Heidegger

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Heidegger

L’ESISTENZIALISMO
L’esistenzialismo, fenomeno che ha radici profonde che vanno cercate nella crisi generale del vecchio continente europeo, che prende avvio dalla fine della prima guerra mondiale aggravatosi nel periodo post-seconda guerra mondiale, pervade le manifestazioni culturali tout court. I contributi sono i più svariati, dalla letteratura all’arte, alla poesia, ad es. in questo contesto si collocano grandi scrittori e poeti, da Saba a Ungaretti, fino a Montale, che condividevano il vero significato della ricerca esisten-zialista, il senso della vita all’interno della dimensione di una società moderna.
In un contesto post-guerra ci si interroga, insomma, su alcuni temi di fondo: il richiamo alla finitudine umana e la possibilità della scelta; l’angoscia, la morte.
Dal punto di vista più specificatamente filosofico l’esistenzialismo si articola, anche se in diverso mo-do nei diversi autori, attorno al concetto di esistenza. Esistenza (ex-sistere) indica nella sua radice lati-na il costituirsi e mantenersi (sistere) venendo da altro (ex). Dunque, esistenza indica già nella sua ra-dice il divenire. L’esistenza è il divenire specificatamente dell’uomo! In questo senso l’uomo non è un “già dato”, ma come dice Heidegger, “ha sempre da essere il suo essere”, a significare che l’uomo è decisione, scelta di essere.
In questo senso la filosofia dell’esistenza o esistenzialismo è contraria a quel filone filosofico che da Platone, Aristotele fino ad Hegel, ha sempre pensato l’esistenza umana come realizzazione dell’essenza dell’uomo come se si potesse parlare aprioristicamente di una essenza prima della esi-stenza. La filosofia esistenzialista mentre afferma che l’uomo è esistenza afferma contemporaneamen-te che l’uomo è produzione della propria essenza. L’esistenza è fondamento della essenza!
L’uomo è scelta, decisione, libertà, possibilità di essere. La scelta è ovviamente possibilità. La scelta implica pure, necessariamente, che gli esistenzialisti pensano l’uomo come singolo: individuato e irri-petibile. In questo senso l’esistenza è anche l’espressione pure della impossibilità di previsione, di far rientrare l’individuo singolo in un sistema scientifico giacchè la scelta e la libertà sfuggono, per loro natura a qualsiasi universalità e necessità scientifica. Stirner, Kierkegaard, ma anche Nietzsche, aveva-no potentemente rilevato che l’esistenza dell’uomo è esistenza del singolo. Il singolo, in quanto tale è l’espressione del massimo grado di imprevedibilità. Ovvio che l’esistenzialismo si richiami esplicita-mente a Kierkegaard e Nietzsche e versus la metafisica hegeliana che tutto assorbiva nel suo fagocitan-te sistema che stritolava ogni singolarità rispetto all’Assoluto.
HEIDEGGER
La vita e le opere
Nasce a Messkirch, nel Baden, nel 1889. Muore a Freiburg nel 1976.
Insegna all’Università di Marburgo (1923) e succede poi a Husserl – di cui era stato scolaro e assisten-te alla cattedra di Friburgo con la prolusione Che cosa è la metafisica? che fece molto scalpore.
Il 21 aprile del 1933 viene eletto rettore dell’Università di Friburgo il che segna il suo coinvolgimento con il nazismo. Si iscrive al partito il 1 maggio e il 27 assume ufficialmente il rettorato, pronunciando il celebre discorso L’autoaffermazione dell’università tedesca in cui delinea i compiti degli studenti: lavoro, difesa, sapere.
Alla fine della guerra è messo sotto accusa per il suo rapporto con il nazismo e interdetto dall’insegnamento. In seguito, egli cerca di minimizzare il proprio errore storico e politico, ricordando come anche altri personaggi di spicco, quali Hegel o Hölderlin, avessero appoggiato figure “discutibi-li”, come quella di Napoleone, considerato da loro “lo spirito del mondo.”
Tuttavia, l’avversione di grandi filosofi, come J. Habermas, ecc, è giustificata dal fatto che Heidegger non si dichiarò mai esplicitamente ostile agli orrori del nazismo stesso, mantenendo un atteggiamento piuttosto ambiguo.
Il capolavoro di Heidegger è sicuramente Essere e tempo (1927) dedicato a Husserl. Altre opere impor-tanti sono: Che cos’è la metafisica? (1939), La dottrina platonica della verità (1929), L’essenza della verità (1943), Lettera sull’umanismo (1947), Tempo e essere (1962).
Il primo Heidegger: L’analisi dell’esistenza
Si suole distinguere la filosofia di Heidegger in due grandi fasi: quella esistenzialista e quella propria-mente ontologica, che viene fortemente riproposta proprio dalla riflessione sulla tecnica. Diciamo su-bito che alcuni studiosi sottolineano, in verità, gli elementi di continuità tra una fase e l’altra e chi, in-vece, ne sottolinea lo rottura, la svolta (Kehre).
Il “primo” Heidegger pur partendo dal problema dell’Essere declina questa ricerca con tematiche esi-stenzialiste, il secondo, invece, ripropone la riflessione su un livello specificatamente ontologico.
Per entrambi i periodi il grande filosofo tedesco darà vita a una miriade di spunti filosofici estrema-mente profondi e alimenterà il dibattito internazionale.
In realtà bisogna sottolineare come Heidegger abbia da sempre rifiutato l’etichetta di filosofo “esisten-zialista”, tuttavia lo è stato, suo malgrado, nella misura in cui il suo testo più famoso e rappresentativo Essere e tempo (Sein und Zeit) è considerato un vero caposaldo della filosofia esistenzialista, e lo po-se, insieme a Sartre, tra i più grandi esponenti di tale corrente.
Essere e Tempo
Dopo Hegel, la riflessione filosofica ha risposto con una forte flessione e riflessione sull’uomo con-creto, declinato, certo, all’interno di diverse sensibilità: l’ente generico di Feuerbach; l’uomo storica-mente determinato di Marx; l’uomo come animale malaticcio di Schopenhauer, il superuomo di Nie-tzsche.
Heidegger non si sottrae a questa riflessione filosofica coeva, ma ritorna, in Essere e tempo, alla do-manda cruciale: Che cos’è l’essere?
Heidegger ritorna, dunque, a porre la domanda fondamentale della filosofia; ritorna alla vertigine della filosofia in grande stile.
Essere e tempo, il suo capolavoro, già nel titolo porta scritto due concetti che nella storia della filosofia hanno una grandiosa perdurante permanenza. Due parole magiche che saranno declinate con le inquie-tudini della crisi dei fondamenti, degli assoluti, di un nuovo senso e l’atteggiamento disincantato e che perciò cattureranno la riflessione filosofica del Novecento. Il problema dell’essere viene posto a parti-re da una prospettiva completamente nuova: l’analisi dell’esistenza. Essere e tempo può essere visto come un trattato di filosofia pratica che orienti nella vita, un po’ come era nell’intenzione dell’Etica nicomachea di Aristotele (F. Volpi). In questo senso trovano diversa lettura i concetti di vita autentica e in autentica. D’altra parte il tentativo heideggeriano può essere letto anche all’interno di un capitolo di storia della filosofia della religione nel senso che il soggetto è visto all’interno di un racconto in cui può perdersi ma anche salvarsi, riscattarsi. Essere e tempo può configurarsi anche come un romanzo agnostico attraversato com’è dalla caducità, dalla finitudine in cui siamo gettati. Insomma, le sugge-stioni di Essere e tempo sono molteplici e in ciò sta non un limite ma un pregio dell’opera.
Heidegger pone, dicevamo, la domanda: Che cos’è l’essere?
Con tutta evidenza il cercato, cioè l’essere, e il suo senso può trovare una risposta solo in un ente che possa essere interrogato: l’uomo, che Heidegger chiama, l’Esserci (Dasein). Non rimane, dunque, che interrogare l’Esserci, cercare l’essere e carpirne il senso. Ma il modo d’essere dell’Esserci è l’esistenza dunque non possiamo che partire dall’analisi dell’esistenza: comprenderne le caratteristiche, perime-trarne i confini.
Partendo da una domanda squisitamente ontologica, dunque, Heidegger s’incunea in una prospettiva esistenzialistica alla quale fornisce un immenso apparato di validi strumenti analitici, tematiche ed una vasta terminologia.
