Filosofia ellenistica

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Filosofia ellenistica

 

L’ELLENISMO E LE FILOSOFIE ELLENISTICHE
Caratteri generali
L’Ellenismo è il periodo storico-culturale che va dalla morte di Alessandro Magno (323 a.C.) alla nascita dell’Impero Romano, con la battaglia di Azio (31 a.C.), la morte di Cleopatra e l’annessione a Roma del regno tolemaico d’Egitto (30 a.C.).
La civiltà ellenistica nasce dalle conquiste di Alessandro Magno e dalla conseguente costituzione dei regni ellenistici, ed  è caratterizzata dalla diffusione della civiltà greca nel mondo mediterraneo, eurasiatico e orientale, e dalla sua fusione con le culture dell'Asia Minore, dell'Asia Centrale, della Siria e della Fenicia, dell'Africa del Nord, della Mesopotamia e della Persia.
La cultura greca (e con essa la lingua greca) dunque si diffonde, si impone, diventa “universale”, ma nello stesso tempo, fondendosi con altre culture, si trasforma, perde alcuni dei suoi valori tradizionali.   In particolare nel periodo ellenistico i Greci perdono la libertà politica, l’indipendenza delle Poleis, la democrazia; sotto il potere di Alessandro Magno e dei suoi successori essi non sono più “cittadini”, ma “sudditi”. Nello stesso tempo però emergono valori nuovi: emerge il valore di ogni individuo umano, considerato non più per la sua appartenenza a una nazione, a una città, a una razza, a un gruppo sociale o a una fazione, ma riconosciuto come membro dell’umanità (cosmopolitismo); questa nuova considerazione del valore e dell’eguaglianza degli esseri umani non modifica le gerarchie e le distinzioni sociali e politiche (la schiavitù p.e. rimane), però entra nella cultura e nell’etica (soprattutto delle élites colte) e determina atteggiamenti più aperti e benevoli nei confronti delle persone di rango inferiore, degli stranieri, delle donne…
Nella cultura greca di quel periodo il sentimento della perdita di valori fondamentali (libertà e democrazia, appartenenza alle Poleis, superiorità dell’Ellade) prevaleva sul riconoscimento delle innovazioni positive, perciò il periodo ellenistico venne considerato dai Greci soprattutto un periodo di crisi, di decadenza, di smarrimento e di malessere esistenziale. Pertanto i filosofi dell’età ellenistica avevano soprattutto l’intento di cercare una risposta e una “cura” per la situazione di sofferenza e di turbamento in cui versava l’umanità: le filosofie ellenistiche quindi offrirono principalmente un insegnamento etico, per guidare gli uomini alla saggezza e alla felicità.
Durante l’Ellenismo  si formano quattro grandi correnti o scuole filosofiche: l’Epicureismo, lo Stoicismo, il Cinismo, lo Scetticismo.   Esse formano una fase nuova della filosofia antica (dopo la filosofia naturalistica dei presocratici, quella umanistica dei sofisti e di Socrate, quella metafisica di Platone e Aristotele).  Esse presentano alcuni tratti comuni :
1) Tutte le filosofie ellenistiche, per i motivi su esposti, pongono l’etica al centro della ricerca; anche quando riflettono sulla natura del mondo fisico, sull’uomo, sulla logica, o sugli dei, la loro indagine è finalizzata all’etica, vale a dire alla proposta di comportamenti e stili di vita utili per conseguire la felicità.  Quindi le filosofie ellenistiche non hanno più quell’atteggiamento teoretico che aveva caratterizzato soprattutto la filosofia aristotelica.
2) L’insegnamento etico vien visto come una cura per le sofferenze e i turbamenti dell’esistenza; la felicità viene identificata con una condizione di serenità = assenza di turbamento (atarassia) e di passioni (apatia); il saggio può raggiungere la felicità senza dipendere da niente e da nessuno (autarchia = autosufficienza).
3) Tutte le filosofie ellenistiche sono materialistiche: abbandonano quindi la “seconda navigazione” di Platone e di Aristotele, poiché non ammettono l’esistenza di una realtà spirituale o soprasensibile; anche se ammettono l’esistenza della divinità, le attribuiscono natura corporea.  Le concezioni materialistiche e naturalistiche delle filosofie ellenistiche ripropongono e rielaborano le teorie dei filosofi naturalisti presocratici (in particolare di Eraclito e di Democrito).

