Grammatica analisi grammaticale e analisi logica

Grammatica analisi grammaticale e analisi logica

 

 

 

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Grammatica analisi grammaticale e analisi logica

 

Francesco Sabatini

Lettera sul “ritorno alla grammatica”
Obiettivi, contenuti, metodi e mezzi

 

Settembre 2004

 

Si parla spesso, da qualche tempo, di “ritorno alla grammatica” nell’insegnamento dell’italiano. Siamo in molti a ritenere, non da ora, che dello studio cosiddetto “riflesso” della lingua non si possa e non si debba assolutamente fare a meno nell’istruzione scolastica. E ciò per tre motivi di fondo, che è bene riaffermare: non è possibile usare in modo consapevole e appropriato la lingua, specialmente nello scrivere, senza conoscere analiticamente il suo funzionamento; questa conoscenza aiuta certamente anche nell’apprendere le altre lingue; inoltre, e non è un fatto marginale, l’analisi della lingua è indagine sui nostri processi mentali, sui nostri rapporti sociali e sulla nostra storia culturale.
Cerchiamo dunque di tener vivo e sviluppare, in tutto il percorso dell’istruzione scolastica, insieme con le fondamentali pratiche che alimentano e ampliano le “abilità” linguistiche, lo studio riflesso della lingua.
Ma tutto dipende da come si conduce questo studio.

 

Insegnare “grammatica” (userò spesso questo termine generico e riassuntivo) risulta per lo più gravoso e, diciamolo, anche infruttuoso. Per combattere questi aspetti negativi, che inducono solitamente avversione negli alunni, vorrei far circolare, con questo opuscolo, alcune riflessioni essenziali che discendono da una precisa convinzione: solo le spiegazioni ben fondate scientificamente reggono alla verifica degli usi reali della lingua, sono utilizzabili nell’uso personale e generano interesse Insomma, le difficoltà e gli insuccessi di questo insegnamento nascono il più delle volte dalla superficialità ed empiricità di molte definizioni, che non spiegano affatto i meccanismi della lingua e tanto meno raggiungono il piano degli atteggiamenti e moventi dell’individuo pensante e comunicante.
Non dispiaccia questo richiamo a una maggiore scientificità in questo settore dell’insegnamento dell’italiano. I tentativi di avvicinare questa disciplina alle acquisizioni essenziali della linguistica moderna non hanno sortito finora buon esito (sicché anche l’editoria scolastica, dopo promettenti avvii, ha finito col segnare il passo), diversamente da quel che accade, bisogna ammetterlo, in altri ambiti disciplinari, compresi gli insegnamenti delle lingue straniere. È ora perciò di riaccendere davvero l’interesse dei docenti d’italiano per un sapere linguistico più aggiornato, che li metta in grado di confrontarsi su questo piano con altri colleghi e di prendere più gusto (mi si conceda questa espressione) anche nell’insegnar grammatica.
Mi propongo di riflettere insieme con i lettori di questo opuscolo su due temi concreti dello studio grammaticale per far constatare come talune nozioni correnti, apparentemente chiare e indiscutibili, ci lascino invece in piena difficoltà, e come spiegazioni più approfondite risolvano molti dubbi, aprendo anche spazi più ampi di pensiero e d’interesse per questo tipo di studio. Il primo caso riguarda un fenomeno che a molti può anche apparire, appena prospettato, trascurabile e marginale, mentre esso porta a scoprire la “testualità”, cioè un insieme di fenomeni generali che investono tutta la lingua.