La prima caratteristica dell’esistenza è la fondamentale capacità di comprensione dell’essere, ovvero la possibilità di avere un rapporto con l’essere stesso;
La seconda caratteristica è che “L’Esserci è sempre la sua possibilità” cioè, mentre le cose sono ciò che sono e non possono esser altro, l’uomo ha la possibilità di essere ciò che sceglie o progetta di esse-re. L’esistenza è la possibilità di essere, per cui l’uomo, l’Esserci, appare come un ente il cui essere ri-sulta eternamente in gioco, a differenza delle cose, le quali sono sempre ciò che sono, ovvero sempli-ci presenze.
Si noti che nonostante in Essere e tempo Heidegger prospetti un Esserci come possibilità non arriva mai a parlare di libero arbitrio o di libertà dell’uomo - come farà ad es. Sartre - ma usa sempre termini alternativi. L’uomo per Heidegger è sì capace di progettarsi di farsi carico del poter essere, ma sempre all’interno di una dimensione dell’essere, di un destino che l’essere gli ha destinato. L’uomo può com-piere piccoli passi, piccoli furti all’interno della coessenzialità, coappartenenza di essere e uomo che egli deve accettare.
L’uomo quindi è “ciò che ha da essere”, e la sua esistenza si snoda tra le alternative, la prima delle quali è la scelta tra l’autenticità e l’inautenticità. Se l’uomo decide di non scegliere, esce sconfitto: “Scegliersi oppure perdersi”.
L’essere-nel-mondo
L’uomo nel suo concreto e quotidiano esistere per Heidegger è, innanzitutto, “essere-nel-mondo” (in-der-Welt-sein), ossia un prendersi cura delle cose che gli sono necessarie. (Questo concetto è quindi un esistenziale: determinazione strutturale dell’Esserci). Per questo motivo l’essere delle cose coincide con il loro poter essere usate. Le cose figurano come strumenti che può utilizzare: la casa per abitare, la stella per orientarsi, ecc.
Poiché l’uomo è essere-nel-mondo, il suo compito è quello di avere cura delle cose, dando al termine cura il significato di “rapporto tra le cose mediate attraverso il loro uso, utilizzo”. Le cose non sono in-dipendenti, ma l’uomo ne stabilisce un rapporto di puro “uso”. L’Esserci è nel mondo in modo tale da progettare il mondo stesso, secondo un piano globale di utilizzabilità, in modo da subordinare le cose ai propri fini e bisogni.
L’Esserci si trova quindi nel mondo non secondo la modalità della conoscenza, ma secondo la modali-tà della manipolazione degli altri enti, detta “commercio”.
In altri termini Heidegger sta affermando che l’uomo non è un mero contemplante ma opera con le cose, con gli enti. Il nostro rapporto con le cose è di “commercio” nel senso semplicemente di concre-ta “funzionalità” e “utilità”.
In questo senso Heiddeger si pone - in un certo senso - sulla stessa lunghezza d’onda di Marx, per cui la conoscenza non è teoretica, ma una conoscenza umano-sensibile, “pratica” che interviene tra il sog-getto e l’oggetto e che lascia le dispute teoretiche alla filosofia scolastica.
Il commercio non è un’attività “cieca”, poiché vi è comunque un punto di vista dal quale si opera la manipolazione, che Heidegger chiama “visione ambientale preveggente”, ovvero la visione del com-plesso dei collegamenti e dei rimandi tra gli utilizzabili: “Prima del singolo mezzo, è già scoperta una totalità di mezzi”. Il mondo è un insieme di significati che si collegano l’un l’altro e che fanno capo all’uomo.
L’uomo è quindi capace di dare un significato alle cose così come al mondo stesso, rendendoli “utili”: se il mondo viene prima delle singole cose, allora l’uomo viene anche prima del mondo, in quanto si identifica con l’ente, grazie al quale è possibile dare dei significati, che sono l’essenza del mondo.
L’esistenza inautentica
Un altro esistenziale, cioè struttura fondamentale dell’esistenza dell’uomo, è l’“esser-tra-gli-altri” (Mit-sein), poiché l’esistenza umana è costitutivamente apertura verso il mondo e gli altri.
L’uomo non solo è nel mondo e fa “commercio”, ma è anche fra gli altri: è un animale che porta scrit-to le stimmate dell’”animale sociale”. L’uomo si costituisce direttamente con un’apertura sia verso il mondo (le cose), sia verso gli altri; non c’è alcun residuo dell’uomo egoarca hobbesiano o indipenden-te e isolato come una monade leibniziana.
L’esistenza è inoltre comprensione esistenziale. L’uomo per comprendersi può servirsi di sé stesso, ma anche degli altri e del mondo, appunto, come punto di partenza per la comprensione stessa:
• Se egli parte da sé stesso, si ha una comprensione esistenziale autentica;
• Se egli decide di partire invece dagli altri e dal mondo, si ha piuttosto una comprensione esi-stenziale inautentica, che è alla base della “esistenza anonima”.
L’esistenza anonima è l’esistenza “di tutti e di nessuno”, è l’esistenza del “si”, nella quale il “si dice” e il “si fa” la fanno da padrone. Sono coloro che quindi nella folla si sentono protetti perché non hanno punti deboli perché il numero della folla li acquieta perché li maschera. L’esistenza anonima e contras-segnata da un linguaggio ch’è pura chiacchiera inconsistente; da una curiosità per l’apparenza che fi-nisce per essere mero equivoco.
Tuttavia, Heidegger non intende condannare l’esistenza inautentica come una sorta di peccato, ma piuttosto analizzarla, poiché riconosce che anche la forma anonima è parte dell’esistenza umana come “poter essere”: parte essenziale dell’Esserci.
Alla base dell’esistenza inautentica c’è ciò che Heidegger chiama “deiezione”, la quale è la caduta dell’uomo al livello delle cose del mondo. La deiezione è una sorta di “reificazione”, di “cosificazio-ne”: l’Esserci diventa come le altre cose del mondo: cosa tra le cose!
Essa è piuttosto un processo interno per cui l’essere dell’uomo scende al livello dei fatti. La “fattuali-tà” dell’Esserci, quindi, è il suo “essere-gettato” nel mondo in mezzo agli altri esistenti, al loro stesso livello. Lo stesso “essere-gettato” sottointende però un processo di “nullificazione”, di insensatezza: l’uomo si sente emotivamente abbandonato.
Heidegger riconduce buona parte dell’esistenza umana all’anonimato, in quanto anche l’intero ambito della normatività e dei valori appartiene all’esistenza anonima, poiché non è comprensibile al di fuori del rapporto dell’uomo con il mondo.
La cura
Per Heidegger la “Cura” (Sorge) è la totalità delle determinazioni dell’essere, ovvero la struttura fon-damentale dell’esistenza sia autentica che inautentiche.
Riprendendo il poeta latino Igino, infatti, il filosofo afferma: “Poiché infatti fu la Cura che per prima diede forma all’uomo, la Cura lo possieda finché esso viva”.
La Cura esprime la condizione dell’uomo - che si prende appunto cura delle cose e si cura degli altri - il quale, gettato nel mondo, progetta le sue possibilità, ma ritorna sempre nella situazione originaria.
Per questo la Cura è una struttura circolare che descrive l’essere dell’uomo.
L’esistenza autentica
Dell’Esserci, considerato nella sua autenticità e totalità, fa parte anche la fine stessa dell’Esserci, cioè la morte. La morte è la
possibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa e, come tale, indeterminata e insuperabile. (Esse-re e tempo)
Soltanto riconoscendo tale possibilità l’uomo ritrova il proprio essere autentico e comprende vera-mente sé stesso. La morte diventa la possibilità per eccellenza dell’Esserci per il semplice fatto di esse-re la fine dell’Esserci: il fatto che abbiamo una fine, la consapevolezza di questo fine fa sì che la mor-te diventi un modo che pone sempre l’uomo davanti alla scelta, a scelte coscienziali.
L’esistenza inautentica, è una “fuga” davanti alla morte: l’individuo cerca semplicemente di non pen-sarci e di obliarla nelle cure del quotidiano.
L’esistenza autentica è, invece, l’“essere-per-la-morte”: soltanto comprendendo la possibilità della morte come impossibilità dell’esistenza, soltanto assumendo questa possibilità con una decisione anti-cipatrice, l’uomo ritrova il suo essere autentico.
A questa comprensione, però, si accompagna un sentimento costante, quello dell’angoscia.