EPICURO
Epicuro di Samo (341 a.C.- 271 a.C. ) fondò ad Atene una scuola che fu detta il Giardino,  perché si trovava fuori città immersa nella natura. Potevano parteciparvi tutti i ceti sociali e persino le donne. La filosofia di Epicuro si divide in:

  • Fisica: studio del mondo naturale
  • Canonica: teoria della conoscenza
  • Etica: via per insegnare il comportamento giusto per raggiungere la felicità.

La più importante è l'ultima, le altre due sono finalizzate all'etica. Infatti tutte le filosofie ellenistiche hanno come scopo principale la saggezza, cioè la conoscenza dei mezzi per ottenere una vita felice, serena, non turbata da passioni e dolori.
FISICA:
Epicuro recupera la teoria dell'atomismo di Democrito e quindi anche la sua concezione materialistica: tutta la realtà è costituita da atomi invisibili e indivisibili che si differenziano per la forma e che si aggregano e si disgregano producendo tutte le cose e i fenomeni naturali.
Tuttavia per Epicuro, a differenza della teoria di Democrito, gli atomi non si muovono vorticosamente, ma cadono nel vuoto infinito con moto rettilineo provocato dal loro peso. Epicuro non spiega però in che direzione avviene la caduta, eppure perché un corpo cada deve esserci un centro, un alto e un basso, ma in uno spazio infinito non ha senso parlare di centro, alto e basso. Potremmo pensare che cadano sulla Terra, ma anche questa è costituita da atomi che quindi cadono a loro volta. Inoltre, poiché i moti rettilinei non si incontrerebbero mai ( e quindi non ci sarebbe un'aggregazione di atomi), Epicuro introduce il clinamen, cioè una deviazione casuale ed imprevedibile che provoca gli urti tra gli atomi (aggregazioni, disgregazioni etc.).
Probabilmente  il clinamen serve anche ad introdurre una casualità per evitare il determinismo di Democrito e per eliminare ogni idea di necessità. Infatti in Epicuro è presente anche un deciso rifiuto del fatalismo, forse perché vuole affermare la libertà umana. Per questo afferma l'imprevedibilità dei fenomeni, perché se tutto avvenisse necessariamente l'uomo non deciderebbe il proprio destino, e non avrebbe alcun senso proporre un insegnamento etico.
L'universo è infinito e ci sono infiniti mondi; negli spazi tra i mondi vivono gli dei che sono materiali (perché composti da atomi), felici ed immortali (infatti essi riescono ad integrare gli atomi perduti).
Non si occupano degli uomini, né per premiarli né per punirli, perché la loro beatitudine verrebbe corrotta da rapporti con esseri inferiori. Epicuro unisce quindi elementi della religione pagana tradizionale (materialità, immortalità e beatitudine) alla filosofia aristotelica (il Primo motore immobile aristotelico non pensa e non ama gli esseri inferiori, pensa solo se stesso, è “Pensiero di Pensiero”).
Epicuro afferma l'esistenza certa delle divinità perché tutti gli uomini ammettono l'esistenza degli dei, solo che la concezione del divino degli uomini comuni è sbagliata (in particolare perché gli uomini temono i castighi degli dei).
CANONICA:
Si occupa della teoria della conoscenza. Essa avviene attraverso gli eidola, gruppi di atomi simili ad una pellicola superficiale che si staccano dagli oggetti e colpiscono i sensi restituendo le forme degli oggetti.  Quindi la conoscenza è fondata sull’sensazione.  Perfino  la conoscenza degli dei avviene attraverso i loro eidola, è prodotta cioè da sensazioni empiriche. Ma la conoscenza non si esaurisce nella sensazione: perché si abbia la conoscenza, è necessario avere a disposizione dei concetti generali alla luce dei quali mettere a confronto le singole sensazioni. Tuttavia, Epicuro riporta la formazione di questi concetti alla sensazione: una sensazione più volte ripetuta lascia nell’organo di senso una traccia permanente che in seguito può essere richiamata anche in assenza della sensazione che l’ha prodotta (e che per questo viene detta prolessi, “anticipazione”), svolgendo così la funzione di concetto generale. Confrontando la teoria della conoscenza di Epicuro con quella di Aristotele, troviamo che ambedue pongono l’esperienza e le sensazioni all’origine della conoscenza, però Aristotele attribuisce all’intelletto la capacità di raggiungere (partendo dall’esperienza) un livello di conoscenza qualitativamente superiore, infatti i concetti sono diversi dalle immagini trattenute della memoria, perché sono oggettivi e universali; i concetti-prolessi di Epicuro invece sono solo ricordi e immagini delle sensazioni ripetute, che permettono di anticipare l’esperienza, ma non di superarne i limiti (l’esperienza di per sé è sempre soggettiva e particolare).
ETICA:
Epicuro si chiede come si può essere felici e afferma che la felicità consiste nel piacere, la sua etica è quindi un’ etica  eudaimonistica  e  edonistica (εὐδαιμονία=felicità, ἡδονή=piacere)
Tuttavia non tutti i piaceri procurano la felicità, ma soltanto il piacere “in quiete”: infatti Epicureo fa una distinzione tra il piacere in movimento (piacere cinetico) e il piacere in quiete o statico (piacere catastematico); il primo è il piacere momentaneo dato dai sensi (p.e. il piacere che si prova mangiando un dolce), il secondo è una condizione duratura di benessere e di appagamento.  Dunque solo il piacere catastematico ci rende davvero felici, e il piacere catastematico consiste in:

  • aponia: assenza di dolore
  • atarassia: assenza di turbamento

Quindi per Epicuro è felice chi non soffre ed è sereno, non chi gode, perché i godimenti dei sensi possono anche essere pericolosi,  in quanto possono procurare dolori e turbamenti.
Occorre dunque procedere a una analisi e selezione dei piaceri:

  • piaceri naturali e necessari: (= procurati dalla soddisfazione dei bisogni vitali) es. mangiare per sfamarsi, vestirsi per scaldarsi → in questi casi esiste un limite naturale della soddisfazione (es. quando sono sazio smetto di mangiare)

            Per raggiungere l'aponia questi piaceri/bisogni  devono essere soddisfatti sempre.

  • piaceri naturali, ma non necessari (= sono variazioni dei piaceri naturali e necessari finalizzate a ottenere sensazioni piacevoli) es. mangiare cibi saporiti, vestire con tessuti pregiati → il limite è stabilito dalla ragione. Vanno soddisfatti con moderazione e prudenza, perché se si eccede in questi piaceri essi procurano grandi dolori e turbamenti (es. bere smodatamente bevande alcoliche procura malattie, dipendenza, problemi sociali ecc.)
  • piaceri innaturali e non necessari: es. ricerca del potere, del denaro, dell'onore. Non vanno mai soddisfatti perché non servono per il nostro benessere fisico e producono conseguenze negative e grandi turbamenti.

Quindi bisogna vivere nascostamente (λάθε βιώσας) , cioè bisogna astenersi dalla vita pubblica, dalla ricerca della gloria, del potere etc. perché sono causa di angosce. Per questo Epicuro pose la sua scuola al di fuori della città. Al contrario l'amicizia è positiva. Invece non si esprime chiaramente sulla natura dei rapporti sessuali, anche se, anche riguardo ad essi, raccomanda grande moderazione.
Inoltre, siccome possono esserci anche turbamenti causati da paure come la paura della morte o delle malattie, turbamenti che non derivano dai piaceri fisici, ma piuttosto hanno un’origine psicologica, Epicuro propone quattro massime chiamate TETRAFARMACO:

  1. Non temere gli dei perché essi non si interessano degli uomini.
  2. Non temere la morte perché, essendo essa estinzione totale della vita e della coscienza, quando c'è la morte non siamo in grado di percepirla o sperimentarla.
  3. Non temere i dolori fisici perché se sono forti sono brevi e se sono lunghi sono sopportabili.
  4. Non temere di non essere felice perché la felicità è facilmente raggiungibile da tutti.