I. “Quel ma a inizio di frase”. Ossia la pragmatica in aiuto alla grammatica.

Molti insegnanti mi hanno espresso, varie volte, il dubbio sulla liceità dell’uso della congiunzione ma “a inizio di frase”: un uso che, dicono, “non si riesce a sradicare” dalle abitudini degli alunni e che “contrasta palesemente con un’elementare regola di grammatica”, secondo cui ogni congiunzione deve congiungere due frasi, nessuna delle quali può quindi mancare.
Meraviglia, intanto, che chi solleva questo dubbio non si sia accorto che tale uso è frequentissimo nei testi di ogni epoca, dalle origini ad oggi, e di autori anche sommi: tutti scrittori scorretti e trascurati? Senza dire che lo stesso uso si trova con mais francese, con but inglese, con pero spagnolo, con aber o doch tedesco, con sed latino ... Non deve però bastare questa constatazione, che può far mettere l’animo in pace ma manda in soffitta ogni intenzione di far grammatica. Bisogna arrivare a capire come nasce e quale funzione ha quest’uso, che ben possiamo dire universale.
Prima di fornire questa spiegazione, occorre una precisazione che è fondamentale e pregiudiziale per ragionare su qualsiasi fatto di lingua: la “grammatica”, anche se correttamente impostata, ci descrive come funziona il meccanismo generale della lingua in quanto “sistema virtuale”, cioè al di fuori della comunicazione effettiva; in questa entrano in gioco le attività mentali degli interlocutori, le quali consentono o addirittura esigono attuazioni particolari, apparentemente violazioni, di quel sistema.
In termini più espliciti si tratta di questo: nella comunicazione linguistica tra individui si instaura una collaborazione tra emittente e ricevente, per effetto della quale è possibile o addirittura più appropriato isolare o anche saltare dei passaggi della struttura grammaticale, poiché la mente del ricevente è abituata a riaccostarli o integrarli. Questi processi sono regolati dai principi, propri della comunicazione e connessi tra loro, dell’economia e dell’efficacia: quando la mente del ricevente è indotta a ricongiungere dei passaggi o a integrarli se sottintesi diventa più attiva nell’elaborare per proprio conto il significato del messaggio.
Per comprendere il funzionamento della lingua dobbiamo dunque tener presenti due prospettive, distinte ma da collegare nel modo giusto: la prospettiva grammaticale e quella comunicativa, detta anche “pragmatica” o “testuale”.
Applichiamo ora questi principi al caso, davvero esemplare, del ma iniziale.
Cominciamo col distinguere, anzitutto, i due valori grammaticali ben diversi del ma italiano: quello avversativo­oppositivo e quello avversativo­limitativo (distinzione che molte grammatiche e molti vocabolari ignorano del tutto o sottovalutano!). Con il valore oppositivo il nostro ma vale “bensì” e serve a contraddire quanto è detto in una frase precedente, la quale è sempre negativa e non può mai mancare; ecco un esempio:

oggi non è lunedì, ma [‘bensì’] martedì.

Con il valore limitativo il ma vale “però, tuttavia” e mette semplicemente a confronto dati riferibili a due diversi punti di vista, entrambi validi, ma solitamente sottintesi, come in quest’altro esempio:

oggi è freddo, ma [‘tuttavia’] è una bellissima giornata.