Angoscia che è ben distinta dalla paura, in quanto quest’ultima è sempre volta verso un oggetto de-terminato e reale, ed è quindi inautentica. L’angoscia, invece, quello stato in cui l’uomo è davanti alla possibilità di morire e ricadere nel nulla. L’angoscia si manifesta come “nientificazione”, come imme-diata rivelazione del nulla. L’angoscia colloca l’uomo dinanzi al nulla, rendendo l’esistenza qualcosa di estremamente fragile, ma, allo stesso tempo, essa rivela il significato autentico della presenza dell’uomo nel mondo, ovvero il “tenersi fermi nell’interno del nulla”.
L’idea della morte, come con Nietzsche, dà il senso dell’insensatezza del tutto che arriva a fluire nel “nulla”. Esistere autenticamente implica il coraggio di guardare in faccia alla possibilità del proprio non-essere, morire. L’esistenza autentica, dunque, significa l’accettazione della propria finitezza.
L’esistenza autentica progetta la “decisione anticipatrice” di esser-per-la-morte, non nel senso che an-ticipa la morte con il suicidio, ma nel senso invece, che accetta di convivere con la possibilità della morte, accetta l’angoscia, e sceglie di liberarsi da una vita anonima.
Ciò che caratterizza l’essere-per-la-morte autenticamente progettato sul piano esistenziale può essere riassunto così: [… l’Esserci è] innanzi alla possibilità di essere se stesso, in una libertà appassionata, af-francata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di se e piena d’angoscia: la libertà per la morte. (Essere e tempo, par. 53)
La voce della coscienza
Appurata la superiorità dell’esistenza autentica, sorge quindi il problema di mostrare cosa richiami perpetuamente l’Esserci ad un’esistenza di questo tipo, in modo da non considerarla come una sempli-ce possibilità tra le altre.
Secondo Heidegger è la “voce della coscienza”, la quale non è altro che il richiamo dell’esistenza a sé stessa, che riporta costantemente l’uomo alla sua esistenza autentica.
Abbiamo visto che l’esistenza umana è possibilità, progetto. L’uomo è in ciò fondamento di se stesso nel senso che sceglie tra diverse opzioni. Tuttavia l’uomo dice Heidegger è un progetto-gettato cioè non è affatto il fondamento del proprio fondamento.
L’Esserci è doppiamente attraversato dalla negatività, poiché:
• Nella sua condizione di progetto-gettato, esso non risulta il fondamento di sé stesso. Da ciò deriva la sua “nullità”: “L’esser-fondamento significa non essere mai signore dell’essere più propri. L’Esserci, essendo fondamento, è una nullità di sé stesso”.
• Anche nella sua realtà di progetto concreto, esso incontra il nulla, in quanto la scelta stessa preclude tutte le altre possibilità dunque è qualcosa e non altro.
Per questo motivo, “l’Esserci è colpevole”.
Poiché la ‘voce della coscienza’ richiama l’Esserci ad una esistenza autentica in effetti è, dunque, un richiamo al nulla. Il nulla fa sì che l’Esserci prenda una “decisione” maturata proprio all’interno di questa situazione d’angoscia del nulla. Questa decisione per il nulla coincide secondo Heidegger con la decisione dell’anticipazione della morte.
Un’esistenza autentica, pertanto, è quella che comprende appieno, e realizza emotivamente (tramite l’angoscia), la radicale nullità dell’esistenza. In questo modo l’Esserci entra in possesso della propria finitudine, comprende il proprio destino e riesce a mantenersi fermo nel nulla.
Noi concepiamo esistenzialmente la morte come la possibilità già chiarita dell’impossibilità dell’esistenza, cioè come la pura e semplice nullità dell’Esserci. (Essere e tempo)
La morte ha quindi il compito di mostrare la negatività strutturale dell’esistenza. In Essere e Tempo, domina dunque una certa negatività espressa dalle equazioni: “Cura = Nulla” e “Esserci = Nullo fon-damento di una nullità”.
Il tempo e la storia
Nel discorso di Heidegger si inserisce a questo punto la temporalità, in quanto le stesse strutture fon-damentali dell’Esserci rimandano ad altrettante dimensioni del tempo:
• Il progetto proietta l’Esserci verso il futuro;
• L’esser-gettato inchioda l’uomo al passato;
• La deiezione radica l’Esserci nel presente inautentico della cura delle cose, mentre la decisio-ne anticipatrice della morte conduce al presente autentico dell’attimo.
L’Esserci è quindi “tempo”.
L’assunzione dell’eredità del passato va a costituire la “storicità”. Essa è possibile in quanto l’esistenza autentica, pur progettandosi come nullità, non elimina il mondo, ma, anzi, lo presuppone.
Il nulla, insomma, non ci impedisce di vivere ma anzi ci rende liberi di accettare l’esistenza così come essa è. Ora, dice Heidegger, dato che l’esistenza è vivere con gli altri, tessere una ragnatela di rapporti, l’uomo ha la possibilità di rimanere fedeli al destino della comunità o del popolo a cui appartiene. Il destino è l’atto con cui “si tramanda in una possibilità ereditata e tuttavia scelta“ (Essere e tempo).
L’uomo non utilizza gli altri “esclusivamente” come cose, ma “anche” come cose; l’esistenza autentica impone all’uomo di considerare gli altri come co-partecipi di un destino e di una comunità. La sua so-cialità era inscritta nella sua dimensione di essere, nella sua dimensione ontologica. Il destino della comunità, del popolo, della nazione diventa un concetto di co-partecipazione alle usanze e ai suoi de-stini, ma non è quell’”accettazione del si” alla massa: è una cosciente partecipazione al destino della nazione.
Al dualismo dell’esistenza autentica e della partecipazione alla comunità, si affianca il dualismo di un destino dettato da esperienze pregresse, ma anche liberamente scelto. Il destino è si tramandato, ma anche scelto, in un rapporto di co-partecipazione.
La Kehre
Essere e Tempo, è un’opera incompiuta: manca proprio la sezione relativa al problema del senso dell’essere in generale. Appena pubblicato, l’autore ripensa l’intera impostazione e intuisce che il per-corso intrapreso sulla esistenza non lo riporta al problema che aveva posto con tanta fortissima chia-rezza: Che cos’è l’essere? Qui i critici vogliono vedere quella che chiamano la svolta, la Kehre! Hei-degger si rende conto che per quella via non è possibile arrivare all’essere e che l’analisi dell’esistenza conduce invece, inevitabilmente, ad una genuflessione dell’Essere all’ente (Esserci). Bisogna, allora, ritornare ad una dimensione più strettamente ontologica; porsi direttamente nell’ottica dell’essere!
La svolta, la Kehre, non è una completa frattura, ma a ben guardare un ritorno, un mutamento di pro-spettiva: non è possibile più metterci dal punto di vista dell’Esserci, ma bisogna ritornare all’Essere, al punto di domanda che pure era presente proprio all’inizio di Essere e tempo. Il problema dell’essere è sempre presente in Heidegger e in ciò è possibile ravvisare una continuità nel suo pensiero, tuttavia è pur vero che si presenta una frattura nel suo pensiero a partire dal modo con cui arrivare alla risposta sull’essere, ed è precisamente questo che va inteso quando si parla di Kehre.
La Kehre diventa chiara con la Lettera sull’umanismo!
Riprendendo il quesito fondamentale, Che cos’è l’essere e il senso dell’essere, ma cambiando prospet-tiva, ovvero partendo dall’Essere stesso e non dall’Esserci, sembra che Heidegger si riavvolga in una ragione superiore che è appunto l’Essere e che valuti l’uomo non più come soggetto, indipendente, autonomo, capace di libero arbitrio. In questo senso sembra riprendere quella visione hegeliana secon-do cui l’uomo non è altro che manifestazione dell’Essere; come in Hegel, l’uomo perde quell’elemento di arbitrio: l’uomo non è più “chi progetta” liberamente, ma è “a sua volta progettato” perché è una manifestazione dell’Essere, inserito in una ragione che gli è superiore.
La metafisica e il nichilismo
Dopo che in Essere e Tempo Heidegger aveva definito l’Esserci come temporalità, la quale rappresen-tava l’unico orizzonte per la comprensione dell’Essere, ora egli si concentra su una critica rivolta alla metafisica e alla storia della metafisica
In un primo momento, nella riflessione heideggeriana, la metafisica non assume ancora un significato negativo, poiché viene connaturata con l’Esserci:
La metafisica fa parte della natura dell’uomo. […] La metafisica è l’accadimento fondamentale dell’Esserci.” (Che cos’è la metafisica)
Tuttavia, ben presto l’analisi mostra che la metafisica ha perso il senso stesso di quello che doveva essere. Heidegger la riprende come bisogno oltremondano, come una disposizione dell’uomo a voler pensare qualcosa che è altro da sé e che abbia un senso allo stesso tempo. È un po’ la stessa motiva-zione presente in Kant e, per certi versi studiata e spiegata dallo stesso Schopenhauer. In Kant la meta-fisica era un bisogno insopprimibile dell’uomo anche se doveva essere esclusa dalla scienza: era un semplice bisogno da sopperire. In Schopenhauer la metafisica è il modo con cui l’uomo, come anima-le malaticcio cerca di sopperire al deficit del suo corredo istintuale rispetto alle temperie del caos. Per Heidegger la metafisica è accadimento fondamentale dell’Esserci volontà: di conoscere oltre e di dare senso.
L’Esserci, per Heidegger, può essere quindi visto come fondamento (Grund) solo come assenza di fondamento (Abgrund), in quanto egli è libertà che tutto fonda, ma che a sua volta non si fonda da so-la, per la sua natura di progetto gettato.
L’uomo quindi è fondamento di sé stesso, ma capisce anche che il suo fondamento è un “nulla”, un caos indistinto: l’uomo è un fondamento senza fondamento.
Dunque l’Esserci, che è ente, non va confuso con l’Essere in quanto tale. Esiste per Heidegger, una differenza ontologica: la verità ontica è la conoscenza dell’ente; la verità ontologica è la verità dell’Essere. L’Essere non è l’Esserci. L’essere è la luce, l’orizzonte all’interno del quale si dà la com-prensione dell’ente. Solo la preliminare conoscenza dell’Essere rende il quadro all’interno del quale è possibile comprendere l’ente e l’Esserci.
Se in Essere e tempo la verità era una proprietà o un modo di essere dell’Esserci, che coincideva con l’illuminazione del mondo ad opera dell’Essere, dopo la Kehre, la verità s’identifica con l’accadere dell’Essere, che come radura (Lichtung) rende visibile l’ente. Ne consegue, per Heidegger, una critica serrata con quelle dottrine che riducono la verità a proprietà dell’uomo (Aristotele, Tommaso, Cartesio, e Nietzsche).
In termini chiari, a partire dalla Introduzione alla metafisica del 1935, Heidegger avverte che la metafi-sica, pur ponendosi il problema dell’essere, “non pensa l’essere nella sua verità”: essa ha perso il sen-so dell’Essere perché ogni volta che parla dell’Essere non vede più l’”Essere in quanto Essere” ma in un particolare “ente”, riducendo la metafisica a scienza del particolare limitandosi a mera indagine attorno all’ente.
La metafisica è oblio dell’Essere!
La metafisica quindi, secondo Heidegger, non è stata altro che ontologia, o al più teologia, quando es-sa si è concentrata sull’ente supremo, Dio. Essa ha poi assunto le connotazioni della logica, in partico-lare con Hegel, quando il pensiero è diventato essere e soggetto. Ed il filosofo la definisce appunto onto-teo-logia, proprio in funzione del suo “ingannevole” campo di analisi.
Il cammino della metafisica è un errare dovuto a tre errori:
• Ha visto l’Essere in senso ontologico, ma attribuendogli delle caratteristiche dell’ente e non dell’Essere;
• Ha sempre visto l’Essere nel suo “Essere supremo”, diventando teologica;
• Ha errato finanche quando, accanto a queste due discipline, ontologia e teologia, ha pensato l’Essere come logica, ragione; in questo modo ha pensato l’essere come pensiero attribuendogli ca-ratteristiche che non gli appartengono. L’essere non è strutturalmente razionale. Siamo ben lontani, con Heidegger, da quel pensiero hegeliano per cui “tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale”.
La metafisica, per Heidegger, non è un semplice scomparto della filosofia, ma una prospettiva globa-le. E il suo fraintendimento di fondo tra essere ed ente ha condizionato in maniera indelebile la storia dell’Occidente: “La metafisica non è un accadimento della storia, ma l’accadere stesso della storia.”
Heidegger pensa che la metafisica non sia uno studio settoriale della filosofia, ma è ciò che informa tutta quanta la dimensione culturale di un’epoca e in cui si articolano i concetti chiave di una determi-nata epoca: dalla filosofia all’arte, all’etica, alla politica. L’orizzonte culturale è, difatti totalmente pla-smato dalla metafisica. Quando la metafisica pensa l’Essere non è una semplice questione “da filoso-fo”: è una categoria che dà sviluppo e dà alimento a tutti i concetti di una determinata epoca. Se la me-tafisica non è quindi un elemento particolare, allora lo sviluppo della metafisica non è un fatto della storia, ma la storia stessa.
La completa realizzazione della metafisica come oblio dell’Essere si manifesta nel pensiero di Nie-tzsche, che ha estremizzato, con il nichilismo, la tendenza a fare dell’uomo la misura delle cose, con-tinuando il percorso iniziato da Platone e Cartesio. Per questo il pensiero heideggeriano sarà inevita-bilmente contro ed oltre Nietzsche.
Il passaggio è fondamentale: Heidegger pensa che la filosofia di Nietzsche non è qualcosa di estraneo al corpo vivo della metafisica occidentale. Nietzsche apparentemente sembra essere versus tutto: anti-metafisico, inattuale. In verità il suo “esser contro” altro non è che il frutto ultimo dell’impostazione filosofica e metafisica greca. Egli è, dunque, metafisico e attuale! Nietzsche porta alle estreme conse-guenze tutto lo sviluppo della riflessione filosofica iniziata in Grecia. Nietzsche nonostante appaia come il grande dissacratore, demistificatore della cultura occidentale, ne è, bellamente, il suo rappre-sentante più genuino. Quell’uomo misura di tutte le cose, che pure Protagora, aveva pensato, ora as-sume la figurazione della volontà di potenza, trionfo del soggettivismo che si concretizza nella tecnica che permette il dominio incondizionato sul mondo.
Nietzsche dunque porta all’estremo l’oblio dell’Essere! Non rimane, per Heidegger, che colmare la dif-ferenza ontologica tra Essere e ente con un superamento della normale concezione della metafisica ponendo una domanda post-metafisica sull’Essere.
Essere, uomo, evento
Secondo Heidegger lo stesso termine Essere è ormai fuorviante dato che la metafisica lo ha logorato nel suo errare verso l’ente. D’altra parte pure la nozione di differenza ontologica sembra rimanere im-pigliato in una dimensione ancora metafisica così Heidegger prova a definire il concetto di Essere at-traverso il poetico-evocativo, un modo allusivo, e perciò anche ambiguo, di concetti-metafore: Li-chtung, Ereignis.
Innanzitutto, l’Essere non è ne Dio - delle religioni o dei filosofi - ne il fondamento del mondo. L’Essere non crea il mondo nel senso biblico, né lo plasma come vorrebbe Platone.
L’Essere non è un ente, ma ciò che entifica l’ente, cioè ciò che lo rende visibile: Heidegger lo defini-sce con il termine “radura” (Lichtung). L’uomo non può capire né le cose né se stesso se non all’interno della comprensione dell’essere: solo attraverso la comprensione del tutto è possibile una qualche comprensione della parte.
L'Essere - dice Heidegger - è simile a una foresta buia e intricata, dentro la quale si è costretti a vagare lungo i suoi sentieri senza poterla cogliere in maniera oggettiva e distaccata. A tratti, comunque, si arri-va a un diradamento, una “radura” (Lichtung) che consente di averne una visuale più ampia pur dal suo interno.
L’Essere si esprime attraverso il linguaggio ed è un evento (Ereignis) che si dà attraverso il destino, di volta in volta differente attraverso parole chiavi:
C’è essere ogni volta soltanto in questa o quella impronta destinale: Phýsis [Natura], Lógos [Ragione], Ėn [Uno], Idéa, Enérgheia [Atto], sostanzialità, oggettività, soggettività, volontà di potenza, volontà di volontà. (Identità e differenza, in Aut-aut)
Da ciò nasce la connessione tra essere e tempo. L’Essere è tempo!
L’essere, in quanto evento, rivela e nasconde sé stesso, in quanto si mostra in maniera tangibile, ma allo stesso tempo esclude tutte le sue altre possibili manifestazioni.
L’evento apre e istituisce le epoche, mondi, culture.
Infine, uomo ed essere sono correlati in maniera inscindibile, anzi sono coessenziali. L’uomo appar-tiene all’essere ma l’essere non si da senza l’uomo: “L’essere ha bisogno dell’uomo per la sua rivela-zione, custodia e configurazione.” (Ormai solo un Dio ci può salvare). Questa coappartenenza Hei-degger la chiama Evento (Ereignis). L’essere è, dunque, Ereignis!
La centralità dell’essere
Questo riposizionamento heideggeriano sull’Essere mette in evidenza sia il senso del suo antiumani-smo che l’antiesistenzialismo proprio comprimendo il controllo dell’uomo come progetto libero e au-tonomo. Con la Kehre si assiste ad un passaggio dall’antropocentrismo di Essere e tempo ad un’analisi imperniata sull’Essere. Per Sartre l’esistenza concreta precede l’essenza e la determina. Si delinea una distanza siderale con l’esistenzialismo di Sartre, il quale agiva entro “un piano dove vi sono soltanto gli uomini” (Lettera sull’umanesimo).
Heidegger arriva a definire l’uomo non come “padrone dell’ente”, ma piuttosto come “pastore dell’essere”, che non ha più alcuna indipendenza.
L’uomo non è più padrone dell’ente né decide o controlla l’Essere:
l’uomo è piuttosto gettato dall’essere stesso nella verità dell’essere, in modo che, così esistendo, custo-disca la verità dell’essere, affinchè nella luce dell’essere l’ente appaia come quell’ente che è. Se e come esso appaia […] non è l’uomo a deciderlo. L’avvento dell’ente riposa nel destino dell’essere. (Lettera sull’umanismo)
Da ciò deriva che anche il progetto dell’uomo non è più espressione dell’attività umana, ma piuttosto una manifestazione dell’Essere, così come la storia, la quale si trasfigura in storia dell’essere diventa destino (Geschick).
Le manifestazioni particolari dell’uomo, come ad esempio l’arte, o lo stesso linguaggio, diventano un risultato dell’Essere: la prima è messa in opera della verità, la quale agisce, in effetti, indipendente-mente dalla volontà dell’artista, mentre il secondo non è più uno strumento dell’uomo, ma è piuttosto esso stesso ad esprimersi: “Chi parla, nel linguaggio, non è l’uomo, ma il linguaggio stesso”.
E’ la decentralizzazione del ruolo umano ancora più evidente quando Heidegger afferma che l’uomo, sì, esiste, ma in orizzonti storico-culturali che precedono la sua progettualità cosciente.
In base a questa posizione sull’essere, l’esistenzialismo viene quindi accusato di essere una filosofia antropologica, umanistica, “dimentica del fatto che quello che conta è l’Essere, non l’uomo” (Lettera sull’umanismo).
Tuttavia, secondo Heidegger, ciò non significa sminuire l’uomo, ma anzi ritrovare il suo vero valore: la sua dignità di fondo non è più nel suo supposto dominio tecnico che, al contrario lo caratterizza in quanto ente, ma piuttosto nel suo ruolo di ontologica custodia dell’essere e della sua verità: pastore!
L’uomo è governato dunque, dal destino. Tuttavia egli non è un servo passivo ma un ascoltante che si pone in ascolto dell’essere e ne coglie il suo disvelamento, le opportunità del suo darsi.
L’uomo diventa libero solo nella misura in cui appartiene all’ambito del destino e così diventa un ascoltan-te, non però servo. (La questione della tecnica, in Saggi e discorsi)
Arte, linguaggio, poesia
- Arte. In questa riflessione sull’essere, l’arte si configura come il “porsi-in-opera-della-verità”, ov-vero la verità dell’ente, che mostra il significato autentico delle cose.
Celebre è l’esempio con il quale il filosofo espone questa tesi: riferendosi al famoso “Paio di scarpe” di Van Gogh, Heidegger ne fa un’analisi, definendolo come l’“aprimento”, il disvelamento di ciò che un mezzo della vita quotidiana è nella sua verità più profonda. L’arte non riproduce, ma istituisce la verità stessa, diventando in ultima analisi automanifestazione dell’essere.
- Linguaggio. Per Heidegger il linguaggio non è una cosa tra le altre ma ha un ruolo fondamentale fino a definire l’uomo come tale “in quanto parla”, poiché “Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Par-liamo sempre, anche quando non proferiamo parola.”
D’altronde, non esiste nessuna possibilità di aprire mondi, di darsi Lichtung senza che vi sia anche un evento linguistico, nel senso che solo attraverso il linguaggio si può manifestare una interazione tra gli enti:
Là dove non ha luogo linguaggio di sorta, come nell’essere della pietra, della pianta e dell’animale, non ha neppure luogo alcun aprimento dell’ente. (Sentieri interrotti)
Per questo il linguaggio diventa la “casa dell’essere”, poiché delinea l’ambito entro cui le cose acqui-stano significato e vengono all’essere. Il linguaggio è la dimora dell’essere, in esso abita l’uomo!
- Poesia. L’espressione più alta del linguaggio che ne rivela nel contempo l’impossibilità di ridurlo a mero strumento, è la poesia.
La poesia è la vera automanifestazione dell’essere: “Il destino del mondo si annuncia nella poesia”. La poesia è quel luogo privilegiato in cui l’essere, che sempre nella storia si ritrae, nasconde, si mostra in maniera imperfetta, oscura, si mostra a tratti nella luce, traluce.
Per questo i poeti assumono un’importanza fondamentale, in quanto forniscono a un popolo la sua identità, i suoi costumi e le sue usanze.
“La poesia è il linguaggio originario di un popolo, è il fondamento che regge la storia” (Hölderlin e l’essenza della poesia): ciò significa, in altre parole, che Heidegger rifiuta un modello storicistico, in quanto è l’arte, e quindi la poesia, a plasmare un’epoca storica, e non viceversa.
Inoltre, solo attraverso la poesia l’uomo può concretamente avvicinarsi all’essere, poiché “i pensatori e i poeti sono i custodi della dimora dell’essere.”
Perciò la poesia si identifica col pensiero, il pensare diventa poetare, ed il poetare pensare: “Pensiero e poesia si coappartengono.”
Nella sua ricerca della verità dell’essere attraverso la voce dei poeti, Heidegger ritrova la figura del poeta tedesco Hölderlin, che viene considerato come il vero interprete della modernità.
Se Nietzsche ha svelato l’arcano del nichilismo rimanendone tuttavia all’interno, Hölderlin, secondo Heidegger, va oltre il nichilismo, anticipando una età nuova:
la destinazione storica della filosofia culmina nella conoscenza della necessità di procurare udienza alla parola di Hölderlin. (Perché i poeti?)
Ora, dato che il linguaggio è la “casa dell’essere”, il quadro all’interno del quale le cose vengono all’essere e acquistano significato, l’ontologia diventa ermeneutica (interpretazione di parole, discor-si) e l’etimologia diventa un modo di comprendere la storia dell’essere.
Se le cose sono nel linguaggio e come linguaggio bisogna ascoltare il linguaggio.
La tecnica
In una serie di conferenze del 1949 Heidegger si occupa in maniera specifica della tecnica, poi edite con il titolo La questione della tecnica. La tecnica è per Heidegger la completa realizzazione della me-tafisica, la quale si manifesta a livello globale. La tecnica è il fenomeno che definisce la civiltà con-temporanea!
La riflessione heideggeriana non è tesa alla tecnica in quanto manifestazione tecnica, quanto sull’essenza della tecnica, dunque la sua è una impostazione non tecnica dell’essenza non tecnica della tecnica.
La tecnica non si identifica con l’essenza della tecnica […] l’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecni-co. (La questione della tecnica)
Porre il problema dell’essenza significa porre la domanda: Che cos’è la tecnica?
Comunemente la definizione strumentale della tecnica è che è un’attività umana, un mezzo in vista di fini. Insomma, la tecnica è un puro mezzo. Questa definizione, dice Heidegger, è esatta, ma non ne-cessariamente vera!
La definizione della tecnica come semplice mezzo fa si che l’uomo sia il soggetto di questo rapporto, che la tecnica sia pensata come a disposizione e controllata dall’uomo. Ma se così non fosse? Cosa ne sarà della volontà di dominare la tecnica?
L’elaborazione heideggeriana a questo punto riflettendo sui concetti di mezzo e fine ne mette in evi-denza il rapporto di causalità tra essi analizzando i quattro tipi di causa che la storia della metafisica ha sviscerato a partire da Aristotele. Le quattro cause interrelate tra loro fanno avvenire nella presenza ciò che non è ancora presente. Insomma portano ciò che è presenza all’apparire. Platone nel Simposio di-ceva: “Ogni far avvenire di ciò che – qualunque cosa sia – dalla non presenza passa e si avanza nella presenza è produzione”. Bene! Le quattro cause sono unite da un portare, da un far uscire le cose allo scoperto, da un disvelare: dal buio alla luce. La produzione è allora quella modalità che porta il nasco-sto nella disvelatezza ovvero proprio al senso greco del termine alétheia.
