Friuli Venezia Giulia

Friuli Venezia Giulia

 

 

 

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Friuli Venezia Giulia

Il Friuli Venezia Giulia è situato nell’Italia nord—orientale.
Confina a ovest con il Veneto, a nord con l’Austria, a est con la Slovenia ed è bagnato a sud dal mare Adriatico. 
È formato da quattro province: quella di Trieste, di Udine, Gorizia e Pordenone. Trieste è capoluogo di Regione. 
La Regione può essere suddivisa in diverse aree storicamente riconosciute, ma non separate tra loro: la Carnia, il Tarvisiano, la Destra Tagliamento, la Sinistra Tagliamento, la Slavia Cividalese, la Bassa Friulana, l'area Bisiaca - Goriziana e la provincia di Trieste.
Negli anni sessanta il Friuli Venezia Giulia. si è costituito in Regione autonoma a statuto speciale per gestire meglio la presenza di comunità con lingue diverse e il fenomeno dell’emigrazione (ora nei fatti superato, grazie allo sviluppo economico di questi ultimi anni).

 

I Carni e i Romani

In epoca preromana il Friuli fu abitato prima dai Veneti e poi dai Carni.
La costruzione dei “castellieri” può essere fatta risalire soprattutto ai più antichi dimoranti, i Veneti,. 
Erano villaggi fortificati, chiusi da mura o recinzioni e spesso anche da fossati. 
All’interno vivevano gli abitanti, svolgendo le proprie normali attività: agricoltura, allevamento e artigianato. 
Vi sono numerosi castellieri in Friuli: alcuni sono stati esplorati, molti restano ancora da scavare. 
Una parte dei primi è stata sicuramente abitata anche durante il medioevo.
I Carni erano una popolazione gallica (celtica) che aveva allontanato i primi occupanti e si era insediata (dal 400 a. c.) su tutto l’arco montano, anche carsico ed in pianura. Tre Regioni limitrofe Carnia, Carinzia e Carniola hanno preso nome da loro.
Secondo alcuni studiosi anche la parola Carso (che designa l’entroterra montano, non alpino, della Venezia Giulia) deriva dalla comune radice “kar”. La loro discesa dalle montagne preoccupò Roma che decise di intervenire militarmente.
I romani arrivarono nel II secolo a.c. (chiamati dai Veneti, assillati dall’espansione Carnica ai loro danni) e nel 183 a.c.. fondarono la città di Aquileia dove prima esisteva, probabilmente, un villaggio dei Carni. Ma questi furono definitivamente assoggettati da Tiberio e Druso (figliastri di Augusto), solo poco prima dell’epoca cristiana.
Aquileia divenne progressivamente la quarta città dell’impero per numero di abitanti dopo Roma, Capua e Mediolanum (stimati in 200.000). Vi fioriva l’attività artigianale (vetro, ceramica, ambra, gemme, lavori in marmo…) il commercio, basato sul porto fluviale del Natissa nonché quello terrestre verso il Norico e l’Illiria che si appoggiava sulle molteplici e funzionali strade romane.
Giulio Cesare lasciò un’impronta rilevante, facendo costruire la città di “Forum Julii” (ora Cividale). Più avanti la sigla miliare “Fr. Julii” diventò anche il nome della provincia (mentre la città, nel medioevo, venne ad essere chiamata “Civitas Forojuliana” o “Civitas Austriae” da cui Cividale).
Il cristianesimo si sviluppò più rapidamente in periferia che al centro e dopo l’editto di Costantino, Aquileia diventò un’importante sede patriarcale.
 
Le strade romane. 
Le vie romane erano importantissime perché collegavano la capitale con le terre più lontane.Venivano costruite per permettere alle legioni di trasferirsi con rapidità e per facilitare quello che i romani sapevano fare meglio: la guerra.
Una volta pacificato il territorio, l' utilizzo delle strade era libero, ma le comunità locali dovevano provvedere gratuitamente alla manutenzione.
I romani possedevano un servizio postale efficientissimo che si basava soprattutto sulla possibilità di cambio dei cavalli stanchi alle varie stazioni di sosta.
Il futuro imperatore Tiberio, quando ebbe notizia di un grave incidente capitato a Druso in Germania, riuscì a raggiungere il fratello dalla Pannonia (attuale Croazia) in soli tre giorni di furiosa cavalcata!!!.
La rete stradale romana era fitta, costruita sempre con criteri simili e, tracciata per motivi militari, finiva per favorire i commerci via terra.
Gli itinerari più importanti erano: la via Salaria, la via Aurelia,  la via Emilia, la Flaminia e la via Appia.  
La Salaria partiva da Roma e raggiungeva la costa adriatica presso Ascoli dopo aver attraversato l’Appennino. Prendeva nome dall’attività di trasporto del sale, fatto servendosi di essa, in periodi in cui il sale valeva come l’oro.
L'Aurelia congiungeva Roma alla Francia passando per Civitavecchia, Pisa e Genova.
L'Aurelia di oggi segue lo stesso percorso dell’antica, fino in Francia.
L’Emilia collegava Piacenza a Rimini.
La Flaminia portava da Roma a Rimini attraversando l’Appennino Toscano e Umbro.
Queste vie si congiungevano ad altre che raggiungevano il Friuli.
L'Appia andava da Roma a Capua e poi scendeva fino a Brindisi.

Anche in Friuli c’era una fitta rete di strade e se studiamo il loro percorso ci accorgiamo della stretta coincidenza con le più importanti arterie di comunicazione di oggi.
La via Annia partiva da Rimini e raggiungeva Aquileia costeggiando l’Adriatico dopo aver toccato Concordia  Sagittaria (nota per la produzione di frecce). Anche oggi, nel centro della cittadina vicina a Portogruaro, possiamo ammirare l’assetto di alcuni metri di questa strada, ritrovata a notevole profondità nel terreno, vicino al duomo.
La via Postumia era forse la più importante del Nord Italia. Giungeva proveniente da Genova, attraverso tutta la Pianura Padana (lambiva “Cremona, Mantua, Vicetia, Opitergium-Oderzo”) fino a sboccare poco più a Nord di Aquileia. Probabilmente si incrociava con altre arterie regionali importanti a “Quadruvium” (Codroipo – quadrivio, crocevia).
Un’altra strada partiva sempre da Aquileia (via Gemina ?). Attraverso l’area attuale di Gradisca d’Isonzo e passando a Sud di Gorizia entrava nella valle del Vipacco e dopo un lungo percorso si concludeva a Iulia Emona (Lubiana).
La via Iulia Augusta collegava Aquileia  al Norico attraverso il Passo di Montecroce  Carnico, toccando “Tricesimum, Glemona, Julium Carnicum ed Aguntum (Lienz)”.  All’altezza dell’attuale Stazione della Carnia partiva una diramazione secondaria che raggiungeva “Virunum” (Klagenfurt) per la valle del Fella.  Sempre a Virunum arrivava una seconda strada che, collegata Aquileia a “Forum Julii”, risaliva la valle dell’Isonzo e i passi delle Alpi Giulie Orientali fino al Norico.
La via Flavia, scendeva in Istria sulla costiera, passava per Pietas Iulia (Pola) e poi risaliva verso “Tarsatica” (Fiume). Una diramazione giungeva alla stessa meta, tagliando il Carso all’interno prima di Trieste.
Queste erano le principali arterie ma c'erano diverse minori ad incrociarle.

I romani costruivano le strade in questo modo
Si scavava un fossato profondo 45/60 centimetri che veniva riempito con vari strati di materiali trovati sul posto (ghiaia, sabbia e pietrisco). 
Lo strato profondo, “statumen”, era una massicciata di grosse pietre o mattoni, alta perlomeno 30 cm. La “ruderatio” era costituita sempre da pietre, unite insieme da calce. Il "nucleus" era fatto di ghiaia grossa, messa a livello e pressata.
 
Lo strato superiore "pavimentum" era costituito da lastroni di pietra incastrati in maniera da non lasciare spazi intermedi. Per permettere lo scolo dell’acqua il selciato era convesso. I bordi della strada erano segnati con pietre conficcate verticalmente nel terreno.  Si costruivano anche tombini, canalette di scolo. Per permettere lo scolo dell’acqua il selciato era convesso. I bordi della strada erano segnati con pietre conficcate verticalmente nel terreno.  Si costruivano anche tombini, canalette di scolo. 
La parola “strada” deriva dal latino “stratum”: lastricato.
Ad ogni miglio era collocato un punto di riferimento: il “miliario” (cippo di pietra) dove si segnava la distanza da Roma o da altra località di riferimento. Per esempio, il nome di località “Tricesimo” deriva da “tricesimum milium” che significa trentesimo miglio da Aquileia (essendo un miglio uguale a metri 1.478 la distanza tra le due città dovrebbe essere di circa 44 chilometri). 
Quello di Terzo di Aquileia da "tertium (milium)".
Le strade erano generalmente larghe quattro metri e consentivano il passaggio dei carri nei due sensi di marcia.
Alla carreggiata venivano spesso affiancati marciapiedi per il traffico pedonale.
Per costruire delle vie più dirette i romani fabbricarono ponti, viadotti e trafori.
Le strade prendono spesso nome dai consoli romani, dai pretori ecc… che dirigevano la costruzione.
Il lavoro di costruzione delle strade veniva svolto principalmente dai legionari e dagli schiavi. 

I Barbari e lo stato patriarcale

 

La caduta dell’impero romano non diminuì, in un primo tempo, il ruolo di Aquileia. Fu spesso assediata e distrutta (in particolare nel 452 dagli Unni), ma si riprese sotto l’insegna dell’autorità religiosa.
Una parte della cittadinanza, per sfuggire alle invasioni, si era rifugiata nell’antico porto di Grado che acquistò dal quel momento grande importanza, tanto da avere un proprio Patriarcato autonomo, spesso in contrasto con quello Aquileiese.
Tuttavia, con l’avvento dei longobardi nel 568, era cresciuto il peso della “Civitas Forojuliana” diventata capitale del “ducato del Friuli”. La decadenza di Aquileia iniziò con il trasferimento del patriarcato a Cividale nel 737.
Al dominio gotico e longobardo, contrastato dai bizantini sulla costa (vedansi i nomi di località come Basiliano, Basagliapenta un poco più all’interno), seguì quello dei Franchi. I primi anni del millennio videro protagonista il patriarca Popone il Grande, di origine tedesca, ghibellino e guerriero, che riportò la sede patriarcale ad Aquileia, ma per un breve periodo.
Nel 1077 sorse ufficialmente lo Stato patriarcale quando l’imperatore Enrico IV concesse l’investitura feudale su tutto il Friuli al patriarca Sigeardo.
Nacque così un’entità politica che durò per più di tre secoli. Un unico territorio, dalle Alpi al mare con un solo capo, una sola religione ed una lingua in comune: il friulano. 
Il patriarca era assistito da una folta schiera di collaboratori, e possedeva un vero e proprio esercito di difesa. Esisteva anche un parlamento costituito dai nobili locali. Questi erano formalmente soggetti all’autorità patriarcale, ma i conti di Gorizia godettero di un’autonomia particolare. 
Tra i patriarchi che lasciarono una grande impronta nel corso del loro governo si ricordano Pellegrino II, che all’inizio del 1200 restaurò diverse chiese del Friuli, e, soprattutto Bertrando di Saint Génies, abile sia dal punto di vista militare che politico e grande mecenate della cultura: fondò infatti  l’Università degli Studi di Cividale e chiamò Vitale da Bologna ad affrescare il Duomo di Udine.
Né la Chiesa né i Franchi riuscirono ad impedire i saccheggi e le carneficine degli Ungari prima dell’anno 1000. Gli Ungari erano una popolazione barbarica, forse imparentata con gli Unni, e risiedevano in Pannonia (attuale Croazia, Ungheria).
Fecero una decina di incursioni in Italia e in una di queste arrivarono fino in Piemonte, dopo aver attraversato la Pianura Padana. Come i loro antichi predecessori erano efferati e crudeli. Ammazzavano o rendevano schiavi i malcapitati, incendiavano e distruggevano tutto dietro loro. 
Le incursioni non riguardarono solo il Friuli. Successivamente gli Ungari furono battuti grazie a un’alleanza tra principi germanici.
A causa di devastazioni ed epidemie, il territorio s’impoverì talmente per mancanza di popolazione e risorse che i patriarchi furono costretti ad importare famiglie slave (dall’Istria, dal Cividalese e dalla Carinzia) per  riabitare le zone del Codroipese e di oltre Tagliamento. Di questa presenza sono rimaste tracce in diversi toponimi come Gorizzo, le varie Gradisca o Gradiscutta, Iutizzo, Lestizza, Belgrado, Sammardenchia ecc...
Per il resto del medioevo il Friuli rimase sotto la tutela del patriarca fino all’occupazione nel 1420 da parte della repubblica di Venezia.