Com’è evidente, in questo secondo esempio la seconda frase non nega il contenuto della prima, perché l’intero enunciato afferma che “(dal punto di vista della temperatura) oggi è freddo, mentre (dal punto di vista della luminosità) è una bellissima giornata”. La seconda frase è appunto una limitativa: essa limita l’aspetto negativo della giornata al dato climatico.
Chiarita la natura della limitativa, passiamo al modo con cui essa, nella grande varietà di effetti che può produrre, può presentarsi e venire isolata, nello scritto, mediante la punteggiatura o anche spazi grafici. Si possono verificare tre situazioni.
1) Si possono trovare affiancate due sole frasi (come nel nostro esempio), e in tal caso possiamo scegliere di separare la prima dalla seconda mediante una semplice virgola, ma anche, se vogliamo dare molto risalto a ognuna delle due affermazioni, mediante una pausa più forte, indicata da un punto e virgola o da un punto fermo.
2) Quando però la frase limitativa è preceduta da una serie di più frasi che espongono il primo “punto di vista”, diventa addirittura indispensabile il punto fermo, perché dobbiamo far capire che quella limitativa si riferisce all’intera serie di altre affermazioni precedenti. Talora questo stacco è segnato perfino da un accapo: cercate in testi di prosa quanti capoversi cominciano con Ma e in testi poetici quante volte una nuova strofa o una nuova sequenza metrica comincia con Ma.
3) Si può avere infine un uso ancora più drastico. Se il contenuto della prima affermazione (o di una serie di affermazioni) è già nella mente degli interlocutori (per tornare al nostro esempio: se si sa già che in quei giorni sta facendo molto freddo), la prima frase può mancare del tutto e il discorso si può aprire direttamente con la limitativa: Ma è una bellissima giornata, così potrebbe suonare (magari esclamativamente) un nostro annuncio dato al primo aprire delle imposte. Quest’uso è frequentissimo nella comunicazione parlata e dialogata, nella quale molti presupposti sono normalmente presenti nella mente degli interlocutori, ma non mancano saggi, racconti e componimenti poetici (e titoli e articoli di giornale a volontà) che si aprono con Ma. Ricordiamo almeno l’attacco di una poesia di Carducci: Ma ci fu dunque un giorno / su questa terra il sole? Per quanto riguarda i dialoghi in testi scritti, fate caso a quante battute nella Commedia dantesca cominciano con Ma.
Riassumiamo: il ma limitativo può essere preceduto da un punto fermo, può aprire un nuovo blocco di testo e può aprire addirittura l’intero testo.
Resta però da dare ancora un avvertimento, molto importante. Questi usi del ma che si distaccano dall’uso puramente “grammaticale” sono variamente accettabili nei diversi tipi di testo. Il primo e il secondo uso sono del tutto normali in quei tipi di testo (saggio critico di qualsiasi materia, articolo di giornale, lettera privata, racconto, componimento poetico) nei quali è pienamente funzionale che il lettore faccia quelle operazioni mentali di saldatura o integrazione dei passaggi grammaticali; il terzo uso, ancora più marcato, si addice propriamente ai testi che si avvicinano molto allo scambio comunicativo del parlato o vogliono indurre il lettore a un’intensa riflessione sul “non detto”. Nel loro insieme gli usi in questione sono dunque liberamente ammessi nei tipi di testo che possiamo definire “elastici” (quando più, quando meno), un tratto che serve a stimolare la mente del ricevente. Tutti e tre questi usi non sono invece accettabili in quei tipi di testo che possiamo definire “rigidi”, nei quali non ci dev’essere alcun margine per libere integrazioni della mente del lettore, e tali sono i testi normativi ufficiali (leggi, contratti e simili) e i testi scientifici e tecnici di estrema precisione. Testi importanti anche questi, naturalmente, dei quali dobbiamo far conoscere agli alunni le caratteristiche, anche se ne produciamo o leggiamo in minor numero.
E c’è ancora un codicillo: ciò che si osserva nell’uso del ma si presenta anche con le altre congiunzioni! Soprattutto con e, ma perfino con le congiunzioni subordinanti, con le quali può succedere che dopo una pausa vedano subentrare l’indicativo all’altrimenti dovuto congiuntivo: «furon marito e moglie; benché la poveretta se ne pentì» scrive correttamente Manzoni (e così tanti altri). Non si tratta di casi rari o di “licenze” dello scrittore, ma di trasformazioni che avvengono normalmente “nella superficie” del testo, e dunque non contravvengono alla grammatica: nella citazione manzoniana basta reintegrare un passaggio sottinteso, che contiene la frase concessiva puramente logica «...; benché [si debba sapere che] la poveretta se ne pentì», e i conti con la grammatica tornano. Si tratta, ripetiamo, di fenomeni della realtà testuale della lingua (quella che conta nella comunicazione) e per questo si suol dire che le congiunzioni in tali casi hanno una funzione testuale e non semplicemente “grammaticale” . L’alunno (e chiunque altro) che scriva abbastanza di getto, segue la pista della “testualità” e perciò attua, anche inconsapevolmente, le regole della comunicazione. Dobbiamo però portarlo, con la dovuta gradualità e appropriate spiegazioni, alla consapevolezza di tali regole, perché le applichi con maggiore discernimento.