La tecnica, dunque, è un “modo del disvelamento”, ovvero un processo che rende manifeste cose che prima non erano tali: che porta alla luce, alla verità, ciò che prima era nel buio. Ciò che contraddistin-gue la tecnica moderna è che il disvelamento è una pro-vocazione (Herausforden) nel senso che si pretende “alla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata” (La questione della tecnica) mentre la tecnica antica non era in grado di accumulare alcunché.
Per Heidegger la techne greca è ciò che l’artigiano, l’artista produce, il sapere incarnato in questo fare. La techne greca è dunque poiesis! La techne greca è un portare alla luce ciò che non si produce da sé ciò che non viene alla luce dalla physei da natura. La tecnica moderna non è un produrre come poie-sis, ma un provocare un trarre dalla natura energia che possa essere accumulata. In ciò la natura viene disvelata come fondo.
Se la tecnica stessa, infatti, veniva intesa dai greci come una “pro-duzione”, ossia un processo che fa-voriva l’opera della natura senza stravolgerla, adesso la pro-vocazione moderna non fa altro che ac-cumulare l’energia nascosta della natura, metterla allo scoperto, trasformarla e porla a disposizione dell’uomo seguendo il principio della massima utilizzazione ed il minimo costo.
Il disvelamento che governa la tecnica moderna […] non si dispiega in un pro-durre nel senso della poie-sis. Il disvelamento che vige nella tecnica moderna è una pro-vocazione la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata. Ma questo non vale anche per l’antico mulino a vento? No. Le sue ali girano sì spinte dal vento, e rimangono dipendenti dal suo sof-fio. Ma il mulino a vento non ci mette a disposizione le energie delle correnti aeree perché le accumu-liamo.
All’opposto, una determinata regione viene pro-vocata a fornire all’attività estrattiva carbone e minerali. La terra si disvela ora come bacino carbonifero, il suolo come riserva di minerali. In modo diverso appa-re il terreno che un contadino coltivava, quando coltivare voleva ancora dire accudire e curare. […] L’agricoltura è diventata industria meccanizzata dell’alimentazione. (La questione della tecnica)
L’energia prende la forma di un fondo (Bestand) in cui tutte le cose trovano la loro precisa collocazio-ne, trasmutando da semplici oggetti in riserve di energia: così come l’aria non è più vento ma fonte di ossigeno, il suolo non è più fertilità ma agricoltura programmata, e così via. La natura è un fondo a disposizione! E’ chiaro che tutte le cose del fondo ci sono ormai di fronte non più come ‘oggetti’, ma come fondo, appunto, per essere impiegato, pronto per l’impiego.
L’essenza della tecnica moderna viene indicata da Heidegger con il termine “Gestell”, dal tedesco “Ge”,“tutto”, e dal verbo “Stellen”, “porre”. Perciò, il Gestell rappresenta, in altre parole, la totalità del porre tecnico. (Gestell è tradotto da F. Volpi con “impianto” e da Vattimo con “im-posizione”)
Chi compie il richiedere provocante? L’uomo? No! Il Gestell, l’impianto, l’intelaiatura che non è nulla di tecnico, ma è il modo in cui si disvela il mondo come fondo. Ciò avviene non senza l’uomo ma non ad opera sua. Esso è destino, Geschick!
Questa totalità assume le sembianze di un gigantesco strumento al servizio della volontà di potenza, la quale domina l’uomo nella misura in cui egli non si accontenta di manipolare le cose, ma anzi da questa stessa manipolazione trae sollecitazione a nuove prestazioni, in un circolo senza fine.
Per questo motivo, la tecnica non dipende dall’uomo, ma piuttosto dall’essere e dal suo destino.
Da questo rifiuto di una visione antropologica della tecnica nasce la considerazione che l’uomo pro-voca la realtà, riducendola a fondo, poiché è esso stesso pro-vocato, in quanto si trova a vivere nello specifico e storico modo del disvelamento che è proprio il Gestell.
E’ l’uomo che pro-voca la natura ma…
Ma sulla disvelatezza entro la quale di volta in volta il reale si mostra o si sottrae, l’uomo non ha potere. (La questione della tecnica)
Dunque, dove si annida il pericolo? Dove il precipizio?
Nella perdita dell’essenza dell’uomo. La modalità della tecnica dissolve il mondo come ‘oggetti’ per riporlo nel fondo. Ciò fa si che l’uomo si trovi senza mondo, senza ‘oggetti’, cioè solo come impiegan-te, funzionario che amministra un fondo.
Questo pone l’uomo in una situazione di pericolo, poiché il dominio incontrollato della tecnica può portare allo smarrimento della sua essenza; pericolo di cui quasi non si rende conto, in quanto forte-mente convinto del suo primato sulla tecnica:
quando è sotto questa minaccia, l’uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si viene diffondendo l’apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell’uomo. Questa apparenza fa maturare un’ulteriore ingannevole illusione per la quale sembra che l’uomo, dovunque, non incontri più altri che sé stesso. In realtà tuttavia, proprio sé stesso l’uomo di oggi non incontra più in alcun luogo; non incontra più, cioè, la propria essenza. (La questione della tecnica)
Ecco dove si annida il precipizio: nella perdita della essenza della verità! La tecnica è solo un modo destinale del disvelamento. L’uomo non comprende che il Gestell è solo una modalità del disvelamen-to dell’essere, ovvero la sua modalità nichilistica. Anzi, la tecnica non è altro che l’essere disvelato in un ambito totalmente nichilistico.
In altre parole, la tecnica coincide metafisicamente con il nichilismo compiuto, l’estremo oblio dell’essere che è caratterizzato da un totale dominio della volontà di potenza. Tale modalità si è confi-gurata come prevalente sin da Platone, in un processo con il quale, secondo il filosofo Franco Volpi, “si è arrivati alla realizzazione essenziale del padroneggiamento conoscitivo ed operativo dell’ente da parte dell’uomo pensato come soggetto-padrone, e quindi alla piena dimenticanza dell’essere.”
Tuttavia, la tecnica, in quanto pericolo supremo, contiene in sé stessa anche una suprema possibilità di salvezza. Essa è quindi, secondo Heidegger, un “Giano bifronte”, poiché se da un lato è dimensione nichilista, dall’altro contiene la possibilità di un disvelamento più originario dell’essere, in grado di far spazio alla verità: nella tecnica, a tratti, attraverso fugacissime intuizioni si può scorgere “un primo in-calzante lampeggiare dell’Evento”, ossia i segni dell’essenza post-metafisica dell’essere. Il Gestell è quindi “il negativo fotografico dell’evento.”
In effetti per Heidegger la tecnica ha un duplice carattere: a) annulla la differenza tra essere e ente al massimo grado. Potenziando al massimo grado lo sfruttamento indiscriminato dell’ente conclude la storia della metafisica; b) libera, perciò stesso, la possibilità che la differenza ontologica tra essere e ente sia pensata nella sua autenticità. Svela, così, l’oblio dell’essere e prepara la strada a un pensiero post-metafisico. Nella notte buia e senza stelle, senza dèi e senza valori, proprio la tecnica prepara un’altra aurora.
Tuttavia, nonostante l’uomo possa approfondire filosoficamente la tecnica, egli non ha alcun potere su di essa. Infatti, poiché fa capo all’essere, essa sfugge alla progettualità dell’uomo.
La tecnica si manifesta, secondo Heidegger, nelle principali dottrine politiche del Novecento, ovvero il comunismo, il nazismo, il fascismo e democrazia “mondiale”: queste non sono altro che manifesta-zioni apparentemente opposte dell’organizzazione tecnica del mondo che manipola le cose e sfrutta la terra, all’insegna del consumismo sfrenato.
La fine della filosofia e il compito del pensiero
La fine della metafisica che ha obliato l’essere coincide, secondo Heidegger, con la fine della filosofia stessa:
Il pensiero a venire non è più filosofia, perché esso pensa in modo più originario della metafisica, termi-ne che indica la stessa identica cosa. (Lettera sull’umanesimo)
La filosofia non ha più niente da dire; non può più dire niente: perdiamo tempo. La filosofia è finita! E’ finita perché ha assolto al suo compito; ha realizzato il suo progetto cioè la metafisica. Cosa pro-nuncia fin dall’inizio? Chiama l’Essere ma chiede l’ente. Il filosofo è il competente in enti e a lui si af-fida ad es. il governo della polis, ecc. Fin dall’inizio la filosofia chiede l’essere dell’ente, cioè il prin-cipio e la causa dell’ente. Chiede la causa che produce l’ente nella sua rappresentabilità.
La filosofia interrogando l’essere come ente ha finito per dileguarsi nelle varie scienze particolari.
La filosofia si dissolve in scienze autonome: la logistica, la semantica, la psicologia, la sociologia, l’antropologia culturale, la politologia, la poetologia, la tecnologia. […] La nuova scienza che unifica […] tutte le varie scienze si chiama cibernetica. (La questione della determinazione della ‘cosa’ del pensiero)
La filosofia diventa scienza. Cos’è la scienza se non la scienza dell’ente. “La scienza non pensa” dirà Heidegger, non pensa l’essere, ma l’ente. La scienza moderna è impegnata a calcolare la natura per renderla fondo. La scienza è impegnata altresì nelle scienze umane a rendere l’uomo calcolabile. La scienza frequenta la stessa domanda della metafisica. Meglio, è l’ultima parola della metafisica. La scienza diventa cibernetica scienza dell’informazione. Anche il domandante (l’uomo) è ridotto a ente: informazione cibernetica, ridotto ad algoritmico. La filosofia scompare nelle scienze umane: psicolo-gia, neurologia, ecc. Lo scienziato, in effetti non si occupa più dell’essere, deve far uscire dalla porta tutte le questioni dei fondamenti e deve far entrare tutte le questioni di metodo. La scienza è protesa a fare dell’ente una quantità calcolabile di informazioni. La scienza non parla di essere ma di metodo.
E’ stato un lungo cammino quello della storia dell’Occidente che è storia della metafisica occidentale. Un cammino che è partito dalla Grecia e si è articolato nelle varie figure o epoche: idea platonica, so-stanza aristotelica, cogito cartesiano, spirito assoluto hegeliano, volontà di potenza nietzschiana, tecni-ca.
Siamo arrivati fin qui perché fin dall’inizio la filosofia, forse, non era così pura come andava sbandie-rando: l’uomo non è mai stato un occhio puro sul mondo! Fin dall’inizio la filosofia andava predican-do il sapore del sapere ma nascondeva – anche a se stessa – le mire sull’ente. Fin dall’inizio l’amore per il sapere disinteressato nascondeva ben altri fini. Come posso impadronirmi dell’ente? Era fin dall’inizio volontà di potenza. Per intenderci: la voglia di verità si presenta fin dall’inizio come la vo-glia di fare, di produrre l’ente. Per spingere un po’ oltre la metafora potremmo dire che la filosofia progetta di produrre l’ente al posto di Dio. Oggi la filosofia ha assolto il suo compito nella scienza che è produzione dell’ente senza Dio.
Cosa abbiamo perso, dove ci siamo smarriti?
Eppure i greci dissero la parola: alétheia! Ma non la intesero, non la videro, la dislocarono sull’ente. Già con Platone alétheia veniva tradotta con ‘adeguamento’, ‘corrispondenza’ tra realtà e intelletto e Agostino definitivamente la sancisce come adaequatio rei et intellectus. Heidegger pensa, in un primo tempo, che forse il più antico Omero… poi ci ripensa… nemmeno Omero poteva intenderla perché usa alétheia già come ‘esattezza’ del discorso. Fatto è che alétheia nemmeno è l’originario! Alétheia è già la preoccupazione dell’uomo nel mondo che è volontà di dominazione dell’ente nella sua semplice presenza del suo essere: riduzione dell’essere a fondamento empirico della cosa che ho davanti, l’ente.
Non è certo demerito dei greci non averla intesa. Non siamo arrivati fin qui per un errore teoretico di qualche filosofo come se la storia dell’essere potesse incrinarsi o prendere una strada per una formu-lazione filosofica inesatta, sbagliata.
La storia della metafisica non è un errore logico e tuttavia è un errore e un errare! Un errore giacchè abbiamo confuso l’essere con l’ente, un errare perché ci siamo imbattuti nelle varie epoche della meta-fisica per addivenire alla conclusione che la strada ancorchè necessaria, non è quella giusta. La metafi-sica, quindi, non è un “errore” dell’uomo, sempre abbacinato dall’ente: la “rovina” dell’essere è parte dell’essenza stessa dell’essere; semmai, il cammino metafisico è un errore necessario. L’errare, il per-dersi era ed è necessario!
La filosofia d’ora in avanti può essere solo una filosofia epigonale che si esaurisce nel mero studio del passato.
La fine della filosofia prelude ad un tempo in cui non più il pensiero sull’ente, ma sull’essere prende il sopravvento; un pensiero che ponga il problema dell’essere come essere, mai come ente. Dobbiamo lasciarci alle spalle il modo di procedere della filosofia e tutto il suo apparato concettuale. Questo pen-siero post-filosofico, post-metafisico è diametralmente opposto anche al pensiero scientifico come pensiero calcolante il cui scopo è l’ente.
E’ possibile riconsiderare l’essere a partire da un salto che abbandoni il Lógos così come è stato pensa-to fino ad oggi, che abbandoni la concettualità logica e si abbandoni al pensare e poetare: pensare-poetare e poetare-pensare i cui paradigmi possono essere i greci antichi o Hölderlin per la modernità.
Quando supereremo la configurazione tecnica dell’essere?
Come e quando sia destino che accada, nessuno lo sa. (La svolta)
Come possiamo superare l’epoca della tecnica e del nichilismo?
Superare il pensiero metafisico, accedere al pensiero post-metafisico non è opera dell’uomo, non è un suo progetto, qualcosa che accade a partire dall’uomo ma dall’essere stesso.
Superare e voler superare il nichilismo […] significherebbe che l’uomo va da sé contro l’essere stesso nel suo rimanere assente. Ma chi, o che cosa, sarebbe mai abbastanza potente da andare contro l’essere stesso […] e da portarlo a sottomettersi all’uomo? (Nietzsche)
Cosa rimane da fare all’uomo?
L’uomo ridotto a fondo non è mai solo fondo, egli è tramite attivo dello svolgersi dell’essere ma non padrone.
All’uomo non rimane che attendere, condurre un’attesa nutrita di pensiero, poiché nella stessa es-senza di uomo vi è la sua condizione di “attendente, che attende l’essere in modo pensante”, mantene-re vivo il problema dell’essere! Metterci all’ascolto!
Non ha più senso pensare che l’uomo sia capace di auto salvarsi, che abbia nelle sue mani la possibili-tà di salvarsi o di perdersi. C’è qualcosa che sfugge, che si sottrae, a cui l’uomo può solo adeguarsi cioè l’Essere.
Cosa possiamo fare?
Il problema umano non ha una soluzione umana! L’antropocentrismo è solo un capitolo nella storia della terra.
Ormai solo un solo un Dio può salvarci!
E ciò a significare, non una conversione religiosa, o un affidarsi alla volontà di un Dio, quanto il ri-conoscere l’angusto spazio di manovra dell’uomo all’interno dell’Essere; la coscienza della finitudine e dei limiti umani.
CONCLUSIONI
La figura di Heidegger è notevole nel panorama filosofico del Novecento e ha diversamente animato la riflessione filosofica sia sull’esistenzialismo che sulla essenza della tecnica.
Lo stile mistico-mitologico, manieristico, l’allusività poetica hanno fatto pensare ad Heidegger come ad un parolaio, un pifferaio magico anche a studiosi avvezzi ad aspre asperità linguistiche.
In ogni caso Heidegger fornisce con la sua ricerca filosofica un intero tratto del volto della filosofia che partendo dalla impostazione esistenziale e dalla scelta ne registra l’inefficacia rivelando un capo-volgimento dei mezzi in fini della storia dell’Occidente.
Al di là delle discussioni, pur fruttuose, sul primo e sul secondo Heidegger ci sembra interessante so-prattutto questo cammino che dall’individuo come progetto approda alla scelta che non da spazio più ad alcuna soluzione umana ma al destino.
- Ambiguità di fondo
Vero è che rimane una ambiguità di fondo nel pensiero heideggeriano a proposito del superamento della metafisica e specificatamente dell’epoca della tecnica.
Da una parte si sostiene che l’essere non è mai afferrabile giacché essere è tempo; dall’altro si ipotizza una nuova epoca, post-metafisica, che, saltando l’oblio dell’essere, ci porta all’essere come originarie-tà: un ritorno all’essere dopo esserci persi.
Da una parte sembra che possiamo afferrare l’essere attraverso un linguaggio poetico-evocativo, dall’altra si suggerisce che l’unica possibilità che abbiamo, ormai, è ‘rammemorante’ e non possiamo uscire, come uomini, da questa epoca della tecnica.
Questa oscillazione ha dato vita ad una interpretazione di ‘destra’ che vede in Heidegger l’alfiere di un superamento del nichilismo per la riproposizione di un essere forte.
L’interpretazione di sinistra di Heidegger, invece, è una interpretazione che insiste sulla impossibilità di un essere “presenziale” che si da una volta per tutte: un essere pensato nei termini della metafisica tra-dizionale. Insomma, si pone l’accento sulla equazione heideggeriana di essere è tempo nel senso della storicità dell’essere.
In effetti per Heidegger l’essere, da Parmenide a Hegel e fino a Nietzsche compreso, è pensato come “presenzialità”, cioè come dato oggettivo, fisso e dunque determinabile una volta per tutte e non come esistenza.
Per Platone c’è conoscenza solo se ciò che è conosciuto non diviene, ma è.
Concepito in tal modo l’essere (cioè come presenza oggettiva), la metafisica finisce col cancellare il divenire storico.
- Filosofia irrazionalista
La filosofia di Heidegger, comunque la si voglia interpretare, è una filosofia sostanzialmente irraziona-lista e in ciò segue quella linea che dopo Hegel viene avanzando con Kierkegaard, Schopenhauer, Nie-tzsche. Questa impostazione irrazionalista è presente in Heidegger, diversamente declinata, sia in Esse-re e tempo che negli ultimi scritti.
Il pensiero irrazionalista si presenta come un pensiero che non trova più nel Lógos, nella ragione, nell’apparato logico concettuale una strumentazione adeguata a cogliere la realtà del mondo. Il cardine di tale impostazione si fortifica attorno alla svalutazione della ragione, all’accettazione acritica della intuizione che diventa la lente attraverso la quale ‘vedere’ ciò a cui la ragione è cieca.
La filosofia heideggeriana si qualifica chiaramente come un’abdicazione della ragione occidentale in linea, dicevamo, con il pensiero irrazionalista. La ragione, il pensiero sono chiaramente da Heidegger dichiarati inidonei, inefficienti, incapaci di comprendere la realtà del mondo: l’essere.
L’Essere, d’altra parte, non è determinabile se non attraverso una fugacissima intuizione. L’Essere si nasconde e si dà, ma non è possibile determinare l’Essere con la forza del pensiero.
Bisogna trasformare il pensiero: lasciar cadere il pensiero. Lasciar cadere il pensiero logico-razionale a favore di un sentire che è originarietà che è prima o oltre la razionalità.
E’ evidente che questa impostazione anti-razionalista si esponga ad infiltrazioni religiose, mistiche, ecc. nonostante Heidegger non arrivi affatto ad una mistica e si ponga sostanzialmente fuori dal pro-blema religioso (A. Masullo).
La filosofia di Heidegger ha trovato una sua conclusione in una pesante metafisica di stampo neo-platonico. L’essere in Heidegger è assolutamente trascendente.
L’essere si mostra, traluce nell’arte, nella poesia. Non ci rimane che un pensiero poetante e un poetare pensieroso!
In questo senso Heidegger pensa alla riflessione filosofica di Marx come alla vecchia metafisica anco-ra invischiato in quella lunga tradizione che vede nel Lógos, razionale, illuminista, lo strumento per la comprensione del sociale e del cambiamento. In questo senso Heidegger pensa a Marx come figlio di Platone!
La logica tradizionale non ci porta da nessuna parte, non ci porta a nessun disvelamento.
Bene! Quale sarà allora il nuovo strumento?
Una nuova logica individuata nel linguaggio mistico-poetico. Con questo nuovo strumento possiamo approssimare la verità dell’essere.
Il neo-positivista R. Carnap in un celebre saggio del 1931 (Superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio), sottoporrà a dura critica il testo di Heidegger Che cosa è la metafisica? e i suoi “pseudo enunciati senza senso” del procedere metafisico. Secondo Carnap, in ultima istanza, è vero che la metafisica risulta incompatibile con la logica, ma da ciò non si deduce l’insufficienza della logica quanto l’irrimediabile inconsistenza della metafisica.
- Pensiero idealistico
P. Chiodi, in L’ultimo Heidegger, ha acutamente rintracciato in Heidegger una forma di hegelismo ro-vesciato: allo sviluppo della autocoscienza hegeliana si sostituisce il nascondimento dell’essere; il fini-to, come nel sistema hegeliano, trova giustificazione e fondamento solo sotto l’ordine necessario dell’essere.
L’arguto parallelo di Chiodi ci spinge a mettere a nudo il procedimento idealistico di Heidegger. Se è vero che la metafisica classica pensa all’essere come presenzialità, rigido, stabile e fondamento assolu-to, in Heidegger l’essere è pura temporalità che apre alle diverse epoche della storia.
Tuttavia, l’essere heideggeriano è idealistico.
La storia umana ritorna idealisticamente ad essere scandita, nientemeno, che dalla storia della metafisi-ca e dai suoi concetti-chiave: l’idea platonica, la sostanza aristotelica, il cogito cartesiano, ecc.
Con Heidegger, come con Hegel, è possibile leggere la storia reale dell’Occidente, ma come sulla retina dell’occhio dove l’immagine si presenta capovolta. Abbiamo già visto Feuerbach e Marx smascherare questo incedere tipico che inverte i normali rapporti di predicazione dove la sovrastruttura culturale diventa fondamento!
Idealisticamente la storia dell’Occidente viene vista come oblio dell’essere, e dunque, erramento me-tafisico in cui gli uomini sono agiti piuttosto che attori. Questo erramento - ci informa Heidegger - era il destino dell’Occidente: il volere dell’essere, in ultima analisi! L’essere si auto-produce in figure epo-cali e l’oblio dell’essere, l’erramento, la storia dell’Occidente altro non è che sentiero destinale dell’essere: non all’uomo è data la possibilità di perdersi o salvarsi, ma allo sviluppo destinale dell’essere, appunto.
In ciò la distanza con il materialismo è abissale e si ritorna, volendo forzare un po’ la metafora, alle figure della Fenomenologia di hegeliana memoria. Se la storia reale informava, surrettiziamente, le fi-gure della coscienza, con l’epoca della “tecnica”, scopertamente, la figura metafisica prende i contorni ‘tecnicamente’ storici.
Se Marx aveva riportato la storia sui piedi, ai fondamenti materiali, ecco che Heidegger ci riporta di nuovo alle ‘figure’ dell’essere.
Il problema della tecnica, ad es. ci riporta di nuovo alle ‘figure’ dell’essere, che Heidegger imposta in termini squisitamente idealistici: l’essenza della tecnica che ovviamente non è una questione tecnica!
Indubbiamente gli va riconosciuto il merito di aver visto in questa figura il nuovo ambiente in cui si muove l’uomo, e le felici intuizioni sono innumerevoli, ma il tratto, quando si fa concreto, è distante dalla profondità ad es. dell’analisi marxiana del Capitale o dei Grundisse.
Heidegger registra in forma idealistica ciò che già Marx aveva registrato, e con ben altra profondità e coerenza, in forma materialistica: a) la presenza storica di un capovolgimento dei mezzi in fine; b) la compressione della scelta dell’uomo pensata come pura libertà.
- Filosofia reazionaria
L’essere, la realtà non si apre al Lógos!
La rinuncia al linguaggio logico-discorsivo fa tutt’uno con il sostenere l’inafferrabilità concettuale del mondo e ciò fa pendant con l’idea, in Heidegger, della irriformabilità dello status quo.
L’essere nelle sue figure, nelle sue epoche storiche vengono completamente canonizzate, sacralmente accettate e giustificate.
Quando dalla tecnica passeremo ad una epoca post-metafisica, non ci è dato sapere ne come, ne quando. In ciò è possibile scorgere il lato conservatore, reazionario della sua filosofia che infine, at-tende, è pensiero rammemorante!
Come l’irrazionalismo si traduca in filosofia conservatrice e reazionaria sarà Lukàcs con La distruzio-ne della ragione e poi Adorno con La dialettica del negativo a metterlo ben in evidenza.
BIBLIOGRAFIA
Opere di Heidegger
Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, 2011
Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, 1976
Opere su Heidegger
G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, 2010
U. Galimberti, Invito al pensiero di Heidegger, Mursia, 1986

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