Dall’occupazione Veneta ad oggi

Già nel XIII secolo si era segnalata la decadenza di Cividale, sito in una posizione piuttosto eccentrica rispetto alle vie di comunicazione.  Nello stesso secolo il patriarcato si era trasferito a Udine. Con l’avvento della repubblica di San Marco accrebbe sempre più il ruolo della città centro - friulana.
I luogotenenti veneziani furono in genere gente capace e molti di loro diventarono successivamente dogi.
Le invasioni dei Turchi Bosniaci, verso il ’500, misero a ferro e fuoco il Friuli e furono deleterie per la popolazione e per l’economia della nostra zona.
Nel 1500 si estinse casato dei conti di Gorizia.
L’impero Austriaco ne ereditò possedimenti, così Massimiliano II d’Asburgo diventò sovrano del Friuli Orientale, dopo una guerra e  gli accordi di Worms (1521).  
Già nel 1382 il libero comune di Trieste si era donato spontaneamente all’Austria nella speranza di ottenere benefici commerciali. Lo strapotere marittimo di Venezia non lasciò realizzare queste prospettive fino al XVIII secolo.
Nel 1511 alcuni violenti terremoti devastarono la regione e, come in tutta Europa, si ebbero rivolte delle popolazioni (affamate dalla carestia) contro i nobili. La repubblica  dovette riconoscere una nuova organizzazione sociale chiamata “contadinanza” che difendesse gli interessi della gente comune.  
Nel 1593 Venezia fece costruire la città - fortezza di Palmanova, che però non fu mai utilizzata militarmente né contro i Turchi, né contro gli Austriaci.  
Alla fine del  XVII secolo l’agronomo Antonio Zanon introdusse in Friuli la coltivazione del mais che portò grossi benefici alimentari alla popolazione. Ma il cereale stentò, in un primo momento, ad essere accettato dagli agricoltori.  
Nel XVIII secolo cominciò ad affermarsi Trieste con una crescita della città in termini economici e di popolazione. Questo si verificò a fronte della decadenza della repubblica di Venezia e per le nuove iniziative commerciali intraprese sotto gli auspici degli imperatori Maria Teresa e Giuseppe II.  
Nel 1797 arrivarono i francesi e sconfissero gli austriaci nella battaglia del Tagliamento. Con la pace di Campoformido, il Friuli fu ceduto da Napoleone Bonaparte al nemico, assieme a tutto il territorio della Serenissima. 
Ci fu una breve parentesi in cui il Friuli fece parte del Regno d’Italia napoleonico (sotto l’egida dei francesi, ritornati nel nostro paese.)
Nel 1818, essendo il Lombardo Veneto sotto dominio austriaco, il distretto di Portogruaro passò dalla provincia di Udine a quella di Venezia.
Il Friuli fu assegnato al Regno Sabaudo solamente nel 1866 dopo la III guerrad’indipendenza, mentre Gorizia e Trieste rimasero agli austriaci.  
La fine del XIX sec. e l’inizio del XX videro una forte emigrazione verso l’America settentrionale, meridionale ed i Paesi europei.
A fine ‘800 si svilupparono a Trieste dei movimenti indipendentisti  e filo - italiani che culminarono con il fallito attentato a Francesco Giuseppe ad opera di Guglielmo Oberdan.
Il Friuli con i vicini Veneto e Trentino, furono teatro della prima guerra mondiale e la Venezia Giulia, passò al Regno d'Italia dopo la “grande guerra”.
Lo scontento italiano per i le risultanze del patto di Londra portò alla conquista dannunziana di Fiume, ratificata nel trattato di Roma del 1924 fra Italia e Jugoslavia con l'Istituzione del "Territorio Libero di Fiume".
Durante il dopoguerra il Friuli fu raggruppato tra le province della “Venezia Euganea”, mentre la mentre la Venezia Giulia, comprendente anche l’Istria, costituiva una regione a sè stante.
Il regime fascista instauratosi in Italia portò inevitabilmente il nostro paese in guerra a fianco della Germania.
La seconda guerra mondiale vide molti friulani impegnati sui vari fronti  bellici: in Grecia ed Albania, in Russia e in Africa. L’arrivo dei tedeschi dopo l’8 settembre del 1943 suscitò un’intensa attività partigiana in Carnia e nella Bassa Friulana e poi la formazione della Repubblica di Ampezzo, smantellata successivamente dalle truppe cosacche al servizio dei tedeschi. 
Durante la guerra si è avuto a Trieste l'unico campo di concentramento nazista in Italia: la Risiera di San Sabba, dove sono morte circa 5OOO persone, soprattutto ebrei.
Nel 1945 gli americani liberarono il Friuli anche con l’aiuto delle forze partigiane mentre la Venezia Giulia fu occupata dalle truppe Jugoslave.
Parecchi istriani sono stati "infoibati" dai "titini" solo per il fatto di essere italiani. Molti sono fuggiti dalla loro terra per paura di rappresaglie. 
Si calcola che se ne siano andati più di 350.000.
Dopo la II guerra mondiale, la maggior parte della Venezia Giulia passò alla Iugoslavia per cui si dovette accorpare in un’unica regione il Friuli e quanto rimasto della zona giuliana.
Fu anche istituito il territorio libero di Trieste che più avanti venne diviso tra zona “A” e zona “B”. Con il “Memorandum di Londra” del 1954 Trieste e la zona “A” tornarono all’Italia.
Nel 1963 il Friuli Venezia Giulia fu proclamato Regione a Statuto speciale.
Del secondo dopoguerra possiamo ricordare anche la tragedia del Vaiont del 1964 e il violento terremoto del 1976 che devastò una parte del Friuli Centrale.

Aspetto fisico

 

Il Friuli Venezia Giulia. è compreso tra le Alpi Carniche, quello che resta delle Alpi Giulie e la costa Adriatica. 
La regione  è formata da un 42% di montagna, 20% di collina e 38% di pianura.
La spinta del continente africano verso l’Europa ha corrugato la penisola italiana dando origine, in milioni di anni, alle Alpi e all’Appennino. La loro formazione è piuttosto recente (era terziaria, dai 65 ai 7 milioni di anni fa). La composizione delle rocce è prevalentemente sedimentaria: calcari, dolomie, argille, marne ecc…
Fino al terziario esisteva solo un grande mare dove, in milioni di anni, si erano accumulati centinaia e centinaia di metri di scheletri microscopici composti da piccoli esseri marini. Dentro questo fango calcareo erano rimasti intrappolati anche minuscoli pesci, alghe…(le rocce delle cime serbano agli appassionati tante di queste sorprese).
Quando iniziò la pressione generatrice delle Alpi, il fango si era già consolidato ed era diventato pietra. Emerse allora un enorme altipiano bianco, più elevato delle cime attuali. Le piogge, il vento e il ghiaccio iniziarono subito a modellare profondamente le valli e a trasportare materiale verso il mare sottostante.
La zona montuosa è situata a nord e può essere suddivisa nei seguenti gruppi: Alpi Carniche, Alpi Giulie, Prealpi Carniche e Prealpi Giulie. Le Prealpi, pur sempre dell’era terziaria, sono di più recente formazione geologica.  Un discorso a parte deve essere fatto a proposito del Carso goriziano e triestino.
I monti sono generalmente meno elevati rispetto ai rilievi delle Alpi Centrali e Occidentali ma il clima e la vegetazione sono chiaramente alpini.
Le Alpi Carniche sono comprese tra le Dolomiti e le Giulie. 
Sono lunghe circa 100 Km e vanno dal Passo di Monte Croce Comelico (m. 1636) alla Sella di Camporosso (m. 816). 
Una prima porzione si trova in Veneto e scarica le sue acque nella Valle del Piave. 
Con i Monti Fleons inizia la parte di competenza della nostra regione. 
La cima più alta è il Monte Cogliàns  (m. 2789), fatto di calcare bianco; dalla sua cima si gode un panorama immenso verso il Friuli. 
Sul lato austriaco si sviluppa la valle del Gail dove i monti degradano molto più dolcemente che da noi. 
A mezza distanza nella catena, troviamo il Passo di Monte Croce Carnico (m. 1360), plasmato dall’antico ghiacciaio del Gail, con uno sconfinamento sul nostro versante, nell’era quaternaria. Le  Alpi Carniche proseguono verso oriente, alternando cime erbose ad altre di roccia più elevate: come la Creta di Aip e il Monte Cavallo di Pontebba (m. 2239).
Dopo Passo Pramollo (m.1530), le ultime sommità sono verdi e non tanto elevate. Oltre Camporosso iniziano le Alpi Giulie e più a Nord troviamo alcune lembi delle Caravanche, tra cui il Monte Forno (m.1511) detto anche “ cima dei tre confini” perché sulla sua vetta si incrocia la linea di demarcazione tra Italia, Austria e Slovenia.
A sud del tratto principale delle Carniche citiamo il gruppo delle Alpi Pesarine (Creta Forata, Creton di Culzei, Creton di Clap Grande)  quelle Tolmezzine (Amariana), e Moggesi (Grauzaria, Zuc del Bor, Sernio).  
Le Alpi Giulie sono l’esteso sistema montuoso che conclude la catena alpina. 
Vanno dalla Sella di Camporosso fino al Passo di Vrata, oltre Fiume e le loro propaggini occidentali danno origine al Carso. 
La cima più alta è il Monte Tricorno (m. 2863) situato in Slovenia. 
Ciò che resta all’Italia di questa catena  può essere diviso in una serie massicci: 
il Gruppo del Mangart (m. 2677);  poi tre catene longitudinali, quella della Val Dogna (con lo Iôf di Miezegnot), il gruppo  Iôf di Montasio (m. 2753) - Iôf Fuart (m. 2666) e infine quello del Canin (m. 2599). 
Possiamo definire quest’ultimo “un particolare fenomeno carsico d’altura”, per il paesaggio tipico e la presenza di abissi sotterranei.
Le Prealpi Carniche sono delimitate a Nord e a Est dal Bacino del Tagliamento ed a Ovest dai bacini del Piave e del Livenza. 
Vengono suddivise dai fiumi che le attraversano in tre settori: 
il gruppo del Monte Cavallo (m. 2519), le Prealpi Clautane con il fiume Cellina (Cima dei Preti m. 2704 – M. Pramaggiore , Monfalconi di Forni) e le Prealpi Tramontine nel bacino del Meduna, collegate agevolmente alla Carnia attraverso Passo Rest (m. 1060), le Prealpi d’Arzino con il Monte Verzegnis (m.1.914).
Le Prealpi Giulie hanno una conformazione simile alle Prealpi Carniche ma sono notevolmente più basse.  Possono suddividersi in queste porzioni: Prealpi del Torre (gruppo che va dal Plauris- m. 1.958 -  ai Musi, gruppo Cjampon – Gran Monte), Le Prealpi del Natisone (M. Stol, M. Mia, M. Matajur (m. 1.641). Le Prealpi dello Iudrio stanno tra questo fiume e l’Isonzo, allargandosi verso oriente con le alture di Gorizia (M. Sabotino) e verso occidente con il Collio. 
 
Solo una piccola porzione del Carso è rimasta all’Italia dopo la seconda guerra mondiale e si può suddividere in “goriziano” e triestino”.
Il territorio è caratterizzato da un suolo molto permeabile ed eroso (carsismo), formato da carbonato di calcio. 
I torrenti vengono assorbiti da colatoi e continuano il loro cammino in profondità creando un enorme sistema di grotte. Nella zona il fenomeno può essere imputato principalmente al corso sotterraneo del Timavo e dei suoi affluenti (Grotta Gigante). 
In superficie il Carso è sassoso, presenta una vegetazione tipica tra cui affiorano massi fortemente incisi.
La fascia collinare della regione è in parte di origine morenica cioè formata dai detriti rilasciati dal ghiacciaio del Tagliamento nella prima fase dell’era quaternaria. 
Questa fascia va pressappoco da Ragogna (escluso il Monte di Ragogna) a Qualso , comprendendo le colline di San Daniele, Fagagna, Moruzzo, Tricesimo, Buia, Tarcento e Magnano. Il resto della zona collinare è costituito da propaggini delle Prealpi Giulie o Carniche, non molto elevate, affiancate da detriti alluvionali.
La pianura friulana continua quella Padano—Veneta ed è stata plasmata dai ghiacci e dai fiumi, principalmente dal Tagliamento dopo il corrugamento alpino del terziario. La porzione più settentrionale è composta da un sottosuolo ghiaioso e asciutto, quella a sud è sabbiosa e ricca di acque affioranti (risorgive). 
La fascia costiera è costituita da zone acquitrinose (Laguna di Marano e di Grado), semplicemente basse come il Golfo di Panzano o rocciose come la costa Triestina.