La politica e l’amicizia
Epicuro sconsiglia fortemente di dedicarsi all’attività politica, la quale facilmente comprometterebbe l’atarassia predicata dalla sua etica.
Pur escludendo, in opposizione ad Aristotele, che la vita buona abbia bisogno di esplicarsi nella politica, egli ritiene che la felicità non possa fare a meno di una dimensione sociale che si esprime, però, non attraverso la politica, ma attraverso l’amicizia tra persone di ogni condizione (e di entrambi i sessi), accomunate dall’amore per la filosofia.

LO STOICISMO ANTICO
Lo Stoicismo è stato la scuola filosofica più famosa e duratura dell’età ellenistica. Fu fondato da Zenone, un giovane di origine semitica, nato a Cizio nell’isola di Cipro, che si trasferì ad Atene (nel 312-311 a.C.) dove, non potendo acquistare un edificio, iniziò il suo insegnamento sotto il Portico (= Stoà, da cui Stoicismo).
Lo Stoicismo ebbe una lunga evoluzione, per cui si distinguono tre fasi: 1) l’Antica Stoà (IV-III secolo a.C.), in questa fase, oltre al fondatore Zenone,  i due  maggiori esponenti della scuola furono Cleante e Crisippo; 2) La Media Stoà (II-I secolo a.C.);
3) la Nuova Stoà o Stoà romana (secoli I, II sec.C.) : aderiscono allo Stoicismo, rivitalizzandolo e rinnovandolo, grandi scrittori latini come Seneca e l’imperatore Marco Aurelio.
Prendiamo in considerazione per il momento la Stoà antica
Un sistema stratificato ma compatto
A differenza della scuola epicurea, rimasta sempre fedele al pensiero del suo fondatore, lo stoicismo ha avuto nel corso del tempo molti esponenti significativi, i primi dei quali furono Zenone, Cleante e Crisippo. I loro contributi, che talora presentano divergenze di contenuto, costituiscono comunque un sistema compatto, nel quale, nonostante la preminenza assegnata all’etica e alla realizzazione della vita buona (in accordo con una tendenza generale di tutta la filosofia ellenistica), le tre parti della filosofia (fisica, logica ed etica) si integrano in modo strettissimo e rimandano continuamente l’una all’altra.
Il monismo stoico
Uno dei cardini della filosofia stoica è il monismo, cioè la convinzione che la realtà costituisca un tutto fortemente unitario (gli stoici negano pertanto il dualismo materia-spirito, ma negano anche la concezione atomistica che afferma una molteplicità infinita di principi che si muovono nel vuoto). La fisica degli stoici riflette in modo esplicito questa posizione: essi, infatti, sostengono l’equivalenza tra l’essere e la materia (tutto ciò che è, è dunque materiale), ma, non volendo introdurre un secondo principio responsabile del movimento e dell’animazione presenti nel mondo, recuperano la concezione  ilozoistica della materia (la materia è qualcosa di intrinsecamente animato e attivo), affermando che essa è tutto ciò che ha la capacità sia di patire, sia di agire.
Il lògos principio della realtà
Infatti la materia per gli stoici non è pura passività, ma racchiude al suo interno un principio attivo, responsabile dell’essere di ogni cosa, identificato con il fuoco, o con il pnèuma (=soffio caldo). Questo principio, oltre a una caratterizzazione apertamente fisica e materiale (il pnèuma, appunto), ne ha anche una molto lontana dall’ambito della materia: esso, infatti, viene chiamato lògos (“ragione”) oppure prònoia (“provvidenza”) o anche anima del mondo. La ragione viene così a essere per gli stoici un aspetto della stessa materia; si tratta quindi di un progetto razionale e provvidenziale insito nella materia e nel mondo, che si sviluppa in modo necessario, ripetendo sempre lo stesso ciclo, perchè il mondo non potrebbe essere migliore di come è (se il mondo è “fatto” dal Logos, allora è sempre il miglior mondo possibile, cioè il più razionale che possa esistere).
Poiché la realtà è fatta tutta della stessa materia, le differenze che vi si riscontrano derivano dal diverso grado di intensità e di purezza con cui il lògos si manifesta nella materia delle singole cose (il massimo grado si raggiunge negli dei e negli uomini: l’anima umana infatti è una parte del Logos-fuoco universale).
Il problema della libertà
Secondo gli stoici tutto avviene necessariamente, e quindi com’è possibile la libertà? D’altra parte che senso ha proporre un insegnamento morale se l’uomo non è libero di scegliere il suo comportamento?  In effetti per gli Stoici l’uomo non può modificare il corso della sua esistenza, però può rifiutarlo e resistervi, oppure può aderirvi interiormente; la condizione umana è simile a quella di un cane legato a carro: deve per forza seguire il carro, non ha la possibilità di scegliere un percorso diverso, però può assecondare il movimento del carro oppure recalcitrare e opporre resistenza. Dunque per gli Stoici la libertà consiste nell’adesione interiore e consapevole all’ordine razionale del mondo
Il primato della virtù
Considerata la meno eudemonistica tra le etiche antiche, l’etica stoica, pur non disinteressandosi del raggiungimento della felicità, pone in primo piano la virtù. Essa non è più vista come una condizione per arrivare al fine fondamentale da perseguire (cioè la felicità), ma è innalzata al rango di fine primo e incondizionato, che, se perseguito, finisce con il produrre anche la felicità. La virtù poi consiste nel conformarsi al Logos cosmico.  Gli Stoici introducono anche per la prima volta nell’etica il concetto di Dovere (analogo a quello di virtù), che indica un’azione conforme all’ordine razionale del tutto, che si impone come valida in sé e non come mezzo per ottenere la felicità. 
L’oikèiosis
Secondo gli stoici tutti gli esseri hanno un’inclinazione naturale (oikèiosis) a conservare se stessi, che in origine è priva di ogni valenza morale. Nel caso dell’uomo questa inclinazione trova espressione nel lògos: l’uomo, in cui il lògos si manifesta al massimo grado, ha cioè un impulso naturale non verso la propria felicità né tanto meno verso il piacere, bensì verso la realizzazione di quello stesso bene a cui mira il lògos cosmico, e ciò rappresenta per lui un imperativo (“vivi secondo natura”, ossia “vivi secondo il lògos”) che riceve esecuzione nella pratica della virtù.
Passione e apatìa
Nell’etica stoica la passione si presenta come un pervertimento dell’anima, un desiderio o un sentimento irrazionale che impedisce all’uomo di vivere “secondo natura e ragione”.  Pertanto la virtù esige anche l’apatìa, l’assenza di passioni, l’impassibilità, da cui deriva quella tranquillità dell’animo che si identifica con la felicità.
Il cosmopolitismo
A differenza di Epicuro, che sostiene l’incompatibilità tra filosofia e attività politica, gli stoici considerano la politica parte integrante della pratica della virtù, in quanto ogni uomo è tenuto a cooperare alla piena espressione del lògos nella realtà. Ma, poiché il lògos è ragione universale, questo contributo deve essere ispirato a una visione politica non particolaristica, ma rivolta alla società umana nel suo complesso: per questo gli stoici si definiscono cittadini non di una singola patria, ma del mondo intero (cosmopoliti).  Gli stoici considerano tutti gli uomini uguali (indipendentemente dalla razza, dalla nazione, dalla condizione sociale) in quanto tutti sono partecipi del Logos, inoltre affermano un diritto naturale, basato sull’ordine razionale del mondo, che è uguale per tutti e precede leggi e convenzioni umane. Infine essi negano che la schiavitù abbia un fondamento naturale, essa nasce solo dalla malvagità umana.
La teoria della conoscenza
La rappresentazione catalettica (comprensiva). Anche per gli stoici la conoscenza si spiega a partire dalla sensazione: l’oggetto percepito lascia un’impronta sui sensi che viene poi trasmessa all’anima, producendo in esso una rappresentazione. Mentre la formazione della rappresentazione è un processo passivo, la conoscenza presuppone una reazione dell’anima, alla quale spetta di assentire o meno alla rappresentazione. La concessione dell’assenso porta alla formulazione di un giudizio (ossia di una proposizione), e soltanto a questo punto si può parlare di acquisizione di una conoscenza (che ha pertanto natura essenzialmente linguistica), sempre che la rappresentazione sia “catalettica”, cioè colga e rifletta la realtà così come essa è.  Ciò che distingue le rappresentazioni catalettiche (a cui è giusto concedere l’assenso) da quelle che non lo sono è l’evidenza.
La teoria del significato.  Gli studi condotti dagli stoici sul linguaggio hanno avuto come esito più rilevante la teoria del significato. Ogni enunciato linguistico è composto da tre elementi: il significante (cioè le parole); il significato (lektòn) che le parole esprimono; la  cosa a cui il significato fa riferimento. Solo al “significato completo” (che appartiene alle asserzioni in cui il verbo è accompagnato da un soggetto) si applicano i valori di verità (vero e falso), che sono legati al verificarsi o meno dell’evento descritto nella proposizione: la verità di una proposizione dipende, dunque, dal suo rapporto con la realtà che descrive.
La sillogistica. A differenza di Aristotele, la cui sillogistica ha carattere “terministico”, poiché si occupa di rapporti di inclusione o di non inclusione tra termini (a cui corrispondono concetti), gli stoici hanno elaborato una sillogistica proposizionale, in cui si istituiscono legami tra le proposizioni e si perviene a una conclusione assegnando un certo valore di verità alla proposizione che funge da premessa; l’esempio classico di sillogismo stoico è il sillogismo ipotetico: «se piove,  allora  la strada è bagnata», da cui derivano necessariamente queste conseguenze: «piove, dunque la strada è bagnata» (modus ponendo ponens)  e «la strada non è bagnata, dunque non piove» (modus tollendo tollens), ma non (attenzione!) «la strada è bagnata, dunque piove» (quest’ultima affermazione non deriva necessariamente dalla prima, infatti la strada potrebbe essere bagnata per una causa diversa dalla pioggia) e neppure «non  piove,  dunque  la strada non è bagnata».  In altri termini “piove” è condizione sufficiente di “la strada è bagnata”, mentre “la strada è bagnata” è condizione necessaria di “piove”.

