Storia della filosofia moderna e contemporanea

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Storia della filosofia moderna e contemporanea

Storia della filosofia moderna e contemporanea
Anno Accademico: 2006-2007
Prof. Giuliano Campioni
Materiali didattici per il corso
La morale eroica (Carlyle ed Emerson) e la posizione critica di Nietzsche nello Zarathustra

IL SECOLO DEGLI “EROI”
Nelle Lezioni sulla filosofia della storia, Hegel ha instaurato uno stretto collegamento fra il cammino dello spirito e gli «individui cosmico-storici», cioè gli «eroi»: quelli che hanno «voluto e realizzato non un oggetto della loro fantasia od opinione, ma una realtà giusta e necessaria: quelli che sanno, avendone avuto la rivelazione nel loro intimo, quel che è ormai il portato del tempo e della necessità» . La figura dell’eroe si lega, nell’idealismo tedesco e in molti filoni del romanticismo, ad una forte teleologia. L’eroe cammina con Dio o con l’Idea, e rappresenta, spesso inconsapevolmente o contro il suo volere, lo spirito del popolo, portandone alla luce ciò che era latente possibilità. Thomas Carlyle pubblicherà nel 1841 la serie di fortunate conferenze su Il culto degli eroi e l’eroico nella storia. Varie tipologie — dal dio pagano Odino al poeta Dante, dal sacerdote Lutero al condottiero Cromwell — vengono presentate con una veemente oratoria dai toni fideistici e “fanatici”. La concezione idealistica viene qui accentuata fino a divenire una sorta di religione: l’eroe non è soltanto uno degli strumenti della realizzazione dell’Idea, ma il motore della storia che altro non è che la «biografia dei grandi uomini». La capacità visionaria dell’eroe ne fa essenzialmente un profeta capace di «discernere il cuore delle cose» e di affrontare con coraggio la verità in un mondo in cui prevale la convenzione. La singolare “filosofia degli abiti” dello scritto Sartor Resartus (1833-34) (“il sarto rattoppato”) afferma l’universale simbolismo della natura e della storia: l’abito che copre la nudità del corpo (del finito) mette in relazione finito e infinito. L’intero universo è «la veste temporale dell’Eterno [...] Tutto ciò che esiste nel dominio del Sensibile, tutto ciò che rappresenta lo Spirito allo Spirito, è propriamente un Abito, un Vestito completo, indossato, per un certo tempo, per essere indi subito smesso» . L’eroe è capace di liberarsi, di volta in volta, dalle convenzioni e finzioni (gli abiti comuni) per assumere altre vesti che siano simboli più appropriati della realtà divina. Quella di Carlyle non è una filosofia del “progresso” di cui fu aspro critico: la sua attenzione è rivolta invece alla “virtù” come espressione di una forza vitale superiore di cui l’eroe si fa interprete privilegiato. L’energia e il fuoco dell’entusiasmo sembrano appartenere però a un’epoca passata e contrastano con la meccanizzazione crescente del secolo, incapace di produrre nuova grandezza. Carlyle critica l’organizzazione sociale moderna, il caos atomistico provocato dallo sviluppo industriale e le soluzioni della democrazia e del liberalismo a cui contrappone il sogno reazionario della comunità medioevale felice sotto la guida e la protezione di individui eccezionali. Tale critica è sviluppata soprattutto in Passato e presente (1843).
Il culto degli eroi di Carlyle trova ampia risonanza nella cultura nordamericana, grazie all’opera di Ralph Waldo Emerson che nel 1830, durante un viaggio in Inghilterra, aveva conosciuto e apprezzato lo scrittore inglese fino a impegnarsi alla diffusione delle sue opere in America. In Emerson le tematiche carlyliane e, in particolare, la morale eroica intesa come concezione della vita improntata alla serietà e all’impegno, si fondono con le tematiche del trascendentalismo americano, di cui Emerson era l’esponente più rappresentativo.
Nel trascendentalismo confluivano aspetti religiosi e influssi del romanticismo inglese e tedesco, quali il senso mistico della natura di Samuel Taylor Coleridge, la simbiosi schellingiana tra uomo e natura, l’etica perfezionista e il soggettivismo di Fichte. Ne Gli uomini rappresentativi (1850) Emerson elabora il tema del valore dell’uomo, strettamente connesso con quello dell’energia creativa umana, nei termini di una esaltazione del genio, o del grande uomo, come espressione autentica dell’energia creatrice della natura e elemento di novità e di spinta nel cammino della storia. Alla critica pessimistica dei tempi moderni di Carlyle, Emerson tuttavia sostituisce un atteggiamento affermativo del progresso confidando nelle risorse umane e nel giovane vigore del continente americano. Il tema dell’eroe converge con la visione fondamentale di un energetismo e di un pampsichismo cosmico, in cui la natura si identifica con la luce divina. Ogni individuo diviene così ricettacolo ed espressione della grande anima universale, fondamento della sua grandezza. Per questa via Emerson giunge all’affermazione di una radicale autonomia etica: l’unica legge morale, per l’individuo, è quella dettata dalla propria luce interiore, nel rapporto diretto con la natura. Il grande uomo è colui che ignora le regole e il conformismo della società in cui vive, e, fedele alla sua luce interiore, si proclama legislatore di se stesso .
L’esaltazione dell’individualismo eroico attraversa la cultura americana della prima metà del XIX secolo e trova rispondenza nelle sue figure rappresentative, quali ad esempio Walt Whitman e Herman Melville. Sotto l’influenza di Emerson, i temi del grande uomo e della morale eroica riappaiono negli scritti di William James, ancora carichi del loro carattere romantico, ma rielaborati in chiave darwiniana e positivistica. Nel saggio I grandi uomini e il loro ambiente (1880), James in polemica con la sociologia spenceriana, indica nel grande uomo la «variazione casuale» nell’evoluzione della specie, che indirizza la storia umana in una direzione piuttosto che in un’altra. Come in Emerson, il grande uomo è colui che guida l’umanità catalizzando le energie disperse nella società. In James, tuttavia, la metafisica emersoniana viene sostituita dal naturalismo evoluzionista di tipo darwiniano, retto dalla nozione di casualità e da una concezione fisiologica che vede le superiori qualità del genio come la fortunata combinazione dei fattori psicogenetici cerebrali. I valori morali sono, per James, accidentali variazioni della specie che si sono affermate nel corso dell’evoluzione. Allo stesso modo la tensione individuale verso la realizzazione di ideali che è alla base della morale eroica di James, sono prodotti, che hanno la loro unica spiegazione, non sul piano della conservazione e dell’utilità, ma negli oscuri processi evolutivi della specie umana. L’eroe, sostiene James nel saggio Il filosofo morale e la vita morale , è chi abbandona l’«atteggiamento conciliante» nei confronti della vita e della società e mette a rischio la sua esistenza per realizzare i suoi ideali e valori, impegnandosi nella lotta contro il male, per un miglioramento del mondo. Questa scelta è la più alta forma di vita morale e al tempo stesso una scommessa vera e propria, il cui esito non è garantito da nessuna teleologia o metafisica.
L’Ottocento è l’epoca degli eroi e della loro celebrazione. Nella seconda metà del secolo l’eroe tuttavia perde il collegamento organico con la comunità, non anticipa o accelera lo sviluppo della storia, ma appare sempre più una forza di resistenza dell’individuo contro l’impetuoso affermarsi della società di massa. La solitudine antisociale del genio o dell’asceta schopenhaueriano esprime il carattere emblematico del distacco e della distanza, fondata metafisicamente, fra il popolo divenuto “massa” e l’eroe che non incarna più i valori del popolo, ma è il depositario privilegiato di una verità superiore inaccessibile alla massa.
Il contrasto fra l’individuo superiore e la massa assume forme e articolazioni differenti: dai puri eroi ariani di Arthur de Gobineau, creati dal crudo odio antidemocratico e dall’impotenza verso il mondo moderno, al dandy “sublime” di Charles Baudelaire, «ultimo bagliore di eroismo nei tempi della decadenza», dal déva dei Dialoghi filosofici di Ernest Renan , una sorta di tiranno positivista che domina col terrore il mondo in nome della scienza e per mezzo della tecnica, al «redentore» wagneriano che esercita un dominio attraverso il mito salvifico che unisce religione ed arte.
Molti temi presenti in Nietzsche (l’agonismo della inattualità, il superuomo, l’elemento aristocratico e così via) hanno portato spesso gli interpreti a ritenere che la sua sia essenzialmente una filosofia eroica e degli eroi. Ernst Bertram (un discepolo di Stefan George), nel suo volume su Nietzsche, volto a costruire l’estrema “mitizzazione” del filosofo e della sua vita, scrive: «Tutta la sua visione storica e l’intera sua filosofia della storia sono determinate dalla volontà di eroizzazione.[...] Ancora più di Carlyle, egli è il vero rappresentante di uno storicismo dettato dall’entusiasmo » . La cosa è ben più complessa e sfumata. Non c’è dubbio che Nietzsche si sia confrontato con le varie figure dell’eroismo e del culto degli eroi offerte dalla letteratura e dalla filosofia dell’epoca, e che lo sviluppo del suo pensiero attraversi una fase eroica. Ma l’approdo è consapevolmente ostile al mito dell’eroe, visto come espressione di debolezza romantica e di “fanatismo”: Nietzsche afferma più volte di essere «l’opposto di una natura eroica».

Gottfried Benn
Torino
« Cammino con le scarpe rotte»,
scrisse questo genio universale
nella sua ultima lettera - poi
lo portano a Jena - psichiatria.
Non posso comprarmi i libri,
li leggo nelle librerie:
appunti - poi a prender l'affettato: -
questi sono i giorni di Torino.
Mentre la nobile muffa d'Europa
di Pau, Bayreuth ed Epsom si nutriva,
lui abbracciava due ronzini,
finché il padrone non lo trasse a casa.

7. ZARATHUSTRA MAESTRO DELL’ETERNO RITORNO
Nell’estate del 1881 Nietzsche soggiorna per la prima volta a Sils-Maria, in alta Engadina. Tra le sue letture legate alle ricerche sulla morale, egli si imbatte nel volume La connessione di tutte le cose di Otto Caspari, uno scolaro di Hermann Rudolf Lotze, che aveva cercato di conciliare, in una concezione etica della realtà, darwinismo e metafisica idealistica. In particolare lo colpisce un brano in cui Caspari si opponeva all’idea, all’epoca assai diffusa, di una definitiva cessazione del movimento dell’universo, sia nella forma fisica della morte termica, sia in quella metafisica di uno stato finale del processo del mondo. Si tratta del dibattito sulla morte termica dell’universo e sulla dissipazione dell’energia collegato alla scoperta dei due principi della termodinamica. In Germania, filosofi positivisti e neokantiani come Wilhelm Wundt, Karl W. Nägeli, Friedrich Zöllner, Otto Liebmann, Kurt Lasswitz discutevano in quel periodo dell’estensione cosmologica di questi principi alla luce delle antinomie cosmologiche contenute nella Critica della ragion pura di Kant e anche Nietzsche ne aveva letto i testi.
Nelle pagine di Caspari Nietzsche trovava anche una critica del processo cosmico tracciato da Eduard von Hartmann nella sua Filosofia dell’inconscio. Il mondo, secondo Hartmann, non è altro che l’opera di una «essenza cieca e stolta» che, dopo aver dato origine al movimento, si accorge di aver fatto un passo falso e ritorna al nulla originario. Ma, come osservavano Otto Caspari e Eugen Dühring, non c’è nessuna garanzia che l’uno originario non ricominci di nuovo il processo del mondo, anzi «non è soltanto probabile, ma è certa la continuazione, dopo così infiniti passi falsi, dello stesso passo falso nel futuro infinito. Cioè attraverso il processo non si raggiungerebbe nessuna vera fine nel Nirvana, e alla stolta volontà del mondo accadrebbe come a Tantalo con la mela. Da ciò vediamo che questa teoria sul male del mondo è la più assurda, perché per avere tutto (attraverso l’eliminazione di ogni dispiacere, anche del più piccolo) getta via l’intero universo e non guadagna assolutamente niente» .
Inserendosi in questa discussione Nietzsche elabora la dottrina dell’eterno ritorno: la complessa presentazione di questo pensiero è consegnata a un quaderno dell’estate 1881, pubblicato in maniera integrale soltanto di recente, nell’edizione critica Colli-Montinari. Secondo Nietzsche, se il mondo è composto da un numero finito di elementi o centri di forza, deve in un tempo infinito ripetere le medesime combinazioni per un numero infinito di volte: «Quale che sia lo stato che questo mondo può raggiungere, deve averlo già raggiunto, e non una ma infinite volte. Così questo attimo: esso era già qui una volta e molte volte e parimenti ritornerà, tutte le forze distribuite esattamente come ora; lo stesso avviene per l’attimo che ha generato questo e per quello che sarà il figlio dell’attimo attuale. Uomo! la tua vita intera, come una clessidra, sarà di nuovo capovolta, e sempre di nuovo si svuoterà — un grande minuto di tempo frammezzo, finché tutte le condizioni dalle quali tu sei divenuto, nel corso circolare cosmico, si verificano di nuovo. E allora troverai di nuovo ogni dolore e ogni piacere e ogni amico e nemico e ogni speranza e ogni errore e ogni filo d’erba e ogni raggio di sole, la connessione totale di tutte le cose » . Questa concezione rappresenta il compimento del nichilismo, perché vanifica ogni possibilità teologica o teleologica: «l’esistenza, così com’è, senza senso e scopo, ma inevitabilmente ritornante, senza un finale nel nulla: “l’eterno ritorno”» . Non è più possibile dare un senso etico o di qualsiasi altro genere alla storia, e in generale alla vicenda dell’uomo su questa terra.
Ma come comunicare questa nuova dottrina, come fare in modo che essa penetri in profondità nella vita degli uomini e li trasformi, come ha fatto, con conseguenze antivitali, il dogma cristiano? A questo compito Nietzsche associa una nuova forma di comunicazione e un nuovo scritto: Così parlò Zarathustra. I concetti che troviamo in questo libro non differiscono molto da quelli che compaiono nei precedenti volumi di aforismi, tanto che Nietzsche, in una lettera, afferma di aver scritto «il commento prima del testo»; del resto i manoscritti documentano che le parabole di Zarathustra risultano assai spesso dalla condensazione di numerosi aforismi che Nietzsche aveva elaborato negli anni precedenti. In particolare c’è un rapporto stretto con lo spirito di guarigione e la nuova affermazione della vita presente ne La gaia scienza. Nel quarto libro (Sanctus Januarius) i due ultimi aforismi presentano l’ipotesi dell’eterno ritorno in forma di parabola (Il peso più grande) e annunciano l’avvento di Zarathustra (Incipit tragoedia). L’arte non è più un residuo del passato, una sopravvivenza di stati d’animo primitivi, ma si lega piuttosto alla scienza precorrendone o sviluppandone i risultati: «l’istinto poetico deve indovinare, non fantasticare, indovinare qualcosa di ignoto, partendo da elementi reali: ha bisogno della scienza, cioè della somma di ciò che è sicuro e verosimile, per poter poetare con questo materiale» .
Dopo aver pensato l’eterno ritorno, Nietzsche ritiene di dover ricorrere a una diversa arte della comunicazione che dia espressione e forza di persuasione a un’ipotesi scientifica. L’eterno ritorno, secondo Nietzsche, è la più scientifica delle ipotesi della fisica: «l”ipotesi è alla lunga più potente di qualunque fede» . Finché resta una mera ipotesi della scienza, l’eterno ritorno non interviene modificando la vita degli uomini, non permette di cambiare il senso comune avendo meno forza dei dogmi cristiani, che, seppur fondati su una serie di errori grossolani e falsificazioni morali nell’interpretazione della natura, sono ormai stati assimilati e costituiscono l’orizzonte all’interno del quale l’umanità dà senso alla sua storia. E’ necessario che la teoria sia “incorporata”: «deve infiltrarsi lentamente, intere generazioni debbono lavorare a essa e divenire fertili per essa — affinché diventi un grande albero che proietti la sua ombra su tutta l’umanità avvenire» .
Lo Zarathustra cerca di superare la difficoltà di esposizione di questa dottrina e, rivolgendosi “a tutti e nessuno”, vuol trovare nuovi interlocutori superando il linguaggio tecnico della filosofia. Così parlò Zarathustra — le cui prime tre parti furono pubblicate tra il 1883 e il 1884 — rappresenta per Nietzsche il «coronamento di sei anni di esercizio della libertà dello spirito» anche se la composizione delle singole parti richiese solo pochi giorni. Alcuni appunti sulla «teoria dello stile» che risalgono all’estate del 1882, mostrano la consapevolezza della necessità di «sedurre i sensi» perché sia colta la verità più astratta, l’attenzione di Nietzsche per il destinatario della comunicazione, per la forza del “gesto” che esprime la “ricchezza di vita”. Zarathustra porta alle estreme conseguenze il linguaggio simbolico, la volontà di far agire figure come personaggi concettuali. Questo tratto non era stato mai assente nelle precedenti opere di Nietzsche: alcuni momenti delle conferenze di Basilea e alcuni aforismi assumevano la forma dell’apologo, e nei frammenti postumi vi sono abbozzi di drammi — in particolare quello su Empedocle del 1871-72 — e di versi ditirambici. Per la figura di Zarathustra varie, puntuali suggestioni vengono da lontano (Hölderlin, Byron, Emerson, Hellwald): d’altra parte Nietzsche poteva trovare in più autori (da Carl Spitteler a Siegfried Lipiner) il modello di un poema allegorico che affrontasse temi contemporanei. Al di là del giudizio sul valore letterario di quest’opera, certamente il ruolo eccezionale che Nietzsche le ha attribuito e il tono di esaltazione con cui ne ha parlato in Ecce homo hanno contribuito alla creazione del mito di un testo che voleva essere distante da ogni “fede”: «Parlo come uno che ha avuto una rivelazione? Allora disprezzatemi e non datemi ascolto. — Siete ancora fatti in modo da aver bisogno di dèi? La vostra ragione non è ancora giunta a provare ripugnanza per un nutrimento così cattivo e a buon prezzo?» .
Zarathustra, il profeta persiano che predicò il contrasto cosmico tra i principi del bene e del male, torna tra gli uomini per sciogliere la vita all’innocenza attraverso il pensiero dell’eterno ritorno. La parodia giullaresca dei valori cristiani (e quindi anche dell’ideale ascetico) si accompagna alla proposta di un nuovo ascetismo visto non come valore in sé ma come uno strumento necessario di potenziamento e arricchimento. La stessa parabola Delle tre metamorfosi (il primo dei discorsi di Zarathustra) presenta come necessaria una ascesa per tre gradi nettamente separati: dall’accettazione di ogni peso gravoso come esperimento e prova di una forza che isola (il cammello che corre nel deserto) alla lotta per la libertà contro il costume rigido della comunità e i valori millenari (l’io voglio del leone lotta contro il tu devi), infine alla «innocenza e oblio» del fanciullo. La durezza, il ghiaccio, le alture, la solitudine, l’ascensione, la spelonca caratterizzano il cammino del creatore. La bella libertà è possibile per chi ha educato gli istinti: la ricchezza di energie non è più distruttiva, il gioco delle forze ha il suo ritmo e la distruzione del fanciullo è nel movimento per la ricomposizione. La lezione di Schiller, presente in larga misura nel giovane Nietzsche, permane sotterranea nella riproposizione di questa comunità estetica di uomini liberi.
Zarathustra inizialmente predica alla folla sul mercato. Si accorge che non sono queste le orecchie sensibili all’eterno ritorno. La folla del mercato vuole l’“ultimo uomo”, l’uomo della massa, schiavo del benessere, delle piccole virtù e della grande mediocrità che danno una buona coscienza e un buon sonno. Ma chi è l’ultimo uomo? Nel tratteggiare questa figura Nietzsche si riferisce a una corrente della riflessione morale del positivismo che aveva fondato l’etica sugli affetti simpatetici, sulla compassione e sull’amore del prossimo (John Stuart Mill, Auguste Comte, Alfred Fouillée, Jean-Marie Guyau) e che si congiungeva alle ricerche di etnologi e sociologi come Herbert Spencer e Alfred Espinas, secondo cui il singolo deve trovare la propria realizzazione «nel sentirsi un utile membro e strumento della totalità». Questa tendenza è tipica di una società mercantile, che per favorire lo sviluppo del commercio cerca di eliminare dalla vita ogni pericolosità. Il risultato non può essere che l’appiattimento generale, la formazione di un unico grande organismo omogeneo che raggiungerebbe quella fissità di istinti che caratterizza le maggior parte delle specie animali.
Nietzsche si pone in contrasto con le teorie morali a lui contemporanee elaborando un rapporto individuo-società che privilegia la formazione di individui autonomi attraverso la trasformazione e la dissoluzione di organismi comunitari: «Oggi i filosofi, partendo dallo spirito della funzione, riflettono su come trasformare l’umanità in un organismo — è l’opposto della mia tendenza: il numero maggiore possibile di organismi diversi e che si trasformano, i quali, giunti alla loro maturità e putrefazione, lasciano cadere il loro frutto: gli individui, dei quali certo la maggior parte perisce; ma solo i pochi contano» . Si prospettano quindi due movimenti opposti: uno di progressiva mediocrizzazione verso l’ultimo uomo, l’altro di ascesa verso il superuomo. Le nature superiori devono distaccarsi progressivamente dai valori gregari iniziando il percorso ascetico di creazione di sé. Zarathustra cessa di insegnare alla folla, parla ai propri discepoli per spingerli decisamente sulla via dell’autonomia: «si ripaga male un maestro se si rimane scolari» . Pur essendo «il maestro dell’eterno ritorno», Zarathustra deve predicare il superuomo, colui che è capace di “assimilare” l’eterno ritorno, la cui forza di affermazione tragica riesce a convivere con l’ipotesi più estrema del nichilismo e della mancanza di senso del mondo.
«Dio è morto!» L' annuncio fatto dall'"uomo folle" ne La gaia scienza irrompe drammaticamente per svelare la genesi del disordine, del caos. Vi era un alto e un basso, un centro e una periferia, un sole, un orizzonte determinato, una gerarchia e un senso dati: tutto ciò non è più. L'avvenimento ha come sfondo la vicenda cosmica: comporta l'oscuramento, lo sciogliersi della Terra dal vincolo di gravità, il suo raffreddarsi progressivo «via da tutti i soli» . La conseguenza è il senso di una fine assoluta: l'allusione va alle teorie cosmologiche che ponevano la morte termica dell'universo come necessaria, per progressiva degradazione dell'energia. Nietzsche vede e combatte in queste teorie il residuo di Dio.
Neppure gli “uomini superiori”, che provano disgusto nei confronti dei valori delle masse (e proprio questo sentimento li contraddistingue in quanto uomini superiori) riescono a fare a meno di un nuovo dio, cioè di un nuovo senso che sostituisca l’ideale cristiano. L'“ombra di Dio” permane anche dopo la sua morte e costituisce il pericolo maggiore e più insidioso per l'uomo superiore: nuove religioni senza Dio sostituiscono le vecchie religioni dogmatiche mantenendo la centralità dei valori dati. La nuova innocenza deve vincere anche queste ombre.
La morte di Dio e l'uomo superiore sono tra loro strettamente legati, come del resto l'eterno ritorno e il superuomo: l'uomo superiore — la sua sofferenza, il suo infrangersi, il suo spezzarsi — è un aspetto della grande crisi. L'uomo superiore non è la risposta adeguata: solo la sua sofferenza significa una resistenza contro l'“ultimo uomo”. Egli è condizionato fino in fondo dai vecchi valori (anche nell'estremo rifiuto o nel tentativo di capovolgimento) e soffre quindi per la loro crisi: in questo è un decadente.
Nietzsche analizza e combatte le multiformi espres¬sioni di una decadenza storicamente definita che ha le sue manifestazioni nell’esotismo, nel cosmopolitismo, nel culto del primitivo e dell'innocente, nella religione della sofferenza, nel tolstoismo, nel wa¬gnerismo e che esprime disagio e ri¬fiuto nei confronti dell’uomo “medio” e del suo progressivo “rimpicciolimento”. Molte maschere della decadenza si trovano rappresentate nelle figure simboliche e allegoriche dell’uomo su¬periore nella quarta parte dello Zarathustra. Tra questi troviamo il “mago” Wagner che rappresenta per Nietzsche la forma più completa e perciò più interessante di décadence. Più di Baudelaire e dei Goncourt, a cui viene avvicinato, Wagner è una lente di ingrandimento che permette al filosofo di conoscere i processi di disgregazione in atto (non solo nell’arte). Ne Il caso Wagner (1888) Nietzsche leggerà in chiave fisiologica la decadenza del musicista prendendo come modello i fortunati Saggi di psicologia contemporanea, (1883) di Paul Bourget. Il “Cagliostro” Wagner viene posto tra gli uomini superiori per la sincerità del suo naufragio, del suo spezzarsi.
Agli uomini superiori, a questi singoli sofferenti, Zarathustra deve rivolgere il suo messaggio. Per alcuni aspetti rappresentano frammenti verso una sintesi più completa, per altri aspetti sono stazioni precedenti dello stesso percorso di Nietzsche: il senso storico, l'estrema probità scientifica, il cosmopolitismo del “viandante”, l'illusione metafisica. Nietzsche ha dietro di sé e dentro di sé questo percorso fatto del superamento delle unilateralità. Il tenersi lontano dalla piazza del mercato, dall'istrionismo dei gesti, è comunque il presupposto comune: la sincerità verso se stessi e la propria sofferenza deve diventare sofferenza per l'uomo fino a desiderarne la fine. L'educazione degli uomini superiori culmina nel loro confronto con il “pensiero più grave”, la dottrina dell'eterno ritorno che ha, per Nietzsche, una funzione selettiva opposta a quella del darwinismo, che vede la vittoria del mediocre come più adatto alla vita. La capacità di assimilare il pensiero dell’eterno ritorno senza andare in rovina comporta la profonda e radicale trasformazione dell’uomo “superiore” nella direzione del “superuomo”.
8. NIETZSCHE: LA VOLONTÀ DI POTENZA
Nietzsche, approda negli anni Ottanta a una concezione energetistica attraverso un attento confronto con le contemporanee controversie sul materialismo e con le teorie critiche del meccanicismo. Autori come Liebmann, Zöllner, Fechner, Spir, Caspari, Helmholtz, Mayer, Mach, al di là delle singole posizioni occupate nelle controversie dell’epoca, confermarono Nietzsche nella direzione nettamente antimaterialistica ereditata da Schopenhauer e Lange. Importante in questa direzione era stata la lettura, già nel periodo di Basilea, della Philosophiae naturalis Theoria di Ruggero Giuseppe Boscovich (1759) la cui concezione dei punti-forza era stata recuperata tra gli altri da Augustin-Louis Cauchy e Michael Faraday. La considerazione dinamica del tutto vuole essere la base per una critica distruttiva di ogni residuo dogmatico-metafisico: il flusso incessante di forze pone in crisi le categorie di sostanza e di soggetto, le nozioni di causa ed effetto, ecc. I centri di forza in perpetuo movimento pongono in crisi anche ogni dualizzazione della realtà che portava a conseguenze antivitali di condanna del mondo dei sensi, dell’aldiqua. E poiché 1’essenza di ogni forza sta nel suo manifestarsi, al di là della forza non esiste una sostanza sede di questa forza, avente la capacità di esprimerla come di non esprimerla: «tutto è forza».
Già a livello inorganico è possibile cogliere l’origine del prospettivismo nella conoscenza: «ogni centro di forza — e non soltanto l’uomo — costruisce partendo da sé tutto il resto del mondo, ossia lo misura, lo tasta, lo foggia secondo la propria forza» . Il rapporto conoscitivo è un’espressione particolare di questa azione-reazione delle forze. Per l’essere organico non esiste la possibilità di conoscere le forze in sé: la relazione con le forze passa attraverso la mediazione del corpo, che interpreta in funzione dei bisogni. L’essenza della forza è sconosciuta: la realtà del flusso in sé, inassimilabile per l’essere organico, può essere dominata e deve essere dominata solo attraverso l’errore: la vita organica presuppone l’errore. Il protoplasma riceve sempre soltanto uno stimolo dalle varie e diverse forze (luce, pressione, elettricità ecc.) e in base a quello inferisce erroneamente l’uguaglianza delle cause; analogamente il riconoscimento del cibo presuppone una stabilizzazione per fini pratici, un uguagliare ciò che è diverso e in divenire.
La “volontà di potenza” è l’espressione che Nietzsche usa, a partire da Zarathustra, per designare un’interpretazione alternativa della realtà capace di creare nuovi valori, solidale con l’affermazione del superuomo e col pensiero dell’eterno ritorno. La “volontà di potenza” rivela il carattere fondamentalmente prospettico di tutta la realtà: «La vita è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto è estraneo e più debole, oppressione, durezza, imposizione di forme proprie, un incorporare o per lo meno, nel più temperato dei casi, uno sfruttare» .
Essa si presenta, nelle espressioni più basse della vita, come pura violenza e sopraffazione dell’altro e, a livello gnoseologico, come imposizione di una prospettiva. «L’appropriazione e l’assimilazione è anzitutto un voler sopraffare, un formare, un modellare e rimodellare, finché il vinto sia passato interamente sotto il potere dell’aggressore accrescendolo» . E’ l’esercizio dell’“egoismo” individuale. L’individuo stesso appare un “errore”: «solo una somma di sensazioni, giudizi, errori coscienti, una fede, un piccolo frammento del reale sistema vitale o molti frammenti, riuniti insieme col pensiero e nella fantasia» .
Superare la prospettiva ristretta dell’ego non significa acquistare una impossibile impersonalità, una fredda “oggettività”: la conoscenza è comunque implicata nei processi vitali, è legata al gioco degli istinti. L'ampiezza della prospettiva, la capacità di vedere con più occhi, rimarrà una costante dei gradi più alti della volontà di potenza. E l'immagine dei molti occhi tornerà più volte. Ancora nella Genealogia della morale l'uomo della conoscenza è colui che «sa utilizzare, per la conoscenza, la diversità delle pro¬spet¬tive e delle interpretazioni affettive» non un occhio puro, privo di forze interpretative ma una pluralità di occhi: «Esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un “conosce¬re” pro¬spettico; e quanti più affetti lasciamo parlare sopra una de¬ter¬minata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sap¬pia¬mo im¬¬pe¬gnare in noi per questa stessa cosa, tanto più com¬pleto sarà il nostro “concetto” di essa, la nostra “obiettività” » .
A partire dal modello del corpo, Nietzsche tende a valorizzare più che il singolo punto di forza, un sistema vitale più vasto. Prendere il corpo per filo conduttore significa rinunciare alle lusinghe dell’immediatezza e della semplicità: il corpo si svela sempre più come una pluralità, un insieme di centri vitali in lotta tra loro. L’essere organico è «una lotta che vuole conservarsi, vuole crescere e vuole essere consapevole di sé» . Il corpo è quindi una sintesi di molteplicità in lotta e in movimento e perciò «il contrario dell’anarchia atomistica; dunque una formazione di dominio che significa un’unità, ma non è una cosa sola» . Il momento primario della potenza è l’esercizio del dominio su un caos da plasmare, una forma da dare attraverso gerarchizzazioni e funzionalizzazioni.
Nei suoi gradi più alti, l’impulso alla potenza, significa un allontanamento dalla prospettiva ristretta e violenta, legata al singolo punto di forza. Di contro alle promesse di una forma superiore e diversa di uomo, Nietzsche vede qua e là, nella storia, la realizzazione casuale di individui capaci di arrivare alla “giustizia”: «l'uomo supremo avrebbe la massima pluralità degli istinti, e li avrebbe anche nell'intensità relativamente maggiore che può essere sopportata» . Tra i modelli più vicini che Nietzsche propone, vi è quello della natura «dionisiaca» di Goethe: «l’uomo più vasto possibile, ma non perciò caotico», che rappresenta il ritorno a una specie d’uomo del Rinascimento. Il superuomo è colui che supera la parzialità di ogni prospettiva vitale, non negandola ma incorporandola in una forma piena, colui che ha la forza di assimilare se stesso a tutta la realtà, e tutta la realtà a se stesso, attraverso l’affermazione del ciclo eterno.
L’amor fati è l’espressione più alta e più ricca della volontà di potenza: l’identificazione attiva con la totalità nel suo divenire. All’ eroismo della lotta e del¬la fine, che ancora caratterizza l’“uomo superiore” nella direzione del superuomo, Nietzsche contrappone la nuova libertà: «un tale spirito divenuto libero sta al centro del tutto con un fatalismo gioioso e fiducioso, nella fede che soltanto sia biasimevole quel che se ne sta separato, che ogni cosa si redima e si affermi nel tutto — egli non nega più. Ma una fede siffatta è la più alta di tutte le fedi possibili: l’ho battezzata col nome di Dioniso» .
Nei primi giorni del 1889 Nietzsche termina il suo percorso filosofico ed umano sprofondando nella follia, in cui sopravviverà, sempre più corpo inerte e inconsapevole, fino all' estate del 1900. In Ecce homo, l’autobiografia scritta negli ultimi mesi del 1888 e pubblicata con irreparabili censure solo nel 1908, il filosofo consegna alla posterità la propria vicenda — ai suoi occhi conclusa (“perfetta”) — per «distruggere alla radice ogni mito» possibile sulla propria persona. Da una parte una esposizione di sé “antieroica”, legata piuttosto all’elemento aristofanesco della consapevole bouffonerie che allo sfondo grandioso e al pathos guerriero: Heine e Offenbach più che Carlyle e Wagner, i riferimenti. Dall’altra talvolta l’uso di una oratoria adeguata all’altezza epocale della “trasvalutazione di tutti i valori”. Più che un compito da realizzare, questa appare sempre più un atto «con cui l’umanità prende la decisione suprema su se stessa» e che Nietzsche tende a identificare con la propria realtà: «un atto che in me è diventato carne e genio» . I brevi scritti della fine del 1888 appartengono alla “grande politica” della vita contro la piccola politica dei nazionalismi e assumono il carattere della battaglia eversiva e della propaganda per la “trasvalutazione”. Il rovesciamento dei valori cristiani e la conquista di una “nuova innocenza” che afferma la piena liberazione della sessualità dalla maledizione del risentimento, sembra essersi attuata con le considerazioni de L’anticristo che termina appunto con una Legge contro il cristianesimo datata «nel giorno della salvezza, nel primo giorno dell’anno uno (— il 30 settembre 1888 della falsa cronologia)». Gli ultimi scritti assumono il senso di una accelerazione del pathos e dell’euforia che precedono la catastrofe.
Eppure in Ecce homo Nietzsche racconta se stesso attraverso la propria minuta quotidianità fatta di «piccole cose, secondo il giudizio comune» in cui alla malattia, più che allo splendore della salute della “bionda bestia” va la gratitudine del filosofo. La malattia ha liberato il suo spirito, gli ha dato «la capacità psicologica di “vedere dietro l'angolo”», alla malattia Nietzsche deve la profondità e le nuances: «le devo la mia filosofia» . Il grande compito, per cui Nietzsche esibisce l’orgoglio, presuppone la grande accortezza nelle piccole cose: «alimentazione, luogo, clima, svaghi, tutta la casistica dell'egoismo — sono inconcepibilmente più importanti di tutto ciò che finora è stato considerato importante» . La fisiologia è il presupposto della scrittura: l'essere stato «come summa summarum» sano, ha reso possibile lo Zarathustra che pone un nuovo inizio: la vera prova di forza sta nella distanza da ogni profetismo e fanatismo delle convinzioni (Zarathustra è ‘diverso’, «qui non parla un “profeta”, uno di quegli spaventosi ibridi di malattia e volontà di potenza»). L'“essere benriuscito” si caratterizza per l'autodeterminazione nella misura, contro ogni atteggiamento eroico ed estremo che seduce senza argomentare.

GIULIANO CAMPIONI
LEGGERE NIETZSCHE
DALL’AGONISMO INATTUALE ALLA CRITICA DELLA ‘MORALE EROICA’
Non voglio tendere a occhi aperti
al mio immiserimento, non mi
vanno tutte le virtù negative,
virtù la cui essenza è la negazione stessa
e la rinuncia a sé
Friedrich Nietzsche

I grandi uomini dicono molte cose insensate
prendono tutti per sciocchi,
e gli altri non dicono niente e li lasciano fare
e così passano i giorni.
Bertolt Brecht
1. «L’opposto di una natura eroica». Per una lettura antimitica di Nietzsche - «Io sono l’opposto di una natura eroica» . Così Nietzsche, in Ecce homo, conclude il brano che mostra, con metodo genealogico, «come si diventa ciò che si è» riassumendo il percorso che lo ha portato alla perfetta maturità della forma. Il filosofo caratterizza la propria persona, in quella particolare esposizione di sé alla fine della sua avventura di pensiero, con tratti fortemente antieroici e antifanatici. Del suo libro dichiara: «L’ho scritto per distruggere alla radice ogni mito su di me» e, in una lettera a Heinrich Köselitz del 30 ottobre 1888, «Non vorrei assolutamente presentarmi all’umanità come profeta, mostro, spauracchio morale» . Nietzsche racconta se stesso attraverso la propria minuta quotidianità fatta di «piccole cose, secondo il giudizio comune»: lontano ogni sfondo grandioso, lontana anche la corona di spine che caratterizza l’iconografia della leggenda, lontano ogni pathos dell’atteggiamento («Chi ha bisogno di atteggiamenti è falso... Attenzione agli uomini pittoreschi!» ). Il grande compito presuppone la grande accortezza nelle piccole cose: «Alimentazione, luogo, clima, svaghi, tutta la casistica dell’egoismo — sono inconcepibilmente più importanti di tutto ciò che finora è stato considerato importante» .
Ecce homo è anche l’ostensione di un corpo — che si realizza essenzialmente come corpus di opere — nell’autosuperamento della malattia e della decadenza in una superiore forma. Non allo splendore della salute della ‘bionda bestia’ o di ‘cornuti Sigfridi’, cui la stupidità si accompagna come l’ombra, ma alla ripetuta pratica del dolore e della pazienza di un corpo che ha vissuto a lungo e ripetutamente negli angoli della malattia, Nietzsche manifesta la sua gratitudine. La malattia ha liberato il suo spirito, gli ha dato «la capacità psicologica di “vedere dietro l’angolo”», alla malattia Nietzsche deve la profondità e le nuances: «Le devo la mia filosofia» . La fisiologia è il presupposto della scrittura: l’essere stato «come summa summarum» sano, ha reso possibile lo Zarathustra che pone un nuovo inizio: la vera prova di forza sta nella distanza da ogni profetismo e fanatismo delle convinzioni (Zarathustra è ‘diverso’, «qui non parla un “profeta”, uno di quegli spaventosi ibridi di malattia e volontà di potenza» ). L’‘essere benriuscito’ si caratterizza per l’autodeterminazione nella misura, contro ogni atteggiamento eroico ed estremo che seduce senza argomentare.
Le chiare affermazioni di Ecce homo esprimono la coerenza di un atteggiamento teorizzato a partire da Umano, troppo umano dove, accanto al genio e al santo, congela l’eroe. Questo in contrasto certamente con la figura consolidata del mito ‘eroico’ di Nietzsche che, in molte direzioni e in diversi momenti, in più modi e accentuazioni, ha comunque caratterizzato la fortuna e talvolta perfino il culto del filosofo. Da tempo il lavoro storico e filologico, legato soprattutto all’edizione Colli-Montinari, sta fornendo strumenti per una collocazione sempre più articolata, una migliore definizione di categorie filosofiche centrali della riflessione di Nietzsche, del suo stile di pensiero, dei movimenti interni al suo percorso. Emerge il duplice atteggiamento, che caratterizza l’originalità di Nietzsche, di assimilazione e di distacco dalle immagini proposte dalla sua epoca. E tuttavia non mancano approcci ideologici e immediatistici alla sua filosofia, nuove letture strumentali ed anche la cruda riproposizione, al termine di un percorso che ha bruciato rapidamente le maschere della ‘liberazione’ e del gioco estetico, della terribile semplificazione che lega come un destino il Nietzsche eroico al nazismo.
Il tema dell’eroismo appare comunque un termine di confronto continuo e centrale che permette al filosofo di differenziare la propria posizione dalle molte ‘morali eroiche’ dell’epoca (da Carlyle a Gobineau, da Wagner a Baudelaire).
2. Le ‘inquiete’ e ‘mutevoli’ inclinazioni del giovane Nietzsche - Di nessuna grande personalità è conosciuto, in così larga misura come per Nietzsche, il materiale postumo relativo agli anni dell’infanzia e della fanciullezza: disegni, abbozzi di drammi, poesie, poemi, composizioni musicali, riflessioni autobiografiche e critiche sui più vari argomenti etc. Nella canonica del villaggio natale il piccolo figlio del pastore è affascinato in particolare dalla stanza del padre: «Le file dei libri, molti dei quali illustrati, le pergamene, rendevano quel luogo uno dei miei soggiorni prediletti» . Così pure, nel vicino villaggio di Pobles, dove abitava la famiglia del pastore David Ernst Oehler: «La mia stanza preferita era lo studio del nonno, dove il mio più grande passatempo era scartabellare tra i vecchi libri e i quaderni» . I taccuini di quegli anni ci restituiscono continui progetti ed appunti di lettura; i libri, di cui è continua la richiesta nelle lettere, costituiscono nutrimento vitale per la sua formazione. Il rapporto con la lettura diventa e rimarrà un continuo oggetto di riflessione. C’è in Nietzsche la precoce volontà di non subire le forti passioni del suo temperamento: la necessità di trasformarle, dominarle in consapevolezza critica e sapere. Di qui la continua assimilazione, quasi incorporazione, di letture in una mobile riflessione critica e intellettuale, in una continua sperimentazione di scrittura e di stili che appartengono interamente alla volontaria costruzione di sé.
Naturale e comune per il fanciullo l’essere colpito dagli avvenimenti della guerra di Crimea: l’emozione mette in moto i prevedibili vivaci giochi infantili con truppe di soldatini, flotte e terrapieni per riprodurre fedelmente le battaglie. La passione non si sfoga solo nei rumorosi giochi («con palle di pece, zolfo e salnitro» ) comunque sorretti dalla minuta sapienza tecnica delle vicende di guerra e registrati e regolati per scritto. Nei quaderni troviamo anche una poesia sulla caduta di Sebastopoli, più Orakularia e altri complessi giochi di dadi, un Festungsbuch con interminabili e prolisse catalogazioni, disegni con dettagliati piani e i movimenti dell’assedio e la presenza fantasiosa di un invincibile guerriero che chiamava, nel suo latino incerto, l’expungnator invictus. «Saccheggiavamo tutto quanto potevamo trovare concernente l’arte militare [...] le nostre raccolte si arricchivano sia di lessici, sia di libri militari nuovissimi, e già progettavamo di scrivere insieme un grande dizionario militare» si legge nell’abbozzo autobiografico del 1858: le fantasie ‘eroiche’ del ragazzo volgono immediatamente all’erudizione non priva di pedanteria.
Ai contemporanei soldati delle cronache di guerra, «gli eroi che han trovato la morte» nell’assedio di Sebastopoli – su cui Nietzsche versa lacrime e a cui, nella poesia a loro dedicata, rivolge un solenne saluto finale – succedono, negli interessi del giovane, gli eroi della tradizione classica e delle saghe della mitologia nordica e germanica. Troviamo, fin dai primi anni giovanili, il forte fascino per le figure di eroi di primitiva e selvaggia grandezza, caratterizzati da metafore che esprimono il loro vigore animale e, già, dal termine ‘sovrumano’. Tale lo sguardo della natura superiore, capace di incutere terrore, oppure lo sguardo di Swanhilde figlia di Gudrun («das übermenschliche Glänzen ihrer Augen» ).
Nel 1858 in un abbozzo di riflessione critica Su Medea, Nietzsche mette a confronto Medea con la Chrimhilde della saga nibelungica: in Chrimhilde «domina una rozzezza tedesca, che si abbassa fino alla bestia, mentre Medea rimane sempre nell’ambito ideale della grecità». Ma anche i caratteri greci primitivi, come le origini «rozze e violente» di tutte le civiltà, portano in sé passioni selvagge che si esprimono nelle «enormi imprese e avventure eroiche» come quelle della leggenda degli Argonauti . Sulle origini primitive dell’umanità il giovane si esercita anche in due riflessioni critiche: Jäger und Fischer e Die Kindheit der Völker.
Giasone e Medea, il componimento poetico scolastico del 1858, accompagna altri componimenti che rivelano l’interesse di Nietzsche per le figure eroiche dell’immaginario nazionale-romantico, come quelli dedicati all’esecuzione a Napoli del giovane ‘eroe’ Corradino, o alla leggenda del Barbarossa che dorme sottoterra in attesa di un risveglio che porti ‘l’età aurea’ a tutte le terre unite «in pace e benedizione» (la leggenda, ripresa anche da Heine, in Nietzsche è derivata direttamente da Friedrich Rückert).
Intorno alle figure degli eroi si unifica la multiforme attività del giovane: i vari tentativi di composizioni drammatiche, poetiche, musicali di carattere eroico sono presto sorretti da una analisi critica, storica e filologica. L’interesse va prevalentemente ai materiali epici della saga nibelungica: un esercizio poetico è dedicato alla morte di Sigfrido, un componimento scolastico alla caratterizzazione della figura di Chrimhilde, la cui passione violenta e demoniaca non può essere compresa dalle nature piccole e deboli, capaci di rispecchiare la propria impotenza solo nella limitatezza delle loro azioni. Numerosi gli abbozzi e gli appunti per un commento critico del Nibelungenlied volto a individuarne gli aspetti genetici (il rapporto tra gli ‘elementi pagani’ e le ‘risonanze cristiane’ nell’etica e nella mitologia, l’influenza degli ideali cavallereschi sulla formazione del mito, il lontano sfondo storico, le caratteristiche estetiche, l’opposizione ai caratteri omerici etc.) .
Nietzsche è affascinato soprattutto dalla prima figura della storia germanica, il re degli Ostrogoti Ermanarico, il cui dominio si estendeva dal Mar Nero al Baltico e la cui leggenda si sviluppa, a partire dalla cronaca latina di Jordanes — De origine actibusque Getarum scritta intorno al 552 — per almeno sette secoli contaminandosi con leggende nordiche, danesi e con la saga nibelungica. In tal modo, la morte per suicidio di Ermanarico nel 375 testimoniata da Ammiano Marcellino, diventa, ne La saga dei Volsunghi e nel canzoniere eddico (Incitamento di Gudrun e Il Canto di Hamdhir), una sanguinosa e cupa uccisione per vendetta. Questo spinge il giovane a mettere in versi La morte di Ermanarico, a progettare e abbozzare una tragedia ed a comporre un poema sinfonico a programma per due pianoforti (avendo come modello la Dante-Symphonie di Liszt) dedicate alla figura dell’«ultimo e più grande eroe dei Goti» . Gli interessi per Ermanarico persistono, con vari intervalli, dall’estate del 1861 all’agosto del 1865, quando Nietzsche abbozza un ultimo, breve schema di tragedia. Tutto quanto resta di queste elaborazioni è improntato fortemente da un ingenuo eccesso romantico fatto di passioni selvagge e primitive, notturni tradimenti, tempeste, roghi, sangue etc. Più significativa dell’erompere senza freno della fantasia è la fredda, decisa autocritica sulla sinfonia Ermanarico. Nietzsche, infatti, un anno dopo la prima stesura (allora «non ero ancora in grado di analizzare imparzialmente il flusso di sentimenti che animava tutta l’opera» ), nell’ottobre del 1862, modifica il poema sinfonico e ne analizza i risultati. La musica gli appare capace di decantare, più della poesia, la forza della sua passione per la leggenda cupa ed eroica di Ermanarico. Tutti i miglioramenti apportati (il «folle impeto» del nuovo finale), il recuperato vigore complessivo, non redimono però la sua composizione da «acerbità ed eccessi». L’influenza decisiva e negativa di Liszt è confessata: «I miei personaggi non son certo dei goti, dei tedeschi, bensì — non mi perito di affermarlo — figure ungheresi; [...] ardenti anime magiare» . Soprattutto colpisce la piena consapevolezza autocritica del giovane che sembra anticipare — nella dichiarata impossibilità di una poesia ‘ingenua’ — alcune mosse della sua critica matura ai pretesi eroi germanici di Wagner: «Mancano ai personaggi i primitivi, possenti tratti germanici; i sentimenti sono più scavati e moderni, troppa riflessione e troppo poco vigore naturale» . Né la via della tragedia né quella della musica sembrano soddisfare il giovane che invece decanta definitivamente tutto il materiale della leggenda di Ermanarico prima in uno studio storico ‘molto secco’ (luglio 1861), poi in un lavoro di carattere filologico dell’ottobre del 1863 (La leggenda del re degli Ostrogoti Ermanarico. Sua evoluzione fino al XII secolo) sui cui risultati esprime una ‘quasi’ soddisfazione.
Questo è il primo lavoro filologico di Nietzsche, che precede il componimento di congedo da Pforta, in latino, sul poeta Teognide di Megara a cui è stata dedicata, da parte della letteratura critica, maggiore attenzione. Frutto della rigorosa lezione dei valenti suoi maestri a Pforta («Steinhart, Keil, Corssen, Peter, uomini dallo sguardo aperto e dai freschi slanci»), è anche un significativo esempio di quella continua volontà del giovane di trovare nel rigore della scienza un «contrappeso alle inquiete e mutevoli inclinazioni». Entrambi i saggi intendono recuperare il nucleo originario, storico, della figura ‘germanica’ di Ermanarico — a partire dalle cronache, Jordanes, Saxo Grammaticus — liberando e spiegando le molte incrostazioni e contaminazioni del mito nordico (lo Jörmurenck dell’Edda) di cui Nietzsche subisce comunque pienamente il fascino terribile e sublime ‘che schiaccia l’uditore’.
È cosa nota: il nord volge all’atroce barbaro misterioso tutto quello che in Germania resta nel dominio della chiarezza storica e dell’umanità [...] La natura solitaria, ardita del Nord impronta i suoi poemi; sono dei canti che stanno come rocce scoscese al cielo, inimitabili nella loro forza titanica, giganteschi nella loro forma. Tutta la caratterizzazione è concisa: ogni parola cade come una folgore, possente, grave di senso, nell’azione .
Il saggio filologico percorre analiticamente, in tutte le ramificazioni e varianti, i momenti e le scansioni della tradizione che trasfigurano negativamente la figura storica di Ermanarico (originariamente paragonato per le sue grandi imprese ad Alessandro) in una leggenda deformata dall’odio verso i conquistatori e che presta a Ermanarico i tratti dello stesso Attila (già ne Il canto dell’errante Ermanarico è ‘furioso’, ‘traditore’ e il manoscritto d’Exeter lo paragona al lupo). Secondo Nietzsche Ermanarico è inizialmente estraneo alla tradizione nordica nibelungica e solo il nome comune di Gudrun (la maga), mette in relazione due cicli di leggende. Mentre le leggende nordiche si interessano solo alla cupa fine (non al precedente potere e alle vicende del vasto regno), per la tradizione germanica Ermanarico è al centro di un ciclo di leggende che si interessano alle sorti del re prima della catastrofe. Il valore e poi la crudeltà dell’eroe appartengono allo sviluppo del suo carattere. Comunque — afferma Nietzsche — «le forti passioni violente, nella tradizione popolare, nella misura in cui essa sia ancora pura e vicina alle origini, sono forse oggetto di orrore, ma non di riprovazione» .
Il filosofo crede di poter recuperare, soprattutto in Jordanes, i tratti originali della figura storica dell’eroe ostrogoto a cui si attacca la leggenda. La catastrofe finale, la morte e forse il suicidio all’avvicinarsi degli Unni di Attila, presuppongono un re ormai vecchio, piegato dalla malattia dovuta a una ferita al fianco: una natura «fisicamente spezzata e annientata per rendere plausibile il suicidio» . Nietzsche vede bene anche l’articolazione dei caratteri eroici nel mondo della saga nibelungica, non omologabili in un unico paradigma. Nella Völsungasaga e nel Canto di Hamdir, dei tre figli di Gudrun che devono vendicare su Jörmurenk (Ermanarico) la morte della sorella Swanhilde, Hamdir ‘dal grande cuore’ ha il tipico carattere da eroe (ein Heldencharakter) «aspro e violento amore della guerra, fierezza, disprezzo di ogni conciliazione e accecamento per orgoglio» . Accanto a lui Sörli dallo ‘spirito saggio’ e nobile riconosce la forza del destino: «Ci siamo acquistati una grande gloria; oggi o domani noi moriremo. Nessuno arriva alla sera della sua vita se le Norne vi si oppongono» . Erp, chiamato, per disprezzo, ‘bastardo’ e ‘nano bruno’ dai fratelli che lo uccideranno, viene assassinato — ipotizza Nietzsche respingendo le motivazioni avanzate da Simrock — per invidia della sua ‘superiorità intellettuale’ e del suo coraggio, riunendo in sé i caratteri degli altri due.
3. Titanismo e crepuscolo degli dèi - Nietzsche subisce il fascino sublime di questi eroi violenti e determinati nel destino di morte, figure sovrumane che agiscono sullo sfondo cupo dell’annunciata morte degli dèi. Questa fine, che si accompagna a rivoluzioni e catastrofi cosmiche, è descritta con crudo naturalismo dal canzoniere eddico e dall’Edda di Sturluson Snorri. Già nella composizione poetica La morte di Ermanarico, i neri corvi nella «nebbia sanguinosa» annunciano «il rogo del mondo, il soffocante splendore del crepuscolo degli dèi» . Nel suo primo saggio storico, Nietzsche afferma:
Quel crepuscolo degli dèi, in cui il sole diventa scuro, la terra affonda nel mare e vortici di fiamma abbracciano l’albero del mondo che dà la vita e la vampa lambisce il cielo, è la più grandiosa invenzione che abbia mai escogitata il genio di un uomo, insuperata nella letteratura di tutti i tempi, infinitamente ardita e terribile, eppure risolta in incantevoli armonie .
Nietzsche cita, a riprova, i versi dalla Völospà (Profezia della Veggente) in cui la descrizione del nuovo inizio di una età dell’oro, dopo le cupe vicende dell’annientamento del mondo, è affidata alla lieve immagine del ritrovamento tra l’erba delle pedine d’oro con cui giocavano un tempo gli dèi: il ciclo della vita ricomincia.
L’uso del termine Götterdämmerung e il forte interesse di Nietzsche per la mitologia eroica germanica si devono anche alle prime appassionate informazioni su Wagner che l’amico Krug gli veniva fornendo. Con lui e con Pinder Nietzsche aveva fondato, nell’estate del 1860, l’associazione culturale ‘Germania’, «per stimolare, e al tempo stesso tenere a freno» i giovanili impulsi culturali. Krug vi aveva tenuto più conferenze su Wagner: sul Tristano e Isotta (marzo 1861), sulla Faust-ouverture (febbraio 1862) e infine su L’oro del Reno (marzo 1862) .
Il tema dell’eroismo si connette, fin dall’inizio, con quello della morte di Dio, col crepuscolo degli dèi. In questa direzione va anche l’iniziale interesse per la figura di Prometeo. Già in una lettera di fine aprile - primi di maggio 1859 diretta all’amico Pinder, in un piano comune di lavoro sulla figura di Prometeo, Nietzsche è affascinato soprattutto dal tema della
fine di Zeus (in rapporto alle saghe tedesche) [...]. Vi si trova la fine di Zeus, conosciuta in precedenza da Prometeo, il solo in grado di evitarla, in rapporto con il tramonto delle divinità tedesche, che vengono annientate dalle forze della natura (le quali, presso i Greci, sono appunto i Titani) .
Il cammino dello ‘spirito libero’ troverà nelle grette reazioni dell’ambiente domestico un motivo continuo di sofferenza fino ad affermare in Ecce homo la ‘disharmonia praestabilita’ con la sorella e la madre, quelle perfette macchine infernali capaci di ferirlo nei ‘momenti supremi’, e a vedere nella loro esistenza «la più profonda obiezione contro “l’eterno ritorno”» . La Bibbia conservata a Weimar nella biblioteca postuma di Nietzsche, con i molti segni di lettura del padre, porta annotato, accanto al nome del pastore Ludwig, con la data di acquisto del volume (1820), il nome del figlio Friedrich con la data 1858, l’anno in cui il giovane lascia la famiglia per andare a studiare a Pforta ed eredita, come viatico per una ideale continuità, il volume paterno. È questo il simbolo visibile di una lunga catena familiare, difficile da spezzare, fatta di generazioni di pastori, di una severa e ristretta fede luterana che si esprime nelle angustie della ‘virtù di Naumburg’. Nelle lettere degli anni Ottanta, in un periodo di profonda crisi, si legge tutto il peso del vissuto quotidiano: «Consideri che vengo da un ambiente che ritiene riprovevole e abietta tutta la mia maturazione; ed è stato soltanto in conseguenza di questo che mia madre l’anno scorso ebbe a definirmi una “vergogna per la famiglia” e “un disonore per la tomba di mio padre”» (lettera a Malwida von Meysenbug del 20 aprile 1883). La liberazione non poteva assumere, dato il temperamento del giovane ed il peso dei vincoli, che il carattere ‘eroico’ di una ribellione radicale, che necessitava di una forza ‘sovrumana’ per arrivare all’affermazione della morte di Dio.
Tali impulsi verso la libertà dalla tradizione e dalla fede sono nutriti delle letture sotterranee degli anni di Pforta dedicate alle figure prometeiche e addirittura sataniche: dal Manfred di Byron ai Masnadieri di Schiller. A tale proposito Nietzsche scrive già nell’estate del 1859: «Ho letto ancora una volta I Masnadieri [...]. I personaggi mi appaiono quasi sovrumani, sembra di assistere a una lotta di titani contro la religione e la virtù». Nietzsche si sofferma a caratterizzare la caduta dell’eroe in Schiller, in un confronto interno tra una poesia giovanile del poeta e un passo del dramma, con l’immagine dello splendore del sole al tramonto. La metafora, presente anche in Byron ed Hölderlin, tornerà più volte in Nietzsche, soprattutto nello Zarathustra. Karl Moor vuol ripetere nel suo eroismo estremo la virtù dei grandi uomini di Plutarco e assume lo spirito ribelle del Satana di Milton contro la mediocrità dell’epoca, contro la legge e la morale comune: «La scintilla del fuoco di Prometeo si è spenta sostituita da una fiamma da teatro [...]. La legalità non ha mai generato un grand’uomo, mentre la libertà produce colossi ed eventi memorabili». Il filosofo stesso si esercita in brevi scritti, in un gioco stilistico improntato a un satanismo romantico, di maniera, spinto subito al grottesco. In tal modo si esprime e si esorcizza ad un tempo l’irrequietudine giovanile: è il caso dell’abbozzo della ‘ripugnante’ novella Euforione, che fin dal titolo rimanda alla figura di Byron (questo il nome del poeta inglese nel Faust di Goethe), e di altri componimenti rimasti o di cui si ha notizia da brevi appunti («“Satana ascende dall’inferno” insoddisfazione: difficoltà a cogliere il satanico e a rappresentarlo»).
È nota la passione giovanile di Nietzsche per il poeta inglese visto come espressione di una ubris titanica, prometeica, che rompe ogni limite sfidando il cielo. I suoi eroi — in particolare Manfred — non scendono a patti con nessuna forza superiore fidando solo sull’energia della propria volontà. Per ben tre volte a proposito di Manfred il giovane Nietzsche (ottobre 1861) adopera il termine Übermensch ,— usato più volte dallo stesso poeta inglese — per definire il personaggio, il carattere della sua disperazione ed per connotare l’opera di Byron. La crisi profonda della fede e la sfida nei confronti della tradizione, aveva trovato, nello stesso periodo, altri strumenti di liberazione: dalla critica filologica ai Vangeli della scuola liberale, alla filosofia di Feuerbach e di Emerson. Infatti, con gli appunti e i saggi della primavera del 1862, il filosofo approda all’affermazione di una piena immanenza, che vede nella fede cristiana, contro la forza degli antichi che credevano nel fato, una scelta di debolezza, «una incapacità a plasmare da sé, con decisione, il proprio destino». Citando da L’essenza del cristianesimo di Feuerbach, Nietzsche pone il cammino del recupero dall’alienazione («Dio è diventato uomo»), come espressione di un nuovo eroismo: «L’umanità acquista la sua virilità attraverso gravi perplessità e ardue battaglie; essa riconosce in sé “l’inizio, il centro e la fine della religione”» .
Nell’aprile del 1859 Nietzsche scrive un breve dramma in un atto dedicato a Prometeo, i cui riferimenti sono la Teogonia di Esiodo (vv. 521-564) e l’inno Prometeo di Goethe del 1773: il primo per l’inganno a Zeus, durante il sacrificio, il secondo per le caratteristiche del titano solitario che sfida gli dèi coprendoli di disprezzo e rifiutando di condividere con loro il cielo. Prometeo vuol governare sugli uomini da lui creati: la creazione degli uomini a propria immagine, da parte del Prometeo goethiano, è il tratto più rivoluzionario/superomistico dell’inno. Il riferimento va però anche alla composizione poetica Das Göttliche in cui Goethe afferma il valore normativo degli immortali che possono essere ‘in grande’ ciò che l’uomo è ‘in piccolo’ e postula una sorta di conciliazione e necessaria collaborazione tra il mondo umano e il divino. Sullo sfondo l’ostile insensatezza della natura che non distingue buoni e cattivi e che tutti imprigiona in un ciclo eterno. Il Prometeo di Nietzsche rifiuta l’alleanza ‘di terrore’, proposta dal padre Japeto («Voglio essere libero e sovrano di questi uomini cui ho dato l’esistenza [...] non tollero alcun padrone» ). Dopo l’inganno del sacrificio, di cui gli dèi onniscienti subito si accorgono e per cui puniscono il titano, il coro degli uomini risolve ingenuamente — e la soluzione estetica non è certo felice — la tensione accogliendo la conciliazione dell’inno goethiano. L’impulso edificante permette la collaborazione degli uomini con gli dèi che fungono loro — soltanto — da norma e da specchio: «Infelice colui / i cui dèi non sono / liberi da colpa ed errore / privi di ogni macchia» . Il tentativo poetico, ancora una volta, è seguito da una riflessione autocritica, un dialogo umoristico/satirico che si richiama ad un registro stilistico del tutto diverso: il modello esplicito è Jean Paul. Si mette in scena l’incomprensione e il contrasto tra il poeta e vari rappresentanti del pubblico: un capitano, uno studente, un professore, un consigliere, una vecchia signora. Il pubblico che affonda, in modo diverso, nella stupidità — la grossolanità, l’ignoranza, la pedanteria etc. — rende impossibile un ritorno nel mondo contemporaneo al linguaggio della classicità: il dialogo satirico di Nietzsche sembra annullare nell’autocritica ogni possibilità di tentativo epico.
4. La filologia e la ‘seconda natura’ - Questi diversi registri di scrittura appartengono alla lenta e metodica invenzione di uno stile che è costruzione di sé. Nietzsche ha insistito più volte, fin dagli appunti autobiografici del 1867-68, su una ‘seconda natura’ estorta con forza alle ‘libere’ inclinazioni considerate un pericolo. Lasciata alle spalle la metafisica romantica e l’esperienza wagneriana, ai vecchi amici che vedono nello ‘spirito libero’ una ‘decisione stravagante’ che lo estranea da se stesso, Nietzsche ribadisce: «Soltanto grazie a questa seconda natura ho preso possesso della mia prima natura» e, in modo più radicale, in una lettera a Rohde: «Ho una “seconda natura”, però non per distruggere la prima, bensì per reggere a questa. La mia “prima natura” mi avrebbe distrutto già da un pezzo — anzi mi aveva già quasi distrutto» .
Anche per la poesia il tentativo, sempre consapevole e fortemente autocritico, dell’‘operoso fabbricatore di rime’, che arrivava ad imporsi, per un certo periodo, di scrivere una poesia al giorno, è quello di «mostrare non già come si nasce poeti, bensì come lo si diventa» . Una continua e insoddisfatta analisi («Scrivevo orribili poesie, ma col più grande ardore» ) che segue evoluzioni e decise svolte, e la richiesta principale ai propri versi: «Mancava pur sempre la cosa principale, i concetti», «Una poesia priva di concetti ma ammantata di frasi ed immagini assomiglia ad una mela rossa di fuori, che all’interno ha il verme», «Una trascuratezza nello stile si perdona più facilmente di un’idea confusa». Così pensa il giovane di quattordici anni che ancora vuole sentire, nelle sue vicende, la guida sicura di Dio, che sente la musica come «splendido dono di Dio» capace di elevare e guidare verso il Bene e la Verità ed esprime tutta la sua diffidenza verso la stravaganza e confusione della «cosiddetta “musica del futuro”». Nietzsche esplicita fin dagli anni giovanili il suo fondo ‘tellurico’, la sua natura impulsiva, passionale, ricca e debordante in più direzioni. Ben presto coglie come il libero abbandono agli impulsi possa essere dissolvente e come sia necessaria una consapevole rinuncia ed una limitazione del campo di attività. Questa sensibilità si esprime spesso nella assidua funzione pedagogica (talvolta rude) verso gli amici e ancor più verso se stesso.
La prima lettura di Schopenhauer (nel 1865) significa la decisione di vivere, fino in fondo, la filosofia di quel «genio cupo ed energico». Ciò provoca nel filosofo una vera «rivoluzione spirituale», ma anche «una violenta agitazione nervosa» e il pericolo di follia: il rimedio è visto nell’ordine, nell’«obbligo degli studi regolari». Significativa la riflessione sull’amico Romundt — «In lui erano disperatamente mescolati i tratti di studioso, poeta e filosofo» — che diventa specchio negativo dei pericoli in cui può incorrere la pluralità di aspirazioni e di doti che non abbiano alcuna definizione di traguardi: l’impotenza e la «perpetua insoddisfazione». Gli scritti autobiografici insistono sui pericoli della dispersione che può diventare disgregazione: il «vagabondare senza meta in tutti i campi dello scibile» («Giungevo perfino a disegnare e a dipingere» , «Mi ero talmente immedesimato nell’idea di acquistare scienza e capacità universali, che correvo il rischio di diventare un vero stravagante e visionario» ). A questi pericoli un Nietzsche, ‘passionalmente severo’, contrappone la volontà connaturata di «risalire fino alle radici più remote e profonde dei singoli argomenti» , la serietà dello specialismo.
La scelta per la filologia non è, nell’autoriflessione del filosofo, espressione di un ‘istinto’ o vocazione, ma nasce dalla «educazione, riflessione, forse addirittura dalla rassegnazione». «Quando mi volgo a considerare», si legge in un appunto autobiografico dell’inizio del 1869, «come sono passato dall’arte alla filosofia, dalla filosofia alla scienza, e in quest’ambito a interessi sempre più ristretti: la cosa ha quasi l’aria di una consapevole rinuncia» . Era anche, in un comune sentire schopenhaueriano, la consapevole scelta dell’amico della giovinezza, il filologo Erwin Rohde esplicitata in una lettera a Nietzsche del 4 novembre 1868. Per chi non ha la libertà del genio si pone la necessità di «conquistare un terreno solido, un campo che possa essere coltivato con risorse minori; giacché, a noi piccoli uomini, l’agio necessario per l’esistenza non può darcelo se non un lavorìo coscienzioso, in una sfera liberamente scelta del filisteismo» . Sempre più, per Rohde, la inesorabile chiusura nell’orizzonte domestico e nel lavoro filologico, trova come compenso e trasfigurazione ideale la musica eroica di Wagner: «Bayreuth, l’unico posto al mondo dove posso dimenticare me stesso, i miei dolori e insieme la filologia [...] e naufragare in un mare di piacere» .
Ad una natura ‘tellurica’ come quella di Nietzsche, solo per poco tempo poteva dare rassicuranti confini la limitazione liberamente scelta fatta di ininterrotta lettura, di rigore e completezza dell’informazione bibliografica con la sensazione di «essere murato tra i libri» («Il dotto in fondo non fa che “compulsare” libri — circa duecento al giorno per il filologo medio» ). Questo non ha nulla a che fare con l’immagine caricaturale — è stato fatto anche questo — di un Nietzsche alieno ed ostile ad ogni lettura e che, carico di ispirazione e geloso della sua geniale indipendenza di pensiero, scrive, mentre passeggia, folgoranti aforismi e massime da restituire, magari in opportuni breviari, per opportune citazioni alla ‘bello superiore’.
Nietzsche, comunque, porta entro la cornice della scienza più accademica e rigorosa della Germania dell’epoca le forti tensioni e gli impulsi che avevano caratterizzato il suo percorso giovanile. Egli cerca, volta a volta, nuovi punti di equilibrio e di convivenza tra metafisica dell’arte e filologia, fino alla definitiva conquista di una ‘propria’ filosofia. Solo lo spirito diventato libero può sciogliere definitivamente il rapporto di subordinazione del filologo/educatore nei confronti del ‘genio’, e continuare a valorizzare «l’arte di leggere bene» propria della filologia. L’atteggiamento filologico rimarrà sempre lo strumento necessario di pulizia e di probità intellettuale contro ogni tentativo di ‘corruzione’ del testo attraverso il suo ‘approfondimento’ con interpretazioni morali e teologiche: è il caso delle letture pneumatiche della natura o della lettura in termini di colpa e castigo di sofferenze fisiche .
Nell’ultimo periodo Nietzsche propone la solidarietà di intenti critici tra filologia, fisiologia, genealogia, contro le interpretazioni predeterminate, fisse, pre-giudiziali che rifiutano il lavoro paziente. Si tratta di leggere le intenzioni e le forze che attraversano il testo, che lo costituiscono: leggere bene, lentamente, con «la cautela, la pazienza, la finezza. Filologia come ephexis nell’interpretazione: si tratti di libri, di curiosità giornalistiche, di destini o di fatti metereologici — per non parlare della “salvezza dell’anima”» — scrive Nietzsche ne L’anticristo. Una ‘volontà di sapere’, di andare fino in fondo, mettendosi di fronte alle varie manifestazioni della complessità del reale, leggendone i segni e sciogliendone i geroglifici senza prevaricarne il senso con distorsioni pregiudiziali, fissate e rigide. Questo atteggiamento contribuisce a svelare l’apparato di falsificazione che sorregge la mistificazione del ‘genio’ metafisico, l’illusione dell’immediatezza. Ma il professore di filologia a Basilea non usa ancora questa carica liberatrice contro l’ideale metafisico: permane una sorta di solidarietà spontanea tra la subordinazione del filologo e l’impero del genio, quasi che il mestiere quotidiano, ‘macchinale’, abbia bisogno della trasfigurazione oppiacea dell’ideale e della musica di Wagner.
La pubblicazione, attualmente in corso nell’edizione critica, dei materiali filologici (in particolare gli appunti dei vari corsi di lezione a Basilea) ha facilitato una più accorta e autonoma valutazione del lavoro filologico di Nietzsche all’interno della storia degli studi classici e ha permesso di conoscere il complesso rapporto di interazione e conflittualità tra un mestiere, praticato con crescente sicurezza, e il sorgere della identità filosofica . Certamente l’interesse filosofico non significa per Nietzsche allontanamento o ostilità nei confronti della filologia, piuttosto la volontà di sovrintendere ad una pratica inattuale della disciplina. Nuovi problemi sul senso del mestiere specialistico, sui pericoli del filisteismo legati alla professione (i filistei come «gli individui continuamente affaccendati nel modo più serio attorno a una realtà che non è tale» ), sui compiti più generali per la rinascita culturale della Germania, si intrecciano alla filosofia del ‘musagete’ Schopenhauer, «il filosofo di una ridestata classicità, di una grecità germanica» . Il culto del genio — già presente nei tratti aristocratici delle riflessioni di Lipsia — si sviluppa soprattutto dopo l’incontro con Wagner: «Nessun altro mi fa manifesta l’immagine di ciò che Schopenhauer chiama “il genio”»; «È il mio corso pratico di filosofia schopenhaueriana» — scrive Nietzsche, con entusiasmo, agli amici .
All’interno dei suoi studi sulle tradizioni della storia letteraria, nei primi anni di Lipsia, il filosofo intraprende una radicale critica dei metodi, delle angustie, delle finalità degli studi filologici della sua epoca incapaci di cogliere lo spirito dell’antichità. La prospettiva muove da Schopenhauer ed assume anche i caratteri di critica, a favore della visione artistica, contro la sopravvalutazione della storia e contro i ‘costruttori’ di storia che usano le categorie interpretative di ‘progresso’, ‘necessità’, ‘sviluppo’. La storia è essenzialmente storia dei confusi bisogni e impulsi della massa, «la singola personalità conta solo in quanto ha agito sulla massa», il successo è legato alla capacità di soddisfare bisogni. «I bisogni il cui soddisfacimento è più vistoso e si esprime in guerre, letterature, etc. non per questo sono i più importanti. Un pezzo di pane è sempre più importante di un libro» . È evidente in queste riflessioni l’influenza della caratterizzazione che Schopenhauer fa del ‘talento’ come di colui che è capace di rispondere ai bisogni dell’epoca, al servizio comunque della volontà e diverso, per sua natura, dal genio
di solito in contraddizione e in lotta contro il suo tempo [...]. Gli uomini, che hanno solo talento, arrivano sempre al momento giusto: infatti, poiché sono stimolati dallo spirito del proprio tempo e provocati dal bisogno del presente, sono anche in grado di soddisfare questo preciso bisogno .
Per Schopenhauer solo al genio e al «vero eroe» (tra loro avvicinati per l’isolamento e la lotta contro le tendenze dell’epoca) si addice il predicato di ‘grande’: «Andando contro la natura umana, non hanno cercato il proprio interesse, né hanno vissuto per sé, bensì per tutti» . Solo i grandi possono percepire il grande e solo il grande filosofo capace di una visione universale dà impulsi al lavoro subalterno e riproduttivo del filologo. Il confronto tra il genio filosofico (‘datore di lavoro’) e filologo (‘operaio di fabbrica’) — la metafora è direttamente derivata dai Parerga di Schopenhauer — torna più volte nelle riflessioni del giovane Nietzsche. «Anche i nostri massimi talenti filologici sono solo relativamente datori di lavoro»; da un punto di vista più alto non sono essi stessi che «operai al servizio di qualche grande semidio della filosofia» .
La filologia — si legge nella prolusione di Basilea — è un nome che copre attività scientifiche tra loro diverse e che ha un carattere composito: «È un po’ storia, un po’ scienza naturale, un po’ estetica» . Il tentativo è quello di trovare, in quella ‘pozione magica’, miscuglio di materiali e impulsi più eterogenei, una via di uscita dai muri dalla prigione storicistica che pone anche il migliore filologo in un rapporto esclusivo «con i pensieri fissati per scritto» . Sotto l’influenza di Schopenhauer, Nietzsche sottolinea, nei suoi appunti per una storia degli studi letterari, come oltre alla membrana «spessa ed impenetrabile» che avvolge le cose in sé, l’osservatore storico sia da esse separato anche da «quelle due membrane che sono le rappresentazioni del tempo e delle fonti» . Una via d’uscita verso una realtà più immediata, sembra essere, a partire dall’inverno 1868-69, la considerazione sulla «conoscenza scientifica [naturwissenschaftlich] dell’essenza del linguaggio»: il più bel trionfo della filologia «è la linguistica comparata con la sua prospettiva filosofica» grazie alla quale «sono state scoperte delle leggi, si è entrati tra le scienze naturali [...], si è cercata una via verso i problemi del pensiero». La componente naturwissenschaftliche della filologia è da Nietzsche collegata alla tematizzazione del «più profondo istinto dell’uomo, l’istinto linguistico». Nietzsche sembra credere, dopo la lettura di Eduard von Hartmann, che la tematica degli istinti, caratterizzati come oscura potenza della storia, gli permetta un rapporto più diretto con la natura: in tal modo non ci si limita più ad esaminare solo «gli occhiali con cui uomini lontani vedevano il mondo» .
Se noi cerchiamo di intendere questi uomini straordinari, insieme ai loro pensieri, solo come sintomi di correnti spirituali, come sintomi di vita ininterrotta degli istinti, tocchiamo direttamente la natura. Lo stesso accade quando procediamo fino all’origine del linguaggio .
Gli interessi verso le scienze della natura, sviluppatisi a partire dalla lettura della Storia del materialismo di Lange e presenti anche negli appunti sulla teleologia (del 1868) e negli studi democritei, lasceranno il posto, nel percorso più visibile della riflessione di Nietzsche, alla ‘metafisica dell’arte’. Il filologo ideale sarà allora subordinato e complementare all’attività del genio artistico (Wagner) e la sua «inclinazione pedagogica» sarà recuperata in un senso più alto contro l’aspetto, apologetico ed ‘umanistico’, dominante nello studio attuale dell’antichità. Significative in questa direzione le lezioni tenute nel semestre estivo del 1871 e invernale del 1873-74 (Encyclopädie der klassischen Philologie und Einleitung in das Studium derselben) in cui il filologo assume un posto centrale con la funzione di educatore: per essere tale veramente egli deve comprendere la ‘classicità’ senza mistificarla. Di qui il necessario momento propedeutico della filosofia che, al contrario della scienza, riesce «a porre in luce da ogni punto di vista anche ciò che è particolarissimo» senza perdere di vista la visione complessiva, in grande, che permette di porre al passato domande nuove per avere nuove risposte . Nelle lezioni si precisa la professione di fede espressa con la temeraria inversione del motto di Seneca («philosophia facta est quae philologia fuit» ) e posta da Nietzsche alla fine della sua prolusione su Omero. La scelta filosofica, propedeutica necessaria per il nuovo filologo, è l’‘idealismo’ inattuale promosso da Schopenhauer: «Qui appare la cosa più utile l’unione di Platone e Kant». Ciò comporta, come nella prolusione, un conciliante programma in cui l’attività filosofica sembra poter integrarsi, senza dilacerazioni, con la stessa attività filologica. La ricerca dell’«antichità reale» degli studi filologici non necessariamente preclude l’«antichità ideale». Il nuovo filologo — dotato di una enorme ‘riproduttività’ di contro alla creatività del genio — diviene così l’insegnante ideale, «il mediatore tra i grandi geni e i nuovi geni in divenire, tra il grande passato ed il futuro» . Nietzsche afferma che il filologo deve essere ‘uomo moderno’ ma legato con la grandezza moderna capace di aprire la via alla grandezza reale dell’antichità. Il tema è ripreso e sviluppato nelle conferenze Sull’avvenire delle nostre scuole che pongono una necessaria continuità di aspirazione «verso la terra della nostalgia, la Grecia», tra i grandi classici tedeschi e il nuovo educatore: non è possibile «saltare direttamente, senza servirsi di ponti, in quello straniato mondo greco» . L’affermazione che troviamo più volte nel periodo giovanile, del «legame che avvince realmente la più intima natura tedesca al genio greco» — con qualche richiamo, perfino, alla «fedeltà del soldato tedesco» — appare una concessione alle posizioni wagneriane e sarà oggetto di una decisa e ferma autocritica a partire da Umano, troppo umano.
La filosofia di Schopenhauer guida la ricerca, nel passato, di atteggiamenti pessimistici che vanno al di là della divisione tra Paganesimo e Cristianesimo. Ciò impone anche una cautela critica nei confronti della categoria della «serenità greca [griechische Heiterkeit]» che non tiene conto del sostrato della tragedia, dei misteri, della filosofia di Empedocle. La prospettiva capace di fornire l’orizzonte di senso al lavoro filologico è ‘l’elemento universalmente umano’: «L’arte greca è l’unica che sopravanzi i limiti nazionali: qui giungiamo per la prima volta all’Humanität cioè non alla umanità media, ma alla umanità più alta» . Nietzsche insiste, qui come altrove, sulla falsificazione umanistica della essenza naturale, tragica, della natura umana, che si rivela scopertamente nel mondo greco dove l’individualità è possibile in maggior misura e con maggior forza che nel mondo moderno. Nel mondo greco è ancora unito ciò che nel mondo attuale, sotto l’impero della civilizzazione e della divisione del lavoro, è in pezzi: l’arte con la religione, l’individuo con la comunità e lo Stato. Il concetto di ‘Humanität’ non ha niente a che fare con i «diritti fondamentali»: la bella comunità che rende possibile belle individualità ha come sua condizione terribile la schiavitù.
Nietzsche propone l’immagine dell’uomo ideale come qualcosa di raro, come capace di tenere insieme e in equilibrio gli istinti: egli è ad un tempo «profondo, mite, artistico, politico, bello, dalla nobile forma». Per arrivare a questa immagine ideale Nietzsche ritiene ancora necessario il modello greco. Negli anni successivi, quando matura la crisi della metafisica dell’arte e del rapporto con Wagner, tornando con più radicalità ad una critica della filologia attuale, Nietzsche ritiene che «dalla civiltà antica noi siamo separati per sempre, in quanto le sue fondamenta sono per noi diventate completamente fradicie» . Il mito, il pensiero ‘impuro’, la religione e anche l’arte, succedanea della religione — in quanto ‘narcotici’ e ‘medicine inferiori’ — non possono più essere i fondamenti della nuova civiltà.
Proprio Wagner a Bayreuth, segna la crisi radicale della centralità metafisica dell’arte vista ora come ‘l’attività di colui che riposa’: «Gli oggetti a cui mirano gli eroi tragici non sono senz’altro di per sé le cose più degne d’essere desiderate». L’opera d’arte viene valorizzata solo in quanto semplifica i problemi e le soluzioni: per questo essa appartiene al sogno ristoratore che precede la battaglia eroica dell’individuo contro il ‘potere’, la legge, le convenzioni. «L’arte non è certo una maestra e un’educatrice per l’agire immediato; l’artista non è mai in questo senso un educatore e un consigliere». Per chi è divenuto «veggente di fronte al reale» l’arte rappresenta, nella sua semplificazione delle «reali lotte della vita» e del «calcolo infinitamente complicato dell’agire e del volere umano», un ristoro momentaneo. La fuoriuscita immediata dal caos, promessa dall’arte tragica e legata alla morte redentrice dell’eroe («Il modo più bello di vivere per gli individui è di maturare per la morte e immolarsi, nella lotta per la giustizia e l’amore»), appartiene alla consolazione momentanea. «Perché l’arco non si spezzi, perciò esiste l’arte» . Nella ‘semplificazione’ wagneriana del mondo è già avvertito il pericolo della letargia. La categoria ampia di ‘educazione’ si sviluppa ora in contrapposizione a questi pericoli presenti nell’arte. Accanto ad un fondo immutabile e tragico dell’esistenza, si riconosce un campo di mobilità che, liberato dalle strutture metafisiche, può essere plasmato dall’attività umana ordinatrice, dall’«effettivo potere sulle cose». La filosofia deve stabilire «fino a che punto le cose abbiano natura e forma invariabile: per poi procedere col coraggio più intransigente al miglioramento della parte di mondo riconosciuta mutabile» . L’«educazione» viene definita «anzitutto una dottrina del necessario, ed in seguito una dottrina di ciò che si trasforma ed è modificabile».
Per questo compito, ai tradizionali educatori della gioventù tedesca, Nietzsche ritiene si debbano sostituire «il medico — il naturalista — l’economista». Negli appunti per l’Inattuale sulla filologia che pongono come centrale il tema dell’educazione e la necessità di «educare gli educatori», il filologo non ha più un ruolo centrale positivo. L’ultimo importante tentativo di Nietzsche di aprirsi una via verso la realtà ancora all’interno della disciplina filologica rinnovandone radicalmente la pratica, prima di abbandonare definitivamente la cattedra di Basilea per divenire filosofo e fugitivus errans, è costituito dall’uso dell’etnologia e della sociologia dell’epoca (Tylor, Lubbock, Wuttke, Hellwald, Bagehot, Spencer) ampiamente documentato dalle lezioni sul culto divino dei Greci . Riflessioni centrali di questo corso diverrano aforismi di Umano, troppo umano.
5. L’illusione vitale in Nietzsche e Renan. L’eroismo della razza celtica - Alcuni frammenti della fine del 1874 contengono l’abbozzo di un dramma allegorico su Prometeo in cui Nietzsche intendeva affrontare la critica della civiltà moderna nel suo rapporto con la Grecità. I temi accennati nei frammenti su Prometeo — e la forma che vuole esprimerli — sono, come anche il più articolato tentativo di tragedia su Empedocle, lontani prodromi dello Zarathustra. Mentre la figura di Empedocle dipende fortemente da Hölderlin, questo abbozzo si richiama a Goethe, in particolare alla Pandora che esprime la Sehnsucht per la bellezza e la felicità del passato.
Al centro ancora la morte di Zeus, andato in rovina a causa del figlio e del fatto che Prometeo non ha voluto svelare il segreto della fine del dio. Zeus, volendo la distruzione degli uomini, aveva inventato la splendida civiltà greca: gli uomini in tal modo avrebbero perduto il gusto della vita nell’impossibile tentativo di uguagliare i Greci e nella assoluta nostalgia di quella irraggiungibile bellezza. Il figlio di Zeus provvede all’uopo rendendo gli uomini stupidi e timorosi della morte: da ciò il loro odio per il mondo greco e l’attaccamento ad una ‘piccola’ sopravvivenza. Prometeo manderà Epimeteo per contrastare la volontà del figlio di Zeus, volenteroso anche lui di annientare in altro modo gli uomini. Epimeteo suscita Pandora (‘la storia, il ricordo’) e con essa ‘la favolosa Grecità’. Essa in un primo tempo seduce gli uomini alla vita; in un secondo momento, rivelatisi ‘terribili e inimitabili’ i fondamenti reali di quella cultura, li allontana dalla vita. Prometeo dopo aver ridotto gli uomini ad un’amalgama (una ‘massa’, una ‘poltiglia’) può creare il nuovo uomo, ‘l’individuo del futuro’. Per rinascere in una nuova forma superiore gli uomini ‘devono anzitutto perire’. In questi frammenti compare anche Dioniso, ‘colui che supera il mondo’, destinato comunque, come Zeus, ad andare in rovina. Da alcuni cenni si comprende come, nelle intenzioni di Nietzsche, il dramma dovesse avere caratteri grotteschi e satirici: «Gli dèi sono stupidi (l’avvoltoio chiacchiera come un pappagallo) [...]. L’avvoltoio non vuol più divorare. Il fegato di Prometeo cresce troppo [...]. Prometeo e il suo avvoltoio sono stati dimenticati» . Tale avvoltoio, alla luce delle affermazioni dello scritto postumo su Lo stato greco, potrebbe essere compreso come la verità dell’affermazione: «La schiavitù rientra nell’essenza di ogni cultura». Scrive infatti Nietzsche che la violenza esercitata sulla casta di schiavi (terribile e necessaria per la creazione di una cultura), è la realtà «che non lascia alcun dubbio sul valore assoluto dell’esistenza. Tale verità è l’avvoltoio che divora il fegato al fautore prometeico della cultura» . Da questa verità l’uomo moderno rifugge nascondendo, a se stesso e agli altri, la generale schiavitù del mondo che lo circonda, priva di senso e finalità superiori, attraverso l’‘allucinazione concettuale’ della dignità dell’uomo e del lavoro.
Nietzsche, in più luoghi, riprende le pagina dove Schopenhauer attacca la ‘dignità dell’uomo’ come una formula vacua che nasconde l’assenza del concetto. La concezione metafisica di Nietzsche, che vede come finalità ultima e necessaria della realtà la produzione del genio, propone un’altra dimensione, più dura ed eroica, della dignità: «Ogni uomo, con tutta la sua attività, acquista una dignità solo in quanto sia, coscientemente o incoscientemente, uno strumento del genio [...] solo come essere pienamente determinato, al servizio di scopi ignoti, l’uomo può giustificare la propria esistenza» . Il dovere appare come «obbedienza verso un istinto, che si presenta nella figura di pensiero» . Nell’istinto si esprime direttamente una volontà che sottomette con l’inganno l’individuo. La vergogna, che accompagna nel mondo greco anche la produzione artistica come seduzione alla vita, è l’espressione di una consapevolezza dell’uomo greco di essere solo uno strumento di fenomeni della volontà che lo trascendono infinitamente come individuo. I veri moventi della volontà sono nascosti dalle rappresentazioni del dovere e si impongono come istinti. La struttura di inganno è quella individuata da Schopenhauer nella metafisica dell’amore sessuale: l’istinto è illusione (Wahn) che perpetua la volontà di vivere, è l’inganno da parte del ‘genio della specie’ a spese dell’individuo. Il postulato iniziale di Nietzsche della impossibilità pratica della negazione della vita, comporta l’accettazione di questi meccanismi di illusione funzionalizzati alla costruzione di una civiltà superiore. L’arte e il mito sono l’immagine illusoria più alta di seduzione alla vita: «Correggere il mondo — ecco la religione o l’arte. Come deve apparire il mondo, perché valga la pena di vivere?» . La trama delle illusioni è nelle mani del genio tragico che, per amore e compassione della comunità, asseconda l’inganno dell’Uno originario. La scelta della Grecità è lontana dal puro dionisiaco (letargico) come dal nefando ottimismo alessandrino del mondo moderno: la civiltà greca è una costruzione piramidale che ha al suo culmine la realtà del genio, ed è saldamente vincolata alla vitalità dell’istinto. In tal modo si mantiene un rapporto non distruttivo (velato e protetto dal mito) con il fondo tragico che nel genio soddisfa in modo potenziato la sua capacità artistico-rappresentativa. L’adeguarsi all’inconscia teleologia della natura significa subordinarsi in modo assoluto al genio.
Un meccanismo analogo di illusioni che si impongono come istinto, in connessione con l’inganno della natura, si trova in Renan. L’autore francese, non a caso, è valorizzato in questi anni da Wagner e da Nietzsche soprattutto per la centralità che assegna al tema del genio/eroe fino ad interpretare (contro Strauss) in tal modo la figura di Gesù. Anche Renan si richiama esplicitamente alla metafisica dell’amore sessuale di Schopenhauer, criticandone l’atteggiamento di rivolta: è più saggio lasciarsi ingannare, sottomettersi al ‘machiavellismo’ della natura: «Il suo scopo è buono; quindi dobbiamo volere ciò che essa vuole. La virtù è un amen ostinato, detto agli oscuri fini che la Provvidenza persegue tramite noi». La forte teodicea, la garanzia teleologica di uno stato finale di pieno valore («Dio è una necessità assoluta. Dio sarà e Dio è. Sarà come realtà, è in quanto ideale» ) impone la generale subordinazione e gerarchizzazione. L’eroismo della devozione e il grado di ascetismo garantiscono della posizione che ognuno assume nella gerarchia in cui tutti, comunque, servono a fini superiori. Di qui la valorizzazione del sacrificio degli eroi umili ed oscuri (tutti costruiscono la piramide, tessono la tela di cui ignorano il disegno): «Si costruisce un’opera infinita, in cui ognuno inserisce la propria azione come un atomo» con la garanzia che nulla vada perduto. La guerre savante e la vittoria della Prussia, spingono Renan alla conferma di un modello sociale che unisca saldamente struttura gerarchica e valori feudali alla modernità tecnico scientifica. L’affermazione egoistica deve essere sacrificata all’efficienza e forza della macchina complessiva in cui il singolo è inserito come funzione: la guerra «suppone una grande assenza di riflessione egoistica poiché, dopo la vittoria, quelli che più vi hanno contribuito, cioè i morti, non ne godono». Il forte spirito antiborghese di Renan si scaglia contro la stupidità e volgarità di una esistenza ‘étroite et finie’, non illuminata dall’ideale, che comporta la dispersione egoistica di energia non finalizzata alla realizzazione del Dio. Agli ‘insipidi mercanti’ Renan contrappone la ‘sublime follia’ dello stilita, dell’asceta, dell’«héros de la vie désinteressée», perfino del fanatico che mette con gioia il suo capo sotto le ruote del carro sacro, perché questa follia testimonia comunque, in modo irrazionale, lo slancio verso l’ideale. «Il barbaro, con i suoi sogni e le sue favole, vale più dell’uomo positivo che non comprende che il finito» . Nelle discussioni seguite alla guerra franco-prussiana sul ruolo dell’educazione primaria per l’affermazione di una cultura, con particolare cinismo, Renan si pronuncia contro l’illusione «che facendo balbettare qualche parola razionale all’essere informe che la luce interiore non illumina, ne facciamo un uomo» . Il popolo va lasciato nella sua ignoranza, fedele ai suoi istinti che lo spingono, con cieca sicurezza, a servire l’ideale, a godere per procura della bellezza e superiorità dei grandi: i vincoli della ‘devozione’ non devono essere spezzati in nessun modo. Alcuni di questi temi elitari sono presenti anche in Burckhardt e nel giovane Nietzsche: la consapevolezza portata alla ‘cieca talpa della cultura’, in nome di un ‘nefando ottimismo’, è distruttiva della rete di illusioni vitali.
Burckhardt agisce su Nietzsche come contrappeso critico all’ideologia germanica di Wagner: i due professori di Basilea vedono nella guerra ‘zoologica’ tra nazioni, un minaccioso pericolo per la cultura. «Il più delle volte, il vincitore diventa stupido, il vinto diventa malvagio. La guerra semplifica [...]. È un letargo invernale della civiltà» . E più volte Nietzsche, in questo periodo, vede la regressione dell’uomo attuale alla ‘bestia da preda’ che corre ‘sul grande deserto della terra’, che ingaggia, in una furia generale, ‘lotte dilanianti con altri animali’ spinta solo da istinti immediati. La breve esperienza nella guerra franco-prussiana come infermiere volontario conferma Nietzsche nell’atteggiamento antieroico di compassione verso l’orrore materiale dei campi di battaglia fatto di ‘lezzo di cadaveri’ e purulenti ferite. La ‘patria’, la nazione (anche nel periodo giovanile) sono comunque, per Nietzsche, solo forme inferiori di illusione vitale (Wahn). E fino agli ultimi appunti del gennaio del 1889, paralleli ai ‘biglietti della follia’, Nietzsche si scaglia, in nome della fisiologia e della ‘grande politica’ della vita, contro la pace armata delle nazioni in Europa («un porcospino dall’eroico sentire» ) e la guerra: «È follia che poi si metta davanti alla bocca dei cannoni il fior fiore della forza e della giovinezza e della potenza» .
Gli eroi di Renan hanno il carattere della assoluta dedizione e sacrificio all’ideale. Nella costruzione del suo mito personale, Renan si richiama alle sue radici bretoni e al «sangue celtico» che ne avrebbero determinato il carattere idealistico, disinteressato, devoto. I bretoni sono presentati, più volte, come popolazione non contaminata dalla volgarità della civiltà moderna (egoistica ed utilitaria, perciò atea): «Questa razza ha nel cuore un’eterna sorgente di follia» vive di sogno e si logora ‘a perseguir l’ideale’. L’epopea culmina nel saggio del 1854 su La poesia delle razze celtiche. Qui si trova la variante nordica del mito dolce di Gesù: colui che «fece compiere alla sua specie il massimo passo verso il divino», «il principio inesauribile di rinnovamento morale» , pur lontano dal sentore che vi fossero ‘leggi’ di natura, ignaro di ogni scienza. Il «vangelo degli umili» comporta il primato del valore morale, cancellato, invece, dalla logica dei Dialoghi filosofici dove la figura di Gesù lascia interamente il campo al Dio-tutto e agli scienziati tiranni, dèi superuomini capaci di imporsi attraverso la minaccia di un inferno effettivo. Ne La poesia delle razze celtiche è significativo il confronto tra gli eroi delle saghe germaniche (dove regna «l’orrore della barbarie grondante sangue, l’ebbrezza del massacro») e quelli delle saghe celtiche (impregnate di un «profondo senso di giustizia, una grande esaltazione della fierezza individuale unita a un grande bisogno di devozione»). L’eroe germanico si caratterizza per la sua «brutalità senza oggetto», per l’amore del male, per il gusto disinteressato della distruzione e della morte di contro all’eroe cimbrico «dominato da abitudini di benevolenza e da una viva simpatia per gli esseri deboli», per gli animali, la natura, le pietre. L’eroe cimbrico non si distingue dal santo ed è capace di rivolgere la sua dolce pietà, come in una leggenda di San Brandano, perfino a Giuda sofferente nell’inferno. Il sogno, che sostituisce la realtà, impronta l’anima celtica e la sua sete di avventura è ancora «una corsa senza fine dietro l’oggetto sempre fuggevole del desiderio» .
La razza celtica resiste al tempo e difende le cause disperate: di qui — afferma con malizia Renan — la sua inettitudine alla vita politica. Quegli uomini hanno il senso della fissità della vita e dell’impossibilità di poterla cambiare: si rassegnano alla fatalità. La loro posizione è antitetica all’eroismo prometeico: «A vederli così poco audaci contro Dio, si crederebbe appena questa razza figlia di Japeto» . La volontà di infinito e di illusione comporta l’avvicinamento al narcotico:
Questa razza vuole l’infinito; essa ne ha sete, essa lo persegue ad ogni prezzo, al di là della tomba, al di là dell’inferno. Il difetto essenziale dei popoli bretoni, la tendenza all’ubriachezza, difetto che, secondo tutte le tradizioni del VI secolo, fu la causa dei loro disastri, è legato a questo invincibile bisogno di illusioni.
E questo, nonostante la lontananza da ogni sensualità grossolana: i Bretoni «cercavano nell’idromele quello che S. Brandano e Pérédur perseguivano alla loro maniera: la visione del mondo invisibile» .
Un quadro teleologico, che garantisce il progresso e la realizzazione del Dio, fa del sacrificio e dell’ascesi gli elementi caratterizzanti la grandezza. Il godimento dell’individuo sembra trattenuto e rimandato alla sua realizzazione finale, nel piacere immenso di un corpo immenso di cui l’individuo sarà una cellula vivente: «Un solo essere, che sente, che gode, che assorbe con la sua gola ardente un fiume di voluttà che strariperebbe fuori di lui in un torrente di vita […]. La natura, a tutti i livelli, ha l’unica preoccupazione di ottenere un risultato superiore con il sacrificio di individualità inferiori» .
6. Una ‘consolazione metafisica’ per l’eroe che muore - In Nietzsche, la metafisica dell’artista impone la necessaria distruzione del¬la individualità dell’eroe perché sia possibile il raggiungimento di una nuova forma. La tragedia attinge con la morte dell’eroe la consolazione metafisica che permette, anche per la filosofia di Schopenhauer, l’affermazione eroica della vita: malgrado la morte e la caducità di tutte le cose individuali, ogni essere che vuole esistere ha assicurata l’esistenza senza fine ed interruzioni. «L’eroe, la più alta apparenza della volontà, viene con nostra gioia negato, perché è comunque solo apparenza, e la vita eterna della volontà non viene toccata dalla sua distruzione» . Dopo la morte della tragedia, la dissonanza tragica — l’eroe martirizzato dalla sorte — perde la superiore consolazione metafisica e cerca una soluzione terrena, un deus ex machina per il lieto fine di una ricompensa terrena: «L’eroe era diventato il gladiatore a cui, dopo che era stato bellamente scorticato e coperto di ferite, si donava talvolta la libertà» .
Nella Nascita della tragedia — il cui frontespizio portava come vignetta la figura di Prometeo liberato dalle catene realizzata da Leopold Rau — appare centrale il riferimento alla ubris come ‘peccato attivo’ del titano Prometeo a partire dall’inno goethiano («Vero e proprio inno dell’empietà»). Viene qui utilizzata la dubitosa categoria interpretativa di ‘ariano’ (per il mito ‘maschile’ di Prometeo), diffusa in lavori di linguistica e storia del linguaggio allora in voga anche se segnati da grande confusione (la caratterizzazione ariana corrispondeva, per molti, al principio primordiale femminile, materno). Ricordiamo come Michelet, nella sua Bible de l’humanité (la Bibbia solare che nasce presso gli Ariani ‘figli della luce’) veda in Prometeo ‘l’émancipateur primitif’ contro le tenebre dell’oriente, ‘toute énérgie libre a procedé de lui’, la sua lezione «est directement contraire aux Sauveurs ténébreux, aux faux libérateurs». Prometeo è espressione di una umanità che non si piega: «on sent que l’héroisme en l’homme est la nature» . Certamente la contrapposizione tra il mito ariano di Prometeo e «il mito semitico del peccato originale», in cui predomina una «serie di affetti eminentemente femminili», poteva compiacere l’antisemitismo del suo interlocutore privilegiato Wagner ma non appare essenziale alla costruzione metafisica che dà il senso al mito.
Prometeo rappresenta l’«eroico impulso» dell’individuo a superare i limiti dell’individuazione in una tensione verso l’universale. La sua volontà di essere ‘l’unica essenza del mondo’ comporta l’assunzione su di sé della contraddizione originaria: il Titano «commette un delitto e soffre». L’interpretazione di fondo è legata alla struttura della metafisica dell’arte e al tema schopenhaueriano della ‘giustizia eterna’: la volontà originaria che ha commesso la colpa dell’individuazione subisce la sofferenza. Anche Prometeo che, come i vari eroi della scena tragica, appare preso nella rete della volontà individuale e che come individuo «sbaglia, lotta e soffre», è in realtà la maschera apollinea di Dioniso-Zagreus dei misteri, sofferente, fatto a pezzi dai Titani e che aspira ad una rinascita che ponga fine all’indivi¬duazione. La soluzione della tragedia pessimistica che giustifica il male umano eticamente, nella direzione schopenhaueriana, viene superata in Nietzsche dall’accettazione tragica della realtà: «Tutto ciò che esiste è giusto ed ingiusto, e in entrambi i casi ugualmente giustificato». Tale affermazione dell’innocenza del divenire, in Nietzsche, è ancora ostacolata dall’accettazione di categorie metafisiche schopenhaueriane sia pure profondamente modificate alla luce della riflessione teorica di Wagner.
Nietzsche afferma che lo sguardo dello spettatore tragico, potenziato dalla forza della musica, non si arresta alle belle illusioni plasticamente vive sulla scena: deve rifugiarsi di nuovo in grembo alla vera e unica realtà attraverso la distruzione dell’eroe-individuo. «A un altro essere e a una gioia superiore, l’eroe combattente, pieno di presagi, si prepara con la sua rovina, non con le sue vittorie» . Il mondo trasfigurato della scena viene visto da uno sguardo che «desidera essere cieco», aspira cioé alla superiore chiaroveggenza musicale (il «sogno vero» del cuore del mondo capace di comunicarsi solo attraverso le immagini depotenziate del sogno allegorico, della mattina). Nietzsche utilizza in modo ravvicinato per la sua riflessione le tematiche del Beethoven di Wagner, in cui il musicista riformula, in termini completamente nuovi e coerenti col primato schopenhaueriano della musica, la teoria del dramma musicale. L’unità del dramma è garantita ora non più, come nelle teorie giovanili, dal ricongiungimento delle arti sorelle divise e degradate a técnai sotto il dominio della civilizzazione, ma dalla visione romantica della musica come un linguaggio privilegiato capace di produrre visioni.
La svolta di Wagner era stata radicale. Come Nietzsche avvertirà polemicamente: il musicista diventa ora portavoce privilegiato dell’in-sé delle cose, oracolo, sacerdote, «ventriloquo d’Iddio». Il tentativo di Nietzsche è quello di valorizzare in Wagner l’affermazione tragica dell’arte, il serio ‘gioco’ con la realtà, contro i pericoli nichilistici impliciti nelle scelte del musicista. Questo comporta l’accentuazione degli elementi di continuità e una lettura anticristiana del tema dell’eroismo wagneriano.
7. Veracità eroica e inattualità: la lezione di Schopenhauer - Nietzsche, nella sua radicale autocritica del periodo romantico, vedrà nell’atteggiamento ‘inattuale’, in quella forma di agonismo contro il proprio tempo, una espressione di gioventù, di inesperienza ma anche di reale debolezza: «Oggi io comprendo che con questa specie di accusa, di esaltazione, di scontentezza, io appartenevo, proprio per questo, ai più moderni tra i moderni» . Quella delle Inattuali è ‘la metafisica della cultura’ che è anche una metafisica della gioventù capace di un nuovo eroismo (il modello è Sigfrido): la situazione della cultura viene giudicata in base ai solitari, grandi eroi di un’epoca ed al loro rapporto con il popolo . Tutta l’azione di Nietzsche (e le Inattuali pretendono di essere azione contro le viltà e le pigrizie dell’epoca) si presenta come sacrificio e dedizione per la realizzazione del genio.
La lotta è contro le varie maschere del filisteismo e la pavidità che fa uso della passata grandezza per opporsi alla costruzione di una nuova cultura e alla possibilità di nuovi genii. I filistei, nascosti dietro il rassicurante ‘noi’ e a maschere irrigidite nei ruoli sociali, «preoccupati della commedia comune e niente affatto di sé», hanno come parola d’ordine: «non dobbiamo più cercare» . Anche in questo caso il riferimento di Nietzsche è, puntuale, a Wagner che parla del dono fatto, a chi nasce, dalla più giovane delle Norne perché tutti, un giorno, possano diventare dei genii: «Lo spirito mai soddisfatto e che cerca sempre qualcosa di nuovo» .
L’affermata ‘patria metafisica’ del genio diventa momento di fanatica convinzione con la possibilità della rovina dei nuovi eroi: «Le loro parole e azioni sono esplosioni ed è possibile che per esse, essi stessi periscano».
In un frammento del 1878 Nietzsche ribadisce a proposito di Schopenhauer, accanto alla «diffidenza verso il sistema fin dall’inizio», la valorizzazione costante della persona: «Egli tipico come filosofo e promotore della cultura» . Il giovane Nietzsche, già nella primavera del 1868, aveva fatto i conti definitivamente, in poche, tormentate pagine di appunti, dell’elemento sistematico della metafisica di Schopenhauer, sulla base della lettura di Lange e di altri filosofi neokantiani, mantenendo una fedeltà superiore a Schopenhauer. Nella terza Inattuale il filosofo diventa maestro di eroismo: il riferimento privilegiato sono le pagine dei Parerga in cui la ‘eudemonologia’ è in primo piano come l’arte, l’accortezza, gli strumenti per ‘superare la vita’ con la consapevolezza che «una vita felice è impossibile: il massimo che l’uomo può raggiungere è una vita eroica» . Nietzsche riprende queste parole dei Parerga per caratterizzare l’agonismo educatore di Schopenhauer, la necessità di un «animo duro, corazzato contro il destino e armato contro gli uomini»: «On meurt les armes à la main» . Il ritratto di Schopenhauer ha indubbiamente toni emersoniani, parenetici: la stessa caratterizzazione dell’eroismo risente da vicino dei saggi del filosofo americano e, in particolare, delle considerazioni su questo tema. L’essenza dell’eroismo, questa ‘attitudine militare dell’anima’, è «obbedienza ad un impulso segreto in un carattere individuale», «fiducia in se stessi», «diffidenza per la falsità e il torto». È il coraggio della veridicità contro le illusioni, contro «la falsa virtù che si basa sulla salute e sulla ricchezza» . L’elemento che Nietzsche aveva valorizzato fin da giovane in Emerson è la sfida, piena di amore per l’immanenza e di energia, alle limitazioni poste dalla natura, è il «non curvare la schiena» di fronte al ‘fato’, un ‘drago’ da dominare e cavalcare.
Da Schopenhauer procede sia la ‘vivisezione’ dell’illusione, sia il sonno metafisico più profondo del genio wagneriano. Il nucleo del ritratto che Nietzsche fa del filosofo assume però, sempre più, i caratteri della «veracità eroica». Lo Schopenhauer inattuale conduce «nella più sottile e pura, gelida aria alpina, per far sì che possiamo decifrare i geroglifici di granito della natura». Esige la prova di forza: «Chi non resiste lassù torni pure giù in fretta a rifugiarsi nella mollezza della sua cultura trasfiguratrice» . Le metafore del gelo di montagna e l’espressione ‘spirito libero’ (con quella di «distruttore che libera [befreiender Zerstörer ]») caratterizzano, negli appunti della primavera-estate 1874, la figura del filosofo pessimista. Questo Schopenhauer, già «volterriano», nonostante il pathos della verità e il travestimento emersoniano, apre a Nietzsche la via della liberazione, al pieno recupero di se stesso.
8. Siegfried, il filosofo in divenire - La riflessione e la passione di Nietzsche per il tema dell’eroismo è anche, immediatamente, una riflessione sui drammi musicali di Richard Wagner. La nascita della tragedia è anche ‘rinascita’ della tragedia e ‘azione’ inattuale sul presente a favore della cultura. Nella posizione del giovane Nietzsche prevale l’interpretazione metafisica della distruzione dell’individualità eroica (intesa come apparenza) che aspira alla dissoluzione nell’unità superiore («Il genio è l’apparenza che annienta se stessa. Serpens nisi serpentem comederit, non fit draco» ). Accanto al primato schopenhaueriano della musica («Il musicista assoluto: il solitario dispregiatore del mondo della parvenza») che è il presupposto di questa interpretazione, Nietzsche sviluppa temi legati alla riflessione giovanile di Wagner quali la centralità della mimica e della danza, «il più materiale tra tutti i generi d’arte», che ha come materia il corpo umano, l’uomo fisico nella sua interezza. Nella musica dionisiaca l’individuo aspira ad esprimersi come essere appartenente alla specie [Gattungswesen], il coro dei satiri lo rappresenta simbolicamente come «uomo della natura tra uomini della natura». La tragedia greca era per Wagner un modello, non solo artistico, capace di realizzare l’unità delle arti ma anche un atto di bella ‘religione umana’: l’individuo ritrovava immediatamente nell’eroe sulla scena ‘la parte più nobile di sé’, se stesso potenziato nella verità dell’elemento umano generico. Nel dramma antico, come festa popolare, l’individuo vedeva realizzata la sua destinazione comunitaria: l’arte era allora «gioia di sé, dell’esistenza, dell’umanità intera». Motivi della filosofia della storia hegeliana (la libertà dei pochi come limite del mondo greco, la ‘schiavitù reciproca e universale’ dell’impero romano, il Cristianesimo come espressione della ‘coscienza infelice’ etc.) ma soprattutto il materialismo e universalismo di Feuerbach sono fortemente presenti nelle riflessioni giovanili di Wagner. Ancora nel 1853, nel commento alla terza sinfonia di Beethoven, Wagner descrive l’eroe come «l’uomo completo cui sono proprie tutte le sensazioni puramente umane — amore, dolore, energia — nella loro massima pienezza e potenza» . La posizione del giovane Wagner è fortemente anticristiana: il Cristianesimo appare espressione di rinuncia alla vita, negazione dell’arte, ‘orrore della comunità’, alienazione . Nietzsche opporrà al Wagner ascetico dell’ultimo periodo, le espressioni letterali sulla ‘sana sensualità’ come redenzione, da lui usate in gioventù, direttamente derivate da Feuerbach . Wagner, nel suo profilo autobiografico del 1843 e nella successiva La mia vita, ricorda appunto come, contro il «misticismo astratto», avesse imparato attraverso l’Ardinghello di Heinse e La giovane Europa di Laube ad «amare la materia», a «godere la vita», «guardare il mondo con occhi sereni». Nella sua opera giovanile Divieto d’amare «la libera, aperta sensualità — scrive Wagner — vince con le sole sue forze, l’ipocrisia puritana» .
Più volte Nietzsche lega la sua superiore fedeltà al Wagner ateo e anticristiano: ancora nei frammenti postumi per la tormentata quarta Inattuale, il filosofo insiste, in un confronto con Eschilo, libero di fronte ai vari Zeus , sul carattere irreligioso dei poeti e sullo specifico ateismo di Wagner, uomo moderno che «crede in se stesso». Nietzsche riprende il legame forte tra eroismo, amore e morte presente nei drammi wagneriani interpretandoli alla luce delle teorie giovanili del musicista e insistendo sull’elemento vitalistico:
La morte è il suggello di ogni grande passione ed eroismo: senza di essa, l’esistenza non ha alcun valore. Essere maturo per la morte è la cosa suprema che possa venir raggiunta, ma altresì la cosa più difficile, che si conquista attraverso lotte e sofferenze eroiche. Ogni morte di questa natura è un vangelo dell’amore .
Il tema dell’amore era al centro, in particolare, della riflessione e della poetica wagneriana negli anni 1848-1854: l’amore è il mediatore tra la forza e la libertà. Non imposto dall’alto come l’amore cristiano, esso è la manifestazione più attiva della natura umana. Forte l’influenza di Feuerbach, soprattutto dei Pensieri sulla morte e l’immortalità: l’amore trova il suo compimento nella morte come ultima redenzione dall’egoismo verso il raggiungimento dell’unità più reale. I tratti pieni dell’ebbrezza di morte nel finale del Tristano, la vittoria definitiva sulle menzogne del giorno che separa gli amanti (l’io e il tu), devono comunque molto, sia pure attraverso la Volontà di Schopenhauer, alla teoria giovanile di Wagner sull’amore. Scrive Nietzsche: «L’amore nel Tristano deve essere inteso in senso non già schopenhaueriano, bensì empedocleo: manca del tutto l’elemento peccaminoso: l’amore è un segno e una garanzia di unità eterna» . Wagner consapevolmente fin dal 1857, su questo punto, ritiene di dover correggere e completare il filosofo pessimista: l’amore che sorpassa la volontà individuale manifesta una via di salvezza, che porta la possibilità di una purificazione della volontà.
Analogamente, la morte significa la fine dell’individualità e la continuazione della vita nella pienezza della specie, «l’ultimo sicuro annullamento dell’egoismo». È anche il senso del sacrificio e della redenzione di molti eroi e, soprattutto, eroine wagneriane. «Ogni forte passo della vita sul palcoscenico è accompagnata dall’eco cupa della morte» — commenta Nietzsche. La morte per amore è quindi ricerca del ‘puro umano’, superamento dei limiti individuali e degli ostacoli di una vita dominata dagli arbitri della legge: «Il peccato contro la proprietà è determinato unicamente dalla legge della proprietà». Queste parole si trovano nell’abbozzo Gesù di Nazareth, in cui il Cristo è espressione della ‘coscienza infelice’ dell’artista nella situazione degradata del mondo moderno. La «fuga davanti a questa vita», l’autoannientamento, appare l’unica soluzione possibile per sciogliere i legami da una bassa sensualità e per realizzare una natura purificata non potendo distruggere, attraverso la rivoluzione, le leggi e le convenzioni di «una società senza amore». Gli eletti — gli eroi — restaurano l’ordine pacificato, retto dall’amore contro la proprietà, rappresentano il futuro e la vita contro il dominio del passato e delle morte cose. Nella lettera indirizzata a Röckel del 25 gennaio del 1854, Wagner afferma che ‘la paura della morte’ caratterizza «azioni, leggi, istituzioni» attuali: «Dobbiamo imparare a morire, e morire nel senso più pieno della parola. La paura della fine è la sorgente d’ogni mancanza d’amore».
Nietzsche, negli anni settanta, prende sul serio fino in fondo, le intenzioni di Wagner ed il carattere filosofico delle sue affermazioni. In particolare valorizza l’Anello del Nibelungo in quanto «immenso sistema di pensiero» espresso in una «forma visibile e sensibile» . Il musicista ha saputo trarre dalle filosofie l’elemento agonistico: «Maggior coraggio e decisione, non succhi narcotici». «Wagner è filosofo soprattutto là dove è più risoluto all’azione ed eroico» . Nell’appunto preparatorio a questo brano di Wagner a Bayreuth Nietzsche fa significativo riferimento, per il loro ardito simbolismo, al gesto e alle parole di Siegfrid in risposta alle figlie del Reno . Gettando via, al di sopra del capo, una zolla di terra, alludendo alla sua vita, Siegfried afferma: «Così la getto via, lontano da me». È il tema dell’eroe che vive nella leggerezza e nella pienezza dell’amore e della immediata vitalità istintiva e, per questo, non ha conosciuto la paura. La filosofia che esprime Siegfried è quella che «distrugge gli dèi, contro la quale va in pezzi la lancia di Wotan». Nietzsche continuerà a valorizzare Siegfried, dandogli un ruolo filosofico centrale, insostituibile anche quando coprirà di sarcasmi gli altri eroi ed eroine wagneriane. In Al di là del bene e del male (aforisma 256) valorizza contro il Parsifal la creazione di un Sigfrido ‘antilatino’, liberissimo, gaiamente e innocentemente barbaro e anticattolico, decisamente antiromantico. Afferma in più punti che solo la propria filosofia è adeguata a quella figura e che Schopenhauer ha falsificato la direzione dell’arte wagneriana, decisamente anticristiana . Ancora più estrema è la sibillina affermazione: «Siegfried il filosofo in divenire [Der werdende Philosoph Siegfried]» . Certo nelle intenzioni di Nietzsche, Siegfried significava il recupero da parte di Wagner delle sorgenti naturali: ancora «l’uomo non è stato esaurito». Wagner «scaccia la rappresentazione secondo cui il mondo sarebbe diventato organicamente vecchio». Il dummer Siegfried afferma la forza della creazione attraverso l’inconscio, contro la conoscenza degli dèi che porta all’annientamento. La conoscenza astratta trova solo nella propria fine la redenzione possibile. Nell’eroe nibelungico si legge la possibilità dell’artista/artigiano libero, capace di foggiarsi, contro l’impotenza della tecnica di Mime, per puro piacere, la spada (una ripresa del mito di Wieland il fabbro). Siegfried è libero perché non toccato dalla maledizione del possesso: «Unico retaggio il mio proprio corpo; vivendo lo consumo» [einzig erb’t ich / den eignen Leib; / lebend zehr’ ich den auf]» . Non possiede, non è posseduto. Soprattutto il libero gioco è l’elemento che caratterizza Siegfried come ‘überfroher Held’ [«eroe supremamente giocondo»] , nel suo rapporto di antitesi/complementarietà con Wotan, ‘il dio triste’, «di tutti il meno libero» .
L’eroe si caratterizza per lo scherzo, la serenità e la leggerezza in cui è immerso e che esorcizzano il mondo della tragedia e del mito. Nietzsche sembra cogliere l’aspetto di fiaba (la definizione è di Dalhaus) della seconda giornata dell’Anello quando insiste sul carattere di ‘idillio’, in senso schilleriano, del Siegfried: «La natura e l’ideale sono reali, questo dà gioia» . Lo stesso pessimismo di fondo, di matrice schopenhaueriana, non riesce ad eliminare ma solo a modificare il tema della redenzione/rigenerazione che resta sempre possibile (il dramma è profezia di una vita più pura in contrapposto al dramma antico che è retrospettivo) . «L’idillio tragico: l’essenza delle cose non è buona e deve perire, ma gli uomini sono talmente buoni e grandi, che i loro delitti ci commuovono nel modo più profondo, poiché essi sentono di essere incapaci di tali delitti. Siegfried è l’“uomo”, e noi invece siamo i bruti senza pace né meta» . Questo riferimento all’‘uomo’ rimanda puntualmente all’autoriflessione di Wagner in Una comunicazione ai miei amici in cui la figura dell’eroe caratterizzato dall’amore (quasi visibile nella sua corporeità) e dalla piena «gioia di vivere», rappresentava «la palpitante manifestazione sensibile dell’uomo nella sua più naturale e serena pienezza [...] l’“uomo” nella pienezza della sua forza più alta e più immediata e della sua più indiscussa amabilità» .
Il tema dell’anticristianesimo di Siegfried, nella valorizzazione di Nietzsche, non può comunque limitarsi a questi elementi: soprattutto non andrà confuso mai con la pagana salute della ‘bionda bestia’ o del primitivo germano. Nietzsche ne prende le distanze, sarcasticamente, quando con disprezzo parla di «adolescenti tedeschi, cornuti Sigfridi e altri wagneriani» che hanno bisogno del ‘sublime’, del ‘profondo’, dello ‘sbalorditivo’. L’elemento rivoluzionario di Wagner, al di là dei travestimenti, non può che rimandare alla Francia e alle decisive esperienze filosofiche giovanili: «Wagner era un rivoluzionario — scappava via dai Tedeschi» .
Nell’Anello, la strada degli uomini viene intrapresa per primo dall’ignaro e innocente Siegmund, la cui sorte è pianificata senza spazi di libertà, che è disposto a rinunciare alla condizione di eroe nel Wahalla offerta da Brunhilde a favore della vita umana legata all’amore di Sieglinde: «Dove vive Sieglinde, / in piacere e patire / colà anche Siegmund vuol rimanere» [Wo Sieglinde lebt / in Lust und Leid, / da will Siegmund auch säumen]» . Stessa rinuncia, per motivo d’amore, da parte di Brunhilde nel III atto del Siegfried. Wagner riprende lo spunto tracciato nel 1851 per l’Achilleide: a Teti che promette l’immortalità ad Achille, purché rinunci a vendicare l’amico Patroclo, l’eroe oppone uno sdegnato rifiuto. La dea si inchina riconoscendo la superiorità dell’uomo sul dio: «Gli eterni dèi sono gli elementi che danno vita all’uomo. Nell’uomo la creazione è al suo culmine» , 1’uomo è il perfezionamento del Dio.
Nietzsche in Ecce homo afferma: «Un dio che venisse sulla terra non potrebbe fare altro che torti — prendere su di sé la colpa, non la pena, questo sarebbe veramente divino» . Il tema torna più volte in Nietzsche ed è sviluppato, in antitesi al Cristianesimo, in pagine centrali della Genealogia della morale. Il Dio redentore cristiano si sacrifica, innocente, per la colpa degli uomini portando all’iperbole il senso di debito verso gli avi e la divinità e rendendo impossibile ogni risarcimento ed espiazione. «Un debito verso Dio: questo pensiero diventa per lui [l’uomo dalla cattiva coscienza] strumento di tortura». Gli istinti animali vengono reinterpretati dall’uomo, la «dissennata triste bestia», come una colpa verso Dio. Ogni negazione di sé diventa affermazione di un contrario, proiettato fuori da sé: la sofferenza e il rimorso, il senso di colpa non trovano vie d’uscita. Gli dèi greci, invenzione di una vita affermatrice, tengono invece lontana la cattiva coscienza, hanno la funzione di togliere la colpa agli uomini per assumerla essi stessi:
“Deve pur averlo accecato un dio”... In tal modo allora gli dèi servivano a giustificare, entro una certa misura, l’uomo anche nel male, servivano come cause del male - in quel tempo essi non si assumevano la pena, bensì, come è più nobile, la colpa .
Nietzsche nella Genealogia sviluppa questo tema confortato dalla lettura di Die Ethik der alten Griechen (1882) del filologo Leopold Schmidt a cui Nietzsche si riferisce, implicitamente, soprattutto per l’analisi dell’origine e delle trasformazioni dei termini buono e cattivo. Il tema era comunque già presente nella riflessione sugli dèi greci e, soprattutto, trovava nella caratterizzazione iniziale di Wagner della figura di Siegfried, bene esplicitato, questo aspetto decisamente anticristiano. Nel Mito dei Nibelunghi, l’abbozzo in prosa per la Morte di Siegfried (la Heldenoper del 1848 che Nietzsche, come risulta dai Diari di Cosima, nel giugno del 1871, aveva addirittura ricopiato per la stampa) il finale suonava: «Udite dunque, voi Dèi possenti: il vostro torto è cancellato; siatene grati all’eroe che assunse su di sé la vostra colpa». Questo comporta, con la restituzione dell’anello alle figlie del Reno, la fine del servaggio dei Nibelunghi, la liberazione dello stesso Alberich, il regno pacificato di Wotan lontano dalla maledizione del possesso. Sembra quasi che Wagner tenga presente la fine del mito di Prometeo con il ritorno di Zeus (Wotan) e delle sue leggi in un mondo purificato. Queto tema, centrale, è esplicitato in più punti: «Senza colpa ha preso su sé la colpa degli dèi» [Er hat schuldlos die Schuld der Götter übernommen]» . Lo stesso Wotan non può cancellare l’ingiustizia «senza commettere una nuova ingiustizia: soltanto una volontà libera, indipendente dagli stessi dèi, che è in grado di assumersi tutta la colpa e di espiarla, può rompere l’incanto; e gli dèi riconoscono nell’uomo la capacità di una tale libera volontà». L’uomo redentore della colpa divina comporta l’autodistruzione degli dèi:
Per questa alta destinazione, cioé perché egli espii la loro propria colpa, gli dèi allevano l’uomo e la loro intenzione sarebbe realizzata, se creando gli uomini, essi annientassero se stessi, se fossero, nella libertà della coscienza umana, obbligati a rinunciare alla loro influenza immediata .
La colpa degli dèi, anche per Nietzsche, è la fissazione irrigidita, in un cielo lontano, di valori e morali che hanno perduto il loro carattere di mobilità e esperimento vitale, che pesano come estranei sull’uomo. La libertà è fine dell’alienazione: l’uomo trasforma se stesso acquistando una ‘nuova innocenza’. L’insegnamento che Nietzsche recepisce da Wagner, con riferimento preciso alle parole con cui Wotan esprime la sua aspirazione verso l’‘altro’, l’eroe che solo può redimere , è che «chiunque voglia diventare libero, deve diventarlo da sé, e che a nessuno la libertà cade in grembo come un dono miracoloso» .
I lunghi tempi della realizzazione dell’Anello conoscono profondi mutamenti in Wagner, nella teoria musicale come nei riferimenti culturali. La linearità della proposizione che porta dalla morte di Dio all’uomo, si gioca poi nella complessità delle relazioni e nella continua ambiguità rispetto ai temi iniziali. Il protagonista effettivo, l’eroe, diventa sempre più Wotan il dio ‘schopenhaueriano’ della rinuncia e della volontà di fine. Il crepuscolo mostra la profonda perversione della naturalità: il mondo che ha al suo centro la maledizione è un mondo snaturato, e il finale, nella sua ambiguità affidata alla forza suggestiva della musica, accentua il motivo nichilistico della redenzione, possibile solo come annientamento della realtà tutta, non solo degli dèi e della loro colpa. La musica dei Leit-motive vuole esprimere non rigide maschere o enfatizzare situazioni: attraverso l’uso delle varianti, dei legami e derivazioni dei motivi l’uno dall’altro, come è stato messo in luce, la linearità del percorso si complica e si contraddice. Parola e musica spesso si relazionano, dialetticamente o a contrasto, producendo nuove e inedite connessioni di senso. Il mito eroico di Wagner assume i caratteri dell’ambiguità: la sua musica più che sopraffare e violentare, nella sua ‘festa di relazioni’ (Thomas Mann), vuole essere capita da una «riflessione integralmente consumata» che sola può dare «un sentimento ed una facoltà di percezione musicale che vadano al di là dell’abbacinamento acustico» (Carl Dalhaus).
9. Gli eroi figli della grande città - Sul tema centrale della redenzione che caratterizza gli eroi wagneriani, l’ultimo Nietzsche eserciterà i suoi strali fino al sarcasmo. Il confronto avviene anche con L’Anello del Nibelungo, con la svolta schopenhaueriana che ‘redime’ Wagner dal ‘nefando ottimismo’ rivoluzionario dei suoi giovani anni, trasformando la primitiva volontà rivoluzionaria ed emancipatrice nella volontà del nulla. Wagner è confermato da Schopenhauer come décadent: i suo eroi in realtà sono figli della grande città, travestono in vesti antiche, per esotismo, sentimenti modernissimi, patologici: «Che i bravi Tedeschi riescano qui a fantasticare di sentimenti primigeni di robustezza ed energia germanica, è qualcosa che fa parte di quei sintomi spassosi della cultura psicologica dei Tedeschi» . Il germanesimo e l’eroismo nazionale di Bayreuth («una palude di arroganza, oscurità e tedescheria»), il cui idealismo non riesce a nascondere gli sporchi risvolti, sono, nella matura analisi di Nietzsche, un involucro che deforma radicalmente la genuina natura di Wagner. Il culto della passione, il suo eccesso e la sua tirannia, è riportato da Nietzsche al clima romantico francese degli anni Trenta e Quaranta: «Wagner ha creduto all’amore come tutti i romantici di quel decennio folle e sfrenato. Cosa ne restò? Quella insensata divinizzazione dell’amore e, accanto a ciò, della dissolutezza e finanche del delitto» .
Le eroine wagneriane, al di sotto della leggera ‘scorza eroica’, sono della stessa natura di madame Bovary: viceversa, l’eroina di Flaubert, tradotta in scandinavo e norvegese, sarebbe un libretto ideale per il musicista. «Come ha saputo Wagner, con suoi eroi, venire incontro ai tre bisogni fondamentali dell’anima moderna: essa vuole il brutale, il morboso e l’innocente... Questi mostri magnifici, con corpi di epoche preistoriche e nervi di dopodomani» . Gli eroi di Wagner non sono più promessa di ideale rigenerazione di una civiltà e neppure l’eco di epoche passate — come li aveva pensati Nietzsche in periodi diversi — ma esprimono, nella loro stessa fisiologia, la disgregazione e la decadenza dell’epoca moderna. Parigi li definisce e li esprime: «Sempre a quattro passi dall’ospedale! Niente altro che problemi modernissimi, problemi assolutamente da grande città». È noto come Nietzsche utilizzi per il ‘caso’ Wagner le analisi di Bourget (in particolare quelle dedicate a Baudelaire: «Un des “cas” plus réussis» della decadenza ) per caratterizzare la complessità e la contraddizione, la convivenza di anime inconciliabili e inconciliate nell’opera del musicista. «Mi sono chiesto se ci sia mai stato qualcuno, tanto moderno, morboso, molteplice e contorto da poter essere considerato all’altezza di affrontare il problema Wagner. Tutt’al più in Francia: penso a Charles Baudelaire» . Certamente la fisiologia dell’arte di Nietzsche vede nel bisogno energico di dominare, tirannizzare il pubblico coi forti colori e l’eccesso della passione, l’espressione della debolezza moderna di Wagner. L’eroismo appartiene di nuovo completamente alla scena, alla volontà di sedurre e dominare il pubblico, adattandosi ai suoi bisogni più bassi: è uno strumento della politica decadente della crisi che agita caoticamente i sentimenti senza purificarli, ordinarli, trasformarli.
10. Altri eroi ‘modernissimi’: i casi di Hugo, Michelet, Baudelaire, Gobineau nella critica di Nietzsche - Principalmente attraverso il Wagner dalla natura ‘francese’ ed europea e attraverso il suo ‘fratello’ Baudelaire, Nietzsche si apre la via alla comprensione dell’eroismo come soggetto della modernità nel suo rapporto con la décadence. Baudelaire valorizza la tradizione di rivolta che, partendo dal Satana di John Milton, attraverso il Caino di Byron, il Prometeo di Percy Bysshe Shelley, definisce l’atteggiamento del poeta della grande città, solidale con ogni ribellione quanto impotente ad una azione che non sia gesto teatrale (l’‘impotenza epica’). Sulle orme di Bourget, Nietzsche sottolinea nei decadenti la pronta fuga nell’‘ideale’, nell’allucinazione provocata dall’incapacità di dominare il ‘prestissimo’ delle sensazioni. Esemplare la posizione di Baudelaire di «disdegno contro i boulevards» : «Lascio con gioia un mondo / dove non son fratelli l’azione e il sogno» . Il dare forma a quel caos degli istinti che caratterizza l’uomo moderno, presuppone una disciplina del corpo e dell’atteggiamento, la scelta dell’‘artificio’ contro la natura. Se non vi è forza sufficiente per arrivare ad una nuova forma, subentra la volontà di apparire. L’unità e lo svolgimento della forma postulata dal desiderio, ma resa impossibile dalla ‘malattia della volontà’, viene giocata sul palcoscenico: il mondo moderno è il teatro dell’attore, dell’istrionismo della decadenza. Nello stesso Victor Hugo — come Nietzsche polemicamente ha colto — l’eroe e l’istrione sono tra loro solidali: la gonfia epopea del progresso marcia con Dio attraverso coloro che aprono all’umanità la via dell’infinito, che rompono la gabbia che rinserra l’uomo. «Tutti coloro in cui Dio si concentra», «i combattenti delle idee, i gladiatori di Dio» grazie a cui «une sorte de Dieu fluide coule aux veines du genre humain», «ces acteurs du drame profond [...] ces splendides histrions ces histrions sont les héros!» .
La stessa decisa critica di Nietzsche è rivolta a Michelet, piena espressione della debolezza romantica: lo storico ha tutti i caratteri dell’istrionismo che nasce dall’impotenza e dalla mimesi della grandezza, è ‘un concitato, sudato plebeo’, un ‘tribuno popolare’. Il romanticismo di Michelet ha affermato la morte del Dio cristiano solo per sostituirvi la nuova religione del popolo capace di estinguere, nel banchetto universale del genere umano, ‘la fame di Dio’. Un dio che si costruisce e che quotidianamente diviene, di contro al ‘Dieu tout fait’ del Medioevo.
Il giudizio sferzante di Nietzsche culmina in un gesto di definitiva opposizione («Tutto quello che a me piace gli è estraneo: Montaigne come Napoleone» ) e rimanda, anche puntualmente, alle critiche di Paul Bourget , Karl Hillebrand , e a quelle di Hyppolite Taine , da cui i primi due sembrano in gran parte derivare. La caratterizzazione di Michelet come ‘uomo della compassione’, che ha «l’ammirevole capacità di ricostruire in sé gli stati d’animo», il confronto con Hugo e la sua ‘allucinazione pittorica’, la febbre dell’anima che «déborde en expressions convulsives» sono temi presenti in Taine e Bourget. Nietzsche e Taine concentrano la loro critica sullo stesso punto, l’elemento plebeo e istrionico (charlatanisme) dell’atteggiamento di Michelet: «Il veut persuader le public; bien plus, le peuple». La sua storia «è ammirabile e incompleta; seduce e non convince» . A tal proposito ci dobbiamo ricordare delle parole con cui Zarathustra mette in guardia gli ‘uomini superiori’: «Sul mercato si persuade coi gesti. Le ragioni, invece, rendono diffidente la plebe» . ‘Il popolo’ è la gonfia epopea della riconquista del Dio «nel quale gli uomini si riconoscano e si amino», per il quale sia possibile di nuovo ed abbia un senso superiore ‘il sacrificio’ degli eroi, umili o grandi.
Altro eroe, il dandy. La riflessione sul dandysmo, appare negli appunti di Nietzsche intrecciata alla lettura degli scritti postumi di Baudelaire. L’‘eroismo’ del dandy, la sua solitudine, nasce dalla necessità di distinguersi come ‘individuo’ sullo sfondo della grande città, ma anche, più in generale, di una società e di un momento storico particolarmente meschini (la caratterizzazione di Marx della seconda repubblica: «Passioni senza verità, verità senza passione, eroi senza azioni eroiche, storia senza avvenimenti» ).
La ‘sublimità’ del dandy (per Baudelaire «l’ultimo bagliore di eroismo nei tempi della decadence») sta nel giocare una parte aristocratica per non rendersi accessibile ai sensi del grande gregge dominante: il suo eroismo sta nella quotidiana fatica della costruzione di sé per l’apparenza («Il dandy deve vivere e dormire davanti a uno specchio»). Indubbiamente Nietzsche subisce il fascino di questa figura possibile di eroismo della modernità. Ricordiamo il suo interesse per De Custine, Barbey d’Aurevilly oltre che la costante presenza (più o meno esplicita) di Byron nei suoi scritti e la sua trascrizione dei passi di Baudelaire dedicati al dandy.
La stessa figura di Cesare, che appare negli ultimi scritti, è lontana dalla semplificazione di una affermata volontà di potenza ‘imperiale’ o guerriera. Cesare è piuttosto più vicino alla complessa e ambigua figura posta come modello più illustre dal dandy (De Custine, Delacroix, d’Aurevilly) e che fa esclamare a Baudelaire: «Che splendore di sole al crepuscolo getta nell’immaginazione il nome di quest’uomo! Se mai uomo in terra ha avuto somiglianza col Divino questi è Cesare» . Nietzsche, come Baudelaire, insiste sulla cura che Cesare aveva della propria persona (era un dandy raffinato dalla «pelle bianchissima» nonostante le marce), sulla costante capacità di autodominio, sull’esercizio della ‘forma’. Nietzsche lo presenta tra gli «estremi, e perciò quasi essi stessi già decadenti... La breve durata della bellezza, del genio, del Cesare, è sui generis», ed altrove si legge della «estrema vulnerabilità di una macchina delicata». L’appunto «Cesare tra i pirati» per un progetto poetico dell’autunno 1885-86 (ripreso nel frammento 11[52] del novembre 1887-marzo 1888) mi pare significativo in questa direzione di lettura per il riferimento a Plutarco (cap. 2): Cesare caduto in mano a pirati sanguinari si comporta con impassibilità e pieno autodominio della collera, come un principe che impone la distanza o concede familiarità senza poi tralasciare, dopo il riscatto, una vendetta inaspettata e a freddo: («Scriveva poesie e discorsi, e glieli faceva ascoltare, e se non glieli applaudivano li chiamava bruscamente illetterati e barbari, e spesso, ridendo, minacciò di impiccarli; anch’essi ne ridevano». Dopo il riscatto armò delle navi e con freddezza realizzò ciò che aveva predetto ai pirati).
Altri eroi modernissimi sono quelli creati dalla disperata volontà di fuga del conte di Gobineau di fronte al mondo contemporaneo: una fuga impotente nella immaginaria purezza di lontani eroi ariani oppure nella allucinata costruzione di impossibili genealogie per una personale epopea (il pirata norvegese Ottar Jarl). È la debolezza e impotenza che spinge Gobineau a delirare l’intero processo storico con una mitica filosofia della storia, che ha nella metafisica della razza il suo fondamento e nella catastrofe finale la sua verità. La grande città è l’‘inferno’ dove tutto si mescola: all’universale mediocrità («Médiocrité de force physique, médiocrité de beauté, médiocrité d’aptitudes intellectuelles» ) e alla certezza di una fine della storia legata alla rovina della razza ariana, si oppone solo il sogno di evasione (un Iran eroico e mitico, le origini chiare, pure e felici dell’umanità, i mostri di forza del Rinascimento, i ‘fiori d’oro’, i ‘figli dei re’, etc.). Nell’universale mediocrità non vi sono più classi, popoli, ma solo qualche individualità «surnageant comme des débris sur un déluge».
Nietzsche è deciso contro questo eroismo decadente, di cartapesta. Tra le maschere degli ‘uomini superiori’ nello Zarathustra, troviamo i due re che parlano il cupo e crudo linguaggio dell’aristocratico pessimista sull’epoca della decadenza. Nella nobiltà
tutto è falso e marcio, prima di tutto il sangue [...]. È il regno della plebe, - non mi lascio più ingannare. Plebe, però, vuol dire: intruglio. Intruglio plebeo: lì è tutto mescolato alla rinfusa, santo e ladrone e nobiluomo e giudeo, ogni sorta di bestie dall’arca di Noé. Buoni costumi: presso di noi tutto è falso e marcio .
Le parole dei due re sono quelle, piene di risentimento, che caratterizzano anche la scimmia di Zarathustra che sputa il suo veleno sulla grande città di cui è reale espressione e prodotto. Non deve essere confuso il linguaggio degli uomini superiori con quello di Zarathustra: essi appartengono completamente, in vario modo, alla decadenza ed alla reattività, soffrono dei valori dati e correnti senza avere la forza di superarli.
11. Il superamento dell’eroismo nell’ultimo Nietzsche - «Più in alto del “tu devi” sta l’“io voglio” (gli eroi); più in alto dell’“io voglio” sta “io sono” (gli dèi dei Greci)» . In questo appunto del 1884 Nietzsche riassume, applicandolo al tema dell’eroismo, il percorso tracciato da Zarathustra nella parabola delle tre metamorfosi: dall’accettazione di ogni peso gravoso come esperimento e prova di una forza che isola (il cammello che corre nel deserto) alla lotta per la libertà contro il costume rigido della comunità e i valori millenari (l’io voglio del leone lotta contro il tu devi). Anche nel leone è durezza per «crearsi la libertà per una nuova creazione». Ed infine il fanciullo come «innocenza e oblio» e «gioco della creazione», come risultato.
Prima di pubblicare lo Zarathustra, il filosofo si confronta, in maniera radicale e prendendone le distanze, con la morale ‘eroica’ proposta da Heinrich von Stein nel suo scritto Helden und Welt, Dramatische Bilder. In questo testo, inviato a Nietzsche in ultime bozze, Stein si richiamava al modello degli affreschi drammatici de La Renaissance di Gobineau, e alle teorie dell’ultimo Wagner e del suo maestro Dühring, interpretato come espressione di ‘pessimismo eroico’. Stein è rappresentante dell’‘idealismo germanico’, legato alla prospettiva antisemita comune ai suoi maestri. La purezza del sangue, la purificazione del Cristianesimo dagli elementi ebraici, il confronto simpatetico con molti temi della cupa filosofia della storia di Gobineau, il legame forte tra ascetismo ed eroismo caratterizzano l’ultima filosofia di Wagner. Nietzsche con sicurezza, per tempo, ha preso le distanze dall’antisemitismo (i contrasti con Wagner e Dühring — come poi con i Förster, sorella e cognato — hanno anche in sé questo elemento critico) e sono deboli e inconsistenti i tentativi (a diversi livelli, dai più volgari ai più rispettabili) di leggere nella sua filosofia una contrapposizione all’elemento ‘semitico’. Si potrebbero moltiplicare i passi, più o meno noti, che vanno nella direzione di una lotta all’antisemitismo dell’epoca. Preferisco rimandare agli attacchi che l’Antisemitische Correspondenz riserva al ‘filosofo dell’avvenire’ alla fine del 1887 e al decisivo — per la sua virulente chiarezza — appunto inedito del Nachlaß di Eugen Dühring :
Nietzsche. Tipo giudaico, e certo uno dei più puzzolenti e insolenti. Non c’è quasi frase in cui egli non dia di balta. Non si tratta solo di roba aforistica, ma proprio di roba sconnessa e spezzettata. Questa sconnessione del pensiero è solidale con la tipica violenza ebraica. Inoltre ottuso fino alla demenza, e con questo già prepara la vera e propria, letterale, piena demenza, in cui lo stato del paziente finisce con l’essere inguaribile. La sua malattia consisteva, a prescindere dalla follia già da prima cronica, in una sorta di febbrile e vanitosa esaltazione, che lo condusse infine alla catastrofe lasciandolo nella più ottusa demenza. Un caso esemplare da manuale psichiatrico.
La critica di Dühring mette in gioco tutti gli elementi del delirio antisemita per caratterizzare la personalità e la filosofia di Nietzsche. Il suo successo — «una colossale messa in scena» — si ebbe solo quando «lo schiavo sfuggì al suo padrone» Wagner per scatenarsi a favore degli Ebrei. Nietzsche non fu danneggiato neppure dall’essere ospite del manicomio di Jena perché era sostenuto dagli interessi e dalla stampa ‘ebraici’. Dühring accusa inoltre Nietzsche di aver ‘saccheggiato’ le sue opere e di averne rovesciato completamente il senso dirigendo i suoi attacchi, carichi della «sfrontatezza del tutto giudaica», contro tutto ciò che è «rispettabile e nobile al mondo» e contro i più alti rappresentanti della morale. Gli antisemiti contemporanei ben riconoscevano in Nietzsche un loro attivo oppositore che fino all’ultimo, già dentro la follia, manifesta nei biglietti da Torino la volontà di farli tutti fucilare.
L’opposizione a Stein è decisiva per chiarire la posizione più profonda, acquisita a partire da Umano, troppo umano, sull’eroismo. Nella lettera da Genova dei primi di dicembre del 1882, Nietzsche afferma: «Riguardo all’eroe io non ne penso tanto bene come Lei. Certo, questa è pur sempre la forma di esistenza più accettabile, soprattutto se non si ha altra scelta». L’ascetismo è carattere essenziale dell’eroismo in quanto sacrificio della cosa più cara imposto «dal tiranno che è in noi (che saremmo disposti a chiamare “il nostro io superiore”)». «Quello che Lei tratta — afferma Nietzsche contro Stein — sono quasi unicamente questioni di crudeltà». Se il filosofo sente di avere dentro di sé e nel suo percorso qualcosa di questo carattere ‘tragico’, ritiene anche necessario il suo superamento: «Vorrei liberare l’esistenza umana da quello ch’essa ha di straziante e di crudele» . Nietzsche insiste, in più punti centrali dei suoi scritti della maturità, contro questa «morale degli animali da sacrificio», in cui l’entusiasmo della vittima nasce dal sentirsi una sola cosa con «il potente essere, sia esso un Dio o un uomo» a cui è consacrata. La sua potenza viene testimoniata e verificata proprio dal sacrificio: «Non sembrate tanto immolarvi, quanto, invece, trasmutarvi, col pensiero in divinità e, come tali, godere di voi stessi» . Con la fine delle convinzioni va in crisi il primato dell’eroismo che presuppone comunque una fede e pretende una garanzia metafisica o teologica. In qualche caso, come nel romantico Carlyle, la volontà di fede nasconde la mancanza di fede propria della debolezza moderna, una «continua appassionata disonestà verso se stessi».
L’eroismo si lega sempre più, nell’ottica critica di Nietzsche, alla certezza soggettiva, che è propria della religione e che è nemica dell’indagine e della verità. Sulle orme di Taine, Nietzsche critica radicalmente Carlyle il cui ‘fanatismo’ si ricongiunge a quello dei puritani. «La fede è sempre tanto più ardentemente desiderata, tanto più urgentemente necessaria, laddove manca la volontà» . Nietzsche coglie bene il carattere di religiosità e di fede nel programma eroico e di ‘culto degli eroi’ del romantico inglese Carlyle, da cui prende con forza le distanze.
L’ eroismo è la disponibilità della vittima a lasciarsi usare per fini che la trascendono, che non sono i suoi: si contrappone alla forza dei grandi spiriti, capaci di ‘scetticismo’ e di una grande passione che subordina ai suoi fini anche le ‘convinzioni’, senza esserne subordinati. La libertà degli orizzonti è il presupposto dell’«individuo sovrano» che poggia su se stesso. Nello Zarathustra si riconosce grande eroismo alla figura del prete per la ‘sofferenza’ che infligge a se stesso e agli altri e la cui stoltezza ha inventato la testimonianza del sangue (il peggior testimonio) a favore della verità. L’eroismo è la buona volontà del tramonto assoluto di noi stessi ed appartiene all’‘uomo superiore’, la figura del ‘decadente’ dopo la morte di Dio che con la sua fine prepara il rovesciamento dei valori e la via all’individuo sovrano .
A questa tensione estrema, agonistica, che caratterizza la volontà eroica, propria dei ‘sublimi’, Nietzsche contrappone, nello Zarathustra, la forma pacificata, la bellezza che ha imparato il sorriso. Al ‘sublime’ cristiano, idealistico, Nietzsche oppone il sublime legato alla pienezza dell’energia, in consonanza con la fisiologia della passione, propria di Stendhal.
È l’ultima, più difficile forma di eroismo, quella che caratterizza il ‘supereroe’: contro l’idealismo che ‘trasfigura’ se stesso e le sue mete, l’eroismo sta nel «non lottare sotto la bandiera dell’abnegazione, della dedizione, del disinteresse; consiste nel non lottare affatto». L’eroe sublime «ha soggiogato mostri, ha risolto enigmi: ma egli dovrebbe liberare anche i suoi mostri e i suoi enigmi e trasformarli in figli del cielo» .

Da La gaia scienza – libro terzo (edizioni Adelphi)
(agosto 1882)
FW 125. L'uomo folle. Avete sentito di quell'uomo folle che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: «Cerco Dio! Cerco Dio! »? - E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che noncredevano in Dio, suscitò grandi risa. «Si è forse perduto?» disse uno. «Si è smarrito come un bambino? »fece un altro. «Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? E emigrato?» gridavano e ridevano in una gran confusione. L'uomo folle balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: «Dove se n’è andato Dio?» gridò «ve lo voglio dire! L 'abbiamo ucciso - voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all'ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strofinare via l'intero orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all'indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? – Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo ancora nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino a oggi si è dissanguato sotto i nostri coltelli - chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo lavarci? Quali riti espiatori, quali sacre rappresentazioni dovremo inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo anche noi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un'azione più grande – e tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, a una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!». – A questo punto l'uomo folle tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch'essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. «Vengo troppo presto,» proseguì «non è ancora il mio tempo. Questo enorme evento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino – non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, la luce delle stelle vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano viste e ascoltate. Quest'azione è ancor sempre più lontana dagli uomini delle stelle più lontane - eppure son loro che l'hanno compiuta!». - Si racconta ancora che l'uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: «Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?».
Varianti:
125 Cfr. 14 [25, 26]; 12 [77, 157]. L'uomo folle è, nella stesura preparatoria, Zarathustra. Avete.. che] la stesura preparatoria ha: «Una volta Zarathustra... Che mai.. soli?] nelle bozze, prima della correzione, questo passo suonava: « E senza questa linea, senza questo punto - che ne sarà di tutta la nostra architettura? Continueranno le nostre case a stare in piedi? Continueremo noi stessi a stare in piedi?». Non stiamo... sepolcri di Dio?J in M III 5, 10 la conclusione dell'afori-sma è: «E se noi continuiamo a vivere e a bere la luce, apparentemente come sempre abbiamo vissuto; non avviene ciò per così dire secondo il rilucere e lo scintillare di astri che si sono estinti? Ancora non vediamo la nostra morte e la nostra cenere; così ci illudiamo e siamo indotti a credere di essere noi stessi la luce e la vita – ma sono ancora solo la vecchia vita passata, l'umanità passata e il Dio passato, che ci raggiungono con i loro raggi e il loro calore – anche la luce vuol tempo, anche la morte e la cenere vogliono tempo! E infine, noi che ancora viviamo e rinunciamo, che cosa ne è della nostra luce a paragone con le generazioni passate? È essa qualcosa di più della luce cinerea che la luna riceve dalla terra illuminata? ».

«L'uomo superiore» dopo la morte di Dio.
Appunti di lettura.
1. Nel discorso di Zarathustra Vom höheren Menschen la morte di Dio significa la potenziale liberazione e riscatto dell'uomo superiore nella direzione del superuomo. «Questo Dio è morto! Uomini superiori questo Dio era il vostro più grande pericolo. Da quando egli giace nella tomba, voi siete veramente risorti!» (Za, VI/1,p.348).
La morte di Dio e l'uomo superiore sono tra loro strettamente legati (come l'eterno ritorno e il superuomo): l'uomo superiore — la sua sofferenza, il suo infrangersi, il suo spezzarsi — è un aspetto della grande crisi che ha la sua origine nella morte di Dio e che trova varie risposte. L'uomo superiore non è la risposta adeguata: solo la sofferenza, il disagio, il «grande disprezzo», la non rassegnazione che accompagnano la sua vita, significano già una resistenza se non un contromovimento verso l'autoaffermazione dell'epoca nella direzione dell'"ultimo uomo".
La morte di Dio è "il più grande avvenimento", caratterizza un "punto intermedio" estremamente pericoloso "in cui si può giungere fino all'“ultimo uomo”". "Dio è morto: ma ancora gli uomini non si accorgono affatto di vivere esclusivamente di valori ereditati"»(VII/3, p. 217-218), per loro è quindi possibile la salda rassicurazione nelle piccole virtù dei piccoli egoismi che rafforzano il processo di Verkleinerung. Di fronte a ciò l'uomo superiore non si rassegna, dispera, esprime sofferenza e disagio: "in verità, io vi amo, uomini superiori, perché oggi non sapete vivere! Così, infatti,voi, vivete — nel modo migliore!" (Za, , VI/1, p. 350)
La storia passata appare il luogo di una "universale incuria e sperpero","l'umanità solo il materiale sperimentale, l'enorme eccedenza di tutto quanto è fallito: un campo di macerie" (VIII/3, p.13),"la terra come una bottega che lavora il marmo...". Si tratta di sperimentare con pericolo nuove forme di vita, lontani dalla falsa sicurezza metafisica dell'"eroe" di Carlyle che "cammina con Dio" ed esprime la divinità del mondo.
Gli uomini superiori sono perciò i "deca¬denti" nelle loro varie situazioni, gli es¬tremi prodotti di un'epoca di transizione, ancora incapaci di signoreg¬giare e ordinare i molti istinti contraddittorii di cui sono costituiti come fi¬gli della modernità. Nietzsche analizza e combatte le multiformi espres¬sioni di una décadence storicamente definita (esotismo, cosmopolitismo, culto del primitivo e dell'innocente, religione della sofferenza, tolstoismo, wa¬gnerismo come oppiaceo, buddismo etc.) che ha in sé comunque disagio e ri¬fiuto nei confronti dell’uomo ‘medio’ e del suo progressivo "rimpicciolimento". Molte maschere della decadenza si trovano rappresentate nelle ‘figure’ simboliche e allegoriche dell’uomo su¬periore nella IV parte dello Zarathustra.
Il monte di Zarathustra è «circondato dai vapori dell'afflizione e della di-stretta» (VII/2, p.77). «Bisogna spiegare bene la decadenza e la sua necessità !» (p.66): «la dispe¬razione e l'insicurezza in tutte le loro forme si accostano a Zarathustra» che raccoglie «tutti gli svariati sintomi di fuga dal mondo, e i loro motivi: i gu¬asti, coloro che non trovano sostegno in se stessi, i falliti e così via.» (p.107).
Mentre il superuomo si pone al di là dell’attività «generica»; l’uomo superiore è tale ancora in relazione al metro sociale di giudizio: riflette drammaticamente la crisi dei valori di un certo periodo storico, incapace di creare un’alternativa. L’uomo superiore è condizionato fino in fondo dai vecchi valori (anche nell' estremo rifiuto o nel tentativo di capovolgimento) e soffre quindi per la loro crisi: in questo è un decadente.
Pur sempre a questi singoli, Zarathustra deve rivolgere il suo messaggio. Per alcuni aspetti gli uomini superiori rappresentano unilateralità, frammenti verso una sintesi più completa, per altri aspetti sono stazioni precedenti dello stesso percorso di Nietzsche: il senso storico, l'estrema probità scientifica, il cosmopolitismo del "viandante", l'illusione metafisica etc. Nietzsche ha dietro di sé e dentro di sé questo percorso fatto del superamento delle unilateralità. Il tenersi lontano dalla piazza del mercato, dall'istrionismo dei gesti, è comunque il presupposto comune: la sincerità verso se stessi e la propria sofferenza deve diventare sofferenza per l'uomo. «Per me non soffrite ancora abbastanza! Perché voi soffrite di voi stessi, voi non avete ancora sofferto dell'uomo» (Za, VI/1, p. 351)
Il disgusto davanti a se stesso e agli altri è il tratto distintivo dell'uomo superiore, della sua nobiltà: per lui si tratta di superare decisamente se stesso e le proprie contraddizioni o di far naufragio. In più punti si legge come il compito di Zarathustra stia proprio nell'educare queste "nature superiori colte da ogni specie di folle degenerazione", e nel dar loro uno scopo (VII/2, p. 260).
L'educazione degli uomini superiori culmina nel loro confronto con il "pensiero più grave", la dottrina dell'eterno ritorno. La capacità di assimilare tale pensiero senza andare in rovina comporta la profonda e radicale trasformazione nella direzione del "superuomo".
2. L' annuncio dell'"uomo folle"(FW, af.125, V/2, p.150) irrompe drammaticamente per svelare la genesi del disordine, del caos. Vi era un alto e un basso, un centro ed una periferia, un sole, un orizzonte determinato, una gerarchia ed un senso dati: tutto ciò non è più. L'avvenimento ha come sfondo la vicissitudine cosmica: comporta l'oscuramento, lo sciogliersi della Terra dal vincolo di gravità, il suo raffreddarsi progressivo "via da tutti i soli". La conseguenza è il senso di una fine assoluta: l'allusione va alle teorie cosmologiche che ponevano la morte termica dell'universo come necessaria, per progressiva degradazione dell'energia. Nietzsche vede e combatte in queste teorie il residuo di Dio (nella teleologia negativa e nella postulazione di un inizio assoluto ) come esigenza della debolezza. Nietzsche individua, fin dagli anni giovanili, in Eduard von Hartmann il rappresentante più significativo di tali posizioni. Ma tra "i pessimisti moderni come decadenti" (VIII/3, p.184) pone anche Philip Mainländer. La sua opera Die Philosophie der Erlösung (1876) vuol costruire — sulle orme di Schopenhauer — un intero sistema dell'immanenza che abbia alla sua origine la morte del Dio trascendente cioé dell' unità preesistente al mondo di cui nulla si può predicare, a cui non possono essere applicate le categorie della conoscenza. «Questa semplice unità è stata , essa non è più. Mutando la sua essenza si è dispersa del tutto nel mondo della pluralità. Dio è morto e la sua morte fu la vita del mondo (Gott ist gestorben und sein Tod war das Leben der Welt) » .
Questo inizio assoluto, questo uscire dalla quiete eterna, non ha spiegazioni per l'umana comprensione: «Abbiamo appunto il frantumarsi dell'unità nella pluralità, il trapasso del trascendente nell'immanente, la morte di Dio e la nascita del mondo ».
Il mondo per Mainländer è una somma di pure forze che divengono oggetto per il soggetto: la materia, lo spazio matematico, il tempo, la sostanza sono creazioni del soggetto conoscente. Fuori del soggetto non vi è che forza e movimento rivelati direttamente alla «coscienza» del soggetto che non è solo pura conoscenza. Il cuore della realtà viene immediatamente afferrato, nella sensibilità, nel sentimento. Il centro del nostro essere è la forza che, schopenhaue-ria¬na¬mente, è «volontà di vivere». Non ci interessa qui seguire le artificiose e talvolta aride speculazioni del giovane filosofo — con tragica coerenza, morto suicida a trentacinque anni — su cui Nietzsche torna più volte (se ne ha traccia nei frammenti del 1876-77, con la prima lettura nell'inverno di Sorrento, e nei frammenti del 1883 in cui si mostra interesse anche delle sue teorie estetiche ) quanto la conseguenza nichilistica che discende dalla «morte di Dio». L' esplicazione della volontà di vivere, il movimento, comportano un progressivo indebolimento della forza (Schwächung der Kraft ) nel mondo, una sua dispersione iscritta teleologicamente in quella rottura iniziale segnata dalla morte di Dio. l'intero mondo ha come scopo in non-essere e lo raggiunge attraverso il progressivo indebolimento della quantità di forza. In realtà la forza è quindi "volontà di morte" più che "volontà di vita", la vita è solo "un momento ritardante", solo "Erscheinung des Willens zum Tode"(quasi uno smarrimento momentaneo, rispetto alla finale, necessaria fine "volontà di morte").
La filosofia pessimista che predice e vuole la fine assoluta non esclude un impegno sociale — qui Mainländer è in decisa polemica con Schopenhauer — per migliorare la condizione dei diseredati all'interno di uno Stato che progressivamente vinca per tutti la condizione naturale propria dell'uomo- "animale da preda" (Raubthier). Lo stato "ideale" è comunque anch'esso un portato ineludibile del processo storico: "il necessario destino dell'umanità" (p. 210 e sgg.). Il preconizzato stadio finale di benessere generale e di uguaglianza, il conseguente accrescimento della consapevolezza attraverso la cultura e l'educazione generalizzate, fanno scoprire a tutti il debole valore dei beni materiali di cui si era privati e spinge alla volontà di morte, al Nirwana che corrisponde al riposo dell' assoluto niente («das absolute Nichts»). L'unico movimento desiderabile per l'umanità, nello Stato ideale, sarebbe quello che porta dall'essere al non-essere(p.215)
Questa fine assoluta è garantita per tutti, consapevoli o meno, guidati o meno dall'"egoismo rischiarato": nel frattempo il filosofo pessimista Mainländer, vedendo in una profonda riforma sociale la premessa per l'Erlösung, crea nel 1874 una sorta di ordine dei Templari, l'ordine del Graal, e vede nella castità (Virginität) uno strumento di liberazione. Se consideriamo poi la centralità del tema del sangue ( l'"oggettivazione" della nostra più intima essenza, il "demone" che per l'uomo è ciò che l'istinto è per gli animali e il richiamo all'Oriente visto attraverso i veli della filosofia di Schopenhauer, possiamo rilevare come tematiche del genere, che conoscono diverse formulazioni e varia diffusione, abbiano nell'ultimo Wagner nuove e inedite amplificazioni, di ben altra forza e suggestione.
In Mainländer Nietzsche può leggere uno degli effetti previsti: la dichiarazione della morte di Dio ha in sé, fin dall'inizio, la necessità della morte dell'uomo. La prospettiva sociale finale è vicina alla condizione dell'«ultimo uomo», risultato di un processo di Verkleinerung, e comporta uno stadio finale di uguaglianza e giustizia nell' amore del prossimo. Questa è una condizione estrema di indebolimento delle forze che preannuncia la fine per esaurimento. La condizione di perfezione sociale realizzata, per il pessimista, lontano da essere l'«invenzione della felicità» nelle piccole virtù, fa emergere allo stato puro la volontà del nulla, il nichilismo. La passività, «il tutto è vano, tutto è indifferente, tutto fu», non ha neppure la forza di una fine attiva e proietta la garanzia di questa fine desiderata, nei meccanismi del divenire:
«In verità, siamo già diventati troppo stanchi, anche per morire; così restiamo in veglia e sopravviviamo — negli avelli!»- afferma l'indovino, figura del "lungo crepuscolo" di un nichilismo passivo (Za, VI/1, p. 163).
Questa è una delle conseguenze della morte di Dio. Nietzsche combatte ugualmente l'atteggiamento che affida ad una garanzia teleologica il progresso, la realizzazione di uno stato finale di pieno valore. Per questo Nietzsche avverte Renan come suo antipode. Renan, più di altri, affida alla religione della scienza (capace di realizzare la divinità) il compito di esorcizzare il vuoto lasciato dalla morte di Dio contro la direzione generalizzata della ricerca del benessere e del godimento, propria dello spirito borghese.
Paul Bourget, facendo il bilancio della generazione precedente per leggere i mali della vita contemporanea, la décadence e la diffusa malattia della volontà, vedrà in Renan l'espressione più adeguata dell'«Homme Supérieur» che lotta contro l'epoca della degradazione democratica e della vittoria della mediocrità. In quello stesso Renan, in cui ha colto e amplificato per il lettore il tema del «dilettantismo» come malattia moderna, Bourget vede anche il capofila contro la bêtise: e nei Dialoghi filosofici, «il risultato di una riflessione profonda e il segno di una dottrina che vale la pena di essere esaminata».La sua teoria radicalmente aristocratica non è quindi né «paradosso» né espressione di estremo e raffinato «dandysmo» .
Nietzsche in un frammento adopera in francese l'espressione homme superieur che si oppone al "crescente istupidimento e involgarimento dell'Europa" (VII/2, p.20) sa quanto diffuso fosse, in quegli anni, questo termine nella cultura francese. Nei Dialogues che legge nella traduzione tedesca del 1877 , al di là di una esteriore apparenza , non riconosce posizioni a lui vicine: il deva di Renan, legato ad una teodicea, conferma e potenzia i valori che il superuomo vuol trascendere. La morte del Dio della tradizione, liberando dagli aspetti dogmatici, significa la possibilità di vivere ancora a lungo dell'ombra di Dio inverandone i valori. Più volte Renan ripeterà l'espressione, presente anche nella Prefazione dei Dialoghi, «noi viviamo nell’ombra di un’ombra» : è l'estremo tentativo di affidare alla forza delle illusioni che permangono dopo la morte di Dio, la spinta per proseguire il cammino. "Le sage est celui qui voità la fois que tout est image, préjugé, symbole, et que l'image, le préjugé, le symbole, sont nécéssaires, utiles et vrais" . Al sentimento religioso Renan affida anche l'estrema e paziente resistenza contro il crescente dominio egoistico dell'«Eden borghese».
«Chissà che la verità non sia triste?» — Renan riprenderà, in uno scritto successivo, anche questa frase e aggiungerà: «L'edificio della società umana posa su un grande vuoto. Noi abbiamo avuto il coraggio di affermarlo. Nulla di più pericoloso del pattinare su una crosta di ghiaccio senza immaginare come questa sia sottile» . La metafora del ghiaccio, comune anche ad altri autori, è la stessa usata da Nietzsche : "La disgregazione, dunque l'incertezza è propria di quest'epoca: niente è su di una base solida e su di una risoluta fede in se stessi; si vive per il domani, perché il dopodomani è incerto. Tutto è liscio e pericoloso sul nostro cammino; e intanto il ghiaccio che ancora ci sostiene è diventato così sottile: noi tutti sentiamo il caldo, sinistro respiro del vento australe — dove noi ancor camminiamo, ben presto non potrà più camminare alcuno" (VII/2, p.5).
Gli sforzi umani possono concludersi in pura perdita: per esorcizzare questa prospettiva si deve ricorrere alla assolutezza della teologia o ad una scommessa incerta proiettata sullo sfondo dell'infinito. Di fronte alla fine, dichiarata dalla scienza, dell'umanità e della Terra con la fine dell'energia a disposizione ("come tutti i corpi che orbitano nello spazio, tirerà fuori dal suo seno tutto ciò che può esserne tirato fuori; ma alla fine morirà") , Renan proietta in lontane vicissitudini cosmiche la speranza di una rinascita, di un nuovo inizio che comunque deve realizzare la divinità: «Dio è una necessità assoluta. Dio sarà e Dio è. Sarà come realtà, è in quanto ideale. Deus est simul in esse et in fieri» .
I Dialoghi rappresentano l'estremo, allucinato tentativo di dare una soluzione superiore al senso della crisi: lo sfondo pessimistico e schopenhaueriano (il dio ormai è un «tiranno furbo» che inganna) si rovesciano in una affermata volontà di potenza che passa anche attraverso la rigidezza estrema, verso sé e verso gli altri, dello scienziato asceta, del nuovo prete della verità. Fichte prevale su Schopenhauer: la missione del dotto sulla rivolta contro la volontà che inganna.
La soluzione di Renan incontra l'irriducibile opposizione di Nietzsche che vede nell'ascetismo e nella devozione al Dio-nascosto del savant un'espressione del suo nichilismo passivo. La fede renaniana del Dio-progresso appartiene, per Nietzsche, agli strumenti che l'uomo superiore trova per esorcizzare ed anestetizzare «il terribile sentimento del deserto » (VII,2, p. 8), il vuoto e il nulla a cui si riconosce, in fondo, lo statuto di verità: «O abisso, tu sei l'unico Dio» .

3. La realizzazione finale del Dio postulata come necessaria a spese delle vite individuali (carbone da bruciare a vantaggio di una forma superiore) e la morte iniziale del Dio-cosa in sé in Mainländer che dà la vita degli individui, sono per Nietzsche atteggiamenti passivi e, nella logica più profonda, tra loro vicini. In Mainländer la vita, il dinamismo della pluralità degli individui (enti reali) nati dalla morte di Dio sono solo lo sforzo che ha come unico risultato la quiete assoluta del non-essere. Il Dio che muore non può essere definito, è un negativum rispetto all'immanenza: eppure la vita dell'uomo ne viene determinata senza scampo come destino di un ritorno nel nulla.
Siamo agli antipodi del senso della drammatizzazione in Nietzsche — derivata da Heine — della morte o dell' esilio sotterraneo degli dèi pagani sconfitti dal Cristianesimo, banditi, in decadenza. La pluralità della vita e delle forze viene progressivamente assorbita ed annullata dall'astrazione del Dio cristiano. La "cosa in sé" è un ulteriore depotenziamento del Dio: viene dopo, non è il primum. L'annuncio della morte di Pan ripresa da Plutarco e narrata da Heine in Ludwig Börne , simbolizza la fine del mondo antico, la repressione della vitalità naturale: gli déi muoiono per "l'intimo raccapriccio" del sangue redentore, sgorgato dal Golgota. Nietzsche riprende l'immagine di Plutarco nella Nascita della tragedia: la morte di Pan corrisponde alla morte dell'arte tragica, e, nei frammenti postumi, al "tramonto degli déi"(III/2, p. 143).
Heine torna più volte su questo tema (di fronte alla sfida del Cristo sofferente gli dèi «tacquero, impallidirono, impallidirono sempre più e alla fine dileguarono in nebbia » ) al centro dello scrittoGli Dei in esilio. Già in Heine, come in Zarathustra, le chiese si presentano come mausolei o tombe degli dèi greci a rafforzare il contrasto — in più modi drammatizzato e riecheggiato anche nel capitolo Dell'uomo superiore — Himmelreich ed Erden-Reich , la contrapposizione tra gli dèi che significano pluralità di valori terrestri, vitali e il Dio della rinuncia che muore in un processo di astrazione dalla vita e di crescente spiritualizzazione. Questo è espresso con particolare forza drammatica anche in Per la storia della religione e della filosofia in Germania L'azione di Kant nei confronti del Dio tradizionale è analoga, per efficacia, a quella della rivoluzione francese: "il vecchio Geova in persona si prepara a morire". Lo sguardo storico lo segue fin dall'infanzia nelle sue metamorfosi: in Egitto "cresciuto fra divini vitelli, coccodrilli, sacre cipolle, ibis e gatti", divenuto in Palestina "presso un popolino di pastori, un piccolo Dio-re" che abitava in un proprio tempio, fino a che, adulto, emigrato a Roma "rinunciò ad ogni pregiudizio nazionale e proclamò la celeste uguaglianza di tutti i popoli" . Questo evento decisivo comporta l'inizio di una irreversibile decadenza : «l'abbiamo visto spiritualizzarsi ulteriormente, piagnucolare teneramente, divenire un padre affettuoso, un universale filantropo, un benefattore del mondo — tutto questo non gli servì a nulla. Udite il suono della campanella? Inginocchiatevi... portano i sacramenti a un dio morente» .
Nel racconto dell'ultimo papa la progressiva perdita di forza porta Dio alla morte, viene a mancare ogni rapporto con la potenza della vita che è all'origine della creazione degli dèi. Il tema, che trova ulteriori sviluppi in L'anticristo , doveva conoscere, grazie a Heine, una certa fortuna: basti qui ricordare il primo capitolo de La sorcière di Michelet dal titolo La morte degli dèi in cui si riprende anche il motto di Plutarco : «Alcuni autori affermano che, poco prima della vittoria del cristianesimo, una voce misteriosa percorreva le rive dell'Egeo, dicendo: “Il gran Pan è morto”. L'antico dio universale della natura non c'era più [...] Consultando i primi documenti cristiani, ad ogni riga si incontra la speranza che la Natura scompaia, la vita si spenga, che si arrivi finalmente alla fine del mondo. Basta con gli dei della vita, troppo a lungo ne hanno fatto durare l'illusione. Tutto muore, crolla, affonda. Il Tutto diventa il nulla: “Il gran Pan è morto”»
La morte degli dèi esprime la volontà dei primi cristiani di repressione della vitalità istintiva, il loro odio verso la natura e l'esistenza. Gli dèi della natura e quelli «intimamente mescolati alla vita della contrada», «il volgo degli dèi» indigeni non muore come muoiono gli dèi ufficiali di Roma, già «snervati, sbiaditi», «stanchi di vita», «ombre vuote», bensì si trasformano in démoni che popolano la vita quotidiana.
Nietzsche, mentre apprezza molto Heine, muove la sua decisa critica contro Michelet, piena espressione della debolezza romantica: lo storico ha tutti i caratteri dell'istrionismo che nasce dall'impotenza e dalla mimesi della grandezza, è "un concitato, sudato plebeo", un "tribuno popolare". Il romanticismo di Michelet afferma la morte del dio cristiano solo per sostituirvi la nuova religione del popolo capace di estinguere, nel banchetto universale del genere umano, "la fame di Dio". Un dio che si costruisce e che quotidianamente diviene, di contro al "Dieu tout fait" del Medioevo.
Il giudizio sferzante di Nietzsche culmina in un gesto di definitiva opposizione («Tutto quello che a me piace gli è estraneo: Montaigne come Napoleone »). e rimanda, anche puntualmente, alle critiche di Paul Bourget , Karl Hillebrand , e a quelle di Hyppolite Taine da cui i primi due sembrano in gran parte derivare. La caratterizzazione di Michelet come "uomo della compassione", "l'ammirevole capacità di ricostruire in sé gli stati d'animo", il confronto con Hugo e la sua "allucinazione pittorica", la febbre dell'anima che "déborde en expressions convulsives" sono temi presenti in Taine e Bourget. Nietzsche e Taine, concentrano la loro critica sullo stesso punto, l'elemento plebeo e istrionico (charlatanisme) dell'atteggiamento di Michelet. "Il veut persuader le public; bien plus, le peuple". La sua storia "est admirable et incomplète; elle séduit et ne convainc pas" . A tal proposito ci dobbiamo ricordare delle parole con cui Nietzsche mette in guardia gli "uomini superiori": "sul mercato si persuade coi gesti. Le ragioni, invece, rendono diffidente la plebe"(Za, VI/1, p. 352).
Il popolo è la gonfia epopea della riconquista del Dio "nel quale gli uomini si riconoscano e si amino", per il quale sia possibile di nuovo ed abbia un senso superiore "il sacrificio".
Nietzsche viene confermato nella sua direzione critica dalla lettura dello scritto postumo di Michelet, Le Banquet. Papiers intimes, , dalle forti istanze sociali e influenzato da Feuerbach (il tema dell'amore come forza che promuove la vita) contro cui Michelet polemizza volendo rimanere fedele ad una sorta di deismo. Le feste del Medioevo in opposizione agli spettacoli drammatici dei Greci («drame veut dire en grec action ») che esaltavano la vita e l'attività, si riconducono «a due parole che sopprimono ogni attività: "Dio è morto, consummatum est; cosa ti resta se non di morire? Muori a te stesso, alla natura!"»
La lettura di questo scritto di Michelet è testimoniata da un frammento del 1884 in cui Nietzsche riprende la descrizione del clima di Genova e dei suoi effetti: « Sul clima di Genova Michelet dice: "admirable pour tremper les forts". "Gênes est bien la patrie des âpres génies nés pour dompter l'océan et dominer les tempêtes. Sur mer, sur terre que d'hommes aventureux et de sage audace!"» Nietzsche solo in superficie sembra essere in consonanza con l'immagine di Genova presente in Michelet: ciò che il filosofo apprezza della città ligure sono gli arditi palazzi, che sembrano incorporare la volontà di potenza ("la peronale infinitudine") dei forti signori . Le Banquet invece conferma agli estremi la tendenza di Michelet a partecipare, con una forte immedesimazione, della sofferenza e della miseria della «povera gente», la cui vita è determinata dalla durezza dell'ambiente circostante: la costa ligure fatta di monti, rocce e mare. Michelet, nella sua solitudine di malato, ripete le rêveries che nascono dal "digiuno" costretto (nell'impossibilità di assimilare alcun cibo se non del magro latte) e si sente in piena consonanza con il digiuno di generazioni della "povera gente" che deve strappare ad una natura ostile gli alimenti per la sopravvivenza. La linfa della vita, con la sua forza assoluta (il vero Dio che non muore), continua a dare una vittoriosa smentita, come nel Medioevo, "al sogno della fine del mondo, alla teoria dell'esaurimento del globo, al dogma del digiuno e dell'astinenza, del suicidio volontario. La vita insorge ostinatamente, invincibile e indomabile, contro la religione della morte" . L'enfasi retorica sulla vita appare, per Nietzsche, un sintomo in più della debolezza romantica.
Anche Paul Bourget vede l'epoca, priva di un "credo generale", come caratterizzata dalla morte degli déi, di tutti gli déi. Un punto di riferimento forte, per la sensibilità decadente, è Leconte de Lisle: descrive la morte degli dèi e quella prossima del nazareno nel mondo moderno che realizza il "sogno" di Jean-Paul . Gli dèi morti rimangono nella loro realtà di eterne idee oggetto della verità dell'arte. A Leconte de Lisle Bourget dedica un lungo saggio inserito nei Nouveaux essais e riprende più volte, con ambigua vicinanza alla sensibilità decadente, il tema della religione dell'arte che sostituisce i valori estinti:
"En ce siècle où les Dieux sont tout éteints, j'estime
que l'artiste est un prêtre, et doit, pour rester tel,
dévouer tout son coeur à l'Art, seul Dieu réel..."
La caratterizzazione fatta da Nietzsche dell'arte wagneriana che prolunga, con la seduzione dei sensi, la vita della religione ha in Bourget più di uno spunto iniziale. Scrive Nietzsche: «Che la musica possa prescindere dalla parola, dal concetto — oh come ne trae vantaggio, questa astuta santarella, che riconduce, anzi seduce a tornare a tutto quanto fu una volta creduto! [...]. La nostra coscienza intellettuale non ha bisogno di vergognarsi, — perché ne resta fuori, — quando un qualche antico istinto beve, con labbra tremanti, da calici proibiti»( VIII, 3, p. 30). E così Bourget caratterizza il misticismo "libertino" di Baudelaire: «la foi s'en ira, mais le mysticisme, même expulsé de l'intelligen¬ce, demeurera dans la sensation (...) Si l'homme n'a plus le même besoin intellectuel de croire, il a conservé le besoin de sentir comme aux temps où il croyait» L'"ombra di Dio" permane e costituisce il pericolo maggiore e più insidioso per l'uomo superiore: nuove religioni senza Dio (religione della scienza, dell'arte, del progresso, «de la souffrance humaine» etc.) sostituiscono le vecchie religioni dogmatiche mantenendo la centralità dei valori dati. La nuova innocenza deve vincere anche l'ombra di Dio
Lo stesso Bourget, nei suoi romanzi, sotto il crescente influsso di Dostoevskij, sente necessario il percorso che porta dalla disgregazione dei valori alla forza consolante e rassicurante della tradizione religiosa. E' il pericolo dell'uomo superiore (la figura dell' ombra, «viandante sempre in cammino ma senza una meta») la cui irrequietezza infrange ogni cosa venerata ("nulla è vero, tutto è permesso") e rovescia "le pietre di confine" ma che, per stanchezza, al termine di un faticoso percorso sperimentale, può cercare alla sera il primo punto di riposo rimanendo prigioniero di "una fede ristretta, di una severa e dura illusione" (Za, VI/1, p. 333).
Nietzsche comprende come la debolezza del romanticismo non sia capace di fare a meno del dio cristiano, comunque trasfigurato e trasmutato, e vede presenti e forti «les nostalgies de la croix» (VI, 2, p. 267). Con questa espressione Nietzsche rimanda ad una poesia di Bourget che drammatizza lo stato d'animo di tensione, di insoddisfazio¬ne, ma anche la voluptas dolendi e il raffinato "piacere della crudeltà" che si accompagna alla privazione della religione tradizionale:
Alla felicità di chi ancora affonda, innocente, nelle "sante illusioni" e nel "caro ideale" protettivo della tradizione, il poeta contrappone la sua tormentata inquietudine:
Mais combien malheureux celui qui, comme moi,
Brise à moitié le joug, et guérit de la foi
Sans guérir du besoin généreux du martyre!
Tel qu’un mauvais soldat exilé de son rang,
Il écoute le bruit du combat qui l’attire,
Et ne sait à quel Dieu dévouer tout son sang .
In Paul Bourget si incontrano, a giudizio di Nietzsche, "le due correnti intellettuali del pessimismo, quella schopenhaueriana (con la «religione della compassione») e quella stendhaliana (con tagliente e spietata psicologia)" ancora presenti nel romanzo Un crime d'amour le cui conclusioni aprono la via alla conversione. I romantici finiscono sotto la croce.
4. La figura di Lord Byron percorre in modo sotterraneo, ma continuo, la riflessione e la passione di Nietzsche nei confronti dell'uomo superiore, ne rappresenta in modo significativo le ambiguità e le tensioni.
«Io devo avere una profonda affinità col Manfredi di Byron : tutti quegli abissi li ho trovati in me, — a tredici anni ero maturo per quell'opera». Così in Ecce homo confessa questo legame continuando poi con un confronto, più volte abbozzato nei frammenti, con il Faust di Goethe «Non rispondo neppure, getto solo uno sguardo a quelli che dinanzi al Manfredi osano pronunciare il nome di Faust.»(VI/3, p. 295)
Analogo giudizio emergeva dal saggio di Taine contenuto nella Storia della letteratura inglese: «Faust è un triste eroe [...] la sua azione più forte è sedurre una sartina e di andare a ballare la notte in cattiva compagnia, due exploits che tutti gli studenti hanno compiuto [...] Le sue volontà sono velleità, le sue idee aspirazioni e sogni. Un animo di poeta nelle testa di dottore, entrambi gli aspetti inadatti all'azione [...] insomma il carattere manca; è un carattere di tedesco. Accanto a lui, quale uomo Manfred! »
Nel personaggio di Faust Nietzsche e Taine leggono i limiti "idealistici" del carattere tedesco: il dotto incapace di azione, in cui la velleità prevale sulla volontà. La tragedia di Goethe conosce la redenzione finale (proprio l'episodio di Margherita era massimamente valorizzato da Schopenhauer come supremamente tragico).
Per Taine la forza epica di Goethe è stata capace di risuscitare, attraverso il ricordo e la poesia, nel XIX secolo, «veri dèi» che parlano ed agiscono. In un equilibrio precario ed estremo il poeta tedesco riesce a mantenere in vita gli dèi del mito facendo continuamente percepire, dietro di loro, il contenuto filosofico "l'impalpable idéal": "Qui sont-ils, ces personnages surnaturels, ce Dieu, ce Méfistophélès et ces anges? Leur substance incessamment va se dissolvant et se reformant, pour montrer et cacher tour à tour l'idée qui l'emplit (...) Enfin, les voilà, nos dieux; nous ne le travestissons plus, comme nos ancêtres, en idoles ou en personnes; nous les apercevons tels qu'ils sont en eux-mêmes, et nous n'avons pas besoin pour cela de renoncer à la poésie, ni de rompre avec le passé."
Gli dèi del Manfred sono invece maschere e démoni da teatro a cui lo stesso Byron non crede: "hommes, dieux, nature, tout le monde changeant et multiple de Goethe s'est évanoui. Seul le poëte subsiste, exprimé dans son personnage". Il vero, unico dio che rimane è «le moi, l'invincible moi... seul auteur de son bien et de son mal» . Certamente un dio "sofferente e caduto" ma sempre un dio.
Nella sua analisi di Byron Taine dava largo spazio al Manfred citando i brani che ne provavano l'aspetto eroico e attivo insistendo sulla parte finale del dramma in cui emerge con più forza il tema della volontà («La volonté, voilà dans cette âme la base inébranlable...») e della persona che non si piegano a nessuna potenza.
E' nota la passione giovanile di Nietzsche per il poeta inglese visto come espressione di una ubris titanica, prometeica, che rompe ogni limite sfidando il cielo. Tale tensione distruttiva verso la tradizione si proiettava allora nelle figure eroiche e superomistiche delle saghe nordiche che hanno sullo sfondo il «crepuscolo degli déi» .
Per ben tre volte a proposito di Manfred il giovane Nietzsche (ottobre 1861) adopera il termine Übermensch una volta per definire il personaggio ("dieses geisterbeherrschenden Ûbermenschen"), poi il carattere della sua disperazione ("seine Ûbermenschliche Verzweiflung"), per la terza volta a connotare la stessa opera di Byron. Del resto il termine si trova in Byron stesso (atto II, v.148) per caratterizzare le arti magiche e proibite di Manfred: «superhuman art», vicino alla parola «dispair» oppure "I lean no more on superhuman aid" (I,II v.4).
In particolare in Byron emergono temi e metafore che costellano anche la scrittura di Nietzsche: l'affermato senso di essere di un'altra razza («race») rispetto agli umani , la conseguente solitudine ed il rifiuto di essere una guida o dominatore dei popoli perchè «chi desidera dominare deve prima servire... io non ho voluto mescolarmi ad un gregge, ma di nessuno, nemmeno dei lupi ho voluto essere il capo. Solo è il leone, e così sono io...»
Manfred è «uomo dai molti pensieri e dalle buone e cattive azioni, in tutte estremo... »
Ma è da rilevare anche il paesaggio simbolico del Manfred fatto di vette — «le gelate cime dei monti, dove gli uccelli non osano costruire il loro nido» — e di abissi in cui guardare, come devono fare gli «uomini superiori» di Zarathustra, soggiogando la paura, «con orgoglio»(Za, VI/1, p. 350) .
Manfred è «unbounded spirit» spirito libero. Il suo atteggiamento «libero da ogni religiosità, anzi da ogni fede in dio» — come osservava già il giovane Nietzsche nella sua conferenza — trova, nei confronti della pazienza cristiana, espressioni care al filosofo tedesco :
«Quella parola è stata creata per bestie da soma; non per uccelli da preda! predicala ai mortali fatti della tua polvere. Io non sono come te.»- risponde al cacciatore che lo vuole riavvicinare alla salute e alla socialità dei mortali.
E' quindi da prendere con più attenzione di quanto sia stato fatto finora l'affermata volontà di Nietzsche, in un frammento del 1881: «voglio scrivere il tutto come una specie di Manfred e in modo completamente personale.»
Vorrei comunque rilevare almeno due puntuali concordanze fra Nietzsche e Byron:
The antique Persians taught three useful things:
to draw the bow, tu ride, and speak the truth.
(Byron don Juan canto XVI, vv.1-2.)
Nietzsche riprende l'immagine più volte, con piccole varianti, nei suoi appunti e la utilizza anche in Ecce homo : «Dire la verità e tirare bene con l'arco, questa è la virtù persiana».
Ma, più significativa, per la problematica dell'«uomo superiore» la seconda:
«Timidi, mortificati, goffi, come una tigre cui il balzo non riuscì: così uomini superiori, vi ho visto spesso scivolare da parte.». Anche qui esistono più appunti di questa immagine direttamente derivata da Byron: «I am the Tyger (in poesy), if I miss the first spring - I go growling back to my Jungle» . Nietzche caratterizza con questa immagine (che Byron riferisce a se stesso) gli uomini superiori che hanno fallito un getto di dadi e rinunciano: «Voi non avete imparato a giocare e a farvi beffe come si deve!»(Za, VI/1, p. 355).
La riflessione successiva di Nietzsche su Byron comporta approfondimenti interpretativi che sarebbe interessante seguire nei particolari. Indubbiamente l'affermazione e adesione giovanile al «superomismo» di Byron cede ad una interpretazione più matura che fa del Manfred la figura più nobile dell'uomo superiore: che, proprio per la sua nobiltà e forza, arriva alla piena consapevolezza dell'essere tremendo caos fino alla distruzione di sé. Manfred è « an awful chaos...» e «distruttore di se stesso» (in analogia con l'uomo superiore caratterizzato da Nietzsche).
Byron viene posto tra coloro che hanno operato inconsciamente a far emergere, a preparare per altri il compito della Umkehrung der Werte: «Mi compiacevo di certi artisti insaziabilmente dualistici, che come Byron credono assolutamente ai privilegi degli uomini superiori e che con la seduzione dell'arte stordiscono, in uomini scelti, gli istinti del gregge e risvegliano quelli opposti» (VII/3, p. 157)
Il dualismo e la sua interna tensione, lo caratterizzano come pessimista e romantico: pone un ideale al di sopra di sé e per questo si scinde tra una conoscenza che delegittima questo ideale e una volontà che continua a perseguirlo. «E' un dividuum » (VII/2, p. 46).
Byron viene perciò avvicinato a Beethoven, a Rousseau, a coloro che anticiparono «l'effetto del mostruoso su uomini i cui nervi erano già troppo deboli...» e richiamandosi al giudizio di Stendhal e Taine, Nietzsche mette in luce la mostruosa ipertrofia dell'io . Anche l'azione, per queste creature che soffrono per la violenza delle loro contraddizioni, è una fuga da se stessi.
Vorrei infine cercare di chiarire il senso di alcuni brevi frammenti di Nietzsche su Byron. All'interno di un lungo appunto di lettura (9[184]) da Brunetière dell'autunno 1887, contro Rousseau si legge questa osservazione di Nietzsche, che non appartiene al testo di Brunetière:
«Il lato morboso di Rousseau fu il più ammirato e .più imitato (Affine gli è Lord Byron, che del pari si innalza ad atteggiamenti sublimi, in astio e in rancore; segni della «volgarità»; più tardi sotto l'influsso equilibratore di Venezia , comprese che cosa più addolcisca e faccia bene, ... l'insouciance)»
Qui Nietzsche riconosce apertamento l'influsso negativo esercitato da Rousseau e vede nelle esperienze del periodo veneziano una liberazione nella direzione de l'insouciance
La spiegazione va trovata in altri due frammenti il cui riferimento era restato finora abbastanza oscuro:
«Buratti,e la sua influenza su Byron» (26[314],1884; VII/2, p.213).
e: «Gli Italiani sono schietti ed originali solo nella satira feroce. Da Buratti in poi, che segnò per il genio di Byron la svolta decisiva» (34[8],1885, VII/3, p. 105).
Stendhal, nel suo saggio suLord Byron en Italie ed anche nella Correspondance, insiste molto su questo influsso benefico di Venezia, simbolizzato dalle satire di Buratti
.La fonte del giudizio è quindi Stendhal, rafforzata dalla ripresa che Taine ne aveva fatto nella Storia della letteratura inglese.
Buratti, poeta satirico veneziano (1778 -1822) autore di opere satiriche in dialetto (L'Elefanteide, La Strefeide, L'Omo) aveva suscitato un vero e proprio entusiasmo in Stendhal tanto a spingerlo — in Lord Byron a Venezia — e altrove a giudicarlo, in modo più che azzardato, «il primo poeta satirico della nostra triste Europa» e ad attribuire al suo influsso determinante una svolta nell'atteggiamento poetico di Byron nella direzione del don Juan e del Beppo. L'episodio, al di là del giudizio insostenibile per la mediocrità del Buratti, appare significativo a Nietzsche: Byron che si avvicina al Sud, è l'uomo superiore, il più nobile perché il più tormentato e forte, che compie un passo ulteriore nella direzione del superuomo imparando a ridere e a dominare, con la sicurezza della forma, l'incandescente caos.
In tal modo Byron si unisce a Stendhal, a quella costellazione di senso e di valori, che per Nietzsche significa tale nome.
Felicità, passione, forza, energia, analisi vivisettrice, insouciance, «dolce far niente»,amore, vanità, bellezza come promessa di felicità etc. sono categorie che troviamo, con appunti dalla lettura di Stendhal, nei frammenti postumi, a costituire la trama della "filosofia del mattino".
Lo stesso ateismo di Stendhal è un aspetto della sua salute, si lega senza sforzo alla sua vitalità affermatrice — non è espressione di risentimento, rifugge dalle ombre di Dio. E Nietzsche gli invidia "la più bella battuta da ateo": «Dio ha la sola scusa di non esistere» (EH, VI/3, p. 294).
Alla linea romantica che deriva da Rousseau e che vede in Sainte Beuve e Renan due esponenti principali Nietzsche contrappone la linea dell'energia e della forza che procede dagli ideologues e che in ha Stendhal il suo punto centrale di riferimento. Ancora una volta Nietzsche, nella caratterizzazione di Stendhal come "uomo superiore", si richiama a Taine e Bourget
A partire dall'entusiastico giudizio di Balzac su La Charteuse de Parme , si consolida, attraverso il saggio di Taine, per Stendhal l'espressione "uomo superiore", "esprit supérieur". Stendhal è inaccessibile alla folla "un tel esprit est peu accessible, car il faut monter pour l'atteindre", "il aime la solitude, et écrit pour n'ètre pas lu", i suoi personaggi sono "esseri superiori". E questo giudizio è ripreso e amplificato da Bourget e detta le linee di assimilazione del mito di Beyle quale "uomo superiore" in lotta contro la mediocrità a cui Nietzsche aderisce. Si allontanano, in tal modo, in nome dell'energia e dell'affermazione della vita (nel mito del Sud) le ombre e le nubi che accompagnavano la morte di Dio: sorge la figura dell'individuo "sovrano" capace di fare delle contraddizioni e della lotta degli istinti l' espressione di una forma che rinuncia alla semplificazione autoritaria, a false e rassicuranti vie d'uscita.
Di contro ai frammenti e promesse di una forma superiore e diversa di uomo, Nietzsche vede qua e là , nella storia, attraverso un felice "getto di dadi" la realizzazione di individui superiori capaci di arrivare alla "giustizia": "l'uomo supremo (Der höchste Mensch) avrebbe la massima pluralità degli istinti, e li avrebbe anche nell'intensità relativamente maggiore che può essere sopportata"
La complessità dell'anima moderna, la sua apertura ad ogni esperienza, il suo caos non è necessaria decadenza: la morte di Dio apre la possibilità di un'anima più vasta, sovraeuropea, capace di accogliere in una forma superiore istinti in contrasto nella loro forza e gradazione. In un confrontone tra Raffaello e Leonardo in cui è visibile, ancora una volta, l'influenza di Stendhal e Taine , appare, in tutta la sua seduzione, il mito di Leonardo, capace veramente di uno "sguardo sovracristiano": "Egli conosce l'«Oriente», quello interno altrettanto bene di quello esterno. C'è in lui qualcosa di sovraeuropeo e di taciuto, qualcosa che è tipico di chiunque abbia contemplato una cerchia troppo vasta di cose buone e cattive» (VII/3, p. 149). E certamente occorrono «una forza ed una mobilità tutta diversa per mantenersi in un sistema incompiuto, con prospettive libere e non ristrette, rispetto a quanto occorre in un mondo dogmatico» (VII/3, p.108).

Nello Zarathustra si legge :
«mi sono spuntate le ali per volare via verso remoti tempi futuri. In termpi futuri ancor più lontani, in meridioni ancora più meridionali,[ in Sud più a Sud – In südlichere Süden] di quanto non abbia mai potuto sognare un artista: là dove gli dei si vergognano delle vesti»
Il Sud – cifra simbolica complessa. Visione del futuro, legata alla possibilità dell’altro uomo, dell’altra superiore forma di vita, legata al simbolo del superuomo.
La perfezione animale, legata alla solarità e al mito del Sud, è solo la inziale premessa. Nietzsche insiste più volte sulla ‘divinizzazione del corpo’ segnata dal nome di Dioniso, l’estensione della felicità che è la cifra distintiva del Sud: “Riscoprire in sé il Sud e tendere sopra di sé un chiaro, splendido, misterioso cielo del Sud; riconquistare la salute meridionale e la riposta potenza dell’anima”. Non è casuale che nello stesso frammento, il filosofo leghi l’equilibrio fisiologico e la felicità animale alla possibilità di diventare gradualmente “più vasti, più sovranazionali, più europei, più sovraeuropei, più orientali, infine più greci” (41[6] e [7] agosto settembre 1885). Il greco come l’uomo del Rinascimento è una cifra ideale di una umanità più chiara e affermatrice, di un’anima più vasta.
AGOSTO SETTEMBRE 1885
41 [6] Alle gioie umane più alte e insigni, in cui l'esistenza celebra la propria trasfigurazione, pervengono, come è giusto, solo gli esseri più rari e meglio riusciti; e anche questi solo dopo aver vissuto, essi stessi e i loro predecessori, una lunga vita preparatoria indirizzata a tal fine, e senza neanche la coscienza di codesto fine. In tal caso una strabocchevole ricchezza delle forze più disparate e insieme la più agile potenza di un «volere libero» e di un disporre sovrano abitano in un uomo amorevolmente l'una accanto all'altra; lo spirito è allora altrettanto a suo agio e familiare con i sensi, quanto i sensi io sono con lo spirito; e qualunque cosa accada in quest'ultimo, non può non suscitare anche in quelli una ricreazione e una felicità sottili e straordinarie. E lo stesso inversamente! Si rifletta su questa inversione a proposito di Hafis; anche Goethe, per quanto già con un’immagine indebolita, dà un presentimento di questo fatto. È probabile che in tali uomini perfetti e felici le funzioni più sensibili finiscano con l'essere trasfigurate da un'ebbrezza allegorizzante della più alta spiritualità. Essi avvertono in sé una specie di divinizzazione del corpo e sono remotissimi dalla filosofia da asceti della frase: «Dio è uno spirito», dalla quale risulta chiaramente che l'asceta è «l'uomo mairiuscito», che approva di sé - e chiama «Dio» - solo una parte, e precisamente la parte giudicante e condannante. Da quell'altezza di gioia in cui l'uomo sente se stesso, e se stesso in tutto e per tutto come una forma divinizzata e un'autogiustificazione della natura, giù giù fino alla gioia dei contadini sani e dei sani animali quasi umani: tutta questa lunga, prodigiosa scala di luci e di colori della felicità, il Greco la chiamò, non senza il brivido riconoscente di colui che è iniziato a un mistero, non senza molta cautela e religiosa riservatezza, con il nome di un dio: Dioniso. – Cosa sanno mai tutti i moderni, figli di madri fragili, molteplici, malate e stravaganti, dell'estensione della felicità greca, cosa potrebbero saperne! Da dove attingerebbero mai gli schiavi delle «idee moderne» il diritto di celebrare feste dionisiache?
41 [7] Quando «fiorivano» il corpo greco e l'anima greca, e senza gli stati di morbosa esaltazione e follia, sorse quel misterioso simbolo della più alta affermazione del mondo e trasfigurazione dell'esistenza che si siano mai raggiunte sulla terra. E dato qui un metro, commisurato al quale tutto ciò che da allora è cresciuto risulta troppo corto, troppo povero, troppo stretto; basta pronunciare la parola «Dioniso» di fronte alle migliori cose e ai migliori nomi moderni, di fronte a Goethe, diciamo, o Beethoven, o Shakespeare, o Raffaello: e di colpo sentiamo giudicati le nostre cose e i nostri momenti migliori. Dioniso è un giudice! Mi si è compreso? Non c'è dubbio che i Greci abbiano cercato di interpretare per sé, in base alle loro esperienze dionisiache, i misteri ultimi «del destino dell'anima» e tutto ciò che sapevano sull'educazione e il raffinamento, e soprattutto sull'immutabile gerarchia e disuguaglianza di valore tra uomo e uomo: ecco la grande profondità, il grande silenzio riguardo a tutto ciò che è greco - non si conosceranno i Greci finché quel nascosto accesso sotterraneo rimarrà sepolto. Gli indiscreti occhi eruditi non vedranno mai nulla in queste cose, per quanta dottrina s'impieghi al servizio di quegli scavi; perfino il nobile zelo di appassionati del- l'antichità come Goethe e Winckelmann ha proprio qui qualcosa di illecito, di quasi immodesto. Aspettare e prepararsi; aspettare lo zampillare di nuove sorgenti, prepararsi nella solitudine a voci e volti estranei; lavare la propria anima e renderla sempre più pura dalla polvere e dal chiasso da fiera di quest'epoca; superare ogni cosa cristiana con qualcosa di sovracristiano, e non solo liberarsene - perché la dottrina cristiana fu la controdottrina che negava quella dionisiaca; riscoprire in sé il Sud e tendere sopra di sé un chiaro, splendido, misterioso cielo del Sud; riconquistare la salute meridionale e la riposta potenza dell'anima; diventare gradualmente più vasti, più sovranazionali, più europei, più sovreuropei, più orientali, infine più greci - giacché la grecità fu la prima grande unificazione e sintesi di tutto il mondo orientale e appunto perciò l'inizio dell'anima europea, la scoperta del nostro «mondo nuovo»: - per chi vive sotto tali imperativi, chissàcosa potrà mai capitargli un giorno? Forse appunto un nuovo giorno!

Lettere su Così parlò Zarathustra
(da EPISTOLARIO IV, ADELPHI EDIZIONI)
282. A Heinrich Köselitz
Tautenburg. <20 agosto 1882>
Mio caro amico,
la «Gaia scienza» è arrivata, Le invio subito la prima copia. Diverse cose La sorprenderanno: nell'ultima correzione ho fatto qua e là alcuni cambiamenti e spero almeno di avere migliorato qualcosa. Legga, per esempio, la conclusione sia del secondo che del terzo libro; anche riguardo a Schopenhauer sono stato più esplicito (probabilmente non tornerò mai più a parlare né di lui né di Wagner, ora però dovevo definire la mia posizione relativamente a quanto avevo detto in precedenza – alla fine dei conti sono un'insegnante e ho il dovere di dire su quali cose il mio punto di vista è rimasto invariato o invece è mutato). Scriva qualche osservazione sia su questo che sull'altro capitolo, amico caro. E anche su tutto l'insieme e sul tono generale: lo si coglie davvero? E in particolare il Sanctus Januarius riesce comprensibile? Dopo tutto quello che ho passato da quando sono tornato in mezzo agli uomini, ne dubito persino troppo! Non mi figuravo possibile tale e tanta estraneità e indifferenza verso quello che per me è della massima importanza, e anche verso me stesso: in questo tutti gli «amici» si uguagliano Chi mi è più affezionato della buona Meysenbug? eppure anche lei mi ha appena scritto dicendosi convinta che «una volta raggiunta la mia vetta, tornerò tutto festante a Wagner e a Schopenhauer». Pure Schmeitzner, a proposito di «Zarathustra», ecco cosa disse: «A giudicare dall'ultimo fascicolo del Suo nuovo libro, il libraio potrà finalmente dirsi contento che Lei riprenda a mandargli libri «adatti al pubblico», il che ravviverà anche la vendita di quelli precedenti».
Disgusto e compassione!
Pure, come ho detto, queste non sono eccezioni, è la regola. Anzi, questa realtà mi si è fatta sentire in tutta la sua spietatezza immaginabile – ma sono cose, queste, che non si possono dire per iscritto, anzi neppure a voce.
In fin dei conti, caro amico, sono in grado di affrontare tutto quanto, e l'essere vissuto tra i fantasmi non ha fiaccato il mio coraggio. È strano! Io che di solito sono estremamente suscettibile a tutto, quando si tratta dell'opinione che si ha di me, mi sembra di avere la pazienza di un asino. Com'è possibile?
Stia bene! Non prendiamocela con la vita, cerchiamo invece di diventare sempre più quelli che siamo – individui «sapienti per gaiezza» .
Lou resta qui da me ancora una settimana. È la più intelligente tra tutte le donne. Ogni cinque giorni abbiamo una piccola scenata. Tutto quello che Le ho scritto su di lei sono assurdità, probabilmente anche quello che ho appena scritto.
301. A Franz Overbeck
Indirizzo: Lipsia, Auenstr. 26, 2° piano. <9 settembre 1882>
Mio caro amico, eccomi dunque un'altra volta a Lipsia, questa vecchia città libraria, per vedere alcuni libri, prima di ripartire per mete lontane. La campagna d'inverno di Germania sarà certamente un insuccesso: ho bisogno in ogni senso di un tempo luminoso. Carattere certo ne ha, questo cielo nuvoloso della Germania, come ha carattere, mi sembra, la musica del Parsifal – ma è un brutto carattere. Ho qui davanti a me il primo atto del matrimonio segreto – musica aurea, scintillante, buona musica, buonissima!
Le settimane di Tautenburg mi hanno fatto bene, in particolare le ultime; in linea generale posso parlare a buon diritto di guarigione, anche se sono costretto a ricordarmi sin troppo spesso di quanto sia instabile la mia salute. Ma voglio un cielo terso! Altrimenti perdo troppo tempo e troppe energie.!
Se hai letto il Sanctus Januarius avrai notato che sono uscito da una orbita. Tutto mi appare nuovo e non passerà molto tempo che potrò scorgere il volto terribile del mio compito futuro. Questa lunga estate fruttuosa è stata per me un periodo di prova: le ho detto addio con l'animo straordinariamente pieno di coraggio e di orgoglio, perché ritenevo superato, almeno per questo lasso di tempo, l'odioso abisso che separa sempre il volere dall'attuare. Si è chiesto davvero troppo alla mia umanità, e io sono stato soddisfatto di me anche nelle situazioni più difficili. Tutta questa condizione indefinibile tra il consueto e l'eccezionale io la chiamo «in media vita» ; e il demone della musica, che dopo tanti anni è tornato ad insidiarmi, mi ha costretto a esprimere questa condizione anche con le note.
La cosa più utile di quest'estate però sono state le mie conversazioni con Lou. Le nostre intelligenze e i nostri gusti sono profondamente affini, – e, d'altra parte, sussistono tra noi talmente tanti punti di contrasto che siamo l'uno per l'altro oggetti e soggetti di osservazione oltremodo istruttivi. Non avevo mai conosciuto nessuno capace di ricavare una tale quantità di cognizioni obbiettive dalle proprie esperienze, nessuno in grado di trarre tanto profitto dalle cose imparate. Ieri Rée mi ha scritto : «A Tautenburg Lou è decisamente cresciuta di qualche pollice» – e forse sono cresciuto anch'io. Mi piacerebbe sapere se è mai esistita una franchezza filosofica come quella che c'è tra noi. Lou ora è tutta immersa nei libri e nel lavoro: il più grande servigio che ella mi ha reso sinora è di aver determinato Rée a modificare il suo libro sulla base di una delle mie convenzioni fondamentali. La salute non la sosterrà per più di sei o sette anni, come tempo.
Tautenburg ha dato a Lou una meta. Ella mi ha lasciato una poesia toccante, «Preghiera alla vita».
Purtroppo mia sorella è diventata una nemica mortale di Lou: piena di indignazione morale dal primo all'ultimo giorno, pretende ora di sapere a che punto sta la mia filosofia. Ha scritto a mia madre di «aver visto nascere a Tautenburg la mia filosofia e di essere sconvolta: io amo il male e lei invece il bene. Se lei fosse una buona cattolica andrebbe in convento a scontare tutto il male che ne nascerà». Per farla breve, lei, la «virtù» di Naumburg, è contro di me, c'è una vera frattura tra noi – persino mia madre una volta si è lasciata andare a tal punto con le parole che ho fatto preparare il mio bagaglio e di primo mattino sono partito per Lipsia. Mia sorella (che non voleva venire a Naumburg fintantoché c'ero io e si trova tuttora a Tautenburg) fa dell'ironia ripetendo «così cominciò il tramonto di Zarathustra» . In realtà l'inizio è appena incominciato. Questa lettera è per Te e per la Tua cara moglie, non prendetemi per un misantropo. Con tutto il cuore
370. A Heinrich Köselitz
<Rapallo, 1 febbraio 1883>
Caro amico, è tanto che non Le scrivo ed è stato bene che non l'abbia fatto. La mia salute si era nuovamente assuefatta a certe situazioni che ormai credevo superate: si è trattato di un lungo tormento, per il corpo e per l'anima, – nel quale l'attuale clima in Europa non aveva la minima parte.
Nel frattempo però non sono mancati anche i giorni limpidi e luminosi, e allora ho ritrovato subito la padronanza di me stesso. Resta pur sempre una fortuna riuscire a sopravvivere in piena solitudine. Ma quanti hanno invece dei legami, e devono sopportare un'infelicità raddoppiata dalla vicinanza altrui!
Mi sono gelato come non mai tra l'altro, e non ho mai mangiato peggio di così. Ora per me è necessario cambiare località: avevo già ripreso in affitto la camera di Genova, dove abitavo l'inverno scorso ma, secondo le ultime notizie, il Signore che vi alloggia attualmente ha cambiato idea e intende restarvi.
Ora, la mia vecchia e cara amica Meysenbug mi ha invitato a Roma e mi ha dato per certa la possibilità che qualcuno scriva per me due ore al giorno. Visto che ho un bisogno urgentissimo di qualcuno per scrivere e dettare, penso che mi trasferirò a Roma, sebbene questo, come Lei sa, non sia per me il luogo preferito.
Questo «scrivano» così disponibile è la signorina Cécile Horner, parente di Brenner (io non l'ho mai vista)
Ma forse Le farà piacere sapere che cosa c'è da scrivere e da approntare per la stampa. Si tratta di un libro piccolissimo, circa cento pagine di stampa. Ma è la cosa migliore e per me significa essermi tolto un gran peso dal cuore. Non ho mai scritto nulla di più serio né di più allegro: mi auguro di cuore che questo tono – che non deve necessariamente essere una mescolanza – diventi sempre più il mio colore «naturale». Il libro si chiamerà
Così parlò Zarathustra.
Un libro per tutti e per nessuno.
Di
F. N.
Con questo libro sono entrato in un nuovo “girone” – d'ora in poi in Germania verrò certamente annoverato tra i pazzi. Sono «prediche sulla morale» di un genere inconsueto.
Grazie al mio soggiorno in Germania mi sono fatto un'opinione, amico carissimo, che è tale e quale la Sua dopo il Suo soggiorno – e precisamente che quello non è più il mio posto. E almeno ora, dopo il mio «Zarathustra», mi accade quello che accade a Lei: l'aver capito questo e «aver assunto una posizione» mi ha infuso coraggio.
Ci chiediamo quale debba essere ora il nostro posto? – Riteniamoci fortunati per il solo fatto che possiamo chiedercelo!
C'è una certa analogia tra le nostre vicende: rispetto a me Lei però ha a Suo vantaggio un temperamento migliore, un passato migliore, più tranquillo e più solitario – e una salute migliore.
Io per poco non restavo soffocato. - Dunque, fino al 10 sarò ancora qui. Dopo Roma posta restante.
Sempre vicino a Lei con il pensiero e il cuore
F. N.
375. A Ernst Schmeitzner

<Rapallo, 13 febbraio 1883>

Stimatissimo Signor editore,
i Suoi saluti sono stati, per combinazione, il primo segno di interessamento che mi sia giunto qui a Genova.
Oggi ho una buona notizia: ho compiuto un passo decisivo e tale che, a mio avviso, può essere vantaggioso per Lei. Si tratta di un volumetto (di appena cento pagine), il cui titolo è

Così parlò Zarathustra.
Un libro per tutti e per nessuno.

Si tratta di una «composizione poetica», o di un quinto «Vangelo», oppure è qualcosa per cui non esiste ancora una definizione: è la mia opera di gran lunga più seria e anche più allegra, e accessibile a chiunque. Perciò sono convinto che il suo «effetto» sarà «immediato» – tanto più ora che, a giudicare da svariati sintomi, l'interesse per me, sempre pigro e riluttante, è arrivato a un certo stadio – Sono venuto casualmente a sapere, sia da Vienna che da Berlino , che tra gli «uomini intelligenti» si parla molto di me. Penso in particolare al signor Brandes , lo studioso di storia delle civiltà, ora a Berlino, il più dotato tra i Danesi contemporanei: ho saputo che si è interessato a fondo di me.
I nostri «accordi» circa l'edizione li conosciamo entrambi. Tuttavia questa volta sento la necessità di dare una particolare importanza a due aspetti esteriori, perché voglio che questo libro si presenti come il punto più alto di tutta la mia opera fino a questo momento. Mantenendo lo stesso formato e gli stessi caratteri, desidero che su ogni pagina il testo sia incorniciato da una linea nera: così è più degno di una composizione poetica. E poi, una velina più robusta!
Mi faccia la cortesia di informarmi a stretto giro di posta se debbo spedirLe questo lavoro. Sto lavorando io stesso, con tutte le mie «forze» (i miei poveri occhi!) alla ricopiatura e, se Lei è d'accordo, voglio che Teubner stampi questi sei fogli con la massima premura.
Per me il momento della «stampatura» è sempre come una fase di malattia; perciò, più in fretta che si può!
Con i migliori auguri Suo
devoto

dr. F. Nietzsche

Gli Overbeck sono rimasti incantati da Lei! Come me!
394. A Heinrich Köselitz

<Genova, 24 marzo 1883>

Mio caro amico, mi ha tanto rincuorato Lei con la Sua lettera! Nulla mi fa più piacere da parte Sua delle Sue promesse, fatta eccezione per l'adempimento delle medesime, voglio dire la Sua musica. …
Riflettevo su cosa sia propriamente quello che Lei chiama il motivo . Pensavo quasi che stesse a indicare la musica che non si crea ma si prende: la musica popolare. È stato dimostrato ora che le arie più popolari di Bellini (ed anche quelle di Paisiello) , traggono il loro motivo dalle canzoni che si cantano in quel di Catania. (Omero raccolse i motivi sui quali i motivi sui quali i rapsodi avevano vantato per un paio di secoli). Mi sembra che «il motivo» sia, nell'ambito della musica, quello che si usa chiamare «proverbio». Lei cosa ne pensa? – Questo mi fa venire in mente il mio «Zarathustra».

397. A Heinrich Köselitz
<Genova, 2 aprile 1883>
Caro amico Köselitz, supponiamo che ora tutto vada di nuovo nel verso giusto – dimentichi e bruci tutte quelle stupide lettere che Le ho scritto quest'anno, e non creda neppure per un attimo a tutto quello che può dire un uomo malato. …
Veniamo ora a Zarathustra. Che cosa lo ha fermato? Mezzo milione di innari cristiani, che Teubner doveva stampare entro Pasqua . Come si deve classificare propriamente questo «Zarathustra»? Direi quasi fra le «sinfonie». Una cosa è certa: con questo lavoro sono entrato in un altro mondo – lo «spirito libero» è appagato. Oppure no?
Con sincera gratitudine
Suo Nietzsche.
(Fino al 25 rimango qui.)
398. A Franz Overbeck
<Genova, primi di aprile 1883>
Mio caro amico Overbeck, non saprei cosa altro rispondere alla Tua amabile lettera se non questo: si va avanti. Anche per questa volta ne sono uscito vivo, però voglio uscirne anche sano. – È sempre stato così con le mie vicende e vicissitudini: una volta superate, ammesso che ci riesca, si volgono poi a mio profitto. Rispetto all'anno scorso, ora vedo le cose con molta più chiarezza e sono anche più deciso, e poiché mi sono scottato tante volte, ho una precisa e decisa paura del fuoco che, nel mio caso, significa paura delle persone. …– La proposta che mi fai nell'ultima lettera merita di essere presa in considerazione più di tutte quelle che mi sono state fatte ultimamente (Jakob Burckhardt – accennando alla sua età avanzata mi rivolge pressanti inviti a «insegnare ex professo storia universale» ). Prima però aspettiamo lo Zarathustra: temo che nessuna autorità mi vorrà dopo, come educatore della gioventù. A proposito, che cosa ha fermato il mio Zarathustra? Mezzo milione di innari cristiani! Ora però arriva il mio turno da Teubner (ecco perché rimango qui ancora fino al 25 di questo mese ). …. Ho bisogno di cielo sereno – altrimenti il mio temperamento spaventoso mi distrugge (a qualsiasi età il carico delle mie sofferenze ha superato ogni limite immaginabile)
Per finire dirò che è possibile che quest'inverno sia entrato in una nuova fase. Lo Zarathustra è qualcosa di cui nessun vivente, tranne me, sarebbe capace. Forse ho scoperto proprio ora le mie energie migliori. Anche come «filosofo» non ho ancora finito di rivelare i miei pensieri più importanti (o le mie «assurdità») – ahimé, sono così taciturno e chiuso! Ma anche proprio come «poeta»! La mia filologia l'ho dimenticata: avrei potuto imparare qualcosa di meglio quando avevo vent'anni! Ahimé come sono ignorante!
Quest'estate boschi e alta montagna, e in autunno Barcellona – queste sono le ultime decisioni. Da tenere segrete!
Con sincera amicizia
FN.
401. A Heinrich Köselitz
<Genova, 6 aprile 1883>
Caro amico,
nel leggere la Sua lettera ho avuto un brivido. Supposto che Lei abbia ragione, allora – la mia vita non sarebbe fallita? E meno che mai proprio ora che ne sono massimamente convinto?
D'altra parte, leggendo la Sua lettera ho avuto la sensazione che non mi resti ormai molto da vivere – ed è bene che sia così! Caro amico, Lei non immagina quale smisurato carico di sofferenze la vita mi ha rovesciato addosso, e in ogni momento, sino dalla prima infanzia. Ma sono un soldato, e questo soldato alla fin fine è diventato anche padre di Zarathustra! In questa paternità riponeva le sue speranze. Penso che Lei afferri ora il significato del verso dedicato al Sanctus Januarius: «Tu che con lancia di fuoco frangi il gelo dell’anima mia, sì che scrosciando al mare si precipita della più alta tra le sue speranze - - -
E anche il significato del titolo «incipit tragoedia» .
Basta così. Forse non ho mai provato una gioia così grande nella mia vita come quando ho ricevuto la Sua lettera.

Sono disgustato all'idea che lo Zarathustra faccia il suo ingresso nel mondo come lettura dilettevole; chi è serio abbastanza per queste cose! Se avessi l'autorità dell'«ultimo Wagner», andrebbe già meglio. Ma ora «nessuno» mi può salvare dal pericolo di venir scaraventato nel mucchio dei «belletristi». Che schifo!
Con sincera gratitudine
il Suo amico Nietzsche.
<Genova, 17 aprile 1883>
Persino Lei, caro amico, si mette a fare «castelli spagnoli», come si dice in Francia – anzi castelli della Nuova Spagna, messicani . Ne sono contento! Cominciamo a sentirci stranieri nell'Europa d'oggi; e, perché da questa sensazione nasca qualcosa di positivo, qualcosa di energico e creativo, sarebbe senz'altro consigliabile rafforzarla, con un distacco anche nello spazio. […] Quest'ultimo anno mi ha fornito, tutti in una volta, numerosi indizi del fatto che la mia persona, così come in sostanza la mia vita e il mio agire, sono oggetto di un generale disprezzo («amici» e parenti compresi): e io non sono «fatto» per sopportare il disprezzo. In effetti il dubbio se io «serva ancora a qualcosa» è fortissimo; chi non mi considera dannoso pensa però sicuramente che io sia un fannullone del tutto superfluo. Ora poi, con lo «Zarathustra», finisco addirittura tra i «letterati» e gli «scrittori», così sembrerà reciso anche il legame che mi univa alla scienza.
… Comincio appena ora a conoscere davvero Zarathustra. La sua nascita è stata una sorta di salasso, se non sono soffocato lo debbo a lui. È stata una cosa improvvisa, un affare di dieci giorni.
403. A Franz Overbeck
Genova, mercoledì. <17 aprile 1883>
Caro, caro amico, in questo frattempo ho riflettuto sulla Tua proposta e ho consultato anche il maestro veneziano. Il tempo è meraviglioso, la salute e lo stato d'animo fanno continui progressi, perciò le mie riflessioni sono abbastanza valide. Spesso ho dei periodi pieni di angoscia che riesco a superare a fatica, allora dubito anche della validità delle mie riflessioni e decisioni. Non appena la salute e il tempo si rimettono al bello, riconosco dentro di me che, pur se tra enormi sofferenze, mi muovo deciso verso una meta per la quale vale sicuramente la pena di fare una vita dura e difficile. Di una cosa sono chiaramente consapevole: il maggior danno me lo sono procurato finora ogniqualvolta mi sono discostato dal mio interesse principale, sia pure perché preso da una professione o da un lavoro per altre persone (– il che vale, stranamente, sia per l'estate scorsa che per l'autunno). E quest'inverno mi sono salvato unicamente con un ritorno improvviso al mio interesse principale: qui sta il mio dovere, là dove devo esigere il massimo da me stesso trovo anche la mia sorgente di vita. Fare l'insegnante: certo sì, questo avrebbe ora su di me un effetto davvero benefico (l'estate scorsa l'ho fatto e ho capito quanto mi sia congeniale) . Ma c'è qualcosa di più importante, al cui confronto la professione di insegnante, per quanto utile e incisiva, varrebbe al massimo ad alleggerirmi l'esistenza, a ricrearmi. E soltanto quando avrò adempiuto il mio compito, riuscirò a vivere con la coscienza tranquilla quel genere di esistenza che Tu desideri per me.
Ma forse l'ho adempiuto?
Nel frattempo è venuto alla luce lentamente, foglio dopo foglio, lo Zarathustra. Ma sì, ho cominciato a conoscerlo appena ora! Nei dieci giorni in cui ha preso forma non ho avuto il tempo per questo. In verità, amico carissimo, talvolta mi sembra di aver vissuto, lavorato e sofferto per riuscire a fare questo libretto di sette fogli! È proprio come se la mia vita trovasse in esso la sua giustificazione a posteriori. E da quel momento guardo con altri occhi persino quest'inverno che pur mi ha dato tanti tormenti: chissà che una sofferenza così grande non sia stata proprio quella decisiva per indurmi a quel salasso quale è appunto questo libro? Tu mi capisci, in questo libro c'è tanto del mio sangue.

Con affetto sincero per Te e la Tua cara moglie
405. A Heinrich Köselitz
<Genova, 21 aprile 1883>
Caro amico, a proposito della Sua cartolina mi permetto di riportare, non senza una certa ironia, il motto di Schopenhauer: «Predicare la morale è facile.»
La Sua osservazione sull'«ingranaggio» e l'«organismo» mi sembra esatta. È una cosa strana: ho scritto i commenti prima del testo. In «Schopenhauer come educatore» tutto ciò era già stato preannunciato, ma tra «Umano, troppo umano» e il «superuomo» c'era ancora un buon pezzo di strada da fare. Se Lei ora ripensa per un istante alla «Gaia scienza», riderà certamente della sicurezza, anzi impudentia, con cui vi si «annuncia» l'imminente nascita .
A rischio di suscitare per un attimo il Suo disgusto e a condizione che Lei bruci questa lettera immediatamente, voglio giustificarmi per il termine «disprezzo» che Lei trova eccessivo e inverosimile. Non mi sono mai lasciato guidare dall'opinione che gli altri avevano di me; però non sono capace di disprezzare le persone e non ho avuto la fortuna di nascere con la pelle dura. Confesso perciò d'avere sofferto molto in ogni momento della mia vita per l'opinione che si aveva di me: consideri che provengo da un ambiente che ritiene riprovevole e abbietta tutta la mia maturazione; ed è stato soltanto in conseguenza di questo che mia madre l'anno scorso ebbe a definirmi una «vergogna per la famiglia» e «un disonore per la tomba di mio padre» . Mia sorella una volta mi scrisse che, se fosse stata cattolica, sarebbe andata in convento, per riparare al male prodotto dal mio modo di pensare ; mi ha dichiarato addirittura un'aperta ostilità fintantoché non cambierò e non mi sforzerò «di diventare una persona dabbene e un uomo autentico». Entrambe mi considerano «un egoista duro e insensibile»; anche Lou, prima di conoscermi più da vicino, era convinta che fossi «una natura assolutamente bassa e vile, sempre proteso a sfruttare gli altri a mio vantaggio». Cosima ha parlato di me come di una spia, che si insinua nella fiducia altrui e scompare quando ha raggiunto ciò che vuole. Wagner è ricco di perfide trovate; ma cosa ne direbbe Lei del fatto che egli ha avuto in proposito uno scambio di lettere (persino con i miei medici), nelle quali si dichiara convinto che il mutamento nel mio modo di pensare sia la conseguenza delle mie tendenze stravaganti e innaturali, facendo allusione alla pederastia . Nelle Università si vogliono vedere nei miei ultimi lavori le prove della mia «decadenza» totale: il fatto è che se ne sono sentite troppe sulla mia malattia. Tuttavia questo mi addolora meno del fatto che il mio amico Rohde li trovi «gradevoli ma freddi» e «probabilmente molto vantaggiosi per la salute» . E per finire: il peggio verrà proprio ora, dopo la pubblicazione dello Zarathustra, dato che ho sfidato, con il mio «libro sacro», tutte le religioni. Rée è sempre stato nei miei confronti di una modestia commovente, questo desidero dirglielo espressamente.
«Andarsene in un bosco, lontano dal mondo! Punto.»
Il Suo devoto
Nietzsche
406. A Heinrich Köselitz
<Genova, 23 aprile 1883>
Oggi per caso sono venuto a sapere cosa significa «Zarathustra»: precisamente “aurea stella” . Questa coincidenza mi ha reso felice. Verrebbe da pensare che tutta l'idea del mio libretto abbia le sue radici in questo etimo, ma fino ad oggi non ne sapevo nulla.
Piove a torrenti, di lontano mi giunge una musica. Il fatto che questa musica mi piace e quanto mi piace non riesco a spiegarlo con i fatti della mia vita, piuttosto forse con quelli di mio padre. E perché non dovrebbe – ?
Il Suo amico N.

418. A Heinrich Köselitz
<Roma, 20 maggio 1883>
Caro amico, …
«Zarathustra» è la forma autentica e incontaminata del nome Zoroastro, e perciò è parola persiana . Dei Persiani si fa parola a metà di pag. 81 .
427. A Carl von Gersdorff a
Sils-Maria, Alta Engadina (Svizzera) fine giugno 1883.
Mio caro vecchio amico Gersdorff,
In gioventù abbiamo avuto una vita difficile, sia Tu che io – per motivi diversi; però sarebbe bello e giusto se, nell'età matura, la sorte si mostrasse un po' clemente, offrendoci qualche consolazione e qualche incoraggiamento.
Quanto a me, ho alle spalle una lunga e severa ascesi dello spirito, alla quali mi sono sottoposto di mia volontà, e di cui non tutti si sarebbero sentiti capaci. Sotto questo aspetto gli ultimi sei anni sono stati quelli in cui mi sono imposto la più dura disciplina, e lo dico senza tener conto di quello che ho passato a causa della salute, della solitudine, dell'incomprensione assoluta e della diffamazione. Comunque sia, anche questo gradino della mia vita l'ho superato – e quanto mi resta ancora da vivere (poco, penso!) mi servirà per esprimere, completamente e esclusivamente, le cose per amore delle quali ho trovato la forza di vivere. Il mio silenzio è finito: mi auguro che lo Zarathustra, che deve esserTi stato spedito in queste settimane, Ti sveli a quali altezze ho ardito spingermi. Non lasciarTi ingannare dal tono di leggenda di questo libricino: dietro ognuna di quelle parole semplici e inconsuete c'è il mio credo più profondo e tutta la mia filosofia. È un modo per cominciare a farmi conoscere – niente di più! – So molto bene che non esiste nessuno capace di fare qualcosa di simile a questo Zarathustra -

Continua a volermi bene e restami fedele! Siamo vecchi compagni e abbiamo condiviso tante cose!
Tuo
Friedrich Nietzsche.
431. A Franz Overbeck
<Sils-Maria, 9 luglio 1883>
Mio caro amico Overbeck! Il caso (oppure la posta) ha voluto che la Tua lettera mi giungesse appena il 4 luglio – da allora poi sono stato poco bene. Ecco perché vengo a Te con tanto ritardo, proprio come mio figlio Zarathustra che, nelle mie intenzioni, doveva presentarsi ai miei amici già a Pasqua di quest'anno ma, prima ha incontrato «l'ostacolo cristiano» (i cinquecentomila innari, Te ne ho parlato vero?) e ora gli è d'intralcio «l'ostacolo antisemita». Le cose infatti stanno proprio così: ultimamente il signor Schmeitzner mi ha informato che in conseguenza delle «trattative importantissime» e dei viaggi connessi con l'antisemitismo, l'edizione avrebbe subìto inevitabilmente un ritardo, e che tutte le copie in maggio erano ancora a Lipsia! – Bravo! Ma chi mi salva da un editore che annette più importanza alla campagna antisemita che alla diffusione delle mie idee? In questo non mi sembra di darmi troppe arie - -
433. A Heinrich Köselitz

<Sils-Maria 13 luglio 1883>

Caro amico,
avevo veramente nostalgia di una Sua lettera e, quando l'altro ieri a mezzogiorno ho trovato sul tovagliolo ciò che tanto desideravo, mi è sembrato di non aver mangiato da chissà quanto un pranzo così buono. …
Dopo l'ultima mia lettera sono stato meglio e ho ripreso coraggio, e tutto ad un tratto ho concepito la seconda parte dello Zarathustra – e dopo averla concepita l'ho anche data alla luce, e tutto sempre con una foga irresistibile.
(E così mi è venuto da pensare che, un'altra esplosione di sentimenti, un'agitazione come questa, e io un bel giorno ci lascio sicuramente la pelle: oh! al diavolo!).
Il manoscritto per la tipografia sarà pronto domani l'altro, mancano soltanto gli ultimi cinque capitoli; ma i miei occhi pongono limiti al mio «zelo».
Se Lei legge la pagina che chiude la prima parte dello Zarathustra, troverà queste parole «e solo quando mi avrete tutti rinnegato io tornerò tra voi. In verità fratelli, con altri occhi cercherò allora i miei smarriti; con altro amore allora vi amerò»
Questa è l'epigrafe della seconda parte: da essa derivano armonie e modulazioni diverse da quelle della prima parte, ma parlare in questi termini a un musicista è quasi disdicevole.
La cosa principale era riuscire a balzare sul secondo gradino, per raggiungere da lì il terzo (il cui titolo è «Meriggio e eternità» : Gliel'ho già detto? La prego però ardentemente di non farne parola con nessuno! Per la terza parte voglio prendere tempo, anni forse -).
Se mi rivolgo ancora una volta a Lei pregandola di aiutarmi nella correzione, riconosco che questo va ben oltre ogni limite, sia dell'amicizia che della decenza: ma se non è capace Lei di scusarmi per questo, non ne sono capace certo io!
A Lei resta tuttavia la speranza che per ora di stamparlo non se ne parli affatto. Forse mi stacco da Schmeitzner: egli considera apertamente la sua campagna antisemita come una faccenda ben più importante della diffusione delle mie idee.

Di cuore il Suo amico

Nietzsche.

452. A Heinrich Köselitz
<Sils-Maria, 16 agosto 1883>
Dove ha scovato, mio caro, tutti questi bellissimi Epicurea? Intendo dire non soltanto i termini epicurei, ma anche tutta quell'aria e quel profumo del giardino di Epicuro, che spirano da ognuna delle Sue ultime lettere . Ahimé, avrei tanto bisogno di queste cose – compreso quel divino, magistrale «sfuggire alle masse» . A dire il vero infatti, mi sento quasi schiacciare. Ma voglio parlarLe d'altro.
In me è ancora fortissima l'impressione per la sorte toccata a Ischia : perché, oltre a tutto quello che può riguardare ognuno di noi, c'è qualcosa in questo evento che mi riguarda personalmente e mi riempie di orrore. Quest'isola me la portavo dentro: quando avrà letto tutta la seconda parte di Zarathustra, Le sarà chiaro dove io cercavo le mie «isole beate». «Cupido in danza con le fanciulle» : soltanto a Ischia si capisce subito cosa sia (le donne di Ischia dicono «Cupedo»). Avevo appena terminato la mia poesia ed ecco che l'isola crolla. Lei sa che nello stesso momento in cui finivo il lavoro delle bozze per la prima parte dello Zarathustra, Wagner moriva. Questa volta ho ricevuto in quel preciso momento alcune notizie che mi hanno indignato a un punto tale che quest'autunno ci sarà probabilmente un duello alla pistola. Silentium! Caro amico!
Frattanto ho buttato giù l'abbozzo di una «Morale per moralisti», e su molti punti ho fatto ordine dentro di me e mi sono imposto una regola. La coerenza e continuità di pensieri che, inconsapevolmente e spontaneamente, percorre senza interruzione tutta la massa eterogenea dei miei ultimi libri, mi ha stupito: non ci si libera da se stessi e si deve perciò avere il coraggio di lasciarsi andare lontano.

Nel frattempo può accadere di tutto. Ahimé amico mio, dov'è finito quel mese del Sanctus Januarius!!! Da allora è come se fossi condannato a morte, e non soltanto a morte, bensì a «morire».
Stia bene! Chi mi è vicino come Lei ora?
Suo Nietzsche.
457. A Heinrich Köselitz

<Sils-Maria, 26 agosto 1883>

Come mi ha fatto bene anche questa volta la Sua lettera, amico veneziano – queste io le chiamo «lezioni sulla civiltà greca» per uno che ne ha bisogno – e non per gli studenti di Lipsia et hoc genus omne! Lo strano pericolo che incombe su di me quest'estate ha nome, io credo – senza eufemismi – pazzia; e visto che l'inverno scorso, contro ogni previsione, sono arrivato ad avere una vera e propria febbre nervosa che è durata a lungo – io che non sapevo cosa fosse la febbre! – potrebbe pur sempre accadere quello che ho sempre ritenuto impossibile per me: che la mia mente si smarrisca. Per un anno intero sono stato istigato a nutrire un genere di sentimenti che ho rifiutato con tutte le mie forze, e che credevo realmente di essere riuscito grosso modo a reprimere: sentimenti di vendetta e «ressentiments». Si è creato così un tale garbuglio tra i miei istinti e le mie intenzioni, un tale labirinto che non so come uscirne. L'idea di tenere delle lezioni a Lipsia era dettata dalla disperazione: volevo trovare una distrazione in un durissimo lavoro quotidiano, senza però vedermi rimandato al mio compito fondamentale. L'idea però è già stata accantonata, e Heinze, attualmente Rettore dell'università, mi ha detto a chiare lettere che a Lipsia la mia domanda non verrà accolta (e sicuramente in nessuna delle università tedesche); e che la facoltà non ardirà proporre il mio nome al Ministero – a motivo della mia posizione nei riguardi del Cristianesimo e delle mie idee su Dio . Bravo ! Questo modo di vedere le cose mi ha fatto ritrovare il mio coraggio.
Anche la prima recensione della prima parte dello Zarathustra, che mi è stata spedita (è opera di un cristiano e antisemita e, cosa singolare, è stata scritta in carcere) , mi dà coraggio nella misura in cui, anche qui, quello che è stato colto immediatamente con esattezza e chiarezza assolute è il lato popolare della mia posizione, appunto la mia posizione nei confronti del Cristianesimo, l'unica che di me può venire capita. «Aut Christus, aut Zarathustra!». Ovvero, per dirla in tedesco: si tratta né più né meno dell'Anticristo, da sempre promesso – è questo che sentono i lettori. A questo punto si invocano solennemente tutti i sostenitori «della nostra dottrina del Salvatore del mondo» («cingete la spada dello spirito Santo»!!) contro Zarathustra: e poi vi si dice: «Assoggettatelo, perché così sarà dei vostri e vi sarà fedele perché in lui non c'è menzogna; se egli assoggetterà voi, avrete perduto la vostra fede: questa è la pena che vi impone il vincitore!» .
Caro amico, per quanto forse potrà sembrarLe ridicolo, è qui che per la prima volta mi giunge dall'esterno quello che da tempo una voce dentro di me diceva, e che io so: sono uno dei più temibili avversari del Cristianesimo, e ho escogitato un tipo di attacco che lo stesso Voltaire non immaginava neppure. Ma, «grazie a Dio» , questo non La riguarda.
La cosa che invidio a Epicuro sono i suoi discepoli nel suo giardino; ma sì, allora potrei scordarmi anche della nobile Grecia e forse persino della ignobile Germania! Ecco il perché della mia rabbia, da quando ho capito in tutti i sensi quali meschini espedienti (screditare il mio buon nome, tutta la mia persona e i miei propositi) siano sufficienti per togliermi la fiducia e quindi la possibilità di avere discepoli. Non ho scritto una sola riga «per la gloria», in questo Lei Certo mi crede; tuttavia pensavo che le cose che ho scritto potessero essere una buona esca. Perché, in fondo, l'istinto di insegnare è forte in me. E la gloria mi è addirittura necessaria in quanto per questa via posso farmi dei discepoli – tanto più che, ne ho appena avuto la prova, insegnare in un’università non mi è più possibile. Ho trascorso un paio di giorni in compagnia di Overbeck – un paio di giorni sereni e luminosi, durante i quali si è parlato molto anche di Lei!
F.N.

458. A Franz Overbeck

(Questa lettera è soltanto per Te).

<Sils-Maria, 26 agosto 1883>

Caro amico,
separarmi da Te mi ha ripiombato nella più tetra malinconia, e per tutto il viaggio di ritorno non sono riuscito a liberarmi da una serie di sensazioni cupe e tristi: per esempio, un vero e proprio odio per mia sorella che, da un anno a questa parte, tacendo nel momento sbagliato e parlando pure nel momento sbagliato, ha compromesso il risultato delle più belle vittorie che ho riportato su me stesso; tanto che finisco per sentirmi sopraffare da un implacabile voglia di vendetta, io che, proprio per intima convinzione, sono incline a rifiutare qualsiasi vendetta o punizione: questo conflitto interiore mi porta poco per volta alla pazzia*, è una sensazione che mi riempie di terrore, – e non saprei quanto un viaggio a Naumburg possa ridurre questo rischio. Al contrario potrebbero verificarsi situazioni spaventose, e parole e gesti potrebbero rivelare l'odio lungamente covato, nel qual caso sarei io di gran lunga ad avere la peggio. Ora non è più il caso nemmeno che io scriva lettere a mia sorella – tranne qualcuna assolutamente innocente (anche ultimamente le ho spedito una lettera piena di rime divertenti). Forse l'essermi riconciliato con lei è stato il passo più fatale in tutta questa storia: ora capisco che da tale passo ella si è sentita autorizzata a vendicarsi della sig.na Salomé. Pardon! Dopo che noi avevamo convenuto quali rischi presenta il progetto di Lipsia, mi ha confortato molto trovare una lettera di Heinze, con la quale l'intera faccenda – un passo, per quanto mi riguarda, dettato dalla disperazione – viene liquidata. Ti accludo la lettera e anche il primo commento ufficiale sulla prima parte dello Zarathustra ; il secondo, circostanza singolare, è stato scritto in carcere. Quello che mi fa piacere è vedere come già questo primo lettore intuisca di che cosa si tratta: di quell'«Anticristo» annunziato da tanto tempo. Dopo Voltaire non si è più visto un attentato simile al Cristianesimo e, ad dire il vero, neppure Voltaire immaginava che lo si potesse attaccare così. Quanto alla seconda parte dello Zarathustra, ecco quanto scrive Köselitz : «Zarathustra produce l'effetto di una forza straordinaria, ma sarebbe un ardire da parte mia esprimermi già ora in merito: mi ha folgorato e sono ancora a terra». … Che conforto è stato per me godere finalmente la Tua compagnia e la Tua confidenza sincera! Come ci capiamo e ci siamo capiti bene! Speriamo che il Tuo solido buon senso sia e resti un sostegno per la mia mente che comincia a vacillare!
Di cuore il Tuo amico Nietzsche


* Forse riesci Tu a far ben presente a mia sorella questo aspetto?

461. A Heinrich Köselitz

<Sils-Maria>, lunedì
<3 settembre 1883>

Mio caro amico,
anche per quest'anno devo dire addio all'Engadina: voglio partire mercoledì, per la Germania, dove ho svariate cose da fare e da liquidare. …
Questa Engadina ha visto nascere il mio Zarathustra. Ho appena ritrovato il primo abbozzo dei pensieri che poi vi ho intrecciato: sotto c'è scritto «Sils-Maria, primi di agosto 1881, a 6000 piedi sul mare, ma molto più in alto di tutte le cose umane» .
In quale misura il mio stato d'animo tormentato e confuso può avere influenzato le tinte delle due prime parti? (Perché le idee e le linee in effetti erano già fissate). È strano, vecchio amico! Se me lo chiedo, penso in tutta serietà che Zarathustra sia riuscito più allegro e divertente di quanto poteva riuscire in circostanze diverse. E potrei darne una dimostrazione a dir poco «documentata».
D'altra parte però le mie sofferenze sarebbero state e sarebbero tuttora infinitamente meno terribili, se negli ultimi due anni non avessi tradotto in pratica cinquanta volte alcuni princìpi della mia teoria sull'eremitaggio, e se le conseguenze spaventose di questa «esperienza pratica» non mi avessero spinto a dubitare di me stesso. È così che Zarathustra si è rasserenato a spese mie e io, a sue spese, mi sono incupito.
Del resto debbo comunicarLe, non senza dispiacere, che ora, nella terza parte, il povero Zarathustra cade davvero nel melanconico, al punto che Schopenhauer e Leopardi, a confronto del suo «pessimismo», farebbero la figura di principianti e novellini. È il piano dell'opera che lo esige. Ma proprio per riuscire a fare questa parte, ho bisogno io stesso anzitutto di una serenità profonda, celestiale, perché il pathos del genere più nobile potrà riuscirmi soltanto in forma giocosa. (Alla fine c'è luce dappertutto).
462. A Ernst Schmeitzner

Naumburg sulla Saale, martedì. <18 settembre 1883>

Stimatissimo Signor Editore,
insieme all'onorario per la seconda parte dello Zarathustra, che vorrei chiederLe di spedirmi ora, mi faccia avere anche un rendiconto esatto del denaro che Le ho affidato (rendiconto che quest'anno non ho ancora ricevuto). Per favore, cerchi di farmi avere queste cose entro i prossimi otto giorni, perché mi tratterrò qui a Naumburg ancora per poco.
Sarebbe bellissimo se Lei venisse una volta qui da noi.
I miei più vivi ringraziamenti per la Sua ultima cartolina . Mi auguro di cuore che il sole del mio Zarathustra, come Lei dice, «sia visibile» a un buon numero di persone; ma se questo non accadrà, non sarà per lo meno per colpa mia. Nell'amata Germania predomina un gradevolissimo oscuramento totale dei cieli: vedrò di sfuggire al più presto all'oppressione di queste nuvole.
Auguri sinceri dal
Suo

dr. F. Nietzsche.

Non ho neppure una copia della «Gaia scienza»: La supplico, almeno una!

473. A Franz Overbeck

<Genova, 9 novembre 1883>

Mio caro vecchio amico, spero che il prossimo sia un anno propizio per Te! O meglio; credo che sarà come Tu lo meriti perché, in fondo, si vivono sempre soltanto le proprie esperienze o, per essere ancora più preciso, si vive se stessi. Ogni volta che sono stato insieme a Te, la Tua calma e la delicata fermezza mi infondevano una gioia profondissima, e sono giunto addirittura al punto di non poter apprezzare niente di superiore ad una volontà tenace, per la quale dieci anni non significano gran cosa, fossero pure dieci anni di silenzio. Dall'ultimo Tuo compleanno, che trascorremmo insieme a Basilea, Ti ho dato tante preoccupazioni e forse Ti ho anche fatto dubitare di me: tuttavia credo che ora Tu sappia meglio di un anno fa che dentro di me alberga un nocchiero, del quale si può essere sicuri che finirà per rimediare e compensare non poche delle follie del suo capitano – tra queste appunto una volontà tenace e tuttora molto taciturna.
Mia sorella è incaricata di consegnarTi, per il 16 novembre, la seconda parte dello Zarathustra – leggilo tenendo conto che è la seconda di quattro parti , cerca cioè di capire che molto di quello che v'è contenuto troverà la sua ragione d'essere soltanto nel significato generale. Del resto penso che Tu sappia a quale incommensurabile distanza mi vengo a trovare con questo Zarathustra, da tutto quello che è propriamente letterario! Si tratta di una sintesi gigantesca, quale ritengo non sia mai stata concepita dalla mente o dall'anima di alcuno. Se riuscirò a darla alla luce così come m'è apparsa per qualche istante, voglio fare una gran festa e morire.
Le mie condizioni sono abbastanza preoccupanti, purtroppo non posso dire diversamente. Un attacco dopo l'altro, ogni giorno ha la sua storia di sofferenze, e vi sono momenti in cui mi dico: «non so più cosa fare». Soltanto ora mi rendo conto di come la mia vita sia scivolata via per tutti questi lunghi anni, mai sfiorata, anzi tagliata fuori da qualsiasi circostanza favorevole – soltanto ora, giacché la tacita speranza in qualche aiuto o favore delle circostanze mi ha abbandonato. E questa rabbia non mi abbandona appena mi rendo conto che non ho nessuno con cui scambiare riflessioni sul futuro degli uomini – è vero, l'essere privo per tanto tempo di una compagnia adatta a me mi ha minato e lacerato interiormente. Nulla mi viene in aiuto, nessuno si fa venire in mente qualcosa che potrebbe tenermi allegro o sollevarmi lo spirito; nessun imprevisto interviene a liberarmi da quelle impressioni avvilenti che negli ultimi anni mi si sono accumulate addosso. La mia vista è sempre più compromessa e sono tanti i momenti in cui avverto la solitudine come un peso. Per di più, Genova ormai è divenuta impossibile, è troppo rumorosa e per fare qualche passeggiata bisogna allontanarsi troppo. Mi rendo conto che la seconda volta non è mai come la prima, in tutte le cose. Per guarire ho bisogno di sensazioni nuove, fresche. Contatti umani qui non ne ho: Breiting lo vedo circa una volta la settimana per cinque minuti: il suo tempo e la sua mente sono completamente assorbiti dagli impegni. In sostanza nulla mi sarebbe più necessario delle persone (quindi Roma, per esempio): ma l'altro dato di fatto è che ormai riesco a vivere soltanto al mare. - - - -
Pensate a me con affetto, Tu e la Tua cara moglie (cosa ne è del suo progetto di tradurre ?), soprattutto quando fate della buona musica insieme?
Di cuore il Tuo amico

Nietzsche.



480. A Franz Overbeck
Nice (France) Pension de Genève petite rue S. Etienne.
<25 gennaio 1884>
Perdonami per questo biglietto, vecchio amico – ma è per darTi una buona notizia. Da venerdì scorso ho terminato in assoluto «Così parlò Zarathustra», e lo sto ricopiando. L'intero lavoro perciò ha richiesto esattamente un anno, anzi, per essere più precisi, nello spazio di 3x2 settimane. Le ultime due settimane sono state le più felici della mia vita; non ho mai solcato un simile mare con simili vele; l'orgoglio enorme che provo per tutta questa storia di una navigazione, che dura da quando mi conosci, dal 1870, ha toccato il suo apice. Quali fossero le mie condizioni in quest'anno che si è appena concluso, l'hai potuto capire dalla mia ultima lettera . …
L'aver portato a termine il mio Zarathustra ha giovato moltissimo alla mia salute. Caro vecchio amico, la prossima cosa che ho in programma – per ricrearmi! – è un bell'attacco frontale in piena regola contro l'attuale oscurantismo tedesco in tutte le sue forme (con il titolo «Nuovi oscurantisti» ). Per questo ho bisogno dei Tuoi consigli e del Tuo sostegno!
Di cuore Tuo
N.
486. A Franz Overbeck
<Nizza, 6 febbraio 1884>
Mio caro vecchio amico,

La stampa è già in corso, se Schmeitzner ha fatto il suo dovere. Del resto lo Zarathustra, dal principio alla fine, è un'esplosione di forze che si sono accumulate nel corso di decenni: esplosioni di questo genere possono facilmente mandare per aria anche chi le innesca. Inoltre so già in anticipo una cosa: quando dal finale capirai che cosa si propone realmente di dire l'intera sinfonia (con molta arte e poco alla volta, come quando si costruisce, ad esempio, una torre) – anche Tu, mio vecchio e fedele amico, sarai sopraffatto da spavento e orrore senza fine. Hai come amico un individuo estremamente pericoloso, ma la cosa più terribile di lui è che riesce a controllarsi molto bene. Come mi piacerebbe fare quattro risate con Te e la Tua cara venerabile moglie (risate da morire su me stesso!!!)
Di cuore
Tuo Nietzsche.
490. A Erwin Rohde
<Nizza, 22 febbraio 1884>
Mio caro vecchio amico,
non saprei dire come sia accaduto ma, quando ho letto la tua ultima lettera, e soprattutto quando ho visto quel grazioso ritratto dei tuoi bambini , ho avuto la sensazione che tu mi stringessi la mano e mi guardassi con malinconia: con malinconia come per dire: «Com'è mai possibile che abbiamo così poco in comune ormai e che viviamo come in mondi diversi! E un giorno - -»
E questo, amico mio, mi accade con tutte le persone che mi sono care: tutto se ne è andato, è vita passata, è riguardo; si continua a vedersi e si parla per non tacere, – si continua a scriversi lettere, per non tacere. Ma la verità si legge nello sguardo, e questo sguardo mi dice (lo intendo anche troppo bene!) «Amico Nietzsche, ora sei completamente solo!»
È vero, sono arrivato proprio a questo punto.
Intanto proseguo il mio cammino, ma in realtà è un viaggio, un viaggio per mare – non ho vissuto invano per anni nella città di Colombo.
Il mio «Zarathustra», con i suoi tre atti, è terminato: il primo lo hai, gli altri due penso di poterteli spedire tra quattro o sei settimane. È una specie di abisso spalancato nel futuro, qualcosa che atterrisce, e proprio per la sua beatitudine. Quello che c'è è opera mia, senza modello, né paragone, né precedente; chi ci è vissuto dentro una volta, rientra nel mondo con uno sguardo diverso.
Ma di questo è meglio non parlare. C'è però una cosa che a te, come homo litteratus, non posso fare a meno di confessare: mi illudo, con questo Zarathustra, di aver portato la lingua tedesca alla sua perfezione. Dopo Lutero e Goethe restava da fare un terzo passo: guarda un po' tu, vecchio compagno del cuore, se c'è mai stata nella nostra lingua una tale combinazione di forza, agilità e musicalità. Leggi Goethe dopo una pagina del mio libro: ti accorgerai che quel carattere «ondulatorio», proprio di Goethe nel disegno, non gli era estraneo anche quando si serviva della parola per plasmare le forme. Io lo supero per severità e virilità di linee, senza cadere tuttavia, come Lutero, tra i tangheri. Il mio stile è danza : mi diverto a comporre simmetrie di ogni genere e poi le supero d'un balzo, prendendomene gioco. Tutto ciò si spinge fino alla scelta delle vocali.
Scusami! Mi guarderò bene dal confessare queste cose a chiunque altro, ma una volta tu, forse sei stato l'unico, mi hai parlato del piacere che ti dava il mio stile.
Del resto sono rimasto un poeta, fino al limite estremo di questo concetto, pur avendo tiranneggiato me stesso con l'opposto di tutto quanto è poesia. Ahimé amico, che vita folle, silenziosa, faccio io! Così solo, solo! Così privo di «figli»!
Conservami il tuo affetto, io ne ho davvero tanto per Te!
Tuo
F. N.
494. A Franz Overbeck

<Nizza, 8 marzo 1884>


La prima parte della sua lettera tratta del mio Zarathustra , ma il modo in cui ne parla Ti allarmerà invece di farTi piacere. Cielo! Chissà cosa mi attende e di quali energie avrò bisogno per tener fronte a me stesso. Non so come possa venire in mente a me una cosa di questo genere – ma è probabile che a me sia venuto per la prima volta il pensiero che divide la storia dell'umanità in due metà. Questo Zarathustra non è altro che un'introduzione, un vestibolo: ho dovuto trovare il coraggio dentro di me, perché da ogni parte mi veniva solo scoramento: il coraggio per portare quel pensiero! Perché sono ben lontano dal poterlo formulare ed esporre. Se esso è vero, o meglio: se viene creduto vero, – allora tutto cambia e si capovolge, e tutti quelli che erano finora i valori saranno svalutati.
Di questo stato di cose Köselitz ha un presentimento, un sentore. Dico questo a sua giustificazione.
Quanto al resto, mi sono accadute di nuovo vicende tali che credevo di restarne soffocato (come ho accennato nell'ultima lettera) ma le ho superate.
I miei saluti più affettuosi!

Tuo N.

N.B. È innegabile che ormai ho bisogno di un maestro di cerimonie (una specie di guardia del corpo). Diversamente sono costretto a scegliere la solitudine assoluta.



504. A Franz Overbeck

<Nizza>, lunedì. <7 aprile 1884>

Grazie vivissime, mio caro amico! Anche quanto mi dici a proposito di Mickiewicz mi giunge opportuno: mi vergogno di saperne così poco sui Polacchi (che, alla fine dei conti, sono pur sempre miei «antenati» !) – mi piacerebbe tanto conoscere un poeta che fosse degno di Chopin e mi facesse bene come Chopin! A proposito di Lipiner ho avuto proprio di recente alcune informazioni molto precise: apparentemente è un «uomo arrivato» – per il resto però è la tipica incarnazione dell'attuale «obscurantismo» , si è fatto battezzare, è antisemita, devoto (recentemente ha attaccato in termini estremamente ostili Gottfried Keller , rimproverandogli una «mancanza di autentico spirito cristiano e di fede!») – Sembra che Lipiner rovini tutti i giovani sui quali ha una certa influenza – li spinge verso il «mito» e li induce a disprezzare il pensiero scientifico. Un individuo che ha semplicemente dei secondi fini molto «pratici» e che sfrutta a proprio vantaggio i «segni del tempo». Queste informazioni mi vengono da un naturalista viennese che lo conosce da quando era bambino.
Su quanto stia facendo Schmeitzner non ho notizie. È un fatto per me oltremodo increscioso, perché pensavo che questa fosse l'occasione buona per dare un concreto aiuto a mia madre e aggiustare così un poco le cose tra noi : ed ecco invece questa storia dell'antisemitismo a mettermi i bastoni tra le ruote!!
Ormai è giunto il momento per me di lasciare Nizza, voglio soltanto attendere le prime copie del mio Zarathustra. Speriamo che arrivino, ma non è da escludere che debbano starsene al rinchiuso anche questa volta per qualche mese, come l'anno scorso. Detto tra noi, mi aspetto che Schmeitzner fallisca. Che fine faranno allora i nostri libri!
Per l'inverno prossimo sono già abbastanza sicuro: se possibile la stessa pensione e la stessa camera. Forse riesco a crearmi qui una compagnia nella quale io non debba stare sempre «nell'angolino». Il clima del littoral provençal si confà in modo davvero stupefacente alla mia costituzione: i versi finali del mio Zarathustra non avrei potuto comporli che qui, su questa costa, nella patria della «gaya scienza». Lanzky (per inciso, un poeta) è già deciso a venire; vorrei riuscire a convincere Köselitz. E forse anche Rée e la sig.na Salomé, perché mi piacerebbe far loro dimenticare in parte i guai combinati da mia sorella. Ho notizie recenti di entrambi, notizie buone (sono a Merano ). Sembra che questa primavera venga pubblicato qualcosa della sig.na Salomé «sui sentimenti religiosi» – fui io a scoprire in lei questo interesse, e sono enormemente felice che le mie fatiche di Tautenburg diano qualche frutto.

Negli ultimi mesi mi sono occupato di «Storia universale», e con entusiasmo, anche se i risultati spesso sono spaventosi. Ti ho già fatto leggere la lettera di Jacob Burckhardt , che mi ha fatto battere il naso sulla «Storia universale»? Se quest'estate vengo a Sils-Maria, mi propongo di rivedere le mie conoscenze metafisiche e i miei punti di vista in fatto di teoria della conoscenza. Ora devo affrontare, una dopo l'altra, tutta una serie di discipline, giacché ormai ho deciso di impiegare i prossimi cinque anni a elaborare la mia «filosofia», di cui ho già composto un preambolo con il mio Zarathustra.
Nel rileggere «Aurora» e «Gaia scienza», mi sono accorto che ogni riga potrebbe benissimo servire da introduzione, preparazione e commento al suddetto Zarathustra. È una realtà: ho scritto il commento prima del testo - - Come stanno Emerson e la Tua cara moglie ?

Il Tuo amico N.

Non mi dici nulla della Tua salute?

506 a. A Paul Lanzky
<Venezia, fine di aprile 1884>
Ma, mio valente signor Lanzky, perché mi scrive questo? Vuole forse invogliarmi a dire più di quanto desideri? - - Oppure devo abbassarmi all’assurdo compito di spiegare il mio Zarathustra (o i suoi animali)? Penso che per questo ci saranno un giorno, prima o poi, cattedre e professori . Per il momento, non è ancora tempo per Zarathustra – e mi meraviglierei se, durante il resto della mia vita, incontrassi cinque, sei persone, che avessero occhi per le mie mete. «Per il momento» - significa finchè ci saranno ancora tutte queste allemanderies e niaiseries come «l’affermazione e negazione della volontà di vita» - - -
Ma noti bene: con questa immagine sovrumana ho voluto dare coraggio a me stesso.
Ma tutti gli uomini che hanno dentro di sé un qualche impulso eroico verso la loro propria meta, trarranno dal mio Zarathustra una grande forza.
Cosa ho a che fare io con coloro che non hanno una meta! ! Per casi come questi, sia detto per inciso, la mia ricetta preferita è – il suicidio. Per lo più però questo fallisce per mancanza di disciplina. Allora io consiglio, per preparavisi, di migliorare la dieta (una robusta alimentazione a base di carne, e niente di quelle maledette paste secche italiane), e dalle cinque alle otto ore al giorno di dure marce all'aria aperta. Anche fare il soldato fa bene.
Vuole forse convincermi di quello che so anche troppo bene – ossia che il libro più arduo e più profondo di tutti i tempi è necessariamente oggetto della più grave e più profonda incomprensione?
- - - non bastava questo?
Bene, signor mio! Ora mi voglio sfogare una buona volta.
Lei assiste alla nascita del libro in assoluto più sublime e più ricco di prospettive che sia mai stato scritto, – Lei ha l'onore di vivere nell'epoca di questo libro: e dunque? non c'è nulla in Lei che Le fa dire beata l'esistenza, per il solo fatto che possono nascere queste cose? E non ha nessun dono, nessuna promessa solenne da farmi? Niente da giurare o da promettere solennemente a se stesso o ad un qualunque genio eroico protettore delle risoluzioni solitarie? Non si è neppure tolto dalla testa le allemanderies e le niaiseries della deprimente gentaglia di oggi, che va in cerca di eufemismi per definire la sua fiacca volontà!
Come? Lei «non scorge le mie mete»? Bene, perché meravigliarsi? Ma, è forse mia la colpa se Lei non ha i miei occhi? Sono forse mete buone per chiunque? Cosa ha a che vedere Lei – con le mie mete? E con la «vita»?
Volevo sentirLa parlare delle mete della Sua vita! Se Lei ne avesse, forse potrebbe rappresentare uno strumento per la mia vita. Se ne vada, caro il mio signor presuntuoso! Gardez votre distance, monsieur!

509. A Malwida von Meysenbug

Venezia, San Canciano, calle nuova 5256
<primi di maggio 1884>

Spero che nel frattempo, mia veneratissima amica, Le siano giunte le ultime due parti del mio Zarathustra: questo almeno era l'incarico che avevo dato da tempo al mio editore. Non si tratta di un regalo per il quale si deve semplicemente dire grazie – io esigo che si impari a sentire in modo diverso proprio riguardo alle cose più care e più sacre, e anzi esigo molto di più di un modo diverso di sentire! Chissà quante generazioni dovranno passare prima che nasca qualcuno capace di comprendere in tutta la sua profondità quello che ho fatto! E quand'anche fosse così, mi spaventa l'idea che chissà quante e quali persone, senza averne il diritto né in assoluto la capacità, si richiameranno alla mia autorità. Ma questo è il tormento di ogni grande maestro dell'umanità: sapere che, a seconda delle circostanze e per qualche accidente, egli può diventare per l'umanità tanto fatale quanto salvifico.
Ebbene, per quanto mi riguarda voglio fare di tutto almeno per non dare adito a equivoci troppo grossolani; e ora, dopo aver costruito il vestibolo della mia filosofia, devo rimettermi all'opera e non concedermi tregua finché non sorgerà davanti a me, perfettamente compiuto, anche l'edificio principale. Coloro che comprendono soltanto il linguaggio dell'ambizione, diranno di me forse che io aspiro alla corona suprema che l'umanità possa conferire. E sia pure!
Ma questa solitudine, e fino dall'infanzia! Questo chiudermi persino con le persone più intime! Nessuno riesce più ad avvicinarmi ormai, neppure chi mi fa del bene.
Recentemente, quando è venuta a trovarmi a Nizza la sig.na Schirnhofer, ho pensato tante volte a Lei con gratitudine, perché capivo che per questa via Lei cercava di farmi del bene: ed è stata davvero una visita giunta al momento opportuno, trascorsa serenamente e in modo proficuo (soprattutto perché non turbata dalla presenza di un'oca presuntuosa – pardon! intendevo mia sorella). Sostanzialmente però non credo che esista qualcuno capace di farmi superare questo senso di solitudine così radicato. Non ho ancora conosciuto qualcuno con cui mi riuscisse parlare come parlo con me stesso. Le chiedo scusa, mia venerata amica, per questa specie di confessione personale.

Il Suo sinceramente affezionato
e riconoscente

Nietzsche.

Fonte: http://omero.humnet.unipi.it/3/matdid/562/Storia%20della%20filosofia%20mo.doc

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