I fiumi e i laghi

I fiumi 
Il fiume più lungo della regione è il Tagliamento  (Tiliaventum) 172 km.
Nasce dal passo della Mauria presso Forni di Sopra, bagna Ampezzo. Riceve le acque del fiume Degano a Villa Santina e quelle del But in prossimità di Tolmezzo. Vicino a Stazione della Carnia viene alimentato dal fiume Fella che è il suo principale affluente. S’immette nella pianura friulana passando accanto ad Osoppo e tra San Daniele e Spilimbergo. Scende verso il mare toccando S. Vito al Tagliamento e Latisana. 
Per un lungo tratto fa da confine tra il Friuli ed il Veneto. Sbocca ad estuario tra Lignano e Bibione. 
Il  Fella  nasce dall’Alpe di Ugovizza, scende verso Camporosso, dove si trova lo spartiacque con l’Austria, passa per la Val Canale e il Canal del Ferro fino a sfociare nel bacino del Tagliamento.
Il fiume con maggior portata d’acqua è invece l’ Isonzo  (Aesontium) 130 km, teatro di sanguinose battaglie durante la I guerra mondiale.Nasce in territorio sloveno (Monte Iàlluz) dove scorre per la maggior parte del suo percorso. Entra in Italia presso Gorizia, riceve le acque del Vipacco (suo principale affluente)  e del Torre. Arriva alla foce con molte anse. Sbocca nel golfo di Panzano attraverso il ramo della Sdobba, mentre il ramo Est della Quarantìa è stato chiuso nel 1937 perché portava disturbo ai Cantieri di Monfalcone.
Il fiume  Livenza (Liquentia),  nasce dall’altipiano del Cansiglio ma può essere considerato un fiume friulano perché i suoi principali affluenti sono quelli di sinistra. Fa per un tratto da confine tra la nostra regione  il Veneto.
Il  Natisone  (47 Km) nasce in Comune di Taipana e sconfina in Slovenia per poi rientrare dal valico di Stupizza.  Transita per Cividale, scorrendo dentro profonde rocce calcaree, fino a Buttrio. Si getta nel greto del Torre presso Soleschiano dove le sue acque si inabissano prontamente.
Lo  Iudrio nasce dalle Prealpi Giulie (Monte Còlovrat) e fa per un tratto da confine con la Slovenia; attraversa il Collio e scende in pianura, dove  si immette nel greto del Torre poco prima della  confluenza di questo nell’Isonzo. Fino al 1918, il suo intero percorso ha segnato la demarcazione fra il Regno d’Italia e l’Impero Austro-Ungarico.
Il  Torre  (65 km) nasce  dai Monti Musi, procede tra Cjampon e Gran Monte e discende incassato ai piedi della Bernadia, fino alla stretta di Crosis, dove incontra uno sbarramento artificiale. Dopo Tarcento e Nimis riceve il Cornappo. Da Zompitta l’acqua svanisce nelle le profondità del greto fino a Soleschiano e qui il suo bacino riceve il Natisone. Fa altrettanto con lo Iudrio per poi immettersi nell’Isonzo all’altezza di Pieris.
Il Cellina e il Meduna nascono dalle Prealpi Carniche e sono affluenti indiretto e diretto del Livenza. Entrambi detentori a monte di dighe idroelettriche, giunti in pianura tendono ad inabissarsi. 
Il terreno montano e della nostra alta pianura è calcareo e permeabile. I fiumi hanno spesso difficoltà a mantenere le loro acque che penetrano nel sottosuolo. Per questa ragione il Tagliamento, il Torre, il Cellina e il Meduna ecc... sono sovente in secca.
Le acque che scompaiono nell’alta pianura friulana, riappaiono più in basso come “risorgive”. 
I fiumi preoccupano talvolta per motivi opposti, in periodi di particolare piovosità. Il Tagliamento ha gravemente allagato Latisana. Il Cellina e il Meduna escono saltuariamente dai propri greti provocando danni notevoli. Tutti ricordano l'alluvione del rio Uque che ha sommerso Ugovizza nel 2003. 
Il  Timavo  è un fiume pieno di fascino. 
Nasce nel Carso Istriano (presso il Monte Nevoso) sotto il nome di Reka e scorre in superficie per circa 55 Km fino all’inghiottitoio di Nacla dove svanisce totalmente. 
Il suo percorso sotterraneo può essere seguito per circa 2 km. 
Riappare in corrispondenza delle Grotte di San Canziano (Slovenia) dove può essere di nuovo studiato in profondità per un breve tratto. Poi sparisce, ramificandosi in varie sezioni che danno vita ad un vastissimo complesso di grotte (Grotta Gigante). 
Una ripartizione sbocca quasi a livello del mare a San Giovanni di Duino con tre sorgenti di enorme portata che, creato un unico fiume, raggiungono il mare dopo soli 1250 metri. Altre (ad Aurisina) alimentano l’acquedotto di Trieste. 
Il corso è stato studiato ad inizio novecento mediante l’uso di coloranti e di anguille marchiate.
I Laghi
Nella nostra Regione non ci sono grandi laghi. 
Il più esteso e profondo è quello di Cavazzo che occupa un antico solco glaciale del Tagliamento. Per evitare  il suo progressivo impaludamento le acque sono state contenute nel suo versante meridionale e convogliate  in un torrente. 
Seguono in ordine di grandezza e profondità il lago del Predil, quelli di Fusine e alcuni laghetti alpini di rara bellezza (laghi di Bordaglia, Volaia, Avostanis). 
In pianura abbiamo il piccolo lago di San Daniele (residuo dei laghi morenici del ghiacciaio del Tagliamento). Sul Carso ritroviamo una serie di piccoli laghi impaludati quale quello di Doberdò.
Le Lagune
Le lagune di Marano e di Grado sono in realtà un unico ecosistema diviso tra due territori comunali, delimitato a ovest dalla foce del Tagliamento e grossomodo a est dall’Isonzo. Caratteristiche per la flora e la fauna di “zona umida”, spesso vi sfociano fiumi di risorgiva come lo Stella, il Natissa, l’Aussa, il Corno…
A monte e a fianco delle lagune vi sono zone prosciugate nel periodo del fascismo come la bonifica della Vittoria presso Grado.
I canali                                         
Come già scritto, la parte settentrionale della pianura friulana è contrassegnata dalla siccità dovuta al suolo molto permeabile.Per queste ragioni in passato furono scavate diverse “rogge” che attingevano l’acqua dai fiumi prima che questa sparisse nelle profondità del suolo. L’insieme delle rogge, che partiva da Reana del Roiale e Savorgnano, garantiva l’approvvigionamento idrico di Udine. Il loro corso faceva funzionare le macine dei mulini, le segherie, le officine e permetteva la lavatura dei panni in città. Proseguivano poi il loro cammino anche a sud di Udine. Va pure ricordato il canale Ledra - Tagliamento che prende l’acqua dai due fiumi, costruito soprattutto per l’irrigazione.

Il clima

In Carnia e nel Tarvisiano il clima è alpino: fresco d’estate e molto freddo d'inverno, solitamente caratterizzato da precipitazioni abbondanti. 
I laghi di Fusine vantano le temperature invernali più basse d'Italia, forse perché la valle è chiusa su tre lati e aperta verso nord.
Alcune zone delle Prealpi Giulie (Alta Val Torre) hanno raggiunto negli anni passati i massimi livelli europei di piovosità (4000 mm a Musi). Questo si verifica perché il mare, apportatore di umidità, è relativamente vicino alle prime cime. 
Le Prealpi Giulie sono più piovose di quelle Carniche: è dimostrato che la piovosità aumenta man mano che si va ad oriente. Invece diminuisce addentrandosi verso nord (le nubi si sono già scaricate prima). La pianura è contraddistinta da un clima continentale, un poco mitigato dal mare nella parte costiera (clima marittimo). Ma l’Adriatico non è  profondo e i suoi benefici effetti si fanno sentire poco all’interno.
Gorizia è ben protetta dalle correnti d’aria dai monti che la sovrastano, mentre Cividale è molto ventosa.
La provincia triestina presenta un fenomeno particolare: la bora. È un vento gelido, proveniente da est-nord-est. Arriva d’inverno fino al Carso dalla zona di Postumia ad una velocità moderata. Poi precipita in città con “refoli” anche superiori ai 100 Km all’ora e ricopre di ghiaccio le strade ed i marciapiedi, rendendo difficile la vita dei cittadini. Quando la Bora trova un cielo coperto si ha il terrificante misto pioggia – vento.Ma infondo i triestini l'amano perché, esperti in materia, sanno che la Bora dura al massimo due o tre giorni e che poi genera  bel tempo.

L’economia

In passato il Friuli era una terra povera, segnata dall’emigrazione. 
L’industria stentava a prendere piede, fatta qualche notevole eccezione: ricordiamo le officine tessili di Jacopo Linussio del 1700; 
l’allevamento del baco e la produzione della seta, terminati dopo la II guerra mondiale a causa della concorrenza delle fibre sintetiche.
In questi ultimi anni le parti si sono invertite: la nostra regione è tra le più ricche della penisola e si registra il fenomeno opposto: l’immigrazione.
L’agricoltura si è sviluppata, con forme diverse, in ogni punto del Friuli Venezia Giulia, nonostante l’aridità dell’alta pianura, dovuta al suolo ghiaioso e l' asprezza della zona montana.  
In Carnia: allevamento, salumifici, produzione di latticini, sfruttamento delle risorse boschive.
La collina è dedita soprattutto alla coltivazione della vite: i vini bianchi friulani sono particolarmente rinomati (zona del Collio). Prosciuttifici a San Daniele che esporta in tutto il mondo.
In pianura si coltivano: mais, cereali, soia e si allevano bovini e suini. Si sono introdotte nuove culture come il kiwi (di cui il Friuli è oggi il maggior produttore mondiale) e la soia.
L’artigianato è sviluppato in ogni area.
Industria; Il Friuli è una zona di importante sviluppo industriale: mobilifici a Brugnera, Sutrio, Manzano (fabbriche di sedie), Maiano (cucine Snaidero) e Tricesimo; siderurgia (Udine, Trieste), industrie meccaniche (Danieli, Simac, Ansaldo, ecc...), elettrodomestici (Zanussi, ecc…), i cantieri navali (di Monfalcone), ecc…
Da non dimenticare la pesca che ha come sue basi Marano e Grado.
La montagna vive anche di turismo invernale ed estivo: Forni di Sopra, Forni Avoltri, Ravascletto — Sutrio, Tarvisio, Sella Nevea, Piancavallo.
Importanti località turistiche marittime sono: Lignano, Grado e Sistiana.

La Lingua e la Popolazione

Il friulano è una lingua ladina come le parlate del Canton dei Grigioni (Svizzera), di alcune vallate del Bellunese e del Trentino Alto Adige.
Il ladino nasce dalla fusione tra la cultura dominante romana e quella celtica delle popolazioni occupate che si inseriscono attivamente nella nuova società fornendo soldati, agricoltori, artigiani o commercianti.
Molti toponimi della regione sono un esempio dell’antico fenomeno della “centuriazione”. 
Ai veterani dell’esercito romano (in genere graduati, quindi “centurioni”) veniva assegnato un podere come buonuscita dal servizio ed essi si trasformavano in coloni.  
Non tutti erano originari dell'Italia centrale. Molti erano nati al nord e quindi Galli di varia provenienza.
Il “praedium” prendeva il nome del suo proprietario e se questo si chiamava (ad esempio) Marius si poteva dire: “Eo ad marianum” (vado a trovare Mario). 
I veterani erano spesso chiamati con un "cognomen" cioè un soprannome.
 Ma i Carni non riuscivano a pronunciare bene questa desinenza in “anum” o “inum” e finivano col dire “acum o icum” che poi divennero "ac e ic"e infine  “à” e “ì” o “âs” e “îs” e “ins” come si pronuncia oggi in friulano.  
Alcuni toponimimi sono rimasti in “ano”, “ino” e “ana” (secondo la prevalenza nei nuclei di Carni o Latini).  
Altri si sono venetizzati in "ago igo".
Tantissimi nomi di località recano le tracce della centuriazione:
Premariacco (da Primarius), 
Cassacco (da Cassius), 
Segnacco (da Senius), 
Cavalicco (da Caballus), 
Adegliacco (da Atilius), 
Pagnacco (da Panius), 
Martignacco (da Martinius), 
ma anche Brazzacco (da Braccius) , Primulacco (da Primulus), Cludinico (da Claudinius), Caporiacco (da Cavorius), Cargnacco (da Carnius), Precenicco (da Percennius), Montegnacco (da Montanius), Leonacco (da Leo - Leonis), Turiaco  (da Thorius) 
ed anche Magnano (da Manius), Maniago (da Manilius), Maiano (da Mallius), Mariano (da Marius), Azzano (da Attius), Mortegliano (da Murtelius), Tauriano (da Taurius)…..e tanti altri.
In passato il friulano era adoperato anche in tutto il pordenonese e in alcune zone limitrofe del Veneto. Perfino a Trieste e a Muggia i patrizi si servivano di due parlate ladino - friulane, il “tergestino” e il "muglisano", scomparse a metà dell'ottocento. Alcuni studiosi sostengono che idiomi ladini fossero presenti, in tempi remoti, sul l’arco montano dall'Istria fino alle Alpi Centrali.
A Gorizia, Trieste, nella stessa Udine, a Marano, a Grado come in Istria (ormai non più italiana) si usano dialetti simili tra loro che sono un segno della dominazione veneziana. La zona pordenonese è ormai per larga parte “venetizzata”, ma in una decina di comuni del portogruarese (Veneto) si parla ancora friulano.
Nella conca di Sauris ci si esprime in un antico dialetto tedesco. 
In Val Canale - Canal del Ferro le popolazioni usano il tedesco e un dialetto sloveno. 
L’arcaico idioma slavo della Val Resia è stato oggetto di analisi approfondite da parte di uno studioso russo, interessato dalle analogie con la sua lingua madre. 
Nelle valli del Natisone e del Torre sono in uso dialetti prossimi allo sloveno. Sempre la lingua slovena è praticata a Gorizia e a Trieste, dove si parla anche il serbo-croato.