Lo scetticismo
Finalità etica dello scetticismo
Cardini del pensiero di Pirrone, considerato il primo esponente dello scetticismo antico, sono l’impossibilità di distinguere il vero dal falso e la conseguente convinzione che tutte le cose sono tra loro indifferenti e prive di caratteristiche stabili e certe. Questo non significa, almeno in Pirrone, denunciare la mancanza di un criterio di conoscenza affidabile e valido (anzi, per Pirrone l’indifferenza e l’inconoscibilità della realtà sembrano essere dati certi, cosa che uno scettico rigoroso non sottoscriverebbe mai), bensì aiutare l’uomo nel suo cammino verso la felicità: dal momento che non c’è nessuna differenza tra le cose che accadono, non c’è neppure nessun motivo per farsi turbare da queste; pertanto l’atteggiamento corretto da assumere di fronte alla realtà deve essere improntato alla tranquillità e all’assenza di preoccupazioni.
A partire dal III secolo a.C. l’Accademia platonica fu guidata da esponenti (tra cui ricordiamo Arcesilao e Carneade) molto vicini a posizioni scettiche (ma anche memori della concezione platonica della filosofia come ricerca aperta e infinita). Approdando a una posizione ancor più rigorosa di quella di Pirrone, costoro ritengono che non sia ammissibile alcun tipo di giudizio certo e definitivo (è scorretto anche affermare che la realtà è instabile e inconoscibile, perché questo sarebbe pur sempre un giudizio assoluto, anche se negativo).
Poiché è impossibile arrivare a un giudizio certo, l’atteggiamento che più si addice al saggio è la sospensione sistematica del giudizio (epochè), che tuttavia non lo costringe all’inattività. Anche in assenza di un saldo criterio di scelta costui può agire adottando come criterio il “ragionevole” (èulogon) o “probabile” (pithanòn): l’uomo dispone, infatti, di una ragione pratica (phrònesis) che gli consente di individuare le azioni che hanno maggiori probabilità di successo.

Fonte: http://www.liceogalvani.it/download_file.php?id=13680

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Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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