 

II. Proviamo un modello semplice per la sintassi della frase (aggirando la selva dei complementi) .

La faccenda dei “complementi”, che non si sa mai bene quanti siano e come vadano classificati, è un altro scoglio del nostro insegnamento grammaticale tradizionale. Ciò che si stenta a riconoscere in questo campo è che la definizione dei cosiddetti complementi (fatta eccezione per il complemento oggetto) rientra molto di più nella semantica che non nella sintassi: è un tentativo di inquadrare in concetti­tipo (colpa, pena, mezzo, prezzo, fine, causa, vantaggio, modo, distribuzione, ...) la nostra visione del mondo (azioni umane, eventi vari), ma per quanto si voglia essere sottili, l’interpretazione di tali espressioni finisce con l’essere approssimativa e controversa. Quando dico «si viaggia più comodamente in treno», posso voler indicare il mio “stare (seduto)” in treno o il fatto che il treno è un “mezzo” per raggiungere un luogo. L’espressione «ti ho detto queste cose per burla» può indicare un “modo” o un “fine” del mio dire. Recentemente si è accesa una disputa (in una scuola di Palermo) per stabilire se nella frase «dalla mia finestra vedo il mare» ci sia un complemento di “stato in luogo” (“quando sto davanti alla mia finestra ...”) o di “moto da luogo” (da definire perlomeno figurato) riferito allo sguardo “che da quel punto va al mare”; con la possibilità, aggiungiamo, che si possa definirlo anche di “moto per luogo”, perché lo sguardo “passa per la finestra” e perfino (perché no?) di “moto a luogo”, perché propriamente vedere significa “ricevere l’immagine che viene al mio occhio e al mio cervello”!
Si facciano pur fare esercizi di questo tipo (che furono ideati per aiutare a tradurre dall’italiano in latino), sapendo però che essi possono forse abituare a chiarire una serie di aspetti della realtà espressi con quelle parole, ma non spiegano certo come è costruita la frase. Il vero obiettivo nel campo della sintassi (dal greco syn e taxis “collocazione di elementi in un gruppo”) è invece quello di descrivere la struttura complessiva di questo organismo, sul quale si imposta ogni nostro discorso: e questo si ottiene se riusciamo a cogliere unitariamente le relazioni tra tutti gli elementi che possono entrare in una frase.
Mi propongo di tracciare qui alcune linee di riflessione su questo tema, sufficienti, credo, per indirizzare il lettore verso un metodo e un modello molto più rispondenti agli obiettivi da raggiungere in questa parte dello studio grammaticale.