La storia di Octavianus

Questa è la storia immaginaria di “Octavianus”, prima soldato e poi agricoltore.  Potremmo definirlo “fondatore di Tavagnacco”, una località in provincia di Udine. 
Probabilmente non è andata proprio così ma ….Salve, sono Octavianus e voglio raccontarti la storia della mia vita.  
In realtà il mio vero nome non è Octavianus: questo è un “cognomen” (soprannome) che mi hanno assegnato da quando ho cominciato a far parte della “legio” (legione). 
E’ un appellativo di cui vado molto fiero perché ricorda il grande  imperatore  “Gaius Julius Caesar Octavianus Augustus”.
In realtà non ho niente a che fare con le famiglie romane  “Julia e Octavia”, sono nato vicino a “Mediolanum" (Milano) nel nord Italia. 
I miei “parentes” erano Galli della Pianura Padana: in particolare il mio “avus” ha combattuto nella “Gallia Transalpina” con il grande “Caesar”, zio dell’imperatore. 
Mio padre era un semplice “colonus” (colono – contadino) e vivevamo  nelle “suburbia” di “Mediolanum”. 
Mio “pater” voleva che io diventassi un “agricola” (contadino) come lui ma io avevo altro per la testa e, a 16 anni, mi sono arruolato nell’”exercitus”. Adesso ho 35 anni e sono stato congedato come “centuriatus” (grado di centurione), una specie di maresciallo di oggi. Mi hanno destinato alcuni “iugerum” di terra da coltivare nella pianura.
Ma io non ricordavo più come si fa il contadino. Così mi hanno assegnato provvisoriamente alla compagine di “Colonia” (Colugna), dove ho reimparato  il mestiere e dove ho conosciuto “Licia” che è diventata da poco mia moglie. 
Non pensate che la pianura sia spoglia ed erbosa come ai vostri tempi! Qui è tutta una grande “silva” che sto disboscando per piantare  il “far” (varietà di frumento), l’”ordeum” (orzo), il “milium” (miglio), la “vitis” (vite), come faceva mio padre. 
Ho da poco costruito una “casa” (casupola), a cui aggiungerò presto una stalla e poi altre stanze perché arriveranno tanti “filii et filiae” (figli e figlie). 
I miei “commilitones” hanno ricevuto tutti dei “praedes”(terreni) qui vicino, ma io non vedo quasi mai gli amici  perché abbiamo tanto lavoro nei nostri rispettivi poderi. 
Qualche volta divento “venator” (cacciatore), soprattutto in “autumnus” quando non ho tanto lavoro. Così mi capita di incontrare qualcuno di loro, magari nel bosco detto “Filictus”  (Feletto) perché ricco di felci o in quello più lontano di “Saltus” (Salt – Bosco). 
Ma io mi posso spingere ancora oltre fino al bosco detto Populetus (pioppeto- Povoletto) o a Faganea (da fagus – faggio, Fagagna). Raramente sono andato fino a "Tricesimum” (Tricesimo, trentesimo miglio da Aquileia)), una stazione sulla via Julia Augusta. Per arrivare fin là conviene muoversi per la strada romana. 
Non mi sono mai recato fino ai poderi di Cassius (Cassacco),  Fircellius (Fraelacco), Lonerius (Loneriacco) e Senius (Segnacco). 
Il prossimo inverno andrò a trovare i miei amici e dirò loro: “Venite ad Octavianacum” per alcuni “dies festus” (giorni di festa). I miei cari amici Panius (Pagnacco), Martinius (Martignacco), Lavius (Laipacco), Leo (Leonacco), Caballus (Cavalicco), Atilius (Adegliacco) verranno qui “cum familias” per “bibere vinum meum” (bere il mio vino) e parlare delle nostre  “res bellicae” (imprese militari) del passato. 
I miei “commilitones” sono di diversa provenienza. Alcuni vengono come me dalla pianura padana, altri direttamente da queste zone, altri ancora dal centro Italia, ma siamo in maggioranza “Galli” anche se di varie regioni. 
Abbiamo combattuto con Tiberio contro i Reti e poi contro i Pannoni in territori lontani. 
Mi vedo ancora, armato del mio “pilum” (lancia) e del “gladium” (spada corta) e dello “scutum” (scudo) mentre rincorriamo il nemico in fuga. 
Ho subìto diverse “vulnera” (ferite) di cui porto oggi alcune conseguenze. Alla fine della mia carriera, dopo che ho insegnato a tanti “iuvenes” le regole del combattimento, mi hanno premiato regalandomi questi terreni. 
Il toponimo “Tavagnacco”, secondo alcuni studiosi di lingua friulana deriva dal nome romano Octavianus. Sarebbe stato il “cognomen”   o il “praenomen” del legionario romano che ricevette in dotazione il “praedium” su cui ora giace il paese.
Il primo documento che porta la denominazione del comune risale al XIII sec. d.c. parla di “in villa Tavanaci” ed è in latino, mentre vi è uno successivo che dice “de Tavangiaco”. Possiamo affermare che Tavangiaco sia già praticamente Tavagnacco.
Ora vorremmo immaginare la storia oscura della trasformazione  di Octavianus in Tavagnacco.
Per indicare i terreni assegnati a “Octavianus” si sarebbe potuto dire: “Eo ad Octavian-anum (praedium) / eo ad Octavian-acum (praedium)”, aggiungendo il suffisso latino o quello carno. 
Entrambi i nomi risulterebbero difficili da pronunciare. 
Nell’antica colonia sicuramente prevale il ceto carno per cui si indica la località con il nome di “Octavianacum”.
Fase 1) Octavianacum, toponimo troppo lungo, viene accorciato in Tavianacum perdendo, si fa per dire, …la testa.
         2) In Tavianacum cadono via via le finali latine, fenomeno capitato in tutte le lingue neolatine: l’italiano ne ha persa qualcuna di meno rispetto al friulano, il francese ne ha persa qualcuna di più dell’italiano e del friulano. Diventa quindi, un poco alla volta – Tavianacu, Tavianac, Tavianà.
         3) Non sappiamo esattamente in quale momento, forse anche contemporaneamente alla perdita delle finali, accade un altro fenomeno all’interno della parola, la vocale “i” si sposta dietro la “n” e diventa più forte mente la “a” prende il suo posto: Tavianà  - Tavanjà.
         4) Da qui a Tavangià o Tavagnà il passo è breve.

L’emigrazione

Il Friuli è stato caratterizzato da un massiccio fenomeno di emigrazione, in altre regioni italiane, verso i paesi europei e oltre oceano. Si può dire che all’estero ci siano più friulani (compresi i figli di friulani) che oggi nella “piccola patria”. Gli emigrati conservano spesso le tradizioni, mantengono la lingua madre, pur integrandosi ampiamente con le comunità ospitanti. Argentina, Brasile, Stati Uniti, Canada e Australia, Svizzera, Francia, Germania e Belgio erano le mete di un tempo.
I primi emigranti nell’ottocento furono i carnici “cràmars o cramârs" che si recavano a piedi nelle valli austriache portando sulle spalle un mobiletto carico di erbe aromatiche da vendere casa per casa.
Ci furono anche emigrazioni stagionali (primavera-estate) verso le fornaci austriache e bavaresi per la fabbricazione del mattone che coinvolgevano adulti e bambini in tenera età.

Particolarmente massiccia fu la fuga dalla povertà e dalla carestia che si verificò tra la fine dell'ottocento e la prima guerra mondiale.
L’Argentina conobbe fin dalla metà dell’Ottocento una massiccia emigrazione italiana e friulana. Ancora oggi vi sono località (Colonia Caroya, Reconquista, Avellaneda, Resistencia) dove si parla ancora friulano e si conservano antiche tradizioni e costumi, meglio ancora che nella nostra regione.
L’emigrazione verso le miniere di  carbone del Belgio, degli anni ’50, ebbe il suo culmine brutale nella tragedia di “Marcinelle” in cui perirono 136 italiani , tra cui molti friulani. 
Oggi invece la nostra Regione è in grado di ospitare lavoratori stranieri, venuti a sostenere sia la nuova industria sempre più bisognosa di mano d’opera, sia la necessità di assistenza verso gli anziani. 
In quest'ultimi anni si è segnalato anche un, seppur modesto, rientro degli emigrati friulani al paese d'origine nonché dei figli di questi, principalmente dall'Argentina.

Le città capoluogo

Trieste, capoluogo della Venezia Giulia e della regione, è la più popolosa: 230.000 abitanti. Situata sull’omonimo golfo è una città marinara: soprattutto uno dei porti più importanti del Mediterraneo. Crogiuolo di religioni, lingue e culture diverse: quella italiana (soprattutto in città), quella slava (principalmente nella periferia carsica), quella tedesca (retaggio della dominazione austriaca) e quella ebraica.
Monumenti e punti da visitare: Cattedrale di San Giusto, Museo di Storia Naturale, Acquario, Risiera di San Sabba, Castello di Duino, Castello di Miramare, Grotta Gigante ecc…
Udine, capoluogo del Friuli: 95.000 abitanti. Fondata dai romani, rimane un piccolo villaggio fino a quando, nel XIII sec., diventa sede di un mercato.
Dal 1420 fa parte della Serenissima Repubblica di Venezia che costruisce la Loggia del Lionello in stile gotico - veneziano, il Castello e il Tempietto di san Giovanni e infine, Palazzo Antonini, realizzato su un progetto del Palladio.
Altri punti da visitare: il Museo Civico sito nel Castello, la Galleria d’Arte Moderna, il Museo di Storia Naturale…
Gorizia: capoluogo di provincia, 40.000 abitanti circa. 
È uno dei comuni-capoluogo meno popolati d’Italia nonostante la sua discreta estensione territoriale. 
La città è addossata alle colline del Carso e giace in un’ansa dell’Isonzo. 
La sua storia è abbastanza travagliata perché Gorizia è appartenuta, in passato, all’Austria, alla Iugoslavia e all’Italia. 
Ora risulta divisa in due parti, tra il nostro Paese e la Slovenia (Nova Gorica).
Importanti sono:  il Castello medievale, il Sacrario di Oslavia (I guerra mondiale), il Duomo e la Chiesa di Sant’Ignazio.
Pordenone: capoluogo di provincia, 50.000 abitanti circa. 
Antica “Portus Naonis” cioè porto sul fiume Noncello. 
Si è elevata a livello di città nel secondo dopoguerra, attorno all’importante realtà industriale dell’elettrodomestico. 
Da tempo comunque è la massima espressione economica e culturale della “destra Tagliamento”. 
Da vedere: il Duomo, il Campanile, la Loggia e la Chiesa del Cristo. 
In provincia bisogna visitare: l’Abbazia di Sesto al Reghena. 
Pordenone ha dato i natali al massimo pittore friulano del Rinascimento, Giovanni de Sacchis detto “il Pordenone”.

altre città

Tolmezzo: è la città più importante della Carnia.
Nel XVIII sec. Tolmezzo fu  sede della più importante industria tessile europea, facente capo all’industriale carnico Jacopo Linussio.
Da visitare: il Duomo, Palazzo Grassi (dove si tengono frequentemente mostre di vario tipo) e il museo delle Arti e delle tradizioni popolari.
Tolmezzo è oggi sede di una cartiera importante e discussa (per ragioni d'inquinamento). 
Precorritrice storica di Tolmezzo, in epoca romana e medievale, è stata la vicina Zuglio (Julium Carnicum), posta sulla via Julia Augusta che conduceva al Norico. 
Zuglio è sede di scavi archeologici e di museo. Da visitare anche la Chiesa medievale di S. Pietro in Carnia.
Cividale del Friuli: la leggenda dice che fu fondata direttamente da Giulio Cesare nel 53 a.c. 
La città assunse particolare importanza sotto il regno longobardo di cui fu la prima capitale. 
Diede i natali a Paolo Diacono autore della “Historia Longobardorum” (VIII sec.), scritta in tarda epoca longobarda. 
Da visitare: il Museo Archeologico Nazionale, il Museo Cristiano (nel Duomo), il Tempietto Longobardo con i suoi splendidi stucchi, l’Ipogeo Celtico e il Ponte del Diavolo.
Il Museo Archeologico, situato nel Palazzo dei Provveditori Veneziani (costruito su probabile progetto del Palladio), contiene numerosi reperti longobardi (gioielli, armi…) e romani (vasi, colonne…).
Aquileia: Ora è un piccolo borgo agricolo di circa 2000 abitanti ma
un tempo fu uno dei quattro centri più rilevanti dell’impero romano. Ci siamo ampiamente occupati di questa città nella parte storica.
Di grande interesse sono la Basilica con il campanile e i mosaici cristiani, il Foro Romano, il Museo Archeologico (uno dei più importanti del nord Italia), il Sepolcreto e i resti dell’imponente porto fluviale.
Monfalcone: 30.000 abitanti. Città industriale e marittima in provincia di Gorizia. Sede di Cantieri navali e di importanti industrie siderurgiche e meccaniche. 
San Daniele del Friuli: Da tempo centro agricolo rilevante è ora la patria dell’industria del prosciutto. Quello invecchiato nella località è famoso in tutto il mondo alla pari con quello di Langhirano (prov. di Parma).
Interessante istituzione è la Biblioteca Guarneriana che raccoglie circa 12.000 antichi manoscritti. Fu fondata nel XV secolo dal nobile “Guarnerio d’Artegna”. 
Il Duomo, costruito nel ’700 contiene un dipinto del “Pordenone”.
La cittadina diede i natali a Pellegrino da San Daniele un apprezzato pittore, vissuto tra il ‘400 e il ‘500. 
Alcuni studiosi di lingua friulana sostengono che la parlata sandanielese sia la più pura e la meno contaminata da influenze esterne.
San Vito al Tagliamento: Industria, commercio e artigianato si sono fortemente sviluppati nel dopo guerra. La cittadina possiede un’interessante piazza Veneziana. 
Spilimbergo: Deriva il suo nome da quello dei conti Spengenberg, chiamati in Friuli dal patriarca di Aquileia nell’undicesimo secolo.
Zona dedicata intensamente all’agricoltura, ma anche ad industria e artigianato. In regione è la patria del mosaico (vedasi anche la famosa scuola). La vicina Maniago è celebre per la produzione di coltelli.
Tavagnacco: Il Comune di Tavagnacco, situato poco più a nord di Udine, ha subito in questo dopoguerra un profondo mutamento. Da zona interamente agricola si è trasformato in “artigianale - industriale” e negli ultimi anni “commerciale”. Uno fra i pochi nuclei della regione in costante crescita demografica, nel 2005 ha toccato i 13.500 abitanti.  è suddiviso in 6 frazioni (in ordine di numero di abitanti): Feletto Umberto (sede comunale), Colugna, Cavalicco, Adegliacco, Tavagnacco e Branco.

Fiabe e leggende

 

ATTILA
Attila (flagellum Dei) è il capo degli Unni, una popolazione tremenda e spietata.
Tutti i barbari, giunti in Europa, erano stati messi in fuga dagli Unni. Ora, nel 453, questi ultimi stanno arrivando proprio da noi, con la brama di impadronirsi dell’Impero Romano.
Entrano dalla zona di Gorizia, ma una leggenda suggerisce che siano passati per le Valli del Natisone e che Attila sia salito sul Monte Matajur, volendo dare una prima occhiata alla pianura.
Ancora oggi si dice di una persona particolarmente malvagia che è un Attila.
Qualcuno degli aquileiesi assicura che il comandante ha la testa di cane e che dà ordini ai suoi soldati abbaiando. Ma forse è solo perché i cittadini lo sentono chiamare “Khan”, ossia ”capo” e parlare in una lingua sconosciuta. (Alcuni secoli dopo, un altro mongolo “Gengis Khan” fonderà l’impero più grande che mai si sia visto, esteso dalla Cina fino alla Persia).
Dunque gli Unni, che non sono tanto esperti in assedi, incontrano grosse difficoltà ad Aquileia.
Un giorno, quando già pensano di lasciar perdere, Attila vede volare in cielo una cicogna con i suoi piccoli, lo ritiene un presagio favorevole e decide di continuare.
Aquileia cade prontamente nelle sue mani. è un bagno di sangue. Molti aquileiesi, vestiti a nero, fuggono la notte prima della disfatta e riparano a Grado, il porto marittimo di Aquileia.
Siccome non possono portarsi dietro le loro ricchezze, fanno prima scavare dai servi un pozzo (cavus aureus) e vi gettano un immenso tesoro. Dopo, per evitare che qualcuno spifferi la notizia, annegano i servitori (che tempi crudeli, anche in Aquileia cristiana!).
Attila cerca disperatamente e a lungo quel tesoro, ma non riesce a trovarlo.
Per tanti secoli si parla del tesoro di Attila con la speranza di scoprirlo. Si vendono persino i terreni con la clausola: “Cedo il mio campo, eccetto che per il pozzo dell’oro”.
Durante la prima guerra mondiale gli italiani lasciarono circolare la falsa notizia del ritrovamento del tesoro, per timore che gli austriaci potessero in qualche modo ricercarlo.
Un’altra leggenda racconta che Attila, assentatosi da Aquileia, avesse fatto costruire dalle sue truppe una collina in Udine, facendo riempire e svuotare più volte gli elmi dei soldati. Lo scopo sarebbe stato quello di costruire un osservatorio verso la città conquistata.
Ma così sarebbero sorti sia il colle del castello di Udine, sia il laghetto del “Giardin Grande”, ora Piazza I Maggio.

 

BERTRANDO (Miles Christi, il Soldato di Cristo)
E’ un professore e non un soldato quando papa Giovanni XXII lo invia da Avignone a dirigere l’importante Patriarcato di Aquileia e ha ben 74 anni. 
Deve subito mettere mano alla spada per calmare i conti di Gorizia, i Savorgnan, gli Spilimbergo, i Villalta, i duchi d’Austria e tedeschi che mal sopportano la sua autorità o che vogliono strappare territori al Patriarcato. Nella sua impresa è appoggiato anche dal Parlamento del Friuli.
Quando i conti di Gorizia assaltano il castello di Giorgio da Duino, Bertrando accorre subito in sua difesa. Poi, aiutato dal futuro imperatore Carlo IV, espugna Cormons e assedia Gorizia.
Si racconta che il Patriarca abbia celebrato la Messa di Natale sul campo di battaglia, vestendo i paramenti sacri sopra l’armatura. Un prete avrebbe letto il Vangelo con la spada in mano e con quella avrebbe benedetto i fedeli.
Da quella volta i Patriarchi di Aquileia avrebbero sempre celebrato la Messa di Natale seguendo lo stesso rito. 
Ancora oggi, a Gorizia (il giorno di Natale) e a Cividale (all’Epifania) si celebra la “Messa dello Spadone”.
A Cividale il Diacono legge il Vangelo, cingendo in testa un elmo dalle piume bianche e rosse (i colori della città) e tenendo in mano la spada. 
Nel 1350 Bertrando muore (aveva 90 anni), ucciso in un prato di San Giorgio della Richinvelda dai conti suoi nemici.
Ma la leggenda popolare racconta che sia stato eliminato per aver preteso di stabilire i confini territoriali tra i nobili del suo patriarcato.
Alle donne che lo soccorrono mormora di voler perdonare i suoi assassini. 
Quelle gli chiedono: “Chi sono stati?”. 
E lui risponde: “I pazzi di Brazzà, i mendicanti di Caporiacco, gli avari d’Arcano, i disgraziati di Spilimbergo”.
Da allora la pazzia avrebbe colto i nobili di Brazzà, la miseria i Caporiacco, l’avarizia i d’Arcano, e la sfortuna gli Spilimbergo. Qualche secolo dopo Bertrando fu dichiarato “Beato”.

 

IL PONTE DEL DIAVOLO
I cittadini di Cividale sentono una grande necessità: costruire un ponte sul Natisone, per poter spostarsi verso Prepotto senza troppa fatica.
Molti impresari e ingegneri ci provano, ma, dopo qualche crollo e qualche spavento, tutti si tirano indietro.  La cavità del fiume è profonda e larga; e pare proprio che le acque si rifiutino di tollerare una costruzione sopra di esse. 
Qualcuno ha la brillante idea di ricorrere al diavolo che, come gli abitanti delle valli sanno, è ben presente da queste parti. 
Il Consiglio della città firma un vero e proprio contratto con satana, e si impegna a donargli l’anima del primo soggetto che attraversi il manufatto appena realizzato. 
Il diavolo costruisce il ponte in una sola notte, con l’aiuto di sua nonna che trasporta, da sola nel grembiule, il masso che sta sotto il pilone centrale. 
Al mattino il ponte è pronto.
Ma chi vede arrivare satana al posto dell’anima di cristiano che tanto bramava?
Un povero cagnolino che, pieno di curiosità, transita gioioso sulla nuova costruzione.
L’ira del diavolo, beffato dai cividalesi, si sfoga contro le rocce ai lati del fiume e, ancora oggi, si possono osservare le tracce del suo furore terribile.

 

LA SFINGE DI MIRAMARE
Il fratello dell’imperatore Francesco Giuseppe, Massimiliano d’Asburgo, a spasso per i mari con la sua nave, fu colto da un temporale nella baia di Sistiana.
Si fermò, gli piacque la zona, decise di acquistare un terreno roccioso sulle rive e costruì lo splendido castello di Miramare. La costruzione non era ancora finita, quando partì per l’America, dove gli era stata offerta la corona del Messico. Dal molo pareva salutarlo la sfinge egizia che lui stesso aveva fatto installare.
Così Giosuè Carducci immagina, nella sua poesia “Miramar”, il distacco di Massimiliano dal castello e dalla sua famiglia: 
“Vedi la sfinge tramutar sembiante / a te d'avanti perfida arretrando! È il viso bianco di Giovanna pazza / contro tua moglie...” 
Dopo tre anni di inutili tentativi di prendere il potere, venne catturato dai suoi nemici e fucilato.
Sua moglie, Carlotta del Belgio, aveva praticato tutte le corti europee cercando di organizzare appoggi per il marito.
Dopo la notizia della morte dello sposo divenne pazza.
Da quel momento molti si convinsero che la Miramare portasse sfortuna, cioè della cosiddetta “Maledizione della Sfinge”.
Numerosi altri lutti furono collegati alle vicende di quel castello. Ecco i più clamorosi.
Nel 1914, l’erede al trono d’Austria Francesco Ferdinando vi soggiornò con sua moglie prima di recarsi a Sarajevo. Entrambi furono ammazzati da un nazionalista serbo. Fu la scintilla che fece scoppiare la prima guerra mondiale.
Il duca d’Aosta trascorse a Miramare la sua luna di miele. Poco dopo partì per l’Africa al comando delle truppe italiane in Etiopia: fu catturato dagli inglesi e morì in prigionia.
Alla fine della seconda guerra mondiale, due generali americani, che avevano stabilito a Miramare la Sede del Comando, perirono in pochi mesi; il primo in un incidente stradale e l’altro nel corso della guerra in Corea.

 

IL MORTO RITORNA
Mariute lavorava in una filanda della seta e, siccome era inverno, doveva tornare a casa la sera nel buio. Inoltre era costretta a passare presso il cimitero perché, pur potendo scegliere un altro percorso, quello era molto più corto.
Il “moroso” era partito in guerra e non dava notizie di sé. Non scriveva più, ma non era neppure giunta la segnalazione della sua morte, come era capitato per tanti giovani del paese.
Mariute stava tornando a casa con quei pensieri in testa, mentre una luna, grande come una frittata, illuminava il sentiero.
Improvvisamente si rese conto che un’ombra l’affiancava. Era il suo ragazzo che le parlava con un filo di voce:
- Oh, che bel chiarore lunare, il vivo e il morto viaggiano assieme, hai paura Mariute?
La ragazza intuì tutto all’istante. Si tolse gli zoccoli dai piedi e si mise a correre scalza, mentre il cuore le rimbombava in petto come i colpi di un martello.
Era l’anima del suo fidanzato morto in guerra, tornato a dirle “mandi” per l’ultima volta.

L’ORCO
Trae nome dalla divinità infernale Orcus, presa dal mondo latino.
è un essere grande e potente come una montagna, il terremoto (orcolat), una grandinata. 
Può mutare aspetto e sempre a danno degli uomini. 
Diventa una grossa palla in grado di rincorrere le persone per schiacciarle, oppure si trasforma in un asino che inizia improvvisamente a scalciare. 
Talvolta crea del ghiaccio sulla strada e il malcapitato che scivola lo sente sghignazzare tra gli arbusti. 
Fa sbagliare sentiero al viandante e questi si ritrova la sera al punto di partenza dopo aver camminato tutto il santo giorno. 
In Friuli si dice di un uomo che “sembra un orco” se è cattivo, antipatico o semplicemente se ha la voce rauca. 
Un giorno l’Orco capita dalle parti di Corno di Rosazzo, dove vive un signore terribilmente avaro. Questo esempio di altruismo aveva una figlia bellissima e altrettanto buona, ma egli l’avrebbe tranquillamente sacrificata per denaro. 
Dunque il taccagno, quando viene a sapere dell’arrivo dell’Orco, si mette a ricercarlo e gli dice: “Se mi farai diventare molto ricco, ti darò in sposa mia figlia”.
L’Orco lo conduce nel bosco e dichiara: “Qua sotto giace un gran tesoro. Io scaverò un buco, mentre tu mi porterai, verso mezzanotte, tua figlia su un carro trascinato da due buoi”. 
L’Orco scava subito la fossa con le sue mani grosse come badili e verso mezzanotte arriva fino all’inferno. Da lì estrae il tesoro e poi attende il suo futuro suocero. 
Intanto quello arriva a casa e dà ordine alla figlia di prepararsi per lo sposalizio.
La ragazza si mette a piangere per la disperazione. 
Allora la madre chiede soccorso alle fate del Colle di San Biagio che la figlia aveva spesso aiutato nel lavaggio dei panni al ruscello. 
Le buone fate corrono in fretta nel bosco e, approfittando del buio, riescono a rapire la figlia a quel padre snaturato, e questi nemmeno se ne accorge. 
Quando l’uomo arriva sul posto, scorge l’Orco e, accanto a lui, un sacco pieno di monete d’oro.
Già stanno caricandolo sul carro, quando entrambi si rendono conto che la sposa non c’è. 
L’Orco vuole riprendersi il sacco, l’uomo gli si oppone. 
Ne nasce una lite tremenda e tutti e due cadono dentro il baratro scavato dall’Orco, insieme al tesoro, al carro e ai buoi.
La gente che vive attorno alla “Buca del Mare” racconta che durante l’inverno si odono talvolta, le grida dei dannati, il muggire dei buoi e il tintinnio delle monete d’oro provenienti da quel baratro.

 

STREGHE E ALTRI ESSERI SPETTRALI
In Friuli si sostiene che le streghe si incontrino fra loro di giovedì, durante la notte, (e non il sabato come da altre parti) in una caverna nel bosco e che, mutatesi in gatti o fuochi fatui, spaventino i viandanti.
Poi si spalmerebbero un unguento magico su tutto il corpo, diventando invisibili, così da poter entrare in casa dalle finestre e dai camini oppure nelle stalle, facendo ammalare le persone e gli animali. 
Sul monte Tenchia, vicino a Paluzza, ci sarebbe un prato rotondo con una splendida erba verde che nessuno vuole falciare per timore di subire conseguenze negative. 
Qualche volta le streghe sono chiamate “Aganis” (streghe delle acque). Sono diavolesse dai piedi ritorti verso l’interno. Portano sventura a quelli che di notte passano incautamente presso le loro tane. Possiedono un covo in una caverna presso Chiusaforte, vicino al rio Macilla. La spelonca attraverserebbe tutto il Monte Canin da un lato all’altro. 
Alcune altre streghe hanno una gamba grossissima che tentano di nascondere sotto delle maxi-gonne: si chiamano “Gambe di gallo” o “Gambe di leone” e assumo le sembianze di signore anziane.
Altro essere terribile è il Boborosso, un brutto cagnaccio dagli occhi rossi e dalla lingua di fuoco che mangia i bambini cattivi.
I sbilfs o guriuts (folletti, elfi) vivono nel bosco. Sono ometti piccini e un poco dispettosi, ma non malvagi. Hanno sempre qualcosa da fare e amano suonare e ballare. 
Il cjalcjut è un folletto cattivo che penetra nelle case attraverso le serrature e si diverte a provocare incubi ai dormienti, sedendosi sul loro stomaco.
Una storia a sé sono i benandanti che si definivano “nati con la camicia”, perché partoriti con la placenta avvolta al corpo. Erano “maghi bianchi” che asserivano di poter staccarsi dal corpo, durante il sonno, per quattro volte all’anno. Andavano a combattere lunghe battaglie contro il male, servendosi di gambi di finocchio. L’inquisizione cattolica si abbatté spesso su maghi, streghe e benandanti, ma per fortuna, non fu di mano pesante come da altre parti..

 

IL DRAGO DI OSOPPO
In quella che oggi chiamiamo la piana di Osoppo c’era una volta un vastissimo lago.
Osoppo era un paesino insulare dove si era installato un enorme drago dalle sette teste.
Con il suo fiato velenoso uccideva chiunque osasse avventurarsi in quei paraggi e poi lo divorava. 
Gli abitanti delle rive erano terrorizzati, così pensarono di contattare un eremita che aveva la fama di essere un santo. Questi promise di liberarli dal drago, a patto che lo trasportassero in barca fino ad Osoppo.
Ma la gente aveva paura e nessuno osava accontentarlo. 
Pertanto l’eremita comandò che tutti facessero tre giorni di digiuno e infine alcuni coraggiosi si offrirono di accompagnarlo fino ad un’altra isoletta prossima a quella del drago.
Sceso dalla barca, benedì le rive, dedicando l’isola a San Rocco, affinché il drago non osasse avvicinarvisi.
La bestiaccia rispose con un soffio velenoso e con un colpo di coda in acqua, ma la croce dell’eremita respinse il fiato mortale, né le onde lo spaventarono. Ogni giorno il sant’uomo celebrava la messa e pregava continuamente. 
Il drago vomitava bile verde e urlava: “Io ti schiaccerò”. La gente lo udiva tuonare da lontano e tutti provavano brividi di paura. Infine il drago inizio ad ammalarsi, a barcollare e con un ultimo grido cadde dentro il lago. Arrivò uno spaventoso terremoto. Si aprirono innumerevoli fessure nel terreno che ingoiarono rapidamente tutta l’acqua. La gente ringraziò Dio di averli liberati da questo orrore e raccolse per giunta una grande quantità di pesce. La terra del lago diventò un enorme campo fertile.
L’eremita domandò al popolo di costruire, sopra la vecchia isola di San Rocco, una bella chiesa che ancora oggi possiamo visitare.

Arti e tradizioni

I fuochi invernali
I Carni, lontani abitanti del Friuli, ci hanno lasciato in eredità cerimonie antiche (passate attraverso il periodo romano con il nome di “Natalis solis invicti”, Nascita del sole mai vinto), che il Cristianesimo ha intelligentemente assimilato agli avvenimenti del Natale.
L’uomo primitivo o il più vicino agricoltore-pastore erano legati alla terra e alle altalene dell’universo. Le giornate più corte, il sole che non scalda ormai più, rendevano la vita autunnale incerta. Qualche giorno dopo Natale si scopre che la la luce si allunga e che il sole non sta morendo. I fuochi epifanici sono un’esplosione di gioia: ci sarà ancora tanto freddo, ma è sicuro che la vita continuerà! “Nadâl, un pît di gjal, Prin dal an un pît di cjan, Epifanie un pît di strie” (Natale un piede di gallo, Capodanno un piede di cane, Epifania un piede di strega), dove la lunghezza del piede sta ad indicare l’allungarsi del giorno.
In quasi tutto il Friuli si ardono i falò all’Epifania, festa che chiude le memorie della nascita di Gesù.  In effetti il nome “Befana” è una corruzione della parola Epifania (Gesù che si mostra ai re magi), ma le tradizioni vanno oltre, fino ai nostri antenati più lontani.
I fuochi sono chiamati in modi diversi: “pignarûl” nel Friuli centrale e orientale, “foghere” o “pan e vin” in quello più occidentale”. 
Le denominazioni, a dire il vero, sarebbero molte di più, ma il “Pignarûl Grant” di Tarcento si è imposto per fama e nome.
Le tradizioni sono abbastanza simili. La catasta viene innalzata in aperta campagna con materiale di scarto dell’agricoltura o con legname  ottenuto dai giovani casa per casa. Vi è un palo centrale di sostegno. Spesso sull’ammasso è posto un fantoccio (femenate), raffigurante una strega o l’anno vecchio che bruciando, trascineranno lontano i ricordi negativi della vecchia annata.
Un uomo importante o anziano del paese accende il falò, utilizzando una torcia avviata in un focherello vicino alla catasta. Si distribuisce un dolce e vino “brulé” speziato.
La focaccia di un tempo non era il moderno panettone, ma la “pinza”, fatta con farina di granoturco, uvetta, fichi secchi e pinoli. In passato si mangiava anche carne di maiale e salsiccia alla brace.
Le donne erano escluse dalla prima fase del rito (preparazione della catasta, accensione) e dovevano occuparsi solo del cibo. Dopo l’avvio della fiamma iniziavano i canti e i balli attorno al fuoco.
I giovani erano sempre protagonisti: giravano per i campi con torce accese nel pignarûl, quasi per una benedizione pagana. Alla fine, a fuoco quasi spento, gareggiavano nel saltare le braci, come dimostrazione di essere diventati adulti.
Il rito antico forniva previsioni sul futuro raccolto agricolo. Quando il fumo si fosse diretto ad oriente, il significato sarebbe stato (pronostico favorevole): prendi il sacco e vai al mercato. Quando il fumo si fosse volto ad occidente (pronostico negativo): raccogli il sacco e recati lontano nel mondo.
Verso il 1300 la cittadina di Tarcento era in mano ai nobili austriaci di “Castel Porpetto” che possedevano due castelli sulla collina di Coia. Quello più alto è andato completamente distrutto; di quello inferiore (detto Cjiscjelat) rimane il rudere di una torre, dove si intravedono ancora le tracce di un affresco.
La cerimonia vuole ricordare l’investitura di Artico di Castello a signore delle sue terre in Friuli da parte del Patriarca di Aquileia.
Si accende il “Pignarûl Grant” proprio nello spazio antistante il “Cjiscjelat”, mentre dalle colline circostanti i “pignarulârs” fanno ardere una lunga serie di falò.
Il racconto delle vicende remote viene effettuato dal “Vecjo Venerando”, a metà tra il druido e il sacerdote. Il vecchio dalla lunga barba candida interpreterà anche il responso fornito dalla direzione del fumo.
Nel giorno dell’Epifania, il Friuli richiama il suo passato anche con la “Messa dello Spadone” a Cividale del Friuli (vedi pagina precedente) e la “ Messa del Tallero” a Gemona del Friuli”.
A Gemona il Sindaco offre un tallero d’argento di Maria Teresa d’Austria all’Arciprete, volendo dimostrare la sottomissione del potere temporale a quello religioso.

I fuochi di San Giovanni e San Pietro (fuochi solstiziali estivi) sono meno noti e meno praticati dei loro equivalenti invernali. L’area è quella del Gemonese: Venzone, Cavazzo e della Valle del Fella.
Alle volte i territori si confondono per la coesistenza dei due riti o di quello de “lis cidulis”.
La catasta non viene eretta in mezzo ai campi, ma in centro al paese oppure sulla strada, in prossimità degli incroci.
I fuochi di fine giugno erano frequentissimi in altre zone d’Europa o in Asia. Durante il solstizio d’estate il sole raggiunge la sua massima altezza rispetto all’equatore terrestre.
Alcuni studiosi interpretano i fuochi estivi come un rito per placare la paura di perdere un sole che si sta allontanando e che, quasi subito, invertirà invece il suo cammino, abbassandosi sull’orizzonte.

 

Lis cidulis”
In Carnia si usa (molto raramente oggi per la verità) lanciare “lis cidulis”. Tutte le zone della Carnia e in parte della Valle del Fella ne erano coinvolte in maniera massiccia e in tutte le stagioni dell’anno.
“Lis cidulis” sono dischi di legno di faggio, tagliati con l’accetta a forma vagamente piramidale, con un buco centrale che le perfora completamente e con i bordi sottili per ruotare meglio nell’aria. Sono quindi dei piccoli dischi volanti di legno.
Si sceglie un punto ripido sulla costa della montagna, libero dagli alberi. I giovani accendono un fuoco, dove “lis Cidulis” vengono lasciate arroventare. Quando sono ben infiammate inizia la cerimonia.
Con un ferro o un legno massiccio il ragazzo di turno ne inforca una. La fa roteare sopra la sua testa fino a che, con una manovra più decisa, la lancia in avanti e verso l’alto. La “cidule” percorre ampie volute circolari, rilasciando una scia di stelline incandescenti. I primi lanci erano un omaggio a Dio, ai Santi, al Parroco, al Sindaco ecc… Poi iniziava la parte “piccante” della cerimonia.
Il giovane pronunciava ad alta voce il nome della bella alla quale dedicava il tiro (unendolo al suo proprio nome o a quello di un amico), incitando la “cidule” a raggiungere il cuore di lei. Tutte ragazze del paese si radunavano sotto la collina, ansiose di sentir pronunciare il loro nome.
La tensione aumentava sempre più fra quelle non ancora nominate. E grande era la delusione finale di quelle non chiamate.
Veniva considerata una pratica coraggiosa e irriverente perché andava contro l’abitudine dei genitori di accordarsi sul matrimonio dei figli e suggeriva la scelta per “reciproco gradimento” dei giovani.
Non a caso la funzione del lancio era spesso affidata ai coscritti, le cui impertinenze erano pazientemente tollerate, prima della loro partenza per la “naia”. fuochi artificiali sostituiscono oggi il lancio de “lis cidulis”. Sono sbalorditivi, ma non hanno la vena romantica dell’antica cerimonia.

