Logica appunti

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2. LOGICA

 

2.1.  CHE COS’E’ LA LOGICA?

Il nome ‘logica’ e l’aggettivo ‘logico’ sono familiari a chiunque. Parliamo spesso di un comportamento ‘logico’, contrapposto a un comportamento ‘illogico’; di un procedimento ‘logico’, contrapposto a uno ‘illogico’; di una spiegazione ‘logica’; di una mentalità ‘logica’ e così via. Tutti questi usi dei termini ‘logico’ e ‘illogico’ si possono considerare derivati da un uso tecnico dei termini stessi, che fa riferimento ad una disciplina scientifica ben precisa: la logica.
La logica è lo studio dei metodi e dei principi usati per distinguere i ragionamenti corretti da quelli scorretti. Ciò non vuoi dire, naturalmente, che solo chi ha studiato logica è in grado di ragionare bene. Data la stessa intelligenza, è tuttavia più probabile che ragioni correttamente chi ha studiato logica piuttosto che chi non ha mai riflettuto sui principi generali di questa disciplina. E ciò per varie ragioni. In primo luogo, lo studio della logica ha sempre compreso, per tradizione, l’analisi delle fallacie o modi scorretti di ragionare. Lo studio della logica, rendendoci familiari queste trappole nascoste, ci aiuterà a non precipitarvi. In secondo luogo chi si dedica allo studio della logica verrà in possesso di tecniche sicure per provare la correttezza di qualunque ragionamento, compreso il suo. Questa conoscenza è indubbiamente utile perché è meno probabile commettere errori quando è facile scoprirli.
La logica è stata spesso definita la scienza delle leggi del pensiero. Ma questa definizione non è esatta. Di fatto, il pensare è uno dei processi studiati dagli psicologi. La logica non può essere la scienza delle leggi del pensiero, perché anche la psicologia è una scienza che si occupa, tra le altre cose, delle leggi del pensiero. E la logica non è un ramo della psicologia: è un campo di studio autonomo. Di conseguenza, se con ‘pensiero’ intendiamo qualunque processo che si svolge nella mente, non tutto il pensiero è oggetto di studio per il logico. Ogni ragionamento è pensiero, ma non ogni pensiero è ragionamento. Vi sono molti processi mentali o molti modi di pensare che sono ben diversi dal ragionamento. Si può lasciar vagare i propri pensieri in un sogno a occhi aperti, o seguendo quella che gli psicologi definiscono ‘libera associazione’ delle idee, in cui a un’immagine ne succede un’altra, in un ordine che è tutt’altro che logico. L’ordine con cui i pensieri si succedono in questa libera associazione ha spesso un profondo significato, e, infatti, alcune tecniche psichiatriche sono basate proprio su questo. Sembra che vi siano leggi anche nei sogni ad occhi aperti. Esse vengono studiate più propriamente dagli psicologi: infatti, le leggi che descrivono il processo cui la mente è soggetta nel sogno a occhi aperti sono leggi psicologiche piuttosto che principi logici. Definire la logica come la scienza delle leggi del pensiero, significa dunque includervi troppe cose.
Un’altra comune definizione di logica è quella per cui essa è la scienza del ragionamento. Con questa definizione si elude la prima obiezione, ma neppure questa va bene. Il ragionamento è un particolare modo di pensare con il quale si inferisce ovvero si conclude partendo da premesse. Ma è pur sempre pensiero, e rientra anch’esso nel campo della psicologia. Quando gli psicologi esaminano il processo di ragionamento, lo trovano estremamente complesso, fortemente condizionato da stati emotivi, illuminato da intuizioni improvvise e apparentemente irrilevanti e fondato su tentativi casuali e correzione successiva degli errori. Tutti questi aspetti sono importanti per lo psicologo. Ma al logico non interessa affatto l’oscuro cammino attraverso cui la mente giunge alle sue conclusioni nell’effettivo processo di ragionamento. Egli si occupa soltanto della correttezza del ragionamento, una volta che sia stato compiuto e si sia tradotto in un argomento. Il suo problema è sempre questo: la conclusione raggiunta segue effettivamente dalle premesse dichiarate o tacitamente presupposte? Se la conclusione segue effettivamente dalle premesse, e cioè se le premesse costituiscono una base capace di sostenere la conclusione, di modo che asserire la verità delle premesse ci autorizzi ad asserire anche la verità della conclusione, allora il ragionamento è corretto. In caso contrario è scorretto. La distinzione tra ragionamento corretto e scorretto è infatti il problema centrale della logica. I metodi e le tecniche della logica sono stati elaborati prima di tutto allo scopo di chiarire questa distinzione. Lo studioso di logica si interessa di tutti i tipi di ragionamento, considerati indipendentemente dal loro contenuto, soltanto da tale particolare punto di vista.

2.2.  ENUNCIATI, PROPOSIZIONI, ARGOMENTI

A chiarimento della definizione di logica che abbiamo proposto, sarà utile presentare alcuni dei termini speciali usati dai logici. L’inferenza o deduzione è un processo attraverso il quale una proposizione viene affermata sulla base di una o più proposizioni accettate come punto di partenza. Il logico non si occupa del processo di inferenza come tale, ma delle proposizioni che ne costituiscono il punto di partenza e quello di arrivo, nonché delle relazioni sussistenti tra di esse.
Le proposizioni possono essere vere o false: questo è ciò che le distingue dalle interrogazioni, dai comandi e dalle esclamazioni. Soltanto delle proposizioni possono essere affermate o negate: le interrogazioni possono essere rivolte, i comandi dati, le esclamazioni espresse con un particolare tono di voce, ma nessuna di esse può essere affermata o negata, giudicata vera o falsa. Per comprendere che cosa si intende per proposizione, è necessario distinguere tra gli enunciati e il loro significato. Due enunciati che siano evidentemente diversi, in quanto contengono parole diverse e disposte in un ordine diverso, possono avere tuttavia lo stesso significato. Per esempio:

     John ama
e
Mary è amata da John.

sono due enunciati diversi, perché il primo contiene tre parole, mentre il secondo ne contiene cinque; il primo comincia con la parola ‘John’, mentre il secondo comincia con la parola ‘Mary’, e così via. Eppure i due enunciati hanno esattamente lo stesso significato. Conviene quindi usare il termine ‘proposizione’ (proposition) per intendere il ‘significato’ (meaning) degli ‘enunciati’ (sentences) piuttosto che la loro forma.
La differenza tra enunciati e proposizioni appare evidente quando si noti che un enunciato appartiene sempre a una lingua e precisamente a quella in cui è formulato, mentre le proposizioni no. I quattro enunciati:

It is raining.
Il pleut.
Es regnet.
Piove.

sono certamente diversi, perché il primo è espresso in inglese, il secondo in francese, il terzo in tedesco, e il quarto in italiano. Eppure, essi hanno lo stesso significato e questo significato comune è la proposizione, di cui ogni enunciato rappresenta una differente formulazione.
Sebbene il processo di inferenza come tale non interessi lo studioso di logica, a ogni inferenza possibile corrisponde sul piano logico un argomento, e proprio gli argomenti costituiscono l’oggetto principale della logica. Un argomento, in questo senso, è un qualsiasi gruppo di proposizioni di cui una sia supposta conseguire dalle altre. Il termine ‘argomento’ è spesso usato per intendere il procedimento stesso, ma in logica ha solo il senso che abbiamo appena precisato. Un argomento non è una mera collezione di proposizioni, ma possiede una sua struttura. Per descrivere questa struttura, usiamo di solito i termini ‘premessa’ e ‘conclusione’. La conclusione di un argomento è quella proposizione che è affermata sulla base delle altre proposizioni dell’argomento stesso, mentre queste altre proposizioni, considerate ragioni per accettare la conclusione, sono le premesse di tale argomento.
Bisogna tener presente che “premessa” e “conclusione” sono termini relativi: una stessa proposizione può essere una premessa in un argomento e una conclusione in un altro. Si consideri, per esempio, il seguente argomento:

Nessun atto compiuto involontariamente deve essere punito.
Alcuni atti criminali sono compiuti involontariamente.
Perciò alcuni atti criminali non devono essere puniti.

Qui la proposizione “alcuni atti criminali non devono essere puniti” è la conclusione e le altre due proposizioni sono le premesse. Ma la prima premessa in questo argomento: “nessun atto compiuto involontariamente deve essere punito”, diventa la conclusione dell’argomento seguente (diverso dal precedente):

Nessun atto compiuto senza responsabilità deve essere punito.
Tutti gli atti involontari sono compiuti senza responsabilità.
Perciò nessun atto compiuto involontariamente deve essere punito.

Nessuna proposizione, presa per se stessa, è una premessa o una conclusione. È una premessa solo quando si presenta come un’assunzione in un argomento ed è una conclusione solo quando si presenta in un argomento in cui si supponga conseguire da proposizioni che fungono da premesse.
Di solito si distinguono gli argomenti in due tipi: deduttivi e induttivi. In realtà, come sappiamo, gli argomenti logici sono solo di un tipo e cioè argomenti deduttivi. Gli argomenti induttivi non sono altro che argomenti deduttivi scorretti. Negli argomenti deduttivi, i termini tecnici ‘valido’ e ‘invalido’ sono usati come sinonimi di ‘corretto‘ e ‘scorretto’. Un argomento deduttivo è valido quando le sue premesse, se vere, garantiscono in modo assoluto la verità della conclusione, e cioè quando le premesse e la conclusione stanno in una relazione tale per cui risulti assolutamente impossibile che le premesse siano vere e la conclusione falsa. Ogni argomento deduttivo può essere valido o invalido, e il compito della logica deduttiva è di chiarire la natura della relazione tra premesse e conclusione nell’argomento valido, così da permetterci di distinguere gli argomenti validi da quelli invalidi. La teoria della deduzione o dimostrazione costituisce una branca particolare della logica.

 

2.3.  VERITA’ E VALIDITA’

Verità e falsità possono essere predicati di proposizioni, mai di argomenti. E gli attributi di validità e invalidità possono appartenere soltanto ad argomenti deduttivi, mai a proposizioni. C’è una connessione tra la validità o non validità di un argomento e la verità o falsità delle sue premesse e conclusione, ma la connessione non è affatto semplice.
E importante capire che un argomento può essere valido anche quando una o più delle sue premesse non è vera. Per essere più precisi gli argomenti possono presentare diverse combinazioni di premesse e conclusioni vere e false. Diamo qui di seguito sette diversi esempi: il loro contenuto è banale e artificioso, ma ci permetterà di cogliere i principi riguardanti le relazioni tra verità e validità. Alcuni argomenti validi contengono soltanto proposizioni vere, come per esempio:

       Tutti i mammiferi hanno i polmoni.
( I )       Tutte le balene sono mammiferi. 
Quindi tutte le balene hanno i polmoni

Ma un argomento può anche consiste interamente di proposizioni false e ciò nonostante essere valido, come per esempio:

      Tutte le creature con dieci zampe hanno le ali.
(II)       Tutti i ragni hanno dieci zampe.
Quindi tutti i ragni hanno le ali.

Questo argomento è valido perché, se le premesse fossero vere, la  conclusione dovrebbe pure essere vera - anche se di fatto sono tutte false.
Inoltre, un argomento può avere tutte le premesse vere e una conclusione vera e, ciò nonostante, può essere invalido, come nel seguente esempio:

      Se possedessi tutto l’oro di Fort Knox sarei ricco.
(III)      Io non possiedo tutto l’oro di Fort Knox.
Quindi io non sono ricco.

Le premesse possono essere vere e la conclusione falsa - come appare evidente quando ci si rende conto che se io ereditassi dieci milioni di dollari, la premessa rimarrebbe vera, ma la conclusione diverrebbe falsa. Naturalmente l’argomento rimarrebbe invalido.
Questa possibilità è ulteriormente illustrata dal seguente argo mento, che ha precisamente la stessa forma dell’esempio III:

      Se Rockefeller possedesse tutto l’oro di Fort Knox, allora Rockefeller sarebbe ricco.  
(IV)      Rockefeller non possiede tutto l’oro di Fort Knox.
Quindi Rockefeller non è ricco.

Le premesse di questo argomento sono vere e la sua conclusione è falsa. Un argomento siffatto non può essere valido perché è impossibile che le premesse di un argomento valido siano vere e che la conclusione sia falsa.
Argomenti con premesse false e conclusioni vere possono essere validi o invalidi. Ecco un esempio di un argomento valido con premesse false e una conclusione vera:

      Tutti i pesci sono mammiferi.
(V)       Tutte le balene sono pesci.
Quindi tutte le balene sono mammiferi.

Quello che segue è un esempio di argomento invalido con premesse false e una conclusione vera:

      Tutti i mammiferi hanno le ali.
(VI)      Tutte le balene hanno le ali.
Quindi tutte le balene sono mammiferi.

Infine, ci sono argomenti invalidi le cui premesse e conclusioni sono tutte false, come per esempio:

      Tutti i mammiferi hanno le ali.
(VII)     Tutte le balene hanno le ali.
Quindi tutti i mammiferi sono balene.

E’ chiaro da questi sette esempi che ci sono argomenti validi con conclusioni false (esempio II), così come argomenti invalidi con conclusioni vere (esempi III e VI).  Dunque,  la verità o falsità della conclusione di un argomento non determina di per sè la validità o invalidità di quell’argomento. E il fatto che un argomento sia valido non garantisce la verità della sua conclusione (esempio II). Distribuendo questi sette esempi di argomenti deduttivi nei due schemi che seguono, possiamo apprezzare meglio la relazione che sussiste tra verità e validità . Il primo schema, relativo agli argomenti invalidi, mostra che ci sono argomenti invalidi con ogni combinazione di premesse e conclusioni vere e false:

 

                                  ARGOMENTI INVALIDI

Conclusione vera                   Conclusione falsa

Premesse vere                       Esempio III                             Esempio VI
Premesse false                      Esempio IV                            Esempio VII

 

Il secondo schema, relativo agli argomenti validi, mostra che gli argomenti validi hanno soltanto tre di quelle combinazioni di premesse e conclusioni vere e false:

 

                                   ARGOMENTI VALIDI

Conclusione vera                   Conclusione falsa

Premesse vere                       Esempio I
Premesse false                      Esempio V                              Esempio II

 

La casella vuota nel secondo schema fa risaltare una circostanza di importanza fondamentale: se un argomento è valido e la sua conclusione è falsa, non tutte le sue premesse possono essere vere. Inoltre, se un argomento è valido e le sue premesse sono vere possiamo essere certi che anche la conclusione deve essere vera. Ci sono argomenti perfettamente validi che hanno conclusioni false, ma ognuno di questi argomenti deve avere almeno una premessa falsa.
Quando un argomento è valido e tutte le sue premesse sono vere, diciamo che l’argomento è «giusto». La conclusione di un argomento giusto deve ovviamente essere vera. Se un argomento deduttivo non è giusto – cioè: o non è valido o non tutte le sue premesse sono vere - non riesce a stabilire la verità della sua conclusione, anche se di fatto la conclusione è vera.
Controllare la verità o la falsità delle premesse è compito della scienza in generale, poiché le premesse possono riguardare qualsiasi materia. Al logico non interessa tanto la verità o falsità delle proposizioni quanto le relazioni logiche tra loro. Con relazioni «logiche» tra proposizioni, intendiamo quelle relazioni che determinano la validità o meno degli argomenti in cui ricorrono. Determinare la validità o meno degli argomenti rientra precisamente nel campo del la logica. Il logico si interessa anche della validità di argomenti le cui premesse possono essere false. Si potrebbe discutere la bontà di questa scelta. Si potrebbe pensare che dovremmo limitarci a considerare argomenti che hanno premesse vere, ignorando tutti gli altri. Ma di fatto la validità di argomenti le cui premesse non sono riconosciute vere ci interessa da vicino.
Uno scienziato che si occupa della verifica delle teorie scientifiche deducendone conseguenze controllabili non sa in anticipo quali teorie siano vere. Se lo sapesse non ci sarebbe bisogno di (ulteriori) verifiche. Nella vita di tutti i giorni dobbiamo spesso scegliere tra sequenze di azioni alternative. Quando queste azioni sono reali alternative che non possono essere tutte adottate, possiamo cercare di arrivare col ragionamento a quella che dovrebbe essere scelta. Tale ragionamento porta generalmente a prefigurare le conseguenze di ciascuna delle diverse azioni tra le quali si deve scegliere. Si potrebbe argomentare: «Supponiamo che io scelga la prima alternativa, allora succederà questo. D’altra parte, assumendo che io scelga la seconda alternativa, allora seguirà quest’altro». In generale, siamo propensi a scegliere tra sequenze di azioni alternative sulla base di quale insieme di conseguenze preferiamo. In ciascun caso ci interessa ragionare correttamente, per timore di ingannarci. Se fossimo interessati soltanto agli argomenti che hanno premesse vere, non sapremmo quale linea di ragionamento seguire finché non conoscessimo quale delle premesse alternative era vera. E se sapessimo quale premessa era vera, non saremmo affatto interessati agli argomenti, poiché il nostro scopo, nel considerare gli argomenti, era di avere un aiuto nel decidere quale delle premesse alternative rendere vera. Limitare la nostra attenzione soltanto agli argomenti con premesse vere sarebbe  controproducente.
Parlando delle proposizioni, abbiamo precisato come queste non siano entità linguistiche come gli enunciati, ma rappresentano ciò che viene asserito  dagli enunciati. Se l’effettivo processo del pensare o ragionare richieda o no il linguaggio è un interrogativo aperto. Può darsi che il pensare richieda l’uso di simboli di una qualche sorta: parole o immagini o altro. E’ ovvio, comunque, che la comunicazione di qualunque proposizione o di qualunque argomento richiede simboli e coinvolge il linguaggio.
L’uso del linguaggio, tuttavia, complica la nostra indagine. Certe caratteristiche accidentali e fuorvianti della formulazione degli argomenti nel linguaggio possono rendere più difficile il compito di indagare le relazioni logiche tra le proposizioni. Fa parte del compito del logico, pertanto, esaminare il linguaggio stesso, soprattutto allo scopo di scoprirne e descriverne quegli aspetti che tendono ad oscurare la differenza tra argomenti corretti e scorretti.

 

2.4.  DUE FUNZIONI FONDAMENTALI DEL LINGUAGGIO

Il linguaggio è uno strumento così sottile e complicato che spesso perdiamo di vista la molteplicità dei suoi usi. Una critica comune tra i puristi - e cioè fra coloro che vorrebbero limitare gli usi legittimi del linguaggio - è che certe espressioni sono « sprecate » nei convenevoli sociali. « Si parla tanto e si dice così poco! ». Abbiamo sentito più d’uno fare questa osservazione: «Il tale mi chiede sempre come sto - che ipocrita! A lui non interessa affatto, in fondo, di sapere come sto! ». Osservazioni di questo genere rivelano l’incapacità di comprendere i complessi scopi per cui il linguaggio è usato. Ciò è dimostrato anche dal deplorevole comportamento del seccatore il quale, quando gli si chiede come sta, comincia a parlare realmente dello stato della sua salute; e di solito molto a lungo e con molti dettagli. Ma la gente, durante i ricevimenti, normalmente non parla per dare informazioni agli altri. E il più delle volte è chiaro che la frase «come sta» è solo un amichevole saluto, non la richiesta di un referto medico.
Già molto tempo fa il filosofo Berkeley osservava:

(...) il comunicare idee (...) non è il principale, né il solo fine del linguaggio, come di solito si suppone. Il linguaggio ha altri finì, come quello di suscitare delle passioni, di spingere a un’azione, o di distogliere da essa, di orientare la mente in un certo senso. L’uso comunicativo del linguaggio in molti casi è subordinato a questi e qualche volta, quando questi finì si possono raggiungere anche senza di esso, è completamente trascurato, ciò che io penso non di rado accada nell’uso familiare del linguaggio.

Più di recente altri filosofi hanno definito molto dettagliatamente i vari usi in cui si può impiegare il linguaggio. Ludwig Wittgenstein nelle sue “Philosophical lnvestigations” ha a ragione insistito sul fatto che vi sono  “innumerevoli usi diversi di quelli che chiamiamo ‘simboli’ e ‘parole’ e ‘frasi’”. Tra gli esempi proposti da Wittgenstein ricordiamo: il dare ordini, il descrivere l’aspetto di un oggetto o darne le misure, il descrivere un avvenimento, lo speculare su un evento, il formulare e provare un’ipotesi, il presentare i risultati di un esperimento in tavole e diagrammi, il costruire un racconto, il recitare, cantare ritornelli, risolvere indovinelli, fare uno scherzo e raccontarlo, risolvere un problema di aritmetica pratica, tradurre da una lingua in un’altra, chiedere, interrogare, ringraziare, ingiuriare, salutare e pregare.
Si può mettere un certo ordine nella estrema varietà degli usi del linguaggio, distinguendo due tipi molto generali. Il primo di questi due usi del linguaggio è quello di comunicare informazioni. Ordinariamente, questa funzione si svolge formulando e affermando (o negando) proposizioni. Quando il linguaggio è usato per affermare o negare proposizioni o per presentare argomenti, si dice che esso assolve la funzione informativa. In questo contesto, usiamo la parola ‘informazione’ in un senso inclusivo anche dell’informazione inesatta: per le proposizioni false e per quelle vere, per gli argomenti corretti e per quelli scorretti, il discorso informativo è usato per descrivere il mondo e per ragionarvi sopra. Che i fatti in questione siano importanti o no, generali o particolari, non fa differenza alcuna; l’essenziale è, in ogni caso, che il linguaggio usato per descriverli abbia una funzione informativa.
Un’altra funzione fondamentale del linguaggio, oltre a quella informativa, è la funzione  direttiva. Il linguaggio adempie alla funzione direttiva quando è usato con lo scopo di causare (o di impedire) una azione. L’esempio più evidente di discorso direttivo sono i comandi e le richieste. Quando una madre dice al suo bambino di lavarsi le mani prima di mangiare, non intende comunicargli una informazione. Il suo linguaggio ha lo scopo di ottenere certi risultati, di causare un’azione del tipo indicato. Quando la stessa persona chiede al droghiere di portarle a casa una certa merce, essa usa di nuovo il linguaggio in modo direttivo, per motivare o provocare l’azione. Fare una domanda significa di solito esigere una risposta, e anche questo deve essere classificato come discorso direttivo. La differenza tra un comando e una richiesta è spesso molto sottile, perché quasi tutti i comandi possono essere trasformati in richieste aggiungendovi la parola ‘per piacere’, o cambiando convenientemente il tono della voce o l’espressione del volto.
Il discorso direttivo, nella sua nuda forma imperativa, non è né vero né falso. Un comando come ‘chiudi la finestra’, non può essere né vero né falso in alcun senso letterale. Il fatto che si obbedisca o si disobbedisca al comando non altera né determina il suo valore di verità, perché non ne ha alcuno. Possiamo essere in disaccordo sul fatto che si sia o meno obbedito a un comando, o che si debba o meno obbedire a un comando; ma non potremmo mai trovarci in disaccordo sulla verità o falsità di un comando, perché esso non può essere né vero né falso. Tuttavia, la ragionevolezza o appropriatezza di un comando, la sua irragionevolezza o inappropriatezza sono caratteristiche analoghe, in un certo senso, alla verità o falsità del discorso informativo. Si è tentato qualche volta di sviluppare una «logica degli imperativi» o «logica  deontica», ma l’argomento non è stato fino a ora trattato in modo sistematico.

 

2.5.  DEFINIZIONI

Per definire un termine o un simbolo nuovo bisogna spiegare il suo significato servendoci di termini già noti, nel senso che il loro significato è stato determinato in precedenza. La tecnica utilizzata consiste nel porre l’equivalenza di due proposizioni. Ad esempio, se vogliamo definire il simbolo £ (minore o uguale di) possiamo scrivere:

x £ y  «  ~ (x > y)

e cioè diciamo che

x £ y se e solo se non è vero che (x > y).

Cosa abbiamo fatto? Abbiamo posto l’equivalenza tra x £ y e ~ (x > y) cioè abbiamo affermato che ogni qual volta la prima di queste proposizioni è vera (o falsa) anche la seconda è vera (o falsa). In altre parole abbiamo trasformato il simbolo ~ > (il cui significato ci è noto) nel simbolo £ dichiarando implicitamente che ogni qual volta ricorre l’espressione “non maggiore di” (~ >) è possibile sostituirla con l’espressione “minore o uguale di” (£). Oltre ad agevolare l’introduzione di distinzioni concettuali nuove, la definizione ci consente di risparmiare parole, ossia di sostituire ad un insieme di parole più grande un  insieme più piccolo.
Le regole di definizione specificano come debbano essere costruite le definizioni per essere corrette. Innanzitutto viene stabilito che il lato sinistro dell’equivalenza si chiama “definiendum” e il lato destro “definiens”. In secondo luogo viene stabilito che il “definiendum” o un termine definito grazie ad esso non deve occorrere nel “definiens” altrimenti si incorre nel c. d. circolo vizioso della definizione analogo al c. d. circolo vizioso della dimostrazione, che si ha quando l’argomento logico con cui vogliamo dimostrare una proposizione utilizza come premessa la proposizione stessa.
In sintesi, possiamo dire che la definizione è la spiegazione del significato di un termine. Dando una definizione percorriamo a ritroso il cammino che abbiamo fatto quando abbiamo sostituito ad un insieme di parole un altro insieme di dimensioni più ridotte. La definizione, pertanto, va letta da destra verso sinistra e non da sinistra verso destra, come si fa usualmente seguendo la tradizione inaugurata da Aristotele, il quale affermava che mediante la definizione di un termine noi: 1) cogliamo l’essenza del fenomeno indicato dal termine; 2) precisiamo il significato del termine.

 

2.6.  Il SIGNIFICATO: INTENSIONE ED ESTENSIONE

Poiché una definizione è una spiegazione del significato di un termine, è necessario conoscere chiara mente i diversi sensi della parola ‘significato’. In particolare occorre fare una distinzione a proposito di quello che è stato chiamato significato descrittivo o letterale, specialmente in relazione a termini generali o termini di classe, applicabili cioè a più di un oggetto. Un termine generale come ‘pianeta’ è applicabile nello stesso senso a Mercurio, a Venere, alla Terra, a Marte, ecc. Si può dire che i vari oggetti ai quali è applicato il termine ‘pianeta’ sono significati da esso o ne costituiscono il significato. Così, asserendo che tutti i pianeti hanno orbite ellittiche, una parte di ciò che si intende asserire è che Marte ha un’orbita ellittica, un’altra  è che Venere ha un’orbita ellittica, e così via. In un primo senso, il significato di un termine consiste negli oggetti ai quali il termine stesso può essere applicato. Questo senso di ‘significato’, cioè il suo senso referenziale, è stato tradizionalmente chiamato significato estensionale o denotativo. Un termine generale o di classe denota gli oggetti ai quali può essere correttamente applicato, e questi oggetti costituiscono l’estensione o denotazione del termine.
Questo, tuttavia, non è il solo senso della parola ‘significato’. Comprendere un termine significa sapere come applicarlo correttamente, ma a questo scopo non è necessario conoscere tutti gli oggetti ai quali può essere correttamente applicato. È sufficiente avere un criterio in base al quale decidere se un dato oggetto rientra nell’estensione di quel termine o no. Tutti gli oggetti compresi nell’estensione di un dato termine hanno alcune proprietà o caratteristiche comuni che ci inducono a usare lo stesso termine per denotarli. Le proprietà possedute da tutti gli oggetti compresi nell’estensione di un termine sono dette l’intensione o connotazione di quel termine. I termini generali o di classe hanno sia un significato intensionale o connotativo, sia un significato estensionale o denotativo. Per es., l’intensione o connotazione del termine ‘grattacielo‘ è l’insieme delle proprietà comuni e caratteristiche di tutte le costruzioni che superano una certa altezza, mentre la sua estensione o denotazione è l’Empire State Building, il Chrysler Building, il Wrigley Tower, e così via. Il termine ‘connotazione’, tuttavia, ha tre diversi sensi: il soggettivo, l’oggettivo e il convenzionale. La connotazione soggettiva di una parola per un certo interprete è l’insieme di tutti gli attributi che egli crede appartengano agli oggetti compresi nell’estensione della parola stessa. E’ chiaro che la connotazione soggettiva di un termine può variare da individuo a individuo.  La connotazione soggettiva non serve per la definizione perché varia non soltanto da individuo a individuo, ma anche da momento a momento per lo stesso individuo. A noi interessano di più i significati generalmente accettati dei termini che non le loro private interpretazioni; perciò non ci soffermeremo oltre sulle connotazioni soggettive.
La connotazione oggettiva o intensione oggettiva di un termine è l’insieme delle caratteristiche comuni a tutti gli oggetti che costituiscono l’estensione di quel termine. Questa non varia affatto da interprete ad interprete, perché se, per es., tutti i pianeti hanno l’attributo di muoversi secondo orbite ellittiche, questo attributo rientrerà nella connotazione oggettiva della parola ‘pianeta’, sia che l’utente del termine lo sappia o no. Tuttavia il concetto di connotazione oggettiva è inopportuno per altre ragioni. Anche in quei rari casi in cui si conosce la completa estensione di un termine, sarebbe necessaria l’onniscienza per conoscere tutte le caratteristiche comuni agli oggetti compresi in quel l’estensione. E poiché nessuno possiede una tale onniscienza, la connotazione oggettiva di un termine non è quel significato pubblico che ci interessa spiegare.
Poiché noi comunichiamo l’un l’altro e comprendiamo i termini di cui facciamo uso, i significati intensionali e connotativi non sono né soggettivi né oggettivi, nel senso ora chiarito. Tutti coloro che attribuiscono lo stesso significato a un dato termine devono usare lo stesso criterio per decidere se un certo oggetto è parte dell’estensione del termine o no. Per esempio, si è convenuto di usare il seguente criterio per decidere se una figura debba essere chiamata un cerchio o no: avere la proprietà di essere una figura piana, chiusa da una linea curva, tutti i punti della quale siano equidistanti da un punto chiamato ‘centro’. Questo accordo stabilisce una convenzione, e perciò questo significato di un termine è conosciuto come la sua connotazione o intensione convenzionale. La connotazione convenzionale di un termine è il suo aspetto più importante ai fini della definizione e della comunicazione, poiché può essere resa pubblica e diventare nota anche a persone che non sono onniscienti. Per brevità, useremo le parole ‘connotazione’ e ‘intensione’ per intendere connotazione o intensione convenzionale.
L’estensione o denotazione di un termine è l’insieme di tutti gli oggetti ai quali il termine si applica. L’estensione non presenta diversi sensi che possano creare difficoltà paragonabili a quelle riscontrate nel caso dell’intensione. Ciònonostante, il concetto di estensione non è privo di interesse. Si è affermato che, per ogni cosa, l’estensione di un termine muta di momento in momento, ciò che non succede per l’intensione. Si è detto che l’estensione del termine ‘uomo’ muta quasi continuamente, in quanto continuamente uomini muoiono e bambini nascono. Ma l’estensione che varia in questo caso non è quella del termine ‘uomo’, riferito a tutti gli uomini, quelli morti e quelli ancora non nati, bensì l’estensione del termine ‘uomo vivente’. E il termine ‘uomo vivente’ ha il senso di ‘uomo vivente ora’, dove la parola ‘ora’ si riferisce al  presente. Pertanto l’intensione del termine ‘individuo vivente’ è diversa nei diversi momenti. Qualsiasi termine la cui estensione sia mutevole ha anche un’intensione mutevole. Quindi, nonostante l’apparente differenza, l’estensione è tanto costante quanto l’intensione: quando non varia l’intensione di un termine, non varia neppure la sua estensione.
A questo punto è opportuno ricordare che l’estensione è determinata dall’intensione, ma non viceversa. Così il termine ‘triangolo equilatero’ ha come sua intensione o connotazione la proprietà di essere una figura piana chiusa da tre rette di uguale lunghezza. La sua estensione è la classe di tutti gli oggetti, e soltanto quelli, che hanno tale proprietà. Il termine ‘triangolo equiangolo’ ha un’intensione differente: connota, infatti, la proprietà di essere una figura piana, chiusa da tre rette che si intersecano formando angoli uguali. Ma il  termine ‘triangolo equiangolo’ ha esattamente la stessa estensione del termine ‘triangolo equilatero’. I termini possono pertanto avere differenti intensioni e la stessa estensione, mentre i termini con differenti estensioni non possono avere uguale intensione
Si consideri la seguente successione di termini, l’intensione di ognuno dei quali è inclusa nell’intensione del termine successivo: ‘uomo’, ‘uomo vivente’, ‘uomo vivente di oltre vent’anni’, ‘uomo vivente di oltre vent’anni con i capelli rossi’. L’intensione di ognuno di questi termini (a partire dall’ultimo) è maggiore dell’intensione del termine precedente; i termini sono disposti, potremmo dire, in ordine di intensione crescente. Ma se consideriamo l’estensione di questi termini, troviamo l’inverso. L’estensione del termine ‘uomo’ è maggiore di quella del termine ‘uomo vivente’, e così via. In altre parole, i termini sono disposti in ordine di estensione decrescente. La considerazione di sequenze dì questo tipo ha indotto alcuni logici a formulare una « legge di variazione inversa», secondo la quale, se una serie di termini è disposta in ordine di intensione crescente, la loro estensione sarà in ordine decrescente; o, in altre parole, estensione e intensione sono inversamente proporzionali. Questa legge, tuttavia, non si può accettare senza qualche modifica. Ne è prova la seguente serie di termini: ‘uomo vivente’, ‘uomo vivente con la spina dorsale’, ‘uomo vivente con la spina dorsale e che ha meno di mille anni’, ‘uomo vivente con la spina dorsale, che ha meno di mille anni, e che non ha letto tutti i libri contenuti nella biblioteca del Parlamento’. Qui è chiaro che i termini sono in ordine di intensione crescente, mentre la loro estensione non decresce affatto. La legge è stata riveduta per accordarsi a questi, e simili, casi; nella versione riveduta essa afferma che, se i termini sono disposti in ordine di intensione crescente, la loro estensione sarà in ordine non crescente; e cioè che, solo se l’estensione dei termini varia, allora varierà inversamente all’intensione.
Passiamo infine a quei termini che, sebbene perfettamente significanti, non denotano nulla. Questi termini si usano tutte le volte che si nega l’esistenza di cose di un certo tipo. Quando si dice che non esistono ‘unicorni’, si asserisce che il termine ‘unicorno’ non denota cioè che non ha alcuna estensione o denotazione. Talvolta è utile dire che tali termini hanno un’estensione “vuota” o  “nulla”. Tali termini mostrano che il ‘significato’ appartiene più all’intensione che all’estensione. Perché, sebbene il termine ‘unicorno’ abbia un’estensione nulla, ciò non significa che sia privo di significato. Non ha estensione perché non vi sono unicorni, ma se il termine ‘unicorno‘ fosse privo di significato lo sarebbe anche l’asserzione ‘non vi sono unicorni’. Ma, ben lungi dall’essere priva di significato, questa asserzione è di fatto vera.
La nostra distinzione tra intensione e estensione e il riconoscimento che l’estensione può essere vuota o nulla, può servire a risolvere l’ambiguità che il termine ‘significato’ presenta in alcuni casi. In questo modo si può, per es., confutare la seguente fallacia di equivocazione:

La parola ‘Dio‘ non è priva di significato. Ma la parola ‘Dio‘ significa, per definizione, un essere supremamente buono e onnipotente. Perciò, quell’essere supremamente buono e onnipotente, Dio, deve esistere.

L’equivocazione, in questo caso, è sulle parole ‘significato’ e ‘privo di significato’. La parola ‘Dio’ non è priva di significato, e quindi esiste un’intensione o connotazione che è il suo significato, in un certo senso. Ma dal semplice fatto che un termine abbia connotazione  non segue che esso abbia anche denotazione, cioè un significato nel senso (diverso dal precedente) di un oggetto ai quale il termine si applichi. La distinzione tra intensione e estensione è vecchia, ma conserva sempre valore e importanza.

 

2.7.  LE TRE LEGGI DEL PENSIERO

Quelli che hanno definito la logica come la scienza delle leggi del pensiero si sono spinti spesso ad asserire che ci sono esattamente tre leggi fondamentali e basilari del pensiero, condizioni necessarie e sufficienti che il pensiero deve seguire, se vuole essere «corretto». Queste leggi sono state tradizionalmente chiamate «principio d'iden­tità», «principio di non contraddizione» (a volte «principio di con­traddizione») e «principio del terzo escluso». Se ne possono dare formulazioni alternative a seconda dei diversi contesti. Le formula­zioni appropriate nel nostro caso sono le seguenti:

II principio di identità asserisce che se un asserto è vero, allora è vero.
Il principio di contraddizione asserisce che nessun asserto può essere sia vero che falso.
Il principio del terzo escluso asserisce che qualunque asserto è o vero o falso.

Possiamo riformulare questi principi come segue. Il principio di identità asserisce che ogni asserto della forma p → p  è vero, cioè che ogni asserto di questa forma è una tautologia.
Il principio di non contraddizione asserisce che ogni asserto della forma p λ ~ p è falso, cioè, che ogni asserto di questa forma è auto-contraddittorio. Il principio del terzo escluso asserisce che ogni asserto della forma p v ~ p è vero, cioè che ogni asserto di questa forma è una tautologia.
Di tanto in tanto sono state sollevate obiezioni contro questi principi, ma nella maggior parte dei casi, le obiezioni sembrano fon­date su fraintendimenti. Il principio di identità è stato criticato sulla base del fatto che le cose cambiano, perciò asserti che erano veri, ad esempio, degli Stati Uniti quando comprendevano i tredici stati ori-ginari non sono più veri degli Stati Uniti di oggi con i loro cinquanta stati. Si deve osservare, tuttavia, che «asserti» con valori di verità che cambiano nel tempo sono formula­zioni ellitticheo incomplete di proposizioni che non cambiano e sono le proposizioni che non cambiano quelle di cui si occupa la logica. Cosi l'enunciