualcosa che ci dobbiamo scegliere in forza del nostro ruolo di consumatori. […] L'abito è una parte dell'individuo, non un qualcosa di esterno rispetto alla sua identità»151:
Tutti noi dobbiamo in qualche modo esprimere chi siamo attraverso la nostra apparenza esteriore, e tale espressione dovrà necessariamente dialogare con la moda, i cui cicli sempre più rapidi stanno ad indicare una rappresentazione di sé più complessa, poiché il sé diventa più volatile. […] Ci liberiamo da una serie di legami tradizionali rendendoci però schiavi di nuove istituzioni. Ci sforziamo sempre più di esprimere la nostra individualità specifica, però paradossalmente lo facciamo in un modo tale che sovente raggiungiamo solo l'espressione di un'impersonalità astratta152.
Le considerazioni sull'identità colgono un aspetto importante del nostro rapporto con l'abbigliamento, ma vi è anche una riduzione della moda a minaccia: Svendsen propone una concezione essenzialista del significato, cerca «significati sostanziali» nelle merci153 e per questo giudica la moda un'illusione di varietà che non ci permette di cogliere tali significati. Tuttavia, ammette anche che: «il significato delle cose è condizionato socialmente; si può dire che è passibile di “negoziazioni” tra le varie parti, nessuna delle quali può direttamente stabilire che un determinato prodotto abbia un altrettanto determinato significato»154, ma tale affermazione è la constatazione non tanto di un pluralismo positivo, quanto piuttosto di un'instabilità negativa: «il valore e la razionalità intrinseci alle cose perdono importanza e il corso della loro vita si sottomette alla mutabilità delle tendenze. L'essenza della moda è quella di produrre segni efficaci che nel giro di poco tempo diventeranno inefficaci»155.
Svendsen analizza i vari modi in cui la moda è stata intesa – come principio innovatore, come comunicazione, come arte, come forma di consumo – ma le sue
150 Ivi, pp. 9-10.
151 Ivi, p. 18.
152 Ivi, pp. 18-19.
153 Ivi, p. 142.
154 Ibid.
155 Ivi, p. 145.

conclusioni sono sempre negative. A proposito del «nuovo» afferma: «oggi la moda si caratterizza per una diffusa contemporaneità di tutti gli stili. A causa di questa estrema accelerazione ha raggiunto un punto nel quale – realizzando a pieno il suo potenziale – ha annullato la sua stessa logica»156. Sulla comunicazione: «oggi come oggi la moda è praticamente incapace di comunicare qualcosa di significativo»157, «non si tratta quindi tanto di un codice semantico quanto piuttosto di un effetto estetico» 158. Sul valore artistico: «l'arte ha la capacità di dire qualcosa di essenziale, mentre la moda sembra incastrata in un circolo dove in pratica non fa che ripetersi e perdere via via di significato. Non esageriamo troppo affermando che oggi la moda si trova nel punto più basso della sua curva creativa, e non è affatto sicuro che riesca a risalire»159. Sul consumismo: «il consumatore contemporaneo, postmoderno, è impossibilitato a costruirsi un'identità attraverso le sue scelte di consumo, proprio perché la transitorietà del consumo invalida la costruzione di una personalità. Se l'identità di una persona è collegata direttamente agli oggetti che la circondano, o meglio, al loro valore simbolico, sarà effimera quanto questo valore»160.
Sono d'accordo con Svendsen che la filosofia possa aiutarci a riflettere sul nostro rapporto con la moda, ma il modo in cui egli affronta le interessanti questioni che sottopone al lettore – riguardanti anche temi importanti come la felicità e l'identità – risulta troppo rigido. La sua indagine è una ricerca dell'essenza e del fine della moda al giorno d'oggi, è una continua interrogazione della moda che si conclude con la constatazione che ciò che essa ha da offrire non ci aiuta nel nostro tentativo di rispondere ad alcune domande filosofiche tradizionali: «chi siamo?», «che senso ha la nostra vita?» e «come possiamo ottenere il bene?»161.
L'obiettivo della seconda parte del presente lavoro è quello di proporre una via per descrivere la complessità del fenomeno moda che tenga conto del valore delle domande

156 Ivi, pp. 34-35.
157 Ivi, p. 80.
158 Ivi, p. 81. 159 Ivi, p. 122. 160 Ivi, p. 140.
161 «Possiamo con sicurezza asserire che la moda funziona piuttosto male come guida spirituale. Tutto sommato, ciò che essa è in condizione di offrirci non apporta alle nostre vite tanto senso, e quando la sua logica si fa normativa nella costruzione dell'identità, si dimostra al contrario un fattore disgregante» (Ivi, p. 175).

filosofiche sollevate in questo capitolo, senza però stigmatizzare i comportamenti legati all'apparire e al consumo. La moda è una parte cruciale nell'organizzazione della società contemporanea, ignorare ciò sarebbe un fallimento per la filosofia.

Capitolo 4
Proposta per una filosofia della moda
1. La prospettiva wittgensteiniana
Molti dei testi che si occupano del fenomeno della moda, ed in particolare quelli che adottano una prospettiva filosofica, cercano di definire i concetti chiave del discorso. Essendo termini di uso comune, il significato di parole come “moda”, “abbigliamento” o “costume” è molto ampio ed è quindi utile metterli a fuoco per poterli gestire al meglio in un discorso critico. In particolare, nel primo capitolo ho proposto una definizione operativa del concetto di “moda”2, la quale si è dimostrata adeguata per mettere in luce gli aspetti fondamentali del fenomeno e per esplorare i contributi di varie discipline al suo studio. Addentrandosi in un discorso filosofico più rigoroso, però, è importante comprendere meglio che statuto o validità abbiano le definizioni date: quale sia l'epistemologia ad esse soggiacente – ad esempio, l'eventuale ricerca di un'essenza che caratterizzi il fenomeno moda – e quali siano le implicazioni e i limiti della metodologia di indagine adottata.
Il concetto centrale di questa tesi è ovviamente quello di “moda”, il quale viene tendenzialmente inteso facendo riferimento ad un fenomeno o forma generale caratterizzati da un continuo cambiamento e dalla ricerca della novità3. In quest'ottica, le domande che è opportuno porsi per una chiarificazione concettuale possono essere: questa connotazione è valida universalmente? Permette di identificare univocamente il fenomeno moda in ogni tempo e luogo in cui esso occorre? Così definito è un concetto che riesce a descrivere la peculiarità della moda permettendo di prendere in considerazione contenuti (o manifestazioni concrete, cioè le mode storicamente realizzatesi) che mutano nel tempo?
Domande simili possono anche essere indirizzate ai singoli vestiti o agli stili di abbigliamento: che cosa può essere chiamato con il termine “gonna”? La risposta a tali domande sarà molto differente se guardiamo la moda dell'inizio del secolo o la moda a
2 Cfr. supra, cap. 1, par. n. 2.
3 Cfr. supra, cap. 1, par. n. 1.

noi contemporanea, o se confrontiamo un periodo storico antecedente o posteriore alla rivoluzionaria introduzione della minigonna da parte di Mary Quant4, senza considerare contesti estranei alla cultura Occidentale5. Analogamente, qual è il significato della locuzione “abbigliamento femminile”? Che cos'è la “moda femminile”? Anche in questo caso il ruolo di una sola persona può essere determinante nel mettere in crisi un intero paradigma ideologico – non solo l'abbigliamento, dunque – come è avvenuto con il pantalone: introdotto definitivamente nell'abbigliamento femminile da Yves Saint Laurent; i pantaloni, pur mantenendo una connotazione mascolina, esaltano la femminilità della donna6.
È lecito dire che il significato originale dei concetti di “gonna”, “pantalone” e “femminilità” sia stato pervertito o tradito? Detto altrimenti: possiamo definire una volta per tutte qualcosa? Possiamo cogliere l'essenza di qualcosa? Credere che vi sia un'essenza delle cose, una definizione definitiva, porterà a cercare tale essenza per poter cogliere appieno il fenomeno di cui ci si sta occupando. Si cercherà l'ideale pensando che
«debba essere conficcato nella realtà; infatti crediamo di scorgerlo già in essa»7: la nostra concezione del mondo plasma anche il modo in cui conosciamo.
L'ideale, nel nostro pensiero, sta saldo e inamovibile. Non puoi uscirne. Devi sempre tornare indietro. Non c'è alcun fuori; fuori manca l'aria per respirare. – Di dove proviene ciò? L'idea è come un paio di occhiali posati sul naso, e ciò che vediamo lo vediamo attraverso essi. Non ci viene mai in mente di toglierli8.
4 Cfr. V. Steele, Encyclopedia of Clothing and Fashion, cit., vol. 2, p. 415.
5 Ad esempio, l'uso di panneggi di vario tipo per coprire le gambe maschili nel subcontinente indiano e in Africa.
6 Cfr. F. Monneyron, Sociologia della Moda, cit., pp. 108-109.
7 L. Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, cit., §101, p. 64.
8 Ivi, § 103, p. 64. In tutto ciò che facciamo siamo guidati da premesse, cioè da credenze sul mondo, sulle cose, e sulle dinamiche degli eventi, «premesse tacitamente accettate, invisibilmente presenti in ogni opinione sullo “stato del mondo” a cui ci teniamo comunemente stretti e che danno forma alla nostra comprensione [...] di quel mondo, ma che raramente, o mai, cerchiamo di esaminare seriamente [...]» (Zygmunt Bauman, La ricchezza di pochi avvantaggia tutti (Falso!), trad. it. di Michele Sampaolo, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 33-34). Tutte le azioni umane si basano su presupposti o sulla «visione del mondo – cioè l'epistemologia latente e in parte inconscia» (Gregory Bateson, Mente e natura. Un'unità necessaria (1979), trad. it. di Giuseppe Longo, Adelphi, Milano 2011, pp. 41, 285-286). Inoltre, afferma Bateson, «l'ontologia e l'epistemologia non possono essere separate. Le [...] convinzioni (di solito inconsce) sul mondo che ci circonda determineranno il suo modo di vederlo e di agirvi» (Gregory Bateson, Verso un'ecologia della mente (1972), trad. it. di Giuseppe Longo e Giuseppe Trautteur, Adelphi, Milano 2013, cit., p. 345). Naturalmente queste convinzioni guidano anche l'attività teoretica, la quale sottende sempre un approccio epistemologico specifico. In particolare in ambiti interdisciplinari come quello della moda, e trovandosi ad affrontare fenomeni o dinamiche

Un modo diverso di affrontare la questione può essere parlare di concetti e significati che vengono ampliati e modificati nell'uso che se ne fa. È questa la prospettiva adottata da Ludwig Wittgenstein, nella seconda fase del suo pensiero9, dove critica la tendenza filosofica a ricercare un'essenza nei fenomeni e a spiegarli come fosse una scienza: il compito della filosofia è semplicemente descrittivo e sta nel «richiamare alla mente cose a tutti note»10. In particolare Wittgenstein si sofferma sulla questione del linguaggio e propone una ricerca volta a descrivere e chiarire il modo in cui utilizziamo termini e concetti. La prima parte delle Ricerche filosofiche si configura proprio come una critica alle posizioni sostenute nel Tractatus. La rottura lo allontana dalle teorie di stampo freghiano: rifiuta la cosiddetta «teoria denotativa», cioè una teoria essenzialista11. L'approccio di
complessi, è opportuno adottare un approccio adeguato all'indagine. Per parlare di relatività culturale, di identità e di significati dati nella prassi, sarà limitante e fuorviante basarsi su un'epistemologia oggettivista. Le nostre premesse oggi si rivelano fallaci nei confronti della crisi che intacca diversi aspetti della nostra realtà: ad esempio «il dualismo cartesiano che separa mente e materia» (Cfr. G. Bateson, Mente e natura, cit., p. 285). Non bastano piccoli aggiustamenti, in una società complessa come la nostra, i processi di conoscenza e la stessa vita potrebbero «richiedere niente meno che il cambiamento, spesso drastico e inizialmente penoso e sconcertante del nostro modo di vivere» (Z. Bauman, La ricchezza di pochi avvantaggia tutti, cit., pp. 33-34). Questi temi ci avvicinano anche alla questione dell'ecologia e della sostenibilità. La moda è un ambito particolarmente colpito dalla sostenibilità per via dei suoi cambiamenti repentini e perché porta sempre ad acquistare cose nuove, e questo conduce al problema dell'inquinamento, dello spreco delle risorse e dello smaltimento dei rifiuti.
9 Cfr. A. Voltolini, Guida alla lettura delle Ricerche filosofiche, cit., pp. 3-6.
10 Ivi, p. 50. «Essenziale alla nostra ricerca è piuttosto il fatto che con essa non vogliamo apprendere nulla di nuovo. Vogliamo comprendere qualcosa che sta già davanti ai nostri occhi. Perché questo ci sembra, in qualche senso, di non comprendere. Agostino scrive (Confessioni, XI, 14): “Quid est ergo tempus? Si nemo ex me quaerat scio; si quaerenti explicare velim, nescio...” […]. Ciò che si sa quando nessuno ce lo chiede, ma non si sa più quando dobbiamo spiegarlo, è qualcosa che si deve richiamare alla mente. (E si tratta evidentemente di qualcosa che, per una ragione qualsiasi, è difficile richiamare alla mente.).» (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., §89, p. 60). Il ruolo della filosofia - secondo Wittgenstein - non è né «metafisico-essenzialistico» né «notazionale-creativo», bensì descrittivo. Cfr.
A. Voltolini, Guida alla lettura delle Ricerche filosofiche, cit., pp. 47-51. La filosofia «lascia tutto com'è» (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., §124, p. 69).
11 La prima parte delle Ricerche filosofiche, §1-64, è dedicata alla critica della teoria denotativa (cfr. A. Voltolini, Guida alla lettura delle Ricerche filosofiche, cit., p. 11). Wittgenstein dichiara fin dal primo paragrafo dell'opera il suo intento critico nei confronti di una concezione del linguaggio di stampo agostiniano, secondo la quale «le parole del linguaggio denominano oggetti – le proposizioni sono connessioni di tali denominazioni. - In quest'immagine del linguaggio troviamo le radici dell'idea: Ogni parola ha un significato. Questo significato è associato alla parola. È l'oggetto per il quale la parola sta» (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., §1, p. 9). Ma il filosofo austriaco giunge a riconoscere che il linguaggio ha molte più funzioni rispetto alla semplice funzione denotativa (cfr. A. Voltolini, Guida alla lettura delle Ricerche filosofiche, cit., pp. 22-23). «Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta degli utensili: c'è un martello, una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiodi e viti. - Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti,

Wittgenstein propone il passaggio dall'idea di «concetto chiuso» a quella di «concetto aperto»: egli si discosta infatti dalla filosofia di Frege sostenendo che in molti casi (anche se non in tutti) non sia possibile rintracciare una “nota caratteristica” che possa essere individuata e permetta di determinare la classe di oggetti o di fenomeni che ricadono sotto una nozione (ad esempio di “moda”), cioè scoprire un'essenza che accomuni gli oggetti che sono caratterizzati dal medesimo concetto, e quindi la possibilità di fornire una definizione definitiva di qualcosa12. I concetti aperti, al contrario, non hanno una caratteristica essenziale. «All'idea di una nota caratteristica o essenza che accomunerebbe tutti i membri della classe degli oggetti che ricadono sotto un tale concetto (dell'estensione di quel concetto, cioè), Wittgenstein sostituisce l'idea che vi sia una somiglianza di famiglia tra i membri di una classe siffatta»13.
A partire dall'idea di una «nota caratteristica» Wittgenstein intuisce che le somiglianze che accomunano gli oggetti che ricadono sotto lo stesso concetto sono analoghe alle
«somiglianze di famiglia» poiché sono dello stesso tipo di quelle che accomunano le persone appartenenti ad una stessa famiglia: «corporatura, tratti del volto, colore degli occhi, modo di camminare, temperamento, eccetera»14. Per spiegare i concetti di «giuoco linguistico» e «somiglianza di famiglia» Wittgenstein fa l'esempio del concetto stesso di
«giuoco»:
Considera, ad esempio, i processi che chiamiamo «giuochi». Intendo giuochi da scacchiera, giuochi da carte, giuochi da palla, gare sportive, e via discorrendo. Che cosa è comune a tutti questi giuochi? – Non dire: «Deve esserci qualcosa di comune a tutti, altrimenti non si chiamerebbero ‘giuochi’» – ma guarda se ci sia qualcosa di comune a tutti.
– Infatti, se li osservi, non vedrai certamente qualche cosa che sia comune a tutti, ma vedrai somiglianze, parentele, e anzi ne vedrai tutta una serie15.
E ancora:
Si può dire che il concetto di “giuoco” è un concetto dai contorni sfumati. - “Ma un concetto sfumato è davvero un concetto?” Una fotografia sfocata è davvero il ritratto di una persona? È sempre possibile sostituire vantaggiosamente un'immagine sfocata con una nitida? Spesso non è proprio l'immagine sfocata ciò di cui abbiamo bisogno?16
tanto differenti sono le funzioni delle parole» (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., §11, p. 15).
12 Cfr. A. Voltolini, Guida alla lettura delle Ricerche filosofiche, cit., pp. 44-45.
13 Ivi, p. 45.
14 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., §67, p. 47.
15 Ivi, §66, p. 46.
16 Ivi, § 71, p. 49.

Nel presente lavoro, per portare avanti una riflessione filosofica sul concetto e sul fenomeno della moda ho scelto di adottare una prospettiva wittgensteiniana. In quest'ottica la Parte I è da intendersi come un tentativo di descrivere il fenomeno da molteplici punti di vista, cercando di delineare quelle somiglianze di famiglia che possono aiutare a cogliere meglio la composizione della classe di fenomeni che chiamiamo «moda». Il presente capitolo – e più in generale la Parte II – è invece dedicato ad una riflessione filosofica sul significato del concetto di «moda» e, in preparazione a ciò, sui significati che possono avere i vestiti che indossiamo.
2. Il significato dei vestiti
Molti di coloro che si sono occupati di moda sono convinti che i vestiti possano avere un significato e gli strumenti di analisi linguistica sono stati usati per l'analisi dell'abbigliamento e della moda, inteso come sistema di comunicazione non-verbale, analizzato sulla base di vari paragoni e parallelismi tra i due sistemi semiotici; fra questi, l'analogia più stretta è stata delineata da Alison Lurie:
se il vestito è un linguaggio, deve avere un vocabolario e una grammatica come gli altri linguaggi. Naturalmente, come per il discorso umano, non esiste un solo linguaggio del vestito, ma molti: alcuni (come l'olandese e il tedesco) strettamente legati e altri (come il basco) praticamente unici. E all'interno di ogni linguaggio degli abiti esistono molti dialetti e accenti diversi, alcuni quasi incomprensibili agli appartenenti alla cultura prevalente. Inoltre, come con il discorso, ogni individuo ha il proprio bagaglio di parole e utilizza variazioni personali di tono e significato17.
L'analogia è senza dubbio interessante perché mostra la complessa articolazione di un sistema vestimentario e le numerose potenzialità espressive offerte dall'abbigliamento. Non bisogna però tacere le differenze, che possono essere a loro volta altrettanto interessanti18: infatti, un parallelismo come quello articolato da Lurie

17 Allison Lurie, The Language of Clothes, in: M. Baldini, Semiotica della moda, cit., p. 146.
18 Cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., pp. 80-82; cfr. anche U. Eco, L'abito parla il monaco, cit. p.,
22. La differenza più immediata è che rispetto a quanto avviene per il linguaggio verbale, i codici relativi ai vestiti «mutano con una certa rapidità, per cui è difficile stenderne i corrispettivi “dizionari” e il codice va spesso ricostruito sul momento, nella situazione data, inferito dai messaggi stessi». Molti degli autori riconoscono questa instabilità peculiare del codice vestimentario, e questa è la causa dello scarso potere comunicativo attribuito alla moda, o alla fortissima ambiguità che non consente di decifrare i messaggi chiaramente (cfr. anche F. Davis, Moda, cultura, identità, linguaggio, cit., pp. 5-11). Si tratta di un'instabilità che riguarda soprattutto la contemporaneità: le mode di oggi si diffondo velocemente e non raggiungono una diffusione capillare tale da arrivare a uniformare lo stile o i comportamenti della massa. Nel passato invece, come negli anni delle controculture giovanili, le

può risultare un po' ingenuo, come mette in luce anche Baldini, sebbene per alcuni versi illuminante19; già Bogatirëv, Trubeckoj e Jakobson, applicando le idee tratte dal Cours de linguistique générale di de Saussure, riconoscevano debite differenze tra i due linguaggi e non costruivano perfetti parallelismi, ma sfruttavano gli strumenti concettuali dell'analisi linguistica per analizzare tipi diversi di linguaggi, verbali e non-verbali, come la moda e l'abbigliamento20.
Una differenza da non sottovalutare è che il linguaggio verbale può svolgere molte più funzioni di quello vestimentario:
Ma quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda e ordine? – Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti di impiego di tutto ciò che chiamiamo «segni», «parole», «proposizioni». E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte, ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giuochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati. (Un'immagine approssimativa potrebbero darcela i mutamenti della matematica). Qui la parola «giuoco linguistico» è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un'attività, o di una forma di vita21.
Come Wittgenstein estende le funzioni del linguaggio oltre una semantica verofunzionale, includendo altre funzioni performative del linguaggio, così anche i singoli vestiti e l'abbigliamento possono avere diverse funzioni, ma probabilmente il linguaggio vestimentario non arriva ad eguagliare il linguaggio verbale22. Possiamo
ideologie e l'appartenenza a gruppi politici venivano manifestate anche attraverso una sorta di “uniforme”, un dress code condiviso, che permetteva agli appartenenti ai vari gruppi di riconoscersi reciprocamente, ma al contempo di differenziarsi dagli altri, e in particolare di mandare messaggi di critica nei confronti della cultura dominante. Oggi la realtà appare più complessa e meno leggibile. I concetti di “codice” e “decifrazione” sono ancorati ad un modello lineare della comunicazione (mittente – messaggio – destinatario) che sembra poco adatto per rendere conto della multiformità contemporanea; quindi, a mio parere, sarebbe più efficace porre la questione in altri termini, più vicini ad una prospettiva sistemica.
19 Cfr. M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., pp. 80-82.
20 Nel presente lavoro il mio intento è di fare qualcosa di simile, cioè usare gli strumenti wittgensteiniani
– elaborati in riferimento al linguaggio verbale – applicandoli al linguaggio della moda, perché credo possano essere più efficaci per l'analisi dei fenomeni in una società complessa come quella contemporanea.
21 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., §23, p. 21.
22 Cfr. Pëtr Bogatyrëv, Semiotica della cultura popolare (citato in M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., pp. 96-98). I vestiti assolvono alle funzioni di protezione, di ornamento e di decenza e tra queste può essere elencata anche quella comunicativa. Considerare l'abbigliamento da questo punto di vista non è però così semplice: se consideriamo che tutto è determinato dalla cultura, allora lo sono anche i concetti di “protezione”, “ornamento” e “decenza” e anche gli abiti che assolvono a queste funzioni. Perciò è difficile ammettere semplicemente che ci siano bisogni umani di base ai quali si risponde tramite i vestiti. Barnard elenca le seguenti istanze come funzioni dell'abbigliamento: protezione,

chiederci ad esempio quali siano le funzioni dell'abbigliamento in relazione alle mode. Ma anche, quali sono le funzioni della moda stessa? Solo imitazione e distinzione per via della competizione sociale o sessuale?
Le riflessioni di Wittgenstein sul linguaggio possono essere utili per capire meglio la moda come sistema significante. Adottare tale prospettiva significa interrogarsi sulle funzioni semiotiche e sull'uso dei vestiti in riferimento ad un contesto storico, sociale e culturale, ma anche in relazione ad una molteplicità di altri elementi occasionali che intervengono nella comunicazione, poiché il significato di un vestito sta nell'uso che ne facciamo23.
Come ogni tipo di comunicazione, vestirsi implica compiere delle scelte che riguardano anche chi ci sta intorno, la cultura e la società in cui viviamo: chi sia entrato in contatto con le questioni semiologiche – scrive Eco - «non può più annodarsi la cravatta, la mattina davanti allo specchio, senza avere la netta sensazione di fare una scelta ideologica o, almeno, di stendere un messaggio, in una lettera aperta ai passanti e a coloro che si incontrerà durante la giornata»24. L'aspetto esteriore è il primo tipo di comunicazione nelle interazioni sociali: ad esempio, un professore universitario italiano che si presenta in aula in giacca e cravatta comunica qualcosa di diverso rispetto ad un professore che indossa jeans e maglietta. Probabilmente il primo verrà percepito come persona che, nel suo ruolo di professore, vuole mantenere un certo grado di formalità nel rapporto con gli studenti, e che è legato alla consuetudine vestimentaria – la moda – degli intellettuali accademici italiani. Il secondo, invece, sarà percepito come più amichevole nei confronti degli studenti, più aperto ad un confronto paritario con essi e, forse, si può inferire una simpatia per l'ambiente accademico americano, in cui la prassi vestimentaria è estremamente più libera rispetto a quella europea. Per non parlare dell'influenza che possono avere la provenienza sociale e le convinzioni politiche nella
senso del pudore, esibizione e seduzione, comunicazione, espressione individualista, status sociale, ruolo sociale, simbolo politico, condizioni magico-religiose, rituali sociali, divertimento (cfr. M. Barnard, Fashion as Communication, cit., pp. 49-70).
23 «Per una grande classe di casi – anche se non per tutti i casi – in cui ce ne serviamo, la parola “significato” si può definire così: il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio» (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., §43, p. 33; cfr. A. Voltolini, Guida alla lettura delle Ricerche filosofiche, cit., p. 23).
24 U. Eco, L'abito parla il monaco, cit., p. 7.

scelta dell'abbigliamento ritenuto adeguato da ciascuno dei due per tenere una lezione universitaria.
Ad ogni modo, non è importante stabilire quale sia l'interpretazione più fedele alle intenzioni (pensiero, credenze, desideri) di una persona per comprendere il significato del suo abbigliamento25; infatti, non credo che il significato sia in un vestito o che possa essere attribuito unilateralmente da parte di una singola fonte. Come avviene per il linguaggio verbale, sia che si parli del concetto di «moda» sia del significato dei vestiti, siamo ricondotti ad un ambito intersoggettivo, prassiologico ed antropologico: il vestirsi e le scelte d'abbigliamento sono azioni che noi compiamo in quanto esseri umani e in quanto parte di una società, e ogni nostra scelta è in relazione con le azioni e le scelte degli altri26. In questa prospettiva, i significati degli oggetti, e quindi dei vestiti, non sono dati una volta per tutte, ma sono creati sempre di nuovo nell'uso che ne facciamo. La significazione non è una virtù intrinseca agli oggetti ma «l'uso sociale che si aggiunge alla pura materia»27.
25 Entrando nell'ambito della significazione è comunque fondamentale considerare come si origini il significato che viene attribuito ad un vestito. Ad esempio, si consideri il significato “essere formali” che può essere attribuito al fatto di indossare la cravatta: una prima opzione può essere quella di considerare il significato come interno o esterno all'oggetto; nel primo caso esso dipende dalle proprietà dell'oggetto, mentre nel secondo dipende dalle intenzioni dello stilista, di chi lo indossa o di un'autorità. In alternativa, si può utilizzare un approccio vicino alla semiologia di Barthes e de Saussure: il legame tra significato e significante, tra la cravatta e l'“essere formale”, non dipende dalla natura delle cose o dalla decisione o volontà di un particolare agente, il legame è dato da un'insieme di regole – il codice – e solo chi lo conosce può comprendere il significato. Non sapremmo riconoscere gli abiti appropriati per “essere formale” in una cultura che ci è estranea (cfr. M. Barnard, Fashion as Communication, cit., pp. 72-82). Allo stesso modo, se non conosco l'inglese non potrò capire che la parola tie si riferisce a quell'oggetto che io chiamo “cravatta”.
26 Secondo Wittgenstein non può esistere un linguaggio privato – come si vedrà nel paragrafo successivo (cfr. infra, par. 3) – e allo stesso modo non può esistere una moda privata.
27 Roland Barthes, Miti d'oggi (citato in D. Dolci e F. Gallerani, Glamoursofia, cit., p. 73). Gli oggetti, quindi, sono il sostrato materiale che incarna i significati “attribuiti” nell'uso comunitario e sul quale si deposita la qualità accidentale dell'“essere di/alla moda”. L'abbigliamento e gli oggetti in genere – ma questo discorso si può estendere anche al corpo umano – sono di per sé neutri e sono caricati di valori simbolici dalla cultura nella quale sono presenti. Infatti, anche il corpo umano nudo non è qualcosa di naturale, noi lo vediamo già filtrato attraverso gli occhiali della nostra cultura: «non esiste un corpo totalmente “nudo”, dato che il corpo svestito sarà sempre “vestito” in forza delle sue valenze sociali. E quanto maggiore è la carica di significato che si attribuisce agli abiti, tanto più potente sarà il significato della loro assenza. Se rimuoviamo tutti i vestiti, quello che rimane non è un corpo “naturale” ma un corpo formato dalla moda – un corpo che non è più naturale delle vesti che

Sulla base di queste premesse, a mio avviso, per comprendere che tipo di sistema semiotico sia la moda possono rivelarsi molto efficaci gli strumenti analitici sviluppati da Wittgenstein e dal sociologo Niklas Luhmann.
3. Wittgenstein e la moda
I concetti fondamentali della riflessione sul linguaggio sviluppata da Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche sono «giuoco linguistico», «grammatica» e «forma di vita», concetti che possono essere applicati anche all'ambito della significazione degli oggetti.
Sono giochi linguistici:
comandare, e agire secondo il comando – descrivere un oggetto in base al suo aspetto o alle sue dimensioni – costruire un oggetto in base a una descrizione (disegno) – riferire un avvenimento – far congetture intorno all'avvenimento – elaborare un'ipotesi e metterla alla prova – rappresentare i risultati di un esperimento mediante tabelle e diagrammi – inventare una storia; e leggerla – recitare in teatro – cantare in girotondo – sciogliere indovinelli – fare una battuta; raccontarla – risolvere un problema di aritmetica applicata – tradurre da una lingua in un'altra – chiedere, ringraziare, imprecare, salutare, pregare28.
Anche il linguaggio verbale, inteso nel senso più ampio, è un gioco linguistico29 che può essere distinto da altri giochi linguistici di tipo non-verbale: ogni attività in cui avvengano dei processi di creazione di significato potrebbe essere considerata tale. I giochi, e così i linguaggi, sono dotati delle loro regole, pertanto, se applichiamo l'idea di gioco linguistico alla moda e cerchiamo di descriverla in questi termini, anche la moda può essere intesa come un insieme di attività dotate delle proprie regole, cioè di una grammatica.
Il modo in cui noi usiamo il linguaggio e partecipiamo a dei giochi linguistici è regolato da una grammatica, che viene definita come la «regola d'uso» dei termini all'interno di un certo gioco linguistico30. Poiché le modalità di utilizzo di un termine costituiscono il suo significato, è evidente che la grammatica contribuisce alla creazione del significato. Essa non è qualcosa di totalmente arbitrario o convenzionale e non è
indossa» (L. Svendsen, Filosofia della moda, cit., p. 87).
28 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., §23, pp. 21-22.
29 «Inoltre chiamerò “giuoco linguistico” anche tutto l'insieme costituito dal linguaggio e dalle attività di cui è intessuto» (ivi, §7, p. 13).
30 Cfr. A. Voltolini, Guida alla lettura delle Ricerche filosofiche, cit., p. 33.

basata neppure su un'«indipendente natura delle cose»: la grammatica «consegue alla natura di chi si attiene ad essa», cioè è strettamente connessa «ai comportamenti e alle reazioni spontanee di chi fruisce del linguaggio» (di chi partecipa a quel gioco linguistico)31.
Si è già accennato al fatto che «parlare un linguaggio fa parte di un'attività, o di una forma di vita»32. Ciò vuol dire che il linguaggio è sempre utilizzato «in un contesto di attività e consuetudini il cui carattere è eminentemente sociale. Non vi sarebbe uso linguistico se non vi fosse una comunità di soggetti che usano il linguaggio in questione entro un comune modo di agire»33. Il linguaggio è basato sulle «forme di vita», ossia su delle comuni reazioni prelinguistiche, su dei modi di agire ed interagire che condividiamo con gli altri, e grazie ai quali siamo in grado di giocare lo stesso gioco linguistico e quindi di comunicare. In quest'ottica, proprio come avviene per i giochi linguistici di tipo verbale, anche la moda può essere intesa come un fenomeno sociale e comunitario, le cui regole vengono istituite nella prassi.
Wittgenstein si sofferma sull'analisi delle regole, sul come queste vengano istituite e sulla loro validità, in particolare sulla possibilità o meno che esistano regole/linguaggi privati. Una regola può essere applicata in modo corretto o scorretto: ad esempio, uso la parola “gonna” per indicare dei pantaloni. L'utilizzo corretto/scorretto della parola “gonna” non è da valutarsi in riferimento ad un'ipotetica essenza dell'oggetto a cui mi riferisco, bensì, in un'ottica prassiologica, in base all'uso che a livello comunitario si fa di questa parola per indicare una certa classe di oggetti che hanno tra di loro somiglianze di famiglia, come ad esempio la minigonna ed il kilt scozzese. Secondo il filosofo austriaco, non vi è la possibilità di una regola privata, come nemmeno di un linguaggio privato, questo per via del loro fondamento intersoggettivo: l'istituzione delle regole richiede un'applicazione paradigmatica (che determini correttezza e scorrettezza), ma allo stesso tempo «l'applicazione paradigmatica della regola in una data circostanza non può bastare a se stessa, come (impossibile) applicazione unica della regola in tale circostanza, ma deve essere attorniata da una pluralità di applicazioni ulteriori della regola in quella
31 Cfr. ivi, pp. 38-39.
32 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., §23, p. 21.
33 A. Voltolini, Guida alla lettura delle Ricerche filosofiche, cit., p. 40.

circostanza»34. Se queste sono le condizioni di possibilità delle regole, allora per le stesse condizioni non è possibile che esista una regola ad privatim35; e di conseguenza non è di alcuna utilità parlare di significati privati, poiché i significati sono costruiti in relazione ad una regola, al modo in cui utilizziamo una parola o un oggetto.
In base a quanto detto, si potrebbero estendere le condizioni di esistenza di una regola all'ambito della moda, con il duplice intento di descrivere il fenomeno ma anche di mettere alla prova il modello di Wittgenstein in un campo d'applicazione un po' insolito36. Come detto nel primo capitolo, due delle condizioni che determinano se qualcosa è alla moda, sono: (i) che sia indossato da un numero consistente di persone, così da essere riconosciuto come oggetto a cui è rivolto l'interesse comune di una collettività; (ii) che sia approvato da qualcuno che viene considerato autorevole in merito a questioni di stile e di moda37. Dunque, perché qualcosa sia alla moda – cioè sia parte del gioco che chiamiamo «moda» – sono necessarie una sorta di applicazione paradigmatica, ossia l'uso di un certo capo d'abbigliamento da parte di un'autorità, e l'acquisizione dell'uso di questo capo da parte di un ampio numero di persone 38. Un esempio potrebbe essere quello di Gianni Agnelli, considerato icona di stile da un certo gruppo sociale, tra cui vi sono uomini d'affari, industriali e imprenditori: Agnelli ha lanciato molte mode, come ad esempio quella di indossare l'orologio sopra il polsino

34 Ivi, cit., p. 94.
35 «Ciò che chiamiamo “seguire una regola” è forse qualcosa che potrebbe esser fatto da un solo uomo, una sola volta nella sua vita? – E questa, naturalmente, è un'annotazione sulla grammatica dell'espressione “seguire la regola”» (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., §199, p. 107). Seguire una regola è una prassi, quindi non si può seguire una regola in maniera privata, tuttavia sarebbe opportuno introdurre la distinzione tra un'applicazione «localmente isolata» e una «globalmente isolata» poiché solo nel secondo caso la regola risulta essere essenzialmente privata mentre nel primo lo è solo accidentalmente. Una regola privata non è valida poiché in essa la distinzione tra seguire una regola e credere di farlo collassa: infatti, mancando un'applicazione paradigmatica, manca il criterio di correttezza (Cfr. A. Voltolini, Guida alla lettura delle Ricerche filosofiche, cit., pp. 103-112).
36 Nell'ambito degli studi sulla moda anche Barnard e Svendsen si rifanno a concetti wittgensteiniani: Barnard in Fashion as Communication analizza i termini fondamentali relativi al mondo della moda e dell'abbigliamento – fashion, adorn, style, dress, clothing – facendo ricorso alle «somiglianze di famiglia». L'intento del filosofo è di mettere in luce l'importanza della chiarezza concettuale quando si affronta un argomento (cfr. M. Barnard, Fashion, as Communication, cit., pp. 10-11. Anche Svendsen fa la stessa mossa in riferimento al termine e al fenomeno «moda» (fashion) (cfr. L. Svendsen, Filosofia della moda, cit., p. 14).
37 Cfr. supra, cap. 1, par. 2.
38 «First, a look is fashionable only if many people are wearing it. Second, individuals regarded as experts, though not necessarily fashion professionals, must endorse the look» (A. Farennikova e J. Prinz, What makes something fashionable?, cit., pp. 29-30).

della camicia. Questo suo modo particolare di indossare l'orologio è stato in seguito imitato da molte altre persone, essendo considerata una scelta di stile che caratterizza un certo status, un certo prestigio sociale. Agnelli in questo caso può essere considerato come l'autorità che sancisce l'apprezzamento di un certo stile, acquisita poi da una moltitudine nel tentativo di imitarlo.
Riguardo alla questione del linguaggio privato: se per Wittgenstein non esiste una regola che sia “essenzialmente” privata, ci si può chiedere se esista invece una moda privata, una moda che coinvolga un solo individuo39. Evidentemente - in base alle condizioni enunciate, che sembrano essere plausibili se si ha l'intento di distinguere qualcosa «alla moda» dal semplice stile - se qualcosa viene indossato da una sola persona una sola volta non può essere considerato una moda, nemmeno se si tratta di un'autorità in materia di stile. Ma se questo vestito o accessorio viene indossato da un'autorità e inoltre si diffonde alle masse, allora è una moda e il conformarsi a essa può essere pensato come il seguire una regola in un gioco wittgensteiniano. Anche l'abbigliamento e la moda possono essere considerati giochi linguistici: il vestirsi - a prescindere dalle mode - implica delle regole, infatti, non possiamo indossare una maglietta al posto dei pantaloni, perché verremmo considerati pazzi, e inoltre la maglietta non si adegua alla parte inferiore del nostro corpo incontrando una resistenza; anche la moda è dotata delle sue regole, cioè gli abbinamenti possibili tra vari colori, stoffe e materiali, ma anche stili.
Non è possibile non seguire una regola d'abbigliamento, poiché il semplice vestirsi implica comportarsi secondo una consuetudine; invece, non seguendo alcuna regola della moda si sceglie di non partecipare ad alcuni giochi linguistici contingenti – ad esempio, la moda “dell'intellettuale di sinistra” – ma ciò non implica un'esclusione dal gioco della moda inteso in senso lato. Questo perché siamo presenti come individui abbigliati in un certo modo all'interno di una società in cui, oltre alla moda in senso più ampio, ci sono anche delle mode specifiche e limitate che riguardano porzioni più o
39 Si consideri, per esempio, la seguente situazione fittizia: «Robinson lives on an uninhabited island and wears whatever he can make from the materials at hand. One day Robinson looks at his soiled, nasty clothes and gets tired of his garb. He decides to construct a new leather jacket for the coming winter. Having planned the design, Robinson feels that he is on to something with the jacket. After it's done, he looks at it and decides that it is just the coolest thing ever.
Isn't the jacket fashionable for Robinson?» (ivi, p. 18).

meno ampie della popolazione; l'abbigliarsi fuori moda o contro la moda40 non significa astenersi in toto dalla moda, ma piuttosto dalla moda mainstream o dominante, quella trasmessa dai media, che vediamo e leggiamo sulle riviste specializzate - per esempio Elle, Vogue e Harper Bazar - e che possiamo comprare nei luoghi della moda: i centri commerciali, le gallerie, i negozi, gli outlet, eccetera. Non partecipare ad alcuni giochi non ci squalifica dal giocare il gioco della moda nel suo senso più ampio, proprio come non partecipare al gioco “ringraziare” non ci squalifica dal gioco linguistico del linguaggio verbale più in generale41 In uno dei brani più esplicativi tratto dal film Il diavolo veste Prada, Miranda Priestly (Meryl Streep) direttrice di Runaway, famosa rivista di moda, dà una lezione a Andy Sachs (Anne Hathaway), aspirante giornalista con uno stile decisamente poco curato e che si trova a fare i conti con un mondo che aveva sempre considerato superficiale e di scarso interesse:
[…] tu pensi che questo non abbia niente a che vedere con te. Tu apri il tuo armadio e scegli, non lo so, quel maglioncino azzurro infeltrito per esempio, perché vuoi gridare al mondo che ti prendi troppo sul serio per curarti di cosa ti metti addosso, ma quello che non sai è che quel maglioncino non è semplicemente azzurro, non è turchese, non è lapis, è effettivamente ceruleo, e sei anche allegramente inconsapevole del fatto che nel 2002 Oscar de la Renta ha realizzato una collezione di gonne cerulee e poi è stato Yves Saint Laurent se non sbaglio a proporre delle giacche militari color ceruleo. E poi il ceruleo è rapidamente comparso nelle collezioni di otto diversi stilisti. Dopodiché è arrivato a poco a poco nei grandi magazzini e alla fine si è infiltrato in qualche tragico angolo casual, dove tu evidentemente l'hai pescato nel cesto delle occasioni. Tuttavia quell'azzurro rappresenta milioni di dollari e innumerevoli posti di lavoro, e siamo al limite del comico quando penso che tu sia convinta di aver fatto una scelta fuori dalle proposte della moda quando in effetti indossi un golfino che è stato selezionato per te dalle persone qui presenti in mezzo a una pila di roba42.
Nel paragrafo successivo, questo apparato di concetti wittgensteiniani verrà applicato non tanto alle regole d'uso – abbinamento, accostamento, modo di indossare – di un capo d'abbigliamento o accessorio, quanto piuttosto al sistema della moda inteso come un sistema significante – secondo la tradizione semiotica, quindi, e considerando i capi d'abbigliamento come “valenti per”. In questo contesto l'abbigliamento è inteso come mezzo di comunicazione attraverso il quale vengono creati significati. La questione
40 Cfr. supra, cap. 1, par. 2.
41 «Nelle nostre moderne società occidentali non esistono abiti al di fuori della moda» (E. Wilson, Vestirsi di sogni, cit., p. 17). «Anche coloro che volutamente non sono alla moda indossano abiti che rappresentano chiaramente una reazione contro ciò che è alla moda. Non essere alla moda non significa sottrarsi completamente a questo discorso, o porsi al di fuori dei parametri» (ivi, p. 19),
42 The Devil Wears Prada, regia di David Frankel, 20th Century Fox, USA 2006.

centrale è capire in che modo attribuiamo significati ai capi d'abbigliamento e in che grado questi significati siano fissi/standard o mutevoli. Secondo Wittgenstein, dato che il significato di un termine non è fisso ma si costituisce nell'uso che si fa di esso (seguire la regola), un concetto e la sua definizione possono mutare nello spazio e nel tempo: «un termine può ricevere altre applicazioni paradigmatiche in rapporto a nuove circostanze del suo impiego, il suo significato può essere ulteriormente esteso, nel senso di conseguire ulteriori articolazioni non contenute nell'applicazione paradigmatica originaria»43. In questo senso, un concetto ha tante più accezioni/usi in quanti più giochi linguistici viene impiegato. Questa idea può essere estesa anche agli oggetti, e in particolare ai vestiti, che a seconda delle circostanze e delle combinazioni con altri elementi possono avere significati differenti; e allo stesso concetto di “moda”, per il quale a seconda delle epoche e delle idee dominanti possono essere più o meno appropriate definizioni diverse.
4. Tutto è comunicazione
Alcuni studiosi dimostrano di essere scettici nei confronti del potere comunicativo degli abiti: i significati in questo ambito, infatti, sarebbero ancora più indefinibili di quelli del linguaggio verbale, in particolare nell'epoca postmoderna, epoca di multiformità e polisemia della moda44. Vi è instabilità o ambiguità nei significati connessi al campo della moda/abbigliamento: infatti, «la proliferazione degli stili in un contesto sempre più globalizzato, e il fatto che una logica suppletiva abbia rimpiazzato la precedente logica sostitutiva favorendo l'accumularsi di uno stile accanto all'altro, ha reso difficile stabilire in maniera univoca per che cosa sarebbe “valente” un capo d'abbigliamento»45. Il sociologo Zygmunt Bauman ha definito la società postmoderna come una «società liquida», «un mondo in movimento, un mondo che, furiosamente, continua a cambiare
43 A. Voltolini, Guida alla lettura delle Ricerche filosofiche, cit., p. 100.
44 Cfr. F. Davis, Moda, cultura, identità, linguaggio, cit., p. 98.
45 D. Dolci e F. Gallerani, Glamoursofia, cit., p. 64. «Gli abiti sono semanticamente instabili perché dipendono dal contesto. La sociologa Diana Crane parlando dei vestiti come di testi asserisce che era tipico nella società classista che essi funzionassero come testi “chiusi”, con un significato relativamente stabile, fisso. Nelle società più frammentate della postmodernità essi funzionano invece più come testi “aperti”, capaci di ricevere sempre nuovi significati. Ciò si deve anche alla possibilità che gruppi diversi utilizzino gli stessi capi conferendo loro, però, un contenuto sostanzialmente differente» (L. Svendsen, Filosofia della moda, cit., p. 78).

più velocemente di quanto noi riusciamo ad adattare ad esso i modi in cui lo pensiamo e lo descriviamo»46. L'ambiguità e la difficoltà nel trovare o costruire significati tramite la moda è quindi un aspetto che riguarda anche altri linguaggi: il problema non è tanto nei limiti semiotici della moda, quanto nella rapidità con cui cambia il contesto in riferimento al quale i significati dei vestiti sono interpretati47.
Di fronte a tale sfuggevolezza il filosofo non può arrendersi, anche se:
moltissimi termini e concetti pensati per trasmettere il nostro significato a noi stessi e agli altri si rivelano ormai inadatti allo scopo. Cerchiamo disperatamente una nuova struttura, che sia in grado di conciliare e organizzare la nostra esperienza in modo tale da consentirci di percepirne la logica e leggerne il messaggio che finora è rimasto nascosto, illeggibile o a rischio di essere male interpretato48.
L'apparato concettuale sviluppato da Wittgenstein può essere di aiuto nel cercare una descrizione allo stesso tempo adeguata e versatile del fenomeno moda nella società liquida, in particolare in merito al valore semiotico dell'abbigliamento. Accanto al pensiero di Wittgenstein, per comprendere meglio alcuni aspetti sociali della moda si rivelano preziose anche le riflessioni del sociologo Niklas Luhmann, il quale, con un atteggiamento analogo a quello del filosofo austriaco, insiste sull'aspetto costitutivamente intersoggettivo della creazione di «significato», addirittura assumendo questo concetto come fondamento della generazione e del mantenimento dei sistemi sociali.
Pur sviluppando il proprio pensiero secondo percorsi differenti, entrambi i pensatori mostrano più o meno esplicitamente un atteggiamento che privilegia la descrizione dei fenomeni osservati, senza ricercarne l'essenza. Per potere descrivere il mondo così come appare, è però necessario disporre di strumenti adeguati, ossia di teorie e modelli che permettano di cogliere l'articolazione dei fenomeni che caratterizzano le società complesse. In merito al discorso portato avanti in questa sede, è interessante che
46 Zygmunt Bauman, L'etica in un mondo di consumatori, trad. ita. di Fabio Galimberti, Laterza, Roma-Bari 2012, p. viii.
47 «Il codice abbigliamento-moda è altamente dipendente dal contesto, più ancora, forse, di quanto lo siano le espressioni prodotte nella quotidiana interazione tra persona e persona»; «Mentre i significanti che costituiscono uno stile, un look o una determinata moda sono, in un certo senso, uguali per tutti (larghezza di un risvolto è uguale sia a Savile Row che sui cataloghi di Sears) […] ciò che viene significato è, almeno inizialmente, molto diverso per i diversi tipi di pubblico, di audience e i diversi gruppi sociali» (F. Davis, Moda, cultura, identità, linguaggio, cit., pp. 8 e 9).
48 Z. Bauman, L'etica in un mondo di consumatori, cit., p. viii.

Luhmann definisca il concetto di “significato” come l'unità dei due poli potenzialità/attualità: «meaning is the link between the actual and the possible: it is not one or the other»49. Nel momento in cui qualcosa è presente nel pensiero o nella comunicazione esso viene reso un significato attuale, ma è sempre attualizzato in relazione ad un orizzonte di possibilità differenti, le quali sono presenti in potenza ma escluse dall'attualità perché non sono state selezionate50.
L'emergere di un significato da questo processo di selezione e attualizzazione può essere meglio compreso considerando la concezione che Luhmann ha della “comunicazione”: dato che si analizza la moda come sistema comunicativo è fondamentale mettere a fuoco quale sia la concezione della comunicazione che si adotta. La comunicazione non è un processo lineare, non riguarda la presenza di informazione trasmessa in modo sequenziale da un mittente ad un ricevente, essa è un fenomeno emergente dall'interazione tra più individui e non può essere attribuita alla volontà o alle intenzioni del singolo. Analiticamente, la comunicazione può essere vista come costituita da tre istanze – informazione, enunciazione e comprensione – le quali però sono inseparabili nella loro manifestazione fenomenica: la comunicazione avviene solamente grazie a questa “unità indivisibile”. Informazione, enunciazione, e comprensione sono processi di selezione che riguardano l'interazione fra due o più individui in un contesto specifico: una persona sceglie cosa comunicare (informazione), sceglie come comunicare (enunciazione), e il suo interlocutore sceglie come interpretare l'informazione che percepisce attraverso quel tipo di enunciazione, ossia istituisce una relazione ermeneutica fra informazione ed enunciazione (comprensione). Per essere più precisi, per Luhmann non vi è comprensione senza una comunicazione della comprensione – anche un semplice cenno col capo può essere considerato una comunicazione della comprensione – ossia non vi è comunicazione, e di conseguenza un sistema sociale, senza che si stabilisca una relazione fra due individui. E, allo stesso tempo, la relazione emerge solo attraverso la comunicazione; la stessa comunicazione è una proprietà emergente del sistema in cui avvengono questi tre processi, ed è la condizione di
49 Niklas Luhmann, Complexity and Meaning, in: AA.VV., The science and praxis of complexity: Contributions to the symposium held at Montpellier, France, May 9-11, 1984, a cura di Ilya Prigogine e Edgar Morin, United Nations University, Tokyo 1985, p. 102.
50 Cfr. Niels Åkerstrøm Andersen, Niklas Luhmann's systems theory, in: AA.VV., Discursive Analytical Strategies. Understanding Foucault, Koselleck, Laclau, Luhmann, The Policy Press, Bristol 2003, p. 73.

possibilità di ogni interazione sociale, indipendentemente dal linguaggio, mezzo o codice utilizzato nell'interazione.
Il modello di Luhmann permette di giustificare – di fondare epistemologicamente – la concezione comune e intuitiva che l'abbigliamento e la moda siano una forma di comunicazione51. Se si adotta la teoria di Luhmann, necessariamente si dovrà tenere conto che la moda è un fenomeno emergente dall'interazione di molti individui. Tracciando una similitudine, si può affermare che un individuo compie delle scelte di abbigliamento precise fra le molte altre a sua disposizione (selezione di informazione), sceglie più o meno consapevolmente un outfit, ossia come e perché indossare i capi scelti (selezione dell'enunciazione); e le persone che interagiscono con lui interpretano tutte queste scelte in un certo modo, ossia formulano delle ipotesi interpretative per comprendere quale significato possono avere i capi di abbigliamento scelti, quali relazioni vi siano nella loro combinazione e con il contesto in cui sono stati indossati (selezione di comprensione).
5. Significato del concetto di moda
Ma qual è allora la differenza fra il significato di un vestito e il significato di una moda, dato che entrambi possono essere considerati dei processi di comunicazione? E se la comunicazione avviene sempre in relazione ad un sistema sociale, che libertà di comunicare con il mio abbigliamento ho rispetto al sistema comunicativo della moda? Seguendo Wittgenstein si è visto che entrambi possono essere considerati giochi linguistici, sebbene di tipo diverso; nei termini di Luhmann, invece, la questione può essere posta nel modo seguente:
meaning comprises a constant rearranging of the distinction actuality/potentiality. Meaning disintegrates immediately on its actualisation. Thus, meaning is tied to the momentary condition of actualisation. Communication, on the other hand, is capable of developing structures that condense meaning into forms, which are set free from the momentary condition of actualisation. Condensation means that a multitude of meaning is captured in a single form, which subsequently makes itself available to an undefined communication52.
51 Questa concezione è confermata anche dalla giurisprudenza e dalla cultura popolare, infatti esistono moltissimi detti popolari sull'abbigliamento e la moda (cfr. l'emanazione delle leggi suntuarie, supra, cap. 1, par. 3).
52 N. Å. Andersen, Niklas Luhmann's systems theory, cit., p. 87.

Nonostante la differenza dei termini utilizzati, il processo con cui i significati si condensano in forme tramite la comunicazione è analogo a quello per cui tramite la prassi viene istituita una regola linguistica. Comunicare vuol dire partecipare ad un gioco linguistico, ed intendere la moda come una “forma” di comunicazione vuol dire riconoscere il suo ruolo nella istituzione e gestione delle interazioni sociali. Nello specifico, le società complesse come quelle considerate da Luhmann sono sistemi in cui la presenza della moda è molto forte, ossia la moda agisce come una “struttura” capace di condensare l'abbigliamento in forme significative.
Nel paragrafo sugli studi semiotici53 si è visto come siano stati fatti alcuni tentativi di interpretare la moda come un sistema di significati, tuttavia, in tempi più recenti, questi sforzi sono stati criticati proprio in virtù della complessità della società contemporanea. Il filosofo Lars Svendsen critica la concezione della moda come comunicazione poiché l'ampia diffusione, le contaminazioni trasversali fra gli stili di abbigliamento e la rapidità nel susseguirsi delle mode portano ad una situazione in cui i significati sono troppo ambigui per poter parlare di un efficace metodo di comunicazione54. Svendsen si pone la domanda: da dove un vestito trae il suo significato?55 Le possibili risposte sono: dalle intenzioni dello stilista che lo ha creato; dalla coscienza di chi lo indossa; da uno o più osservatori esterni; dalla propria intrinseca natura. Nessuna di queste opzioni sembra accettabile per il filosofo norvegese e ciò lo porta a concludere che, sebbene possa comunicare qualcosa, l'abbigliamento non può essere considerato un linguaggio: «a rigor di termini, gli abiti non sono una lingua. Spesso si afferma il contrario, ma è innegabile che non sono forniti né di una grammatica né di un vocabolario comunemente intesi. È altresì indubbio che essi esprimono qualcosa, ma non tutto ciò che è in grado di comunicare merita denominazione di lingua»56. Questa considerazione ha senz'altro un suo perché ma non credo che contribuisca in modo costruttivo allo studio della moda, così come la domanda «da dove un vestito trae il suo significato?» è una domanda mal posta: entrambi questi atteggiamenti rivelano una concezione del linguaggio di tipo essenzialista e una concezione della comunicazione come fenomeno lineare. Al
53 Cfr. supra, cap. 2, par. 2.
54 L. Svendsen, Filosofia della moda, cit., pp. 78-79.
55 Ivi, pp. 75-76. Anche Barnard si pone la stessa domanda (cfr. M. Barnard, Fashion as Communication, cit., p. 72).
56 L. Svendsen, Filosofia della moda, cit., p. 77.

contrario, appoggiandomi ai modelli di Wittgenstein e Luhmann, credo che la scelta più idonea per occuparsi dei significati dell'abbigliamento e della moda sia quella di un approccio sistemico: i significati dei vestiti emergono dalle dinamiche comunicative dei sistemi sociali e non sono riducibili ad alcuna proprietà immanente del sistema. L'abbigliamento è un tipo di linguaggio, è un gioco linguistico le cui regole emergono nella prassi.
De Saussure dopo aver sviluppato la propria linguistica strutturalista suggeriva di utilizzare gli strumenti dell'analisi linguistica per descrivere altri fenomeni semiotici, ma ciò non vuol dire che questi siano fenomeni linguistici in senso stretto57 o che la componente verbale di un fenomeno sia particolarmente rilevante per coglierne la natura58; con tutti i limiti che un'impostazione strutturalista può avere, de Saussure suggeriva che sono i modi in cui continuamente si creano le relazioni fra significanti, significati e referenti ad essere interessanti, non tanto il fatto di poter individuare delle relazioni immutabili. Così come aveva individuato anche due aspetti cruciali del fenomeno moda: (i) il fatto che il significato dell'abbigliamento non può mai essere completamente arbitrario, in quanto necessariamente vincolato – almeno in parte – dal corpo; (ii) l'impossibilità di stabilire l'origine dei processi di imitazione/distinzione (nei termini di Luhmann: la comunicazione è un fenomeno emergente la cui origine non può essere descritta da un modello di causalità lineare).
Il modo in cui Svendsen imposta le sue osservazioni sulla moda lo porta ad affermare che più i vestiti si diffondono più tendono a perdere significato59, ma la circolazione di un vestito può essere intesa anche come un processo tramite il quale il vestito acquisisce più significati, incrementando la ricchezza dell'orizzonte di possibilità nel quale avviene la comunicazione, ossia quelli che Luhmann chiama processi di selezione. La possibilità di esprimere significati e l'efficacia comunicativa dei vestiti non sono quindi messe in crisi dalla società liquida, in cui, fra gli altri fattori, anche il consumismo contribuisce alla sfuggevolezza dei significati. Coi vestiti possiamo comunicare e quotidianamente diamo un significato ai vestiti indossati dagli altri. Nel
57 Questa è l'interpretazione di A. Lurie, The Language of Clothes, cit.
58 È ciò che fa R. Barthes analizzando le didascalie delle foto sulle riviste di moda (cfr. supra, cap. 2, par. 2).
59 L. Svendsen, Filosofia della moda, cit., p. 78.

capitolo seguente utilizzerò gli strumenti analitici sintetizzati in questo capitolo per mostrare come ciò avvenga in relazione ad una questione estremamente delicata e dibattuta: quella dell'identità.

Capitolo 5 Identità e moda
1. Identità e interazioni fra persone
Intendere la moda e l'abbigliamento come sistemi semiotici è particolarmente utile in relazione alla questione dell'identità. Che gli abiti siano comunicativi e che entrino in relazione con le nostre identità sociali è un'idea piuttosto intuitiva, se non altro perché è qualcosa che riguarda tutti direttamente, dall'età in cui si comincia a scegliere autonomamente come vestirsi. Gli abiti coprono il nostro corpo come una seconda pelle o una social skin2 e sono parte fondamentale di quell'insieme di aspetti esteriori che condizionano le nostre interazioni sociali quotidiane: ad esempio, la gestualità, la mimica facciale e il modo in cui parliamo. Tutti questi aspetti sono sia determinati dalla cultura che condizionati dalla natura, come per esempio dalla forma del corpo o del viso.
Prima di affrontare la questione della relazione fra moda e identità - e considerando che mi pongo in una prospettiva metodologica e non intendo addentrarmi in questioni della metafisica - credo sia importante delineare quale concezione dell'identità sia in questo caso più efficace, quindi se ai fini del discorso fatto in questa sede sia meglio pensare l'identità come qualcosa di essenzialmente esistente, e che può manifestarsi nelle azioni e nelle parole, ma anche nell'abbigliamento; oppure se siano il vestirsi, l'agire in un certo modo, il parlare, ecc., a dare forma alla nostra identità entro le relazioni sociali.
Prima ancora che io abbia la possibilità di parlare a un'altra persona in strada, a un incontro o a una festa, questa mi annuncia il suo sesso, l'età e la classe attraverso ciò che indossa – e forse mi fornisce importanti informazioni (o disinformazioni) riguardo la sua occupazione, le sue origini, la personalità, le opinioni, i gusti, i desideri sessuali e l'umore del momento3.
2 Il termine, coniato dall'antropologa Tranberg Hansen, è esplicativo poiché mette insieme la parola
«pelle» (skin), che si riferisce all'aspetto individuale e biologico, e «sociale» (social) che ci rimanda all'aspetto comunitario degli abiti. Cfr. Karen Tranberg Hansen, The World in Dress: Anthropological Perspectives on Clothing, Fashion and Cultures, in «Annual Review of Anthropology», vol. 33 (2004), pp. 369-392; cfr. anche Lucia Ruggerone, The simulated (fictitious) body: The production of women's images in fashion photography, in «Poetics», vol. 34, n. 6 (december 2006), pp. 354-369.
3 A. Lurie, The Language of Clothes, cit., p. 146.

Le teorie sull'identità che meglio si accordano con il modello presentato nel capitolo precedente sono quelle basate sul concetto di performance, le quali non concepiscono l'identità come una qualcosa che si possiede fin dalla nascita, ma piuttosto come qualcosa che si costruisce nelle interazioni con gli altri, ma anche nei rapporti con le cose di cui ci circondiamo e con i vestiti che indossiamo4. Questa è anche la prospettiva di Luhmann, il quale definisce il concetto di «persona» come la «social identification of a complex of expectations directed toward an individual human being»5. L'identità delle persone, quindi, è un costrutto dinamico prodotto nel sistema sociale. In altre parole, l'identità è un fenomeno emergente dalle performance-interazioni, le quali sono percepite da un individuo e dalle altre persone in base a delle aspettative nate dalla storia di tali performance. Ciò significa, tra l'altro, che queste non sono interpretate arbitrariamente, bensì sono comprese e performate in base a dei significati emersi nel contesto di tale storia di interazioni.
In questa cornice teorica non è pertanto opportuna l'ipotesi psicologica secondo la quale gli abiti manifesterebbero il nostro sé nascosto, ma nemmeno l'ipotesi opposta secondo la quale dietro il vestito non ci sarebbe nulla in assoluto:
contro l'interpretazione psicologica che legge gli abiti come una superficie capace di esprimere l'interiorità e le diverse componenti dell'abbigliamento come le tappe di una ricerca di sé, obiettiamo che non esiste più un'interiorità da rivelare un sé profondo da ricercare. [...] possiamo pensare che anche l'io glamour si riduca alla serie di vestiti che sfilano su quella passerella che è il nostro corpo. Così partecipiamo alla continua creazione e ri-creazione di noi stessi, in un gioco delle identità in cui l'imperativo non è più essere autentici, mistificazione a cui resistere a tutti costi, ma essere liberi di gioire
4 Il concetto di performance è stato utilizzato in modo efficace in relazione al tema dell'identità dal sociologo Erwin Goffman (The Presentation of Self in Everyday Life, University of Edinburgh Social Science Research Center, 1956): secondo il suo modello, quando un individuo interagisce con gli altri agisce creando «proiezioni» di se stesso, e le altre persone, di conseguenza e sulla base della prima interazione, si creano le proprie proiezioni di quell'individuo, formulando anche delle aspettative sulla sua identità, le quali verranno confermate o meno nelle successive interazioni. In particolare, Goffman pone l'accento sull'importanza delle interazioni quotidiane, nelle quali i vari linguaggi non- verbali hanno un ruolo fondamentale. La storia delle interazioni fra gli individui può rendere stabili le proiezioni e le aspettative, creando una parvenza di identità, ma questa lo è solo apparentemente poiché proiezioni e aspettative possono sempre cambiare. L'identità di un individuo coincide con la storia delle proprie performance: esiste solo nel riflesso che si ha negli altri e nella coscienza che si ha di sé, è il prodotto di un insieme di proiezioni e aspettative. Una concezione simile è sviluppata anche da Luhmann (cfr. David Seidl, The Basic Concepts of Luhmann's Theory of Social Systems, in: AA.VV., Niklas Luhman and Organization Studies, a cura di D. Seidl e K.H. Becker, Liber and Copenhagen Business School Press, Copenhagen 2005, pp. 31-32).
5 N. Luhmann, Social Systems, cit., p. 210.

della propria molteplicità, attraverso un consumo effimero e leggero che non prevede attaccamento alle cose, né paura della loro perdita6.
La questione dell'identità è troppo complessa e fondamentale per la nostra vita, perché possa essere ridotta semplicemente a uno dei due estremi presentati, e certamente andrebbe approfondita; ma in questa sede non mi propongo di svolgere questo tipo di ricerca sulla natura dell'identità umana, piuttosto mi pongo in chiave metodologica: nel presente capitolo, quindi, affronto il legame tra identità e moda basandomi sull'idea che vi sia una quotidiana performace delle nostre identità entro i rapporti sociali e tramite il nostro stare in società, e attraverso questa performance si manifestino e stabilizzino le nostre identità sociali. Il concetto di performance, perciò, come è stato per le riflessioni linguistiche di Wittgesntein viene usato con una valenza strumentale.
Oggi il concetto di “identità” viene svincolato dal suo legame tradizionale con l'anima: non dipende più solo dall'interiorità, ma sempre di più dall'esteriorità7. È semplice intuire come i vestiti abbiano un ruolo fondamentale in questa prospettiva, poiché ricoprendo il corpo lo svelano, lo nascondono o addirittura lo modificano, ma in qualsiasi caso essi gli danno una forma.
Naturalmente i vestiti non sono l'unico aspetto che contribuisce a dare significato e identità culturale e sociale al corpo: lo stesso corpo nudo può essere già pensato come vestito di cultura: quando si guarda un corpo nudo lo si vede già filtrato attraverso le
6 D. Dolci e F. Gallerani, Glamoursofia, cit., p. 53.
7 Non mi riferisco solo ad una tendenza nell'ambito della ricerca accademica ma anche ad episodi di ordinaria vita quotidiana: sono numerosi i programmi televisivi sui temi della bellezza esteriore (ad esempio, dimagrimenti estremi, chirurgia estetica e fitness) e dell'abbigliamento (ad esempio, saper scegliere i vestiti adatti al proprio fisico o all'occasione); inoltre, sempre più di frequente si sente dire che «l'abito fa il monaco». L'identità sembra dipendere direttamente dal fisico o dai marchi che indossiamo, e quindi non si può più prescindere da come si appare agli altri. Non è da sottovalutare l'importanza di questo aspetto perché le implicazioni possono essere estremamente serie: ad esempio, Fred Davis riporta degli articoli di cronaca americana nei quali si racconta come i giovani siano persino arrivati ad uccidere per poter avere i vestiti firmati che desiderano: «CHICAGO, 5 Febbraio - il diciannovenne ucciso sabato per la sua giacca a vento è l'ultima vittima di quello che ormai pare un tipo di crimine urbano sempre più diffuso: i furti da parte dei giovani disposti ad uccidere per dei vestiti... A Chicago e in altre grandi città, comprese Detroit, New York e Los Angeles, tali incidenti non solo sottolineano fino a che punto il crimine e la violenza di strada siano diventati aspetti peculiari della vita urbana ma fungono anche da misura perversa delle ultimissime tendenze della moda locale» (F. Davis, Moda, cultura, identità, linguaggio, cit., pp. 60-61). Anche le città italiane non sono estranee a realtà di questo tipo, anche se probabilmente non così tragiche. Altro esempio dell'attualità del tema è il film The Bling Ring di Sofia Coppola (A24, USA 2013), tratto da un romanzo (The Suspects Wore Louboutins) e basato su una storia vera.

lenti della cultura8. Nella Genesi l'aver assaggiato il frutto dell'albero della conoscenza segna il momento in cui Adamo ed Eva si accorgono della nudità dei loro corpi, della quale fino ad allora non erano stati coscienti9. «Il corpo nudo è tutt'altro che neutro dal punto di vista del valore» e in ogni cultura la nudità e il corpo sono visti in modo diverso; lo stesso vale anche per la bellezza e i suoi canoni che cambiano di epoca in epoca10.
Il motivo per cui i vestiti e gli accessori siano tanto importanti nella costruzione/manifestazione dell'identità nella società contemporanea non è legato solamente alla rivalutazione del corpo, bensì anche al rapporto con gli oggetti che ci circondano, i quali sono parte delle nostre performance e quindi partecipano a questo gioco delle identità. Questo discorso è particolarmente rilevante soprattutto perché viviamo in una società dei consumi, e vale quindi la pena accennarlo.
2. Il nostro rapporto con le cose: identità, ideologia, consumo
Oltre alle relazioni con le persone, sono anche le interazioni con gli oggetti a costruire la nostra identità: in parte siamo anche ciò che compriamo. Il consumismo è una delle caratteristiche più notevoli della società di oggi, se non altro per le problematiche che stanno sorgendo dal consumo sfrenato, in relazione all'ambiente naturale, all'esaurimento delle risorse e allo smaltimento dei rifiuti. Questo consumismo caratterizza il nostro essere nel mondo, se non in tutte le società, di sicuro in quelle più ricche e ci rimanda ancora una volta al tema della sostenibilità. Si tratta però anche di un fenomeno che va affrontato da un punto di vista teoretico, come tratto peculiare della nostra esistenza. «Noi viviamo circondati da oggetti, ed è acquistando e consumando oggetti che costruiamo il nostro mondo e definiamo il nostro stare al mondo (secondo Coccia la cosiddetta mercificazione costituirebbe addirittura “la forma radicale dell'essere-nel-mondo” [...]). Come dire che noi non esistiamo se non in rapporto alle
8 Svendsen critica Mario Perniola, il quale afferma che i vestiti conferiscono l'identità antropologica, sociologica e religiosa e che la nudità è da percepirsi come un'assenza (cfr. L. Svendsen, Filosofia della moda, cit., p. 86).
9 «Allora si aprirono gli occhi ad entrambi e s'accorsero che erano nudi; unirono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture» Genesi 3,7; e anche «Dio il Signore fece ad Adamo e sua moglie delle tuniche di pelle, e li vestì» Genesi 3,21.
10 Cfr. L. Svendsen, Filosofia della moda, cit., pp. 86-87.

cose, e diventiamo ciò che siamo solo in rapporto a esse»11. Nella società Occidentale contemporanea la presenza e la varietà degli oggetti è così pervasiva nella vita quotidiana che essi hanno un ruolo ed un impatto sempre più forti sulle nostre vite e sulle nostre identità.
Gli oggetti di per sé sono neutrali ma vengono caricati di significati nell'uso che ne facciamo. Inoltre, possono essere considerati come una componente fondamentale del processo tramite il quale si stabiliscono i rapporti sociali. Dinamiche di questo tipo erano particolarmente evidenti negli anni '60 e '70, in cui le ideologie erano più forti e i simboli più facilmente interpretabili: gli oggetti diventavano veri e propri depositari di ideologie. Un esempio eclatante è quello dei punk, un movimento giovanile di ribellione sociale nato in Gran Bretagna alla fine degli anni '70 come manifestazione contro il conformismo dominante nella società dell'epoca. I militanti di questo movimento provenivano principalmente dalla classe operaia e volevano differenziarsi il più possibile dagli atteggiamenti della borghesia. Questa contestazione veniva espressa anche tramite l'abbigliamento: non potendo permettersi abiti costosi, i punk crearono il proprio stile utilizzando vestiti di seconda mano, abbinandoli e modificandoli in modo originale, tagliando e riassemblando parti di tessuto tramite spille da balia, catene e lucchetti (l'aggettivo punk in inglese significa infatti «di scarsa qualità»)12. Esibendo uno stile trasandato e una scarsa cura dei vestiti che indossavano, essi si differenziavano totalmente dall'ideologia borghese che insisteva sull'importanza di un'apparenza curata e impeccabile13. Questo modo di vestire era ritenuto scandaloso da parte di molte persone e in questo senso la moda punk è stata un mezzo di protesta molto efficace all'epoca. Quindi, l'abbigliamento non serve solo ad esprimere la propria identità personale, ma
11 D. Dolci e F. Gallerani, Glamoursofia, cit., p. 52. Già Hannah Arendt aveva affermato che l'essere umano trova la sua libertà attraverso la costruzione di oggetti: è l'operare come homo faber che lo libera dalla necessità naturale e lo porta a creare un mondo permanente, stabile e duraturo, uno spazio politico in cui può agire e vivere una vita activa. Ma Arendt era anche consapevole dei rischi portati dalla modernità industriale, epoca che privilegia lo spazio sociale a quello politico: l'alienazione dei lavoratori e il consumismo non sono condizioni adeguate per la creazione di un mondo condiviso in cui gli esseri umani possano realizzarsi (Hannah Arendt, Vita Activa, cit., pp. 85-115). Ciò che è cambiato è il nostro rapporto con le cose: non siamo più principalmente costruttori di oggetti che ci permettono di realizzare noi stessi, la nostra specie non è più quella dell'homo faber ma dell'homo consumericus; tramite la libertà che abbiamo nel consumo costruiamo noi stessi e il mondo (cfr. G. Lipovetsky, Una felicità paradossale, cit.).
12 Josh Sims, 100 Ideas that Changed Street Style, cit., p. 92.
13 Cfr. M. Barnard, Fashion as Communication, cit., p. 44.

può essere anche portatore di un'ideologia, uno strumento - una sorta di uniforme - attraverso cui affermare la propria posizione sociale e comunicare un pensiero politico:
«fashion and clothing are ideological, then, in that they are also part of the process in which social groups establish, sustain and reproduce positions of power, relations of dominance and subservience»14.
In quest'ottica, l'utilizzo e l'esibizione degli oggetti può avere delle ripercussioni: ad esempio, quando accade che gli oggetti che sono simboli di un gruppo vengono assorbiti dalla cultura dominante, la forza e l'identità di quella subcultura sono indebolite. Analogamente, anche il rifiuto di utilizzare certi oggetti può essere una scelta con un significato ideologico molto forte. Ad esempio, molte femministe – in particolare la generazione più attiva negli anni '60-'70 – sceglievano di non usare alcuni accessori femminili, come il reggiseno e i tacchi, perché questi erano legati fortemente ad un'idea di sottomissione delle donne da parte degli uomini. La questione è stata affrontata anche tramite gesti di liberazione o risemantizzazione di quegli oggetti- simbolo che erotizzano la donna, come ad esempio il reggiseno – bruciato dalle femministe e indossato sopra le magliette dalle punk15 – o il tacco a spillo – rifiutato dalle femministe e trasformato in strumento di potere nella sottocultura fetish e sadomaso16.
Gli oggetti possono quindi essere usati simbolicamente e come strumento di comunicazione, ossia in una dimensione sociale di interazione con gli altri, ma c'è un altro aspetto fondamentale del nostro rapporto con le cose: il modo in cui entriamo in loro possesso. Se i punk recuperavano materiali di scarto e vestiti usati, talvolta anche logori, le loro scelte anticonformiste potrebbero essere in un certo senso ancora attuali, perché la tendenza dominante nella società contemporanea è quella di acquistare continuamente oggetti nuovi. L'artista Barbara Kruger ha sintetizzato questo aspetto cruciale della nostra esistenza in un'opera d'arte: I shop therefore I am. La rilevanza, anche culturale, del consumismo ci rimanda ad una delle sue pratiche più emblematiche, lo shopping, un fenomeno – un «luogo-tempo»17 – che dai passages di Parigi di inizio Novecento è cresciuto sempre di più in intensità, giungendo agli attuali centri commerciali, alle vie della moda e agli outlet, luoghi costruiti attorno all'esperienza del
14 Ivi, p. 42.
15 Cfr. D. Dolci e F. Gallerani, Glamoursofia, cit., pp. 84-85.
16 Cfr. J. Sims, 100 Ideas that Changed Street Style, cit., p. 182
17 Alessandra Retico, ‘Compro dunque sono’. Ecco l'arte dello shopping, «Corriere della sera», 21 ottobre 2002.

consumo e che assorbono anche altre forme di socialità, come la convivialità (le cosiddette “aree ristoro”), la musica, gli spettacoli e i giochi a premi. «Il grande magazzino, alla svolta del secolo, era la vetta della ‘Gesamtkunstwerk’ (opera d'arte totale) dell'economia moderna, un monumento alla seduzione dei sensi attraverso colori, materiali, consistenze, movimenti, suoni e forme» - scrive Grunenberg curatore della mostra Shopping, 100 anni di arte e commercio18.
Nel quadro di una filosofia che vede la moda come un sistema semiotico, possiamo affermare che comprando continuamente oggetti nuovi, vestiti e scarpe nuove più ampio diventa il guardaroba più si comunica19? La questione non è oziosa: infatti, come rilevano anche Svendsen e Davis, la moda contemporanea è multiforme e profondamente ambigua anche a causa della quantità di vestiti in circolazione. Nello specifico, Svendsen sottolinea che più un capo d'abbigliamento si diffonde più diventa ambiguo, e quindi povero da un punto di vista comunicativo20; mentre Davis rileva piuttosto che l'ambiguità non significa perdita di comunicazione ma maggiore difficoltà di interpretazione21. Come già detto nel capitolo precedente, non credo che l'ampliarsi del significato costituisca una perdita, ma piuttosto una ricchezza, sebbene questo aumenti l'ambiguità. L'epoca postmoderna e consumista non impedisce la comunicazione: comunicazione e consumo non sono in contraddizione, poiché «non
18 Ibid.
19 Cfr. A. Lurie, The Language of Clothes, (citato in M. Baldini, L'invenzione della moda, cit., p. 78). Svendsen riferendosi alla medesima affermazione sostiene: «non esiste però alcun argomento che ci porti a credere che ciò sia vero. La maggior parte degli abiti comunica talmente poco che nemmeno in grande quantità saranno capaci di dire granché, tanto che risulta dubbio attribuire al comune fanatico della moda un potere comunicativo visuale maggiore rispetto, Per esempio, a quello di una persona che ha solo pochi capi nell'armadio, che però indicano un diverso legame sotto culturale » (L. Svendsen, Filosofia della moda, cit., p. 70).
20 «In aggiunta all'instabilità semantica, gli abiti hanno anche un altro grande problema come portatori di significato: tendono a perderlo rapidamente via via che la moda si propaga. Una parola non perde di significato allo stesso modo quando raggiunge una maggiore diffusione. Nel momento in cui un articolo dotato di un certo potenziale di significazione - e spesso si tratterà di capi provenienti da una sottocultura - viene assorbito in altri contesti (per esempio, viene presentato sulle passerelle e poi prodotto a uso di un vasto pubblico) il suo significato si svaluta. Quanto più si diffonde, tanto più diminuisce la sua forza comunicativa. Per questo la moda si trasforma tra l'altro in una lotta costante per sostituire significati che si affievoliscono a velocità sempre maggiore» (ivi, pp. 78-79).
21 «L'ambiguità non implica mancanza di significato, quello stato cioè in cui non riceviamo più impulsi dai simboli (sebbene, per essere precisi, non avrebbero più le caratteristiche di simboli) posti davanti a noi. L'ambiguità, o piuttosto la nostra esperienza dell'ambiguità, riconosce la possibilità di interpretazioni alternative, contraddittorio o oscure» (F. Davis, Moda, cultura, identità, linguaggio, cit., pp. 22-23).

facciamo acquisti per sopravvivere ma per procurarci piacere. E, uno dei piaceri della modernità non sta più tanto nel possedere […] quanto nel comunicare»22. Un esempio eclatante è legato all'11 settembre 2001, momento di crisi per il mondo Occidentale, e di attacco ad un modello di mercato (le torri gemelle erano sede dell'Organizzazione Mondiale del Commercio) e alla società basata su di esso. In quell'occasione il sindaco Rudolph Giuliani disse: «Se volete aiutare New York, uscite e spendete». E se questo è il messaggio che una delle figure politiche più importanti in quel contesto ha voluto dare, forse il consumismo è veramente una componente imprescindibile delle nostre esistenze, indipendentemente dal fatto che l'intento fosse quello di sostenere l'economia della città o di «mostrare al mondo che l'America è viva, tanto che compra»23.
Un contributo filosofico interessante in merito alla questione del rapporto con gli oggetti è quello di Emanuele Coccia, il quale sostiene che le merci siano la forma assunta dal bene (metafisico) nella società capitalista. In questa prospettiva, la piena realizzazione di se stessi – che tradizionalmente viene raggiunta grazie all'anelito verso il bene – diventa ora un'impresa alla portata di tutti, «in quanto si compie nel rapporto con gli oggetti che proliferano intorno a noi»24. Tuttavia, ciò che interessa nell'ottica di questo lavoro è il rapporto con gli oggetti visto come continua costruzione di significati.
3. Oggetti, significati, identità
Negli ultimi sessant'anni la costruzione di identità tramite l'abbigliamento è stata un fenomeno particolarmente evidente, soprattutto durante gli anni 70-80-90: alla fine della seconda guerra mondiale la società occidentale è stata interessata da grandissimi cambiamenti, dovuti soprattutto ad un aumento generale del benessere e alla crescente diffusione dei mass media, i quali hanno offerto, soprattutto ai giovani, la possibilità di accedere più facilmente alla conoscenza e di essere più consapevoli della propria
22 Alessandra Retico, ‘Compro dunque sono’. Ecco l'arte dello shopping, cit.
23 Ibid. Tuttavia, è vero anche che un episodio simile potrebbe essere letto in chiave marxista seguendo la posizione di Adorno: l'ideologia capitalista «ha narcotizzato le menti degli uomini allo scopo di trasformarli in eserciti di consumatori passivi, obbedienti e più facilmente controllabili» (D. Dolci e F. Gallerani, Glamoursofia, cit., p.46). Le parole di Giuliani potrebbero suonare come conferma di questa prospettiva, sono però d'accordo con Dolci e Gallerani che una tale interpretazione del consumismo sia eccessivamente radicale e non permetta di analizzare e comprendere i fenomeni del consumismo e della moda.
24 Emanuele Coccia, Il bene nelle cose. La pubblicità come discorso morale, Il Mulino, Bologna 2014.

condizione sociale. Insieme all'allargamento della cosiddetta classe borghese e al conseguente affermarsi di uno stile di vita omogeneo fra gli appartenenti ad essa, sono nati anche molti gruppi anticonformisti che in alcuni casi sono diventati delle vere e proprie sottoculture: hippy, nudisti, mods, skinhead, punk, hip-hop, ecc. Questi gruppi sociali cercavano di differenziarsi dalla cultura borghese dominante in vari modi: attraverso la musica, con l'atteggiamento nei confronti dei migranti o dei tabù sessuali, e anche tramite l'abbigliamento; i vestiti indossati all'interno di ciascuna sottocultura erano spesso ben definiti e riconoscibili, usati come una sorta di uniforme che esprimesse l'identità del gruppo25.
Anche in un caso del genere in cui le mode sembrano essere notevolmente codificate, in quanto volte ad esprimere un'ideologia anticonformista, credo sia più efficace utilizzare un modello ermeneutico focalizzato sulla prassi comunicativa del vestire e sulla costruzione di identità nella performance, piuttosto che modelli che concepiscano l'abbigliamento come manifestazione esteriore di un'ideologia che preesiste alla vita sociale.
Si consideri ad esempio l'utilizzo nell'abbigliamento di un oggetto come le catene: insieme ad altri accessori le catene diventarono emblema della sottocultura punk; essere anticonformisti per loro voleva dire anche essere contro la moda dominante: indossare stivali Dc Martens, vestiti strappati e accessori creati con oggetti riciclati che facevano parte della vita quotidiana della classe operaia, fra i quali vi erano catene e lucchetti 26. Questi accessori sono stati utilizzati anche da un'altra sottocultura che si è sviluppata da quella punk, il goth, e si può quindi dire che il significato delle catene per i goth si è trasformato a partire dal significato che avevano per i punk. Allo stesso tempo, però, i goth hanno creato un proprio stile insistendo su un aspetto molto importante per la loro cultura, la libertà sessuale, prendendo ispirazione anche dalle pratiche BDSM, in cui le catene sono molto utilizzate27. Che cosa significano le catene nella moda goth rispetto a quella punk, quindi? Come possiamo rendere conto del fatto che entrambe le sottoculture utilizzano le catene per differenziarsi dalla cultura dominante?
25 Cfr. M. Barnard, Fashion as Communication, cit., pp. 136-138.
26 Cfr. J. Sims, 100 ideas that changed street style, cit., p. 92.
27 Cfr. ivi, p. 124.

In base al modello proposto nel presente lavoro, la risposta a tali domande è che le catene nella moda goth hanno un significato che emerge dalle interazioni all'interno del sistema sociale. Tali interazioni sono costituite dall'insieme delle pratiche culturali e sociali legate all'uso delle catene in diversi contesti: all'interno del gruppo che si identifica come goth ma, allo stesso tempo, anche nell'interazione dei goth con altri individui, nelle relazioni con altre sottoculture e con la cultura dominante. Non è possibile attribuire un significato univoco a questo accessorio e al suo utilizzo: esso nasce e si amplia nell'uso che se ne fa e diviene sempre più ampio quanto più se ne diffonde l'uso, e con ciò la sua interpretazione risulterà più problematica e ambigua. In sintesi, non è possibile individuare un'ideologia che codifichi il ruolo delle catene in relazione agli altri elementi dell'abbigliamento goth o il valore simbolico che esse hanno per esprimere certe convinzioni sui comportamenti sessuali. Inoltre, nell'attività di descrizione analitica di come il significato emerga nel gioco della comunicazione, è necessario tenere conto anche della varietà dei processi di comprensione, ossia di come l'uso delle catene possa essere interpretato in modi differenti. Ad esempio, una persona estranea sia alla cultura punk che a quella goth difficilmente conoscerà le intenzioni che hanno portato questi gruppi ad utilizzare le catene nel proprio abbigliamento, nondimeno potrà riconoscere una prassi nell'uso di questi oggetti e di conseguenza identificare quei gruppi come aventi un'identità propria che è costruita anche tramite l'utilizzo delle catene.
Un esempio estremamente interessante a proposito della comprensione della moda lo si trova nelle parole del rapper Schoolly D sull'uso delle catene nello stile hip-hop:
A lot of white people think that every rap guy with a gold chain is saying he is richer and better and more powerful. You do not understand this, it's not part of your heritage. It is not something that was born and raised in America. This goes back to Africa. The gold chains are basically for warriors. Right now, the artists in the rap field are battling. We're the head warriors. We got to stand up and say we are winning battles, and this is how we are doing it. So you should give us a break. You should not try to make us you28.
Le affermazioni del rapper vertono sul diritto di costruirsi la propria identità senza subire l'imposizione di categorizzazioni da parte di altri, in questo caso da parte dei bianchi nordamericani nei confronti dei giovani afroamericani. Tuttavia, tali parole mostrano anche un aspetto fondamentale della comunicazione, ossia che non è un
28 Frank Owen, As a Metaphor, in «Spin», vol. 4, n. 7 (ottobre 1988), p. 52.

fenomeno completamente controllabile e alcuni processi di comprensione possono essere rifiutati da una delle parti coinvolte in essa; in questo caso un rapper afroamericano non ammette la possibilità che un bianco americano comprenda che cosa i neri vogliono comunicare indossando delle catene. Processi di questo tipo non avvengono solamente nell'interazione tra una sottocultura e la cultura dominante, o tra due sottoculture, bensì riguardano anche le dinamiche di significato interne allo stesso gruppo sociale: non vi è una struttura di significati o un'ideologia univoca che trova espressione attraverso la moda, è piuttosto la prassi vestimentaria – insieme ad altre pratiche – che costruisce la moda e l'identità del gruppo in modo dinamico29.
Un fattore critico nella costruzione di identità legate alla moda nelle società complesse è che la dinamicità della comunicazione porta la moda mainstream ad “appropriarsi”, per così dire, dei significati che vengono “attributi” agli oggetti. Utilizzare questi termini può essere fuorviante all'interno di un modello sistemico, poiché la comunicazione non è un fenomeno che può essere isolato e descritto come insieme di processi lineari, ma è un fenomeno emergente che genera altre comunicazioni che retroagiscono su di essa. In altri termini, introdurre l'uso di catene nell'abbigliamento – nel sistema moda in senso lato – vuol dire generare una regola di un gioco linguistico, e tra le varie performance di questo gioco vi sono delle somiglianze di famiglia: si può comunicare la propria origine operaia, affermare le proprie radici culturali africane, ma anche proporre un'alternativa estetica accanto ad altre regole vestimentarie, come ad esempio mettere al collo una catena invece che un giro di perle.
29 A proposito delle uso di catene nella cultura hip-hop: il rapper Treach del gruppo Naughty by Nature ha affermato di indossare catene di metallo e lucchetti «for all the brothers who are locked down» (Emil Wilbekin, Great Aspirations: Hip Hop and Fashion Dress for Excess and Success, in: AA. VV., The Vibe History of Hip Hop, a cura di Light, Three Rivers Press, New York 1999, p. 249). Mentre la posizione del rapper Mr Cee è molto diversa: «It is all about presence. When you look at hip hop artists, whether it's the clothes that they wear, the sneakers that they wear, the hats that they wear – it's all about the “wow!” effect. It's all about getting people to look at you two and three and four times. And when it comes to clothes, or jewelry, or anything that will get attention, they will use that to their advantage» (Minya Oh, Bling Bling: Hip Hop's Crown Jewels, Wenner, New York 2005). Inoltre, vi sono anche casi più critici di conflitti fra significati, come l'utilizzo smisurato di diamanti da parte dei rapper afroamericani: da un lato, dagli anni '90 ostentare gioielli appariscenti e il maggior numero possibile di diamanti su anelli, orologi, ma anche fra i denti, è un simbolo del potere acquisito dagli afroamericani tramite la musica; dall'altro lato, emergono anche dei significati legati alla questione dei blood diamonds, e quindi allo sfruttamento dei neri africani nelle miniere (cfr. i documentari: BLING: Consequences and Repercussions, diretto da Kareem Adouard, WGH Films, USA 2006; Bling: A Planet Rock, diretto da Raquel Cepeda, VH1 Rock Docs, Article 19 Films, USA 2007; Shireen Cohen, American Hip Hop Style 1970-1980, in: Fashion & Power blog, marzo 2011).

Un esempio di tale diversità tra performance può essere l'indossare una catena come collana: lo fanno ragazzi e ragazze goth e punk, lo fanno Karl Lagerfeld e le modelle di Versace, e le vediamo sui manichini di Zara. Ciascuna di queste performance contribuisce a generare significati diversi, tra cui intuiamo esistano delle somiglianze di famiglia, ma ci rendiamo anche conto dell'ambiguità che incontriamo nell'interpretare questi diversi usi, data la loro varietà.
Una parte di questo fenomeno è legato al processo di omogeneizzazione dovuto alla moda mainstream, la quale mira a soddisfare un pubblico ampio offrendo un grande numero di opzioni fra cui scegliere. La criticità sta nella possibilità di costruire la propria identità differenziandosi dagli altri se si scelgono capi d'abbigliamento prodotti in serie e proposti ad un mercato globale di consumatori: i paradossi della dialettica imitazione/distinzione sono resi manifesti dalla complessità delle interazioni sociali e dalla coesistenza di significati contraddittori che emergono nella comunicazione. Creare e comunicare la propria identità vuol dire anche esporsi inevitabilmente a molteplici processi di comprensione, vuol dire entrare in un sistema dinamico sul quale non si può esercitare alcun controllo, un sistema in cui ciò che diciamo o indossiamo entra in relazione con infiniti altri elementi e diventa parte di ulteriori comunicazioni.
Il caso delle catene è un esempio emblematico di come la haute couture e la moda mainstream possano rendere complessa la comunicazione della propria identità attraverso l'abbigliamento. Vivienne Westwood e Malcom McLaren (membro del gruppo punk Sex Pistols) hanno aperto il Sex shop (1974-76) in cui si vendevano vestiti ispirati alla moda punk. La stilista Zhandra Rhodes ha creato lo stile chic-punk, disegnando una collezione per la upper class inserendo elementi come catene e spille da balia dorate. Lo stile “goth aristocratico” è stato proposto nella collezione Moi-même-moitié e Alexander McQueen ha creato lo haute goth. All'inizio degli anni '90 Karl Lagerfeld ha proposto per Chanel una collezione ispirata allo stile hip-hop, con catene e lucchetti dorati e argentati, simili a quelli indossati dal rapper Treach30. Al giorno d'oggi le catene compaiono in moltissime collezioni: stampate su tessuti (costume Parah, Autunno-Inverno 2011/12, “Linea Catene”), aggiunte come accessori su pantaloni, magliette e scarpe (Versace 2014), modellate come cinture, collane, braccialetti e anelli (Tiffany 2014); vi sono catene
30 E. Wilbekin, Great Aspirations, cit., p. 249.

dorate, argentate ma anche di molti altri colori, di metallo e di gomma (OPS! Trésor 2014); sono presenti nelle propose di alta moda ma anche in franchising di grandissima diffusione come H&M e Zara, e vengono spesso utilizzate negli outfit proposti su riviste di moda come Vogue, Marie Claire e Elle31.
Nel 2015 l'orizzonte di possibilità semiotiche offerto dalle catene nella moda è vastissimo e ciò complica la costruzione di un'identità stabile tramite il loro utilizzo, ma vi è anche un'altra questione correlata a quella dell'identità: la gestione del potere nella società. Se osserviamo il fenomeno della moda nel contesto della competizione sociale fra gruppi, si può affermare che, inglobando un elemento che viene usato simbolicamente da parte di una sottocultura, la classe dominante tenta di ristabilire la propria egemonia nella società. In questa prospettiva vestiti e accessori possono essere concepiti come simboli, come una forma di manifestazione estetica del potere che rende riconoscibili le istituzioni32. Se un gruppo viene privato dell'utilizzo esclusivo di vestiti che sono considerati parte del suo dress code, allora l'identità del gruppo è compromessa: le dinamiche della moda possono riflettere e contribuire alla generazione di conflitti di potere.
All'interno del sistema moda, i differenti significati attribuiti alle catene sono incommensurabili: ogni volta che le catene entrano nel sistema culturale, ideologico,
31 «In netto contrasto con ciò che si è verificato sino a buona parte del nostro secolo, le attuali fogge nell'abbigliamento non sono più né universali né simbolicamente cruciali come lo erano una volta. Oggi una singola moda non può più – né nell'abbigliamento femminile, né in quello maschile – spadroneggiare come in passato hanno fatto la crinolina, il sellino, l'abito della flapper (così venivano chiamate le giovani donne anticonformiste degli anni '20), il Nuovo Look di Dior o l'abito maschile pantalone, gilet e giacca ad un petto. Oggi le mode a quanto pare non sono più in grado di imporre un conformismo da uniforme in tutta la società e in tutte le classi e i vari raggruppamenti di status. Bell (1947) lo previde, di sfuggita, quando disse che, a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, abbigliamento e stili relativi sono diventati sempre più specifici riguardo all'occasione e all'attività: abiti da giorno e da sera, da lavoro e da tempo libero, da città e da campagna, da casa e da ufficio, abiti per le varie stagioni, ecc.» (F. Davis, Moda, cultura, identità, linguaggio, cit., pp. 101-102). In effetti oggi, anche perché il processo delle mode si è talmente velocizzato che queste sembrano essere tutte presenti allo stesso momento, si dà una grande importanza al dress code riferito a eventi particolari, o alle diverse situazioni quotidiane: ad esempio, una festa che richiede il bianco/nero, l'abbigliamento per la palestra e il fitness, l'abbigliamento da lavoro, l'abbigliamento da sera e da tempo libero, ecc. Vi sono anche programmi televisivi sul tema della moda (ad esempio, Ma come ti vesti o Guardaroba perfetto) che propongono di organizzare il guardaroba secondo le varie occasioni d'uso degli abiti/accessori, oltre ad esservi numerosi libri sul tema.
32 Cfr. M. Barnard, Fashion as Communication, cit., p. 42; David I. Kertzer, Simboli politici, in: AA.VV.,
Enciclopedia delle scienze sociali Treccani online, 1997.

vestimentario di un gruppo l'orizzonte dei possibili significati ad esse attribuibili si arricchisce grazie alle relazioni che l'elemento «catene» istituisce con gli altri elementi del sottosistema. Tuttavia, nella lotta per l'egemonia sociale, gli usi e i significati generati dalla cultura/moda dominante risultano essere gli unici corretti per il mantenimento del sistema sociale nel suo insieme e, di conseguenza, ogni altro significato viene giudicato e valutato in relazione a tale punto di vista33. I significati sono però legati alla cultura/società in cui emergono, non hanno un'esistenza fissa; nessun significato è riducibile ad un altro e ciascuno ha il diritto di essere riconosciuto: giudicarli dal punto di vista del potere significa perpetuare una violenza, «to subordinate and to rob them of their cultural specificity»34. Riconoscere solamente la loro diversità è una presa di posizione troppo debole, è necessario considerare la comunicazione in un modo che permetta di accettare la specificità culturale e individuale delle parole e dei vestiti che usiamo, riconoscendo che non è possibile avere l'ultima parola e determinare il significato di qualcosa in modo stabile. E non si tratta solamente di un problema teoretico, bensì di una scelta che può cambiare il nostro modo di vivere con gli altri e le relazioni di potere all'interno della società, poiché
to flourish, to have autonomy in the face of hegemony, indigenous knowledge traditions have to have both an effective voice and construct their own identities, whilst also having a space within which it is possible to performatively interact with other traditions35.
4. Donne e politica
Se parlare di controculture giovanili è ormai un po' obsoleto, non lo è però parlare di politica e donne. L'identità femminile e il ruolo della donna, dalle lotte femministe del secolo scorso, alle femministe degli anni '60 e '70 e alle nuove femministe, è stata una questione molto delicata, anche perché in molti casi entrano in gioco non solo usi, costumi e convinzioni veicolate dalla cultura di appartenenza, ma anche le religioni. Il problema sembra ridursi sostanzialmente ad un'opposizione al ruolo tradizionale della donna come subordinata o subalterna rispetto all'uomo: in casa, nelle decisioni economiche, in società, in politica, nello sport, nell'accademia, ecc. L'uomo ha avuto la
33 Cfr. M. Barnard, Fashion as Communication, cit., p. 41-42.
34 David Turnbull, Performativity and Complex Adaptive Systems: working with Multiple Narratives across Knowledge Tradition, in «Philosophia», vol. 57 (2012), p. 10.
35 Ibid.

meglio sulle donne, sugli emarginati e sulle minoranze etniche perché ha sempre avuto a sua disposizione il potere economico e politico.
In merito alla questione dell'identità affrontata nel presente lavoro, la domanda più rilevante è: la subordinazione della donna all'uomo è naturale, dipende cioè dalla natura delle cose, oppure è sorta nel tempo sulla base degli stessi usi e costumi che si sono ripetuti, assumendo così la parvenza di naturalità? Ovviamente, anche in questo caso assecondando la prospettiva metodologica avviata mi avvicino all'ambito delle teorie della performance. Riprendendo le parole di Simone De Beauvoir in Il secondo sesso, secondo la quale essere donna/uomo è una condizione storica e non naturale e, quindi non si nasce ma piuttosto si diventa donna/uomo, Butler afferma che:
gender is in no way a stable identity or locus of agency from which various acts proceed; rather, it is an identity tenuously constituted in time – an identity instituted through a stylized repetition of acts. Further, gender is instituted through the stylization of the body and, hence, must be understood as the mundane way in which bodily gestures, movements, and enactments of various kinds constitute the illusion of an abiding gendered self36.
Il corpo, come si è già detto, non è mai solo naturale ma sempre rivestito di cultura, incorpora possibilità storiche e culturali. Ma come mai allora ci sembra che i sessi e i generi siano qualcosa di naturalmente esistente e persistente? Butler spiega questa “naturalizzazione” come una «apparenza di sostanza», ossia il genere sarebbe il prodotto della ripetizione stilizzata di atti nel tempo. Sarebbe proprio la ripetizione a dare la parvenza di una natura essenziale che si manifesta nei suoi atti37. Tornando a considerare gli abiti, è evidente come questi siano connotati sessualmente: ad esempio, il blu per i bambini e il rosa per le bambine, la gonna è un indumento prettamente femminile. L'abbigliamento, quindi, non solo viene reso significante negli usi, come quello di appendere un fiocco rosa se il neonato è femmina (e si noti che non vi è alcun legame naturale tra il colore rosa e il genere femminile), ma gli abiti partecipano anche alla creazione dell'identità sociale di genere di chi li indossa, proprio grazie a tali significati.
Ciò vale anche per la creazione e manifestazione del genere femminile più in generale, e per la sua subordinazione al genere maschile. Come si è detto, alcuni
36 Judith Butler, Performative acts and gender Constitution: An Essay in Phenomenology and Feminist Theory, in
«Theatre Journal», vol. 40, n. 4 (Dec. 1988), pp. 519.
37 Butler ribalta qui il principio per cui dalle azioni di una creatura si deduce la sua natura, affermando al contrario che sono le azioni stesse a costituire un'essenza, o meglio la parvenza di un'essenza.

accessori simboleggiano la sottomissione delle donne e quindi vengono rifiutati dalle femministe, e con essi vengono rifiutati i canoni di femminilità, in favore di un abbigliamento che comunichi un'immagine più mascolina. Tuttavia sono d'accordo con la critica che Dolci e Gallerani rivolgono ad alcuni atteggiamenti femministi: il passaggio della donna da “femmina” succube a imitazione dell'uomo è riduttivo, le donne dovrebbero essere in grado di definirsi in positivo come donne e non in negativo come non-uomini. I movimenti femministi contemporanei sono più vicini a questa seconda visione e, infatti, non rifiutano più reggiseni e tacchi a spillo, che diventano anzi simboli del potere femminile38. Per comprendere quanto il tema sia attuale, nonostante le uniformi ideologiche non appartengano più alla nostra epoca, si può citare un episodio che non solo riguarda l'identità femminile ma anche la politica, luogo dei simboli per eccellenza39: ad un evento organizzato dal PD nell'ottobre 2013 a Firenze, la deputata Maria Elena Boschi, ministra del governo Renzi, si è presentata con un paio di décolletée leopardate tacco 10, una scelta che è stata criticata da più fronti:
le scarpe incriminate della Boschi vengono immediatamente stigmatizzate come il simbolo della deriva a destra dell'ala renziana del PD. [...] ma allora la questione non è chiara: cosa dovrebbe indossare una donna per “apparire” di sinistra? Il leopardo può seriamente considerarsi di destra, oppure è il tacco a spillo ad avere un colore politico?40
L'episodio ci mostra quanto i vestiti possano essere significanti, nonostante l'ambiguità e la pluriformità della moda, e quanto siano influenti nella performance delle nostre identità sociali, mettendo in luce come il “linguaggio della moda” non è da sottovalutarsi nella comprensione delle dinamiche sociali. L'episodio citato è solo un'esempio di un più ampio fenomeno che può essere confermato da una rapida ricerca sul web: Renzi è oggetto di molti articoli su blog e riviste di moda perché il suo abbigliamento tende allo stile business casual, piuttosto che al classico o formale che siamo abituati a vedere nella politica italiana. Tale scelta d'abbigliamento porta con sé l'immagine di una politica che vuole svecchiarsi e che vuole mostrarsi attiva, come suggeriscono ad esempio le maniche di camicia arrotolate, quasi a voler dire «diamoci da fare» o «lavoriamo»41.
38 D. Dolci e F. Gallerani, Glamoursofia, cit., pp. 24-31.
39 D. I. Kertzer, Simboli politici, cit.
40 D. Dolci e F. Gallerani, Glamoursofia, cit., pp. 59-60.
41 Un'immagine analoga è stata proposta anche per una campagna pubblicitaria PD del 2010 con protagonista l'allora segretario Pierluigi Bersani, ma con effetti decisamente deludenti (cfr. Giovanna

Lungi dall'essere un campo poco significativo, anche se certamente caratterizzato da ambiguità, l'immagine, l'aspetto esteriore e tutto ciò che contribuisce a costruirlo, come si è visto, sono fondamentali al giorno d'oggi. Sono d'accordo con Svendsen quando afferma che le parole sono più efficaci come comunicazione – certamente sono più eloquenti – ma bisogna anche considerare che oggi non solo il linguaggio verbale si è impoverito, e quindi la comunicazione verbale risulta impoverita a sua volta, ma siamo anche circondati da parole che ci arrivano attraverso internet, grazie al quale oggi tutti hanno la possibilità di parlare. Ma data la quantità di discorsi pronunciati su ogni tema, non c'è dunque il rischio che le parole appaiano spesso vuote? I discorsi della politica non si ripetono simili uno dopo l'altro? Allora, forse, delle maniche arrotolate possono comunicare in modo più immediato rispetto ad un programma elettorale che in pochi si prenderanno la briga di leggere.
In conclusione, la varietà di sistemi semiotici che abbiamo a nostra disposizione al giorno d'oggi contribuisce a rendere la costruzione d'identità un processo altamente complesso in cui convergono performance e oggetti di vario tipo, i cui significati dipendo in modo cruciale dal contesto e dalle interazioni fra i vari elementi. Ad ogni modo, non possiamo più ignorare che «very often, what we call an “object” is part of what we call a “subject”. In short, things are us or can become us»42.
Cosenza, Perché la campagna «Rimbocchiamoci le maniche» non funziona, in Dis.amb.iguando blog, 13 ottobre 2010).
42 Lambros Malafouris and Colin Renfrew, The Cognitive Life of Things: Archaeology, Material Engagement and the Extended Mind, in: AA.VV., Cognitive Life of Things: Recasting the Boundaries of the Mind, edited by L. Malafouris and C. Renfrew, McDonald Institute, Cambridge 2010 (citato in D. Turnbull, Performativity and Complex Adaptive Systems, cit., p. 14)

Conclusione
Nel corso della tesi ho introdotto strumenti metodologici di ispirazione prassiologica: dalle riflessioni wittgensteiniane sul linguaggio, passando per le teorie della comunicazione sviluppate da Luhmann, sino alle teorie della performance. L'analisi è stata inoltre preceduta da una rapida panoramica degli studi sulla moda, considerando anche i testi classici sul tema. Se ne ricava un'immagine della moda dai contorni sfocati, soprattutto per quanto riguarda la moda contemporanea: non solo fatichiamo a comprendere il fenomeno, ma la moda, nelle sue espressioni particolari, fatica ad essere afferrata nella sua natura per l'estrema velocità dei suoi cambiamenti, e concede troppo poco tempo all'interpretazione. Giunge perciò quasi a perdere il suo potere comunicativo; questa è la ragione per cui, oggi, il linguaggio non-verbale dell'abbigliamento – il linguaggio della moda, dato che «nelle moderne società occidentali non esistono abiti al di fuori della moda»2 – forse non può neppure più nemmeno essere chiamato legittimamente linguaggio3.
Il percorso è stato articolato anche con l'intento di mettere in luce l'importanza fondamentale che il fenomeno della moda detiene nelle società odierne, non perché ci si debba piegare ai diktat della moda, ma affinché si riconosca che un fenomeno di così larga portata non può non avere influenze sulla vita quotidiana di tutti: in particolare, per quanto riguarda la determinazione e manifestazione delle nostre identità. Perciò, sebbene non sia un fenomeno di facile inquadramento teorico, la moda è comunque un fenomeno di grande portata nella realtà e, quindi, un valido oggetto di ricerca.
La moda e l'abbigliamento interessano gli ambiti più disparati: dall'economia alla politica, dall'identità sociale all'arte, dalla cronaca nera alla produzione culturale, dalle tecnologie industriali al marketing, giungendo sino alla sostenibilità. In particolare, oggi è proprio la questione della sostenibilità ad essere un fattore chiave per l'evoluzione della moda: non solo in merito all'ambiente (sfruttamento ed esaurimento di risorse, utilizzo di energie rinnovabili, inquinamento, ecc.), ma anche a proposito dei diritti dei lavoratori
2 Cfr. E. Wilson, Vestirsi di sogni, cit., p. 17.
3 Cfr. L. Svendsen, Filosofia della moda, cit., p. 77.

e dell'impatto sociale ed economico della grande distribuzione. Questi temi ci pongono davanti al paradosso più grande: come coniugare consumismo e sostenibilità? Pensare di risolvere il problema riducendo l'acquisto di beni è una soluzione ingenua, poiché il consumo è una parte importante della nostra vita quotidiana e del nostro modo di vivere nelle società contemporanee: «it is unrealistic to think we can turn back the clock to a time when shopping was not a central part of our day-to-day existence»4. D'altra parte, però, non è possibile essere ciechi di fronte alla quantità di informazioni e dati che giungono a tutti attraverso i media: la sostenibilità è un tema estremamente attuale che deve essere affrontato con urgenza.
Il problema ci riguarda da vicino perché la possibilità di acquistare quotidianamente è offerta dai bassissimi costi dei capi d'abbigliamento – almeno per la maggior parte di noi che non può accedere ai beni di lusso. Ma per le persone coinvolte nella catena di produzione e per l'ambiente il prezzo di quei vestiti può invece essere altissimo. Quale spazio di azione ci si apre, dunque? Boicottare certe aziende smettendo di acquistare i loro prodotti è davvero una soluzione? Il problema è ben più complesso e controverso di quanto si presenti a prima vista : «Even if we could change our purchasing habits, the repercussion will be great. For better and for worse, many of the world's poorest communities now depend on our purchases for their wages. The global clothing industry employs some twenty-six million people and underpins local economies and individual incomes around the world»5. Perciò l'importanza della moda non è da sottovalutare, perché dietro a dei banali acquisti della domenica pomeriggio, si aprono questioni fondamentali, che solitamente non vengono poste.
Quindi, il problema che ci si pone è quello di un consumismo acritico, la condizione in cui ci si trova assoggettati alla pubblicità, all'efficacia del marketing, alle immagini che ci forniscono i media. In casi come questi che, come si è visto, sfociano persino in omicidi per indossare un paio di scarpe di marca, si può forse legittimamente parlare di “menti narcotizzate.” Tuttavia, è importante che in relazione ad un aspetto così pervasivo dell'esistenza, data anche la grande quantità e differenziazione delle merci cui possiamo accedere, si sviluppi una criticità, attraverso la quale si possa davvero esprimere la propria individualità come consumatori, e non solo uniformarsi alla massa.

4 Frances Corner, Why Fashion matters, Thames & Hudson, Londra 2014, p. 40.
5 Ibid.

Un consumo di questo tipo può venire solo da un consumatore educato, che sappia scegliere criticamente, che sia consapevole delle problematiche attuali e della responsabilità che ognuno ha delle proprie azioni, e quindi anche dei propri acquisti. Ed è proprio in merito a tali questioni che si nota il ruolo che la filosofia può avere nello studio della moda. Da un lato può interloquire con le altre discipline su un piano meta- teoretico, cioè valutando gli assunti epistemologici ed ontologici dei vari programmi di ricerca. Questo è un compito senza dubbio importante perché i risultati ottenuti dalla sociologia o dalle scienze ambientali possono influenzare i processi decisionali dei produttori e dei consumatori di moda, e la filosofia può quindi educare ad una correttezza di pensiero che permetta di costruire ricerche più consapevoli dei propri limiti e possibilità, così che produttori e consumatori abbiano a loro disposizione risultati più trasparenti. Dall'altro lato, la filosofia abitua al pensiero critico e al dialogo, fornendo quindi importanti strumenti per la costruzione responsabile della società in cui viviamo, anche se tra i principi che la organizzano ci sono quelli instabili dell'iperconsumo e della moda.

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Fonte: http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/5790/840998-1177123.pdf?sequence=2

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Autore del testo: Elisa Giordano

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