Carnevale e “Tomâts”
In molte zone del Friuli c’era (e in parte rimane tuttora) la consuetudine di fabbricare delle maschere di legno, utilizzate per camuffarsi durante il carnevale. 
Erano in voga in tutto il Friuli, particolarmente in Carnia e nel Tarcentino. 
La fabbricazione di queste maschere non era facile e iniziava con la scelta nel bosco del legno adatto (ontano, noce, acero…). Gli scultori erano spesso taglialegna e avevano tutto il tempo durante l’anno per scegliere l’essenza più adatta, dotata di (p. es.) un ramo al posto del naso, del foro di un picchio per fare la bocca.
Intagliare i “tomâts” richiedeva parecchio lavoro, soprattutto se le rifiniture (capelli, barba, dentatura ecc…) erano fatte a mano senza aggiunta di pellicce o denti di animali.
Gli attrezzi per intagliare erano fabbricati tutti nelle officine fabbrili del posto. 
“Il Carnavâl al jentre cu la aghe sante da la Epifanie - Il Carnavâl al scomence cuant che a metin il Signôr ta la aghe". (Il Carnevale entra con l’acqua santa dell’Epifania – Il Carnevale comincia quando mettono in acqua il Signore). 
Con questi detti si ricordava la benedizione dell’acqua santa alla vigilia dell’Epifania o il Battesimo di Gesù Cristo, richiamato la prima domenica dopo l’Epifania. 
La gente si scatenava nei giorni del carnevale, da subito dopo l’Epifania e per settimane e settimane, giovanotti scherzosi imperversavano per le vie, le osterie e nelle case.
Le maschere venivano fabbricate in abbondanza in modo da favorire anche l’amico che non aveva provveduto per tempo. 
Con il viso coperto il poveraccio trovava il coraggio di scherzare con il Sindaco, il Parroco o con la signora per bene del villaggio, o di pronunciare frasi che non si sarebbe mai sognato di dire. 
I festeggiamenti toccavano il culmine per Giovedì Grasso e per l’Ultimo di Carnevale: canti, balli e scherzi di ogni tipo. 
Le carovane si dividevano in due categorie: quelli con le maschere “a biel” e quelli con le maschere “a brut” (i tomâts erano del secondo tipo).
I gruppi circolavano per le strade con frotte di ragazzini al seguito. Si fermavano nelle case a raccogliere offerte (in genere cibo) che poi mangiavano la sera nelle osterie. 
"Doman e je fieste  /  Si mangje la mignestre / Si bêf un bon bocâl / Eviva il Carnavâl " (Domani è festa / Si mangia la minestra / Si beve un buon boccale / Evviva il Carnevale). 
I cibi tradizionali del Carnevale erano i crostoli, la pinza, gli insaccati di maiale in genere. Ma il primo giorno di Quaresima, tutti a prendere le Ceneri, si consumava l’arringa o il baccalà e il comportamento rientrava nei binari della consuetudine. 
Era una vita più semplice: mancava forse il cibo, mancavano gli attrezzi quotidiani di cui oggi non potremmo fare a meno, ma la gente si sapeva veramente divertire. 
Tuttora oggi ci sono dei costruttori di “tomâts”. A metà tra artigiani ed artisti portano eroicamente avanti un’antica tradizione che ha oggi difficoltà a trovare uno sbocco che non sia quello dell’esposizione in una mostra.

Krampus della Valcanale
Compaiono tra il 5 e il 6 dicembre per San Nicolò e i cerimoniali hanno qualcosa in comune con quelli carnevaleschi o nordici.
Così si svolgeva l’antica cerimonia:
“San Nicolò, abbigliato da vescovo e mascherato si muove per le vie della città, tenendo in mano un enorme pastorale, ottenuto da un ramo intagliato. Sulla schiena porta una gerla ripiena di pacchetti, multicolori di varie dimensioni.
I Krampus sono diavoletti bonari ma dispettosi.
Si muovono infagottati in una calzamaglia maglia rossa, provvista di coda e corna. Sul viso indossano una maschera da demone dei boschi che ha spesso la lingua fuori. Le braccia sono ricoperte da lunghe setole caprine. Nella mano destra impugnano un rametto di salice a modo di frustino. Dal sacco rigonfio, che il Krampus porta sulle spalle, esce un terrificante suono di campanacci rotti.
All’imbrunire, San Nicolò con i suoi aiutanti esce per le vie di Tarvisio, fermando i passanti in strada ed entrando anche nelle case. Se valuta che la persona abbia tenuto nell’anno una buona condotta gli spetta un bel regalino. Se il Santo ritiene che un soggetto (adulto o bambino) non preghi bene o non si sia comportato bene, resta in balia dei Krampus che lo frustano e lo colorano con le loro mani sporche di nerofumo.
Chi si oppone alle angherie viene messo in catene e trascinato nella peregrinazione per il paese, bersaglio di scherzi e palle di neve.
Alla fine i prigionieri vengono liberati, i Krampus si smascherano uno ad uno e per ultimo anche San Nicolò. Tutto termina con una chiassosa battaglia a pallate di neve tra gli ex- prigionieri e gli ex – mascherati.”
Oggi la cerimonia si è notevolmente edulcorata, ma rimane un’intensa partecipazione di pubblico. Pare che in questi ultimi anni le tradizioni carnevalesche abbiano ripreso una forza che ricorda quella del passato. Abbiamo necessità di divertirci, ridere e di essere, per un solo giorno, qualcosa di diverso da quello che facciamo apparire. Da tante parti si organizzano feste, con maschere, carri, spettacoli ecc... è un divertimento che ravviva le tradizioni dei nostri vecchi.

Cibi tradizionali del Friuli

Che cosa mangiavano i nostri nonni.
La cucina friulana del passato era povera, perché stentata era l’agricoltura e la vita rurale.
In montagna si sopravviveva grazie all’allevamento e all’alpeggio estivo.
L’alta pianura è molto sassosa e quindi poco fertile e i contadini dovevano rompersi la schiena per ricavare qualcosa dalla terra.
Non parliamo poi delle epidemie e degli invasori di turno che sconvolgevano la vita delle città e delle campagne. 
Il friulano ha comunque saputo tirar fuori il massimo da quel poco che aveva, creando dei piatti saporiti e originali. Il territorio è molto vario (Friuli “Piccolo compendio dell’universo”... come lo definiva I. Nievo).
Si trovano zone di montagna, mare, collina, fiumi, paludi, laghi, lagune, carsismo, carsismo di alta montagna, piccoli ghiacciai ecc... Tutto ciò ha dato origine ad una varietà di piante e di prodotti, unica nel suo genere. 
Il contatto con popolazioni diverse ha arricchito la preparazione dei cibi o i criteri di conservazione dei prodotti.
Si va dai salumi affumicati della Carnia (in stile austriaco) al pesce della costiera (influenza veneziana), ai dolci delle fasce di confine (influsso austriaco o slavo).
Sul fondo, però, sono sedimentate le antiche consuetudini dei celti, dei romani, dei barbari invasori ecc... che difficilmente riusciremmo a districare. 
Il mais, arrivato dall’America, si diffuse tardi in Friuli (fine 1700), ma cominciò ad insediarsi e a sostituire le granaglie che lo avevano preceduto.
Prima si preparavano polente di sorgo, avena, saraceno. Anche i nomi che gli vennero affibbiati (blave, sorc) ricordano quelli dei cereali rimpiazzati.  
La polenta di mais prese piede dappertutto.
Si mangiava quasi sempre “polente discolce”, cioè sola polenta. Il companatico era scarso e insufficiente.
Un grande amore (con riserva) quello dei friulani verso il granoturco!
Ma dopo qualche decennio comparve la pellagra, una malattia grave, dovuta alla scarsità di vitamina PP, presente nel granoturco, ma non assimilabile.
Assieme al mais arrivarono in Europa dall’America i fagioli e le patate. La Carnia è specializzata nella coltivazione di questi due ultimi prodotti che risultano di eccezionale qualità. 
La Brovada è un tipico prodotto friulano che non si può trovare altrove.
L’accostamento con i crauti giuliani (o germanici) è sbagliato, seppur si riscontra una vicinanza di sapori tra i due prodotti. 
I crauti sono costituiti da cavolo cappuccio, affettato a strisce sottili e messo a fermentare sotto sale. La sua acidità è dovuta ad una fermentazione lattica, simile a quella dello yogurt. Sono molto salati. 
La brovada è ottenuta da una varietà di rapa, inacidita per 3 o 4 mesi sotto vinacce (bucce d’uva, residuate dalla pigiatura del vino). Poi viene grattugiata a fettuccine e cotta assieme al “musetto” o usata in minestre.
Purtroppo il prodotto commerciato oggi non si fa più come una volta. Si usa l’aceto al posto delle vinacce. Le rape inacidiscono prima, ma non hanno l’aroma di un tempo.
Tentiamo di fare un piccolo elenco di cibi e prodotti tipici del Friuli Venezia, senza la pretesa che questo risulti esaustivo.
Tentiamo di fare un piccolo elenco di cibi e prodotti tipici del Friuli Venezia, senza la pretesa che questo risulti esaustivo:

Agnolotti (Cjarsons)
Dolci: favette dei morti, krapfen, strudel, putizza, gubana, crostoli, ossi di morto.
Formaggi e latticini: formaggio montasio, formaggio salato carnico, formaggio latteria di pianura, formaggio vecchio, ricotta affumicata carnica.
Frico di solo formaggio e frico di patate.
Frittate con varie verdure.
Gnocchi
Grappe di vario tipo
Insalata di radicchio e patate condita con il lardo fuso.
Iota triestina con i crauti.
Minestre di fagioli, minestra di orzo e fagioli, minestra di orzo, minestre di rape, minestre di zucca, minestra di patate, minestra di funghi.
Panata.
Polenta classica o con varie preparazioni.
Salumi: prosciutto crudo di San Daniele, salumi affumicati di Sauris (salame, prosciutto, speck), ossocollo, prosciutto cotto di Gorizia, prosciutto carsolino, salame e prosciutto d’oca, musetto, salsicce ecc...
Verdure: asparagi di Tavagnacco, fagioli e patate carniche.
Zuf o Meste (vellutata di zucca).

Anche i vini sono tanti. Il Collio produce i migliori bianchi d’Italia. La vite non cresce dappertutto in Friuli. A Nord di Gemona, per esempio. Cancellando tutta la Carnia e la Val Fella. Questa è una testimonianza del nostro freddo clima invernale. Si pensi solo che la vite è coltivata in Trentino Alto Adige, in Renania, nei dintorni di Vienna. Un particolare interessante è che Rauscedo (in provincia di Pordenone), un paesotto, è il più grande centro mondiale per la produzione di barbatelle innestate (quelle che poi diventeranno le viti vere e proprie).
Ecco un elenco di vini prodotti nella regione:
Autoctoni bianchi (o d’importazione antica): Malvasia, Picolit, Ribolla, Riesling Italico, Ramandolo, Tocai, Verduzzo.
Bianchi d’importazione recente: Chardonnay, Müller di Gorizia, Pinot Bianco, Pinot Grigio, Prosecco di Goriza, Riesling Renano, Sauvignon, Traminer.
Vini rossi autoctoni o d’importazione antica: Pignolo, Refosco, Schiopettino, Tacelenghe, Terrano.
Vini rossi d’importazione recente: Cabernet franc o sauvignon, Franconia, Malbech rosso, Merlot, Pinot nero, Terrano d’Istria.

Troviamo diversi nomi francesi, perché, fin dall’ottocento, le nostre viti furono distrutte più volte dalle malattie e furono sostituite con quelle estere, più resistenti.
Sembra proprio che il nostro Tocai, forse il vino bianco più bevuto in Friuli, dovrà chiamarsi in breve con altro nome. L’Ungheria è riuscita ad imporre a livello europeo il cambio della denominazione, sostenendo che la nostra vite sia un’importazione della loro Tokaj. Ci sono ragioni storiche per sostenere addirittura il contrario, ma pare che l’Italia non abbia adeguatamente difeso in Europa il nostro prodotto.

Nell’animazione qui sotto potete trovare alcune ricette tipiche, scelte a nostro gradimento.
1) Brovada e musetto (Broade e muset):
- Della brovada abbiamo già parlato in precedenza.
- Il “musetto” è un cotechino, ottenuto dagli scarti della lavorazione del maiale. Pezzetti di zampa, muscolatura della testa, nervetti vari e lardo sono le sue componenti. Il tutto viene adeguatamente salato, pepato e speziato.
è preferibile dare, alla brovada cruda, una (velocissima) passata in acqua tiepida, prima di sgocciolarla accuratamente e di metterla in pentola.
Il musetto è un cibo troppo laborioso per i nostri stomaci. Per cui si preferisce sgrassarlo a parte, facendolo sobbollire un’ora e mezza in acqua poco salata, dopo averlo accuratamente bucherellato con la forchetta.
Preparare un soffritto di aglio, cipolla e strutto (oppure olio di oliva) in cui metterete la brovada scolata, con alcune foglie di alloro. Il tutto va allungato con brodo, ricoperto e cucinato a fuoco lento per alcune ore. Dopo un’ora e mezza aggiungetevi il musetto sgrassato e lasciate cuocere ancora per altrettanto tempo, dopo aver salato e speziato. Affettate il musetto prima di portare in tavola.

2) Radicchio con i ciccioli (lidric cu lis fricis)
Si preferisce il “lidric cul poc” quello che ha affrontato l’inverno ed è in grado di reggere, per sapore e consistenza, la forza del condimento.
Il radicchio va mondato, lasciando almeno in parte, la radice. In Carnia mescolano al radicchio alcune patate lesse.
A parte si taglia a cubetti un pezzo di lardo e lo si passa in padella a fuoco moderato, finché i pezzettini non abbiano liquefatto una parte del loro grasso e si siano dorati. A questo punto si versa sopra dell’aceto che farà sfrigolare la padella. Rapidissimamente si rovescia tutto il condimento bollente sul radicchio, mischiando accuratamente.
In Carnia, dove l’aceto non era proprio di casa, si adoperava il “siç” un siero di latte inacidito.
è questo un piatto della primavera che si accompagna benissimo alle uova sode e alla polenta arrostita.

3) Frico di pianura
Tagliate a scaglie sottilissime del formaggio di media stagionatura (4 mesi). Altrimenti potrete fare una mescolanza di uno più fresco con dell’altro più vecchio.
Sciogliete del burro in una padella antiaderente. Le friulane di un tempo usavano la “fersorie”, fatta di ghisa pesante (che non andava mai lavata, ma pulita con un po’ carta, pena la perdita della non aderenza).

 

A fuoco lentissimo (purtroppo oggi non abbiamo gli “spolerts”), cuocete ora il formaggio, protetto da un coperchio. Quando si sarà solidificato da un lato, giratelo perché diventi dorato e croccante su tutti e due. All’interno può restare morbido.

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4) Frico di montagna
In Carnia producevano e producono ancora delle ottime patate. Per cui preparavano questo squisito sufflé di formaggio e patate.
Tagliatele pezzettini, anche non troppo sottili. Friggetele in una padella antiaderente in cui avrete sciolto del burro. Coprite e, ogni tanto, mescolate.
Tagliuzzate a scaglie del formaggio di media stagionatura (4 mesi). Altrimenti potrete fare una mescolanza di uno più fresco con dell’altro più vecchio. Il procedimento è lo stesso che per il frico di pianura.
Sciogliete del burro in un’altra padella antiaderente e iniziate la cottura del formaggio a fuoco lento e a pentola coperta.
Quando le patate saranno arrostite all’esterno e cotte dentro, dovrete schiacciarle con la forchetta (“patatis fruçadis a piron”), fino a farne una pappa abbastanza uniforme, senza tanti groppi.
A questo punto, unite le patate al formaggio, e continuate la cottura a fuoco minimo, rivoltandolo almeno una volta.  Il frico è pronto, quando diventa abbastanza consistente, alto e rosso su tutti due i lati.
Una volta in Carnia, impiegavano anche due ore per cuocere un frico.
Oggi, siccome abbiamo sempre fretta, anche nelle trattorie carniche, si grattugiano le patate per fare prima. Da qualche parte addirittura le lessano.
Ma il segreto della riuscita del vero frico carnico, sta nel rispetto delle procedure e nella lentezza della cottura.

5) Agnolotti ripieni (Cjarsons o Cjalsons)
Sono degli agnolotti di farina e patate o di sola farina. Si deve preparare una pasta consistente, amalgamando alla farina le patate, spellate, bollite, passate al setaccio e raffreddate. Si fa riposare il composto che sarà steso poi con il mattarello e se ne ricaveranno rondelle larghe al massimo cinque centimetri.
A parte si prepara il ripieno (per 4 persone). Spinaci cotti, ricotta affumicata grattugiata, un tuorlo d’uovo, un albume montato, pangrattato, 1 cucchiaio di cacao amaro, uno di zucchero, uva passita, sale e cannella. Il tutto deve essere ben lavorato, sino ad ottenere un amalgama quasi omogeneo.
Posare un cucchiaino di ripieno su una metà dell’agnolotto. Piegarlo, chiudere i bordi avvicinando le estremità, e sigillarlo facendo una piega sull’orlo. Metterli in pentola di acqua bollente.
Si condiscono con burro fuso, ricotta affumicata grattugiata, zucchero e cannella.
Vi sono diverse varianti nella preparazione del ripieno. Al posto degli spinaci si possono mettere mele, pere o susine crude finemente tritate. Oppure bieta passata in padella con un soffritto di cipolla. Ripieno di patate lesse, bieta ed erbe aromatiche (melissa, menta, basilico, maggiorana, prezzemolo ecc... finemente tritati) e ricotta.
In effetti, i cjarsons si prestano a imbottiture di fantasia o improvvisate con quello che c’è in casa, pur dovendo rispettare almeno la preparazione dell’impasto.
In genere sono esclusi i ripieni di carne.

 

6) Vellutata di zucca (Meste o Zuf)
Entrambi termini friulani indicano una “mescolanza”. Era in realtà il cibo autunnale del povero, fatto con quello che la natura poteva dare, per riempire lo stomaco.
Sciogliete del burro in una pentola. Aggiungetevi della polpa di zucca, mondata e tagliata a dadini. Lasciatela rosolare e poi schiacciatela bene con la forchetta. Aggiungete un misto di acqua e latte (in uguale quantità) e portate a ebollizione. Versate poi, a pioggia, la farina di polenta, eliminando subito i grumi con la frusta. Lasciate cuocere per circa 40 minuti, coprendo il tutto se temete che si asciughi troppo. Otterrete una polenta tenera, mista zucca-mais, da versare nel piatto. Impiattata, inizia a solidificarsi. Scavate un buchino con il cucchiaio e versateci dentro del latte freddo.
è altrettanto buona il giorno dopo, consumata fredda, rovesciandovi sopra del latte caldo.

7)Frittata con le erbe (Fertae cu lis jerbis)
Lavate e mondate un mazzo di erbe, raccolte nell’orto, nei campi o semplicemente acquistate.
Possono essere le più varie. Prezzemolo, insalata, menta, timo, sclopit (silene vulgaris),  papavero selvatico (confenon), pungitopo (sparcs di ruscli), luppolo (urtiçons) ecc...
Fate morire in padella della cipolla tagliuzzata.  Aggiungete le erbe tagliate sottili. Sbattete a parte le uova, salate, pepate e con l’aggiunta di formaggio grattugiato per insaporire. Versate in padella il composto, avendo cura, dopo cinque minuti circa, di girare la frittata sull’altro lato. In alternativa la frittata può essere infornata. In questo caso non è necessario girarla. Servire in tavola dopo un quarto d’ora circa.
Questa è la ricetta base per un’infinità di varianti. Al posto delle erbe, potete metterci delle patate lesse, (oppure crude, tagliate finissime e prefritte - è quasi la ricetta della tortilla spagnola). Oppure poneteci dei fagioli o dei piselli lessi, della carne, del pesce, del riso. La frittata è un contenitore che ravviva qualsiasi avanzo di cucina.

 

8) Anguilla (Bisate)
L’anguilla è un pesce dalla vitalità incredibile.  Vive normalmente in acque dolci (fiumi, laghi e paludi), ma è in grado di raggiungere anche pozze isolate, serpeggiando a lungo sull’asciutto. Ad un certo momento della sua vita, abbandona l’habitat, si immette in mare e, unendosi ad altre migranti, in un anno e mezzo raggiunge il mar dei Sargassi (nel golfo del Messico tra le Bermude e le Antille). Qui le femmine depositano le uova e poi muoiono. Le larve maturano quasi subito e in circa tre anni attraversano l’Atlantico, raggiungendo le località di partenza dei loro genitori.
Le carni sono ottime, un poco grasse per i nostri gusti di oggi.
L’anguilla veniva acquistata viva e ricordo che era dura da far morire. Tagliata a pezzi, questi saltavano da tutte le parti e cadevano per terra.
Anguilla in padella.  Private l’anguilla della testa e della coda. Vuotatela della interiora e tagliatela a tocchetti.  Infarinatela e mettetela in pentola in un soffritto di cipolla, sedano, prezzemolo e salvia già appassito. Lasciatela dieci minuti, poi aggiungete sale e pepe. Versate inoltre del vino bianco secco, pinoli e uva passa. Cuocete per altri venti minuti e servite con polenta. Una variante aggiunge salsa di pomodoro al vino bianco (in quantità più ridotta).
Anguilla fritta. La preparazione del pesce è quella della precedente ricetta. Poi, però, i pezzi sono messi a bagno, per tre ore in succo limone sale e pepe. Il tutto viene impanato (uova sbattute e pan grattato) e fritto.

9) La polenta (Polente)
Era il cibo più comune dei friulani di un tempo. Si cucinava nella pentola apposita in ghisa o in rame, ma oggi, se adoperiamo il gas, è meglio servirsi di un paiolo con manico che facilita le operazioni. La sua preparazione è facile, ma richiede presenza e impegno.  Mettere a bollire dell’acqua (quattro volte il quantitativo di farina che vorrete utilizzare), salata con un cucchiaino (da caffè) di sale per ogni 100 grammi di farina. Quando l’acqua bolle, versatevi a pioggia la farina e togliete i grumi con la frusta. Mescolate energicamente e continuamente con un cucchiaio di legno. La polenta deve cuocere per almeno 40 minuti. Meglio se per un’ora. Così cucinata, formerà una crosta sul fondo che si spaccherà dopo immersa in acqua. La polenta va rovesciata su una spianatoia di legno (taulîr) dove verrà affettata con un filo da cucito.
Il giorno dopo le fette possono essere passate alla griglia o al forno e sono altrettanto buone (polente rustide)
La polenta si presta ad accompagnare qualsiasi piatto, soprattutto quelli più saporiti. Ma vi sono delle varianti o delle combinazioni per le quali diventa, lei stessa, un piatto unico.
Al burro. Imburrate una teglia, riponeteci delle fette di polenta, tagliate sottili. Ricopritele con formaggio grattugiato, burro fuso e cannella. Si possono fare vari strati. Passate al forno.
Al salame. Preparazione simile a quella precedente. Al posto del formaggio metteteci delle fette di salame fresco. Si possono fare vari strati. Passate al forno.
Polenta di patate. E’ più delicata di quella tradizionale. Lessate alcune patate, setacciatele e mettetele in pentola.  Aggiungete acqua e sale. Quando tutto bolle aggiungete la farina.
Polenta pasticciata (polente cuinçade). Fate una polenta tenera, con più acqua rispetto alla ricetta classica. Una volta pronta, versatela su una teglia, alternandola con strati di formaggio, ricotta affumicata, burro e latte. Alcuni ci mettono anche del pomodoro.

10) Minestrone (Mignestron)
Il minestrone e la minestra erano i primi più presenti sulla tavola dei friulani e alle volte costituivano piatto unico, assieme alla polenta.  La pastasciutta è arrivata quassù in modo massiccio solo dopo la II guerra mondiale.
Fare un soffritto di pancetta e cipolla. Aggiungere del prezzemolo, sedano, una patata cruda, una carota, bieta e verza. Il tutto tagliato finissimamente. Aggiungere del brodo e portare ad ebollizione. Poi inserire 40 grammi di riso o pasta a persona. Servire quando il riso (o la pasta) sono cotti.  Se aggiungiamo anche dei fagioli freschi (o secchi, messi a bagno e parzialmente cotti a parte) otteniamo il minestrone di fagioli.

11) Polpette al prezzemolo (Polpetis cui savôrs)
Mettere in ammollo nel latte un panino vecchio. Aggiungerlo strizzato a della carne tritata due volte, assieme a cipolla (o aglio) e prezzemolo (finemente pestati), ½ uovo intero a persona, sale e pepe.
Amalgamare a mano il composto. Otterrete delle palline di medie dimensioni che passerete nel pan grattato. Friggete in olio bollente.

 

Fonte: http://ospitiweb.indire.it/~udee0001/1_2_3_friulut/test_talian.doc

Sito web da visitare: http://ospitiweb.indire.it

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