Una prima indicazione è di metodo. La sintassi della frase dev’essere osservata soprattutto in frasi­tipo, cioè in costruzioni che presentino tutti gli elementi richiesti dalle regole generali della lingua. Cercare di fare “analisi logica” di testi reali crea spesso inutili complicazioni e incertezze, perché (come ho spiegato nel caso precedente) nei testi la struttura di base della lingua viene manipolata per rispondere ad esigenze comunicative, e quindi risultano spesso offuscati o cancellati vari rapporti tra gli elementi. Come analizzare, ad esempio, l’enunciato, di per sé normalissimo e completissimo come messaggio in situazione, del tipo «Buonanotte, Maria!»? Potremmo ritenerlo derivato da «io ti auguro (di passare) una buona notte, o Maria» o da «io ti auguro che questa sia per te una buona notte, o Maria», con buona notte (o buonanotte) una volta oggetto, l’altra volta quasi un soggetto.
Bisogna poi rifarsi a un modello esplicativo che unifichi tutti i tipi possibili di frasi e rappresenti tutte le relazioni interne che in esse si possono cogliere. Questo modello deve necessariamente far perno sull’elemento che non può mai mancare nella frase­tipo, e cioè sul verbo. È questo il modello della grammatica cosiddetta “valenziale”, che individua nel verbo le “valenze” (paragonabili a quelle degli elementi chimici), ossia la predisposizione che ogni verbo ha, secondo il suo significato, a combinarsi con un certo numero di altri elementi per produrre un’espressione minima di senso compiuto: la frase ridotta al minimo indispensabile, quello che viene anzi chiamato il nucleo della frase. Ad esempio: il verbo piovere ha valenza zero, perché non richiede nessun elemento aggiunto per esprimere il puro concetto del piovere naturale («Piove»); sbadigliare ha una valenza perché richiede di aggiungere solo l’indicazione di “chi sbadiglia” per rendere l’idea completa di quell’atto («Mario sbadiglia» è già una frase); il verbo regalare ha invece tre valenze, perché l’idea del “regalare” è completa solo se si indica “chi regala”, “che cosa” e “a chi” («Paolo regala una rosa a Cinzia»). E così via, in una scala di valenze che va da zero, con i verbi impersonali (detti perciò “zerovalenti”) a un massimo di quattro, con i verbi di trasferimento (che sono “tetravalenti”: «Giulia ha trasferito il pianoforte dallo studio in salotto») .
Come ha genialmente osservato il principale elaboratore della grammatica valenziale (Lucien Tesnière) , questo modello presenta il formarsi di una frase come un’azione teatrale, nella quale sulla scena appare dapprima il verbo, che da solo enuncia un puro evento: poi, se il verbo è impersonale, l’evento è già completo; con gli altri verbi l’evento si completa via via che entrano in scena gli altri attori, che sono gli altri elementi necessari “chiamati” dal verbo.
Poiché tutti questi elementi legati al verbo condividono la funzione di completarne il significato, al loro insieme è stato dato il nome di argomenti, termine col quale si vuol quasi dire che offrono al verbo il sostegno del loro significato . Per una prima loro distinzione possiamo chiamarli semplicemente , , e argomento, ma presto riusciamo a distinguere anche loro ruoli specifici, quelli di soggetto, oggetto diretto e oggetto indiretto (di vario tipo). A questo punto potrà sembrare che questo modello, magari semplice e attraente, in fondo ci riporti a concetti e termini già noti. Non è affatto così: perché questa ricostruzione della struttura del nucleo della frase non solo fornisce spiegazioni molto più precise e convincenti di talune nozioni preesistenti, ma ci consente di isolare altre componenti circostanti o esterne al nucleo e alla fine ci porta a mettere davvero ordine in tutto l’edificio.
Vale la pena di proseguire ancora un po’ questo discorso, per rilevare appunto i vantaggi cognitivi di questo modello già in questo primo stadio di descrizione della frase (limitatamente al nucleo) e per tracciare qualche linea del suo sviluppo ulteriore.
Cominciamo col segnalare i vantaggi cognitivi, per l’alunno e per chiunque altro:
1) se nella prima presentazione del modello scegliamo verbi di uso molto comune, possiamo analizzare già intuitivamente il loro significato e verificare la nostra capacità di costruire empiricamente nuclei di frase; in questo modo non dobbiamo obbedire a “regole” subito dettate dall’esterno, ma sfruttiamo la competenza linguistica che già abbiamo e ne prendiamo più precisa cognizione;
2) sapendo di dover comporre frasi­tipo -- che funzionino cioè senza alcun riferimento al contesto comunicativo, che può comportare omissioni o spingere ad aggiungere elementi di cornice -- siamo portati a precisare molto meglio il significato intrinseco del verbo: facciamo un puntuale esercizio di semantica;
3) notando, con un po’ di attenzione, che lo stesso verbo può avere un diverso tipo di costruzione e un diverso numero di valenze, ne scopriamo più chiaramente i diversi significati: «questi autobus vanno» (con andare usato in senso assoluto, monovalente) significa “sono in servizio” o anche “funzionano bene”; «questi autobus vanno al centro» (con andare bivalente) significa “sono diretti al centro”. Spesso il cambiamento di costruzione deriva dall’uso metaforico del verbo: riferito al fenomeno atmosferico tuonare è zerovalente, mentre in «tuonano i cannoni» (“i c. stanno sparando”) è monovalente e in «il direttore tuona i suoi ordini ai dipendenti» (“il d. impartisce con voce tonante ordini ...”) è addirittura trivalente;

  1. dopo aver considerato gli argomenti complessivamente, e aver conquistato la visione unitaria dell’intero nucleo della frase, le diversità del loro rapporto con il verbo ci segnalano i loro ruoli specifici, che sono tre: il ruolo di “soggetto” (presente a partire dai verbi monovalenti e concordato in numero, persona ed eventualmente genere con il verbo), quello di “oggetto diretto” (non legato da preposizione) e quello di “oggetto indiretto” (legato da preposizione ; ve ne possono essere anche due, con i verbi tetravalenti). Si aggiunge a questo punto il caso di quei verbi dal significato di per sé molto indeterminato (essere, sembrare, parere, diventare e qualche altro) i quali richiedono un secondo elemento concordato con il primo (è l’elemento che forma il cosiddetto “predicato nominale”): sono i verbi detti copulativi, che si differenziano da tutti gli altri, ai quali diamo il nome di predicativi;
  2. allineando tutti i verbi nel sistema delle valenze ci rendiamo conto anche che la tanto travagliata distinzione in transitivi e intransitivi si riduce al riconoscimento di quei verbi (o di alcune accezioni di certi verbi) che hanno l’oggetto diretto e possono essere volti al passivo;
  3. considerando non la forma degli argomenti, ma la loro funzione rispetto al verbo, comprenderemo che non solo nomi e pronomi possono fare da argomenti, ma anche avverbi locativi («il fulmine è caduto qui») e intere frasi o espressioni di più parole: in questo caso capiremo meglio che cosa sono e come si collocano nell’intera struttura frasale le frasi completive e cioè la soggettiva («passeggiare in riva al mare[l° argom., equivalente a una passeggiata ... ] distende i nervi»), l’oggettiva («Ugo ha assicurato che sarà presente» [2° argom., equivalente a la sua presenza) e l’interrogativa (diretta, «io le chiesi: “torni domani?”» oindiretta, «io le chiesi se sarebbe tornata l’indomani» [2° argom., con le che costituisce il 3° argom., indiretto]).

Come preannunciato poco sopra, il modello esplicativo che fa perno sul verbo e delinea così incisivamente il nucleo della frase pone una solida base per la definizione funzionale di tutti gli altri pezzi che possono essere aggiunti al nucleo, anche in una frase di grandi dimensioni, ricca di subordinate. Un esempio, e più avanti un grafico, possono chiarire meglio le spiegazioni che sto per dare in maniera molto sintetica.
Tutte le altre informazioni che possiamo aggiungere a quelle fornite dal nucleo stretto possono collegarsi a questo in due modi ben diversi e quindi collocarsi su due distinti piani.
Possono essere specificazioni dei singoli costituenti del nucleo: ossia attributi, apposizioni, espressioni preposizionali, frasi relative, che specificano gli argomenti, o anche avverbi e locuzioni avverbiali che specificano il verbo. Questi elementi sono legati morfologicamente e sintatticamente, oltre che semanticamente, ai singoli elementi del nucleo. Cominciamo a costruire un esempio (le sbarrette isolano ogni elemento): «Paolaleggepoesie» è un nucleo stretto, costituito dal verbo bivalente leggere e da due argomenti. Se vogliamo specificare chi è Paola, in che modo legge e quali poesie legge, possiamo ampliare il nucleo già in questo modo: «mia zia Paola │ legge ad alta voce │ poesie del suo amato Pascoli». Gli elementi in corsivo chiaro si riferiscono ognuno a un costituente del nucleo: possiamo chiamarli semplicemente circostanti del nucleo, perché stanno tutt’intorno ad esso, legati ognuno al proprio termine base e creando una specie di nucleo arricchito.
È possibile però aggiungere molte altre informazioni anche a questo nucleo arricchito: informazioni che non si legano più, specificamente, agli elementi del nucleo, né ai loro circostanti, ma che tuttavia fanno parte della scena complessiva. Potremmo voler dire, ad esempio, quando, dove e perché la zia Paola legge ecc. Proviamo ad allargare la scena con elementi di quest’altro tipo : «Verso sera, in veranda, mia zia Paola, sull’onda dei suoi ricordi liceali, legge ad alta voce, in mezzo ai fiori, poesie del suo amato Pascoli».
Ecco riapparire, si dirà, i complementi di tempo, luogo, ecc. ...! Un momento. C’è qualcosa di più importante da cogliere subito in questa struttura. Le espressioni verso sera, in veranda, sull’onda dei suoi ricordi liceali, in mezzo ai fiori – comunque le si voglia qualificare concettualmente, e lo si faccia pure (ma sull’onda dei suoi ricordi liceali sarà di causa, di luogo figurato o di che altro?) – risultano slegate sintatticamente sia dal nucleo, sia dai suoi circostanti: non hanno nessun legame né morfologico né sintattico con nessuna altra parola della frase. Le preposizioni che le precedono, infatti, servono a costituirle, non a legarle a qualcos’altro . Queste espressioni entrano nella struttura complessiva perché vi si calano bene con il loro significato, quindi aderiscono al resto solo semanticamente. Per non confonderle con i circostanti del nucleo dobbiamo denominarle in un altro modo: è invalso per esse il termine di espansioni .
È molto importante cogliere questo aspetto della indipendenza sintattica delle espansioni, perché ci rendiamo così conto di molte altre cose, quali: la loro collocazione nell’intera catena della frase è libera (possiamo dire: «mia zia Paola, sull’onda dei suoi ricordi liceali, in veranda, in mezzo ai fiori, legge ad alta voce, verso sera, poesie del suo amato Pascoli »; oppure «sull’onda ..., verso sera, mia zia Paola,...», e in altre sequenze ancora); questa loro libertà va segnalata, per iscritto, facendo buon uso di virgole separatorie; ogni espansione può essere trasformata in una frase dipendente («quando si va verso sera»; «trattenendosi in veranda»; «stando in mezzo ai fiori»; «poiché [o allorché] la spingono i suoi ricordi liceali»).
Il penultimo rilievo ci risolve parecchi dubbi di punteggiatura. L’ultimo sdrammatizza lo studio della “sintassi del periodo”: compresa bene la struttura della frase singola indipendente, si tratterà di capire come si generano, dalle sue possibili espansioni, altrettante frasi dipendenti. (Delle quali resta ovviamente da studiare l’uso dei modi verbali, ed è sotto questo profilo che si devono affrontare soprattutto i concetti di fine, causa, ipotesi e così via).
Giova certamente, a questo punto, presentare mediante un grafico tutta la rete delle relazioni, sintattico-semantiche o solo semantiche, che si possono individuare nella nostra ultima frase di esempio:

Un grafico come questo ha il grande vantaggio di trasporre la forma “lineare” della struttura della frase (come la realizziamo in sequenza fonica o scritta “sul rigo”) in una costellazione da osservare sinotticamente, nella quale gli elementi che hanno una funzione diversa nella struttura della frase sono collocati in posizioni diverse (tre aree concentriche) dello schema. Se nella lettura del grafico il nostro occhio si muoverà dall’ovale centrale verso la periferia, avremo l’idea chiara della centralità del verbo e quindi del nucleo: è questa l’area in cui sono piantati veramente i pilastri di tutto l’edificio della frase. Un edificio, vale la pena di insistere, ricostruito cogliendo i rapporti funzionali tra tutti i suoi elementi, la loro syn-taxis, nella quale s’incontrano argomenti, circostanti del nucleo ed espansioni. Concetti e termini che non hanno a che vedere con i “complementi”, i quali, anche se il nome li indica come pezzi che completano la frase (“oltre il soggetto e il verbo”), in realtà sono poi trattati come concetti isolati collocati a mosaico, con tanti altri, nella frase.

 

***
Nessun modello esplicativo, in nessun campo del sapere, risolve tutte le difficoltà e vale in assoluto e in eterno. Ma le scienze progrediscono seguendo di volta in volta i modelli che fanno fare decisi passi avanti. Nel settore della linguistica che qui c’interessa, la grammatica valenziale ha segnato indubbiamente un grande avanzamento: i suoi concetti e i suoi termini nuovi, che possono generare perplessità e turbare visioni precedenti, procurano moltissimi chiarimenti e, infine, rendono più semplici i percorsi didattici nei meandri della lingua. La quale, è pur vero, resta sempre l’oggetto più difficile da analizzare e descrivere: perché è specchio e creatura della macchina più complicata che esista, la nostra mente.
Allo stesso modo, ha innovato e giovato moltissimo in questi studi la linguistica testuale (erede dell’antica retorica): è un principio di grande utilità, teorica e pratica, quello che invita a distinguere tra la lingua come “sistema virtuale” e la lingua come appare nei messaggi comunicativi reali, nei “testi”.
A queste due questioni strategiche ho voluto appunto dedicare queste pagine di riflessione, indirizzate, in questo momento di ripensamenti e rivolgimenti scolastici, a tutti i docenti che vogliono e devono – e s’intende in tutti gli ordini di scuola – “fare grammatica”.

 

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Il “ritorno alla grammatica” esige dunque che si riconsiderino subito attentamente obiettivi, contenuti e metodi dell’insegnamento grammaticale. Dove sono i “mezzi” adatti per un diverso lavoro didattico? Le incertezze generali dei due decenni perduti – dopo i promettenti anni Ottanta – hanno frenato anche l’editoria scolastica. La materia nuova si è però accumulata da qualche parte. Una proposta che mi permetto di fare è questa: di fronte ai mille dubbi su come usare una congiunzione, un pronome (il famoso lui soggetto …), una costruzione verbale, la punteggiatura dopo un avverbio “frasale” (sinceramente, non lo credevo …), la risposta immediata, puntuale, su quel caso che ci si presenta, si può intanto trovare più direttamente in quella voce in un dizionario che abbia sposato fortemente il lessico alla grammatica, della frase e del testo. Si provi a utilizzare in questa precisa chiave il Dizionario della lingua italiana che è uscito (nel 2004) dalle fatiche mie e di Vittorio Coletti ed è affidato all’Editore Rizzoli-Larousse.

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Francesco Sabatini è Ordinario di Storia della lingua italiana nell’Università di Roma Tre Vittorio Coletti è Ordinario di Storia della lingua italiana nell’Università di Genova.

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È appunto la distinzione che è stata introdotta sistematicamente nelle voci delle congiunzioni e di altri elementi nel Dizionario Sabatini -- Coletti (già DISC, Giunti 1997; ora Rizzoli Larousse 2004).

Una prima esposizione divulgativa, più breve, di queste riflessioni è stata da me pubblicata sul periodico semestrale dell'Accademia della Crusca, «La Crusca per voi», num. 28, aprile 2004, pp. 8­9 (titolo: “Che complemento è?”).

Perché non più di quattro? La ragione sarebbe nel fatto che la nostra mente enunciando un verbo avverte che il suo significato “si apre” verso altri elementi che lo completano, ma non sembra capace di sopportare il carico di più di quattro “posizioni aperte”. A riprova di ciò, è stato notato che gli afasici non sanno pensare più di due valenze.

Linguista francese (1893­1954), la cui opera fondamentale, Elements de syntaxe structurale (uscita postuma nel 1959), fu presto conosciuta e seguita in molti Paesi europei e solo con ritardo in Italia (alla fine è stata anche tradotta in italiano, da G. Proverbio e A. Trocini Cerrina, Torino, Rosenberg & Sellier, 2001).

È questa una semplificazione del significato del termine argomento, che in realtà è desunto dalla logica, dove indica “ciò a cui si applica una funzione”. Per indicare gli argomenti del verbo viene usato anche il termine (preferito da Tesnière) di attanti, con il quale si vuol significare che questi elementi “mettono in atto” l'intero concetto compreso nel nucleo della frase.

A meno che non si tratti di forma pronominale debole con valore di “dativo”: mi “a me”, ti “a te”, ecc.; o con valore di altro “caso”: ne “di ciò”, “da ciò”, ecc.

Ricordiamoci, ancora una volta, che le strutture sintattiche si vedono bene nelle frasi costruite secondo le regole generali della lingua, anziché in enunciati di discorsi reali. Per questo nel far grammatica si creano frasi magari ridicole, purché “corrette”.

Diversamente dalla funzione di collegamento che le preposizioni hanno tra verbo e argomenti indiretti (dico a te; metto nel cassetto le chiavi) o all'interno di espressioni composite (vie della città; buco nei pantaloni; vento d'autunno).

Da riferire strettamente a questo tipo di aggiunte e non, genericamente, a "ogni altro elemento oltre il soggetto e il predicato", come a volte si legge in manuali che non distinguono i vari piani della struttura della frase.

Fonte: http://www-3.unipv.it/iscr/programmi_dispense_05_06/lettere/pantiglioni/Lettera%20sulla%20grammatica%20Sabatini.doc

Sito web da visitare: http://www-3.unipv.it/

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Grammatica analisi grammaticale e analisi logica

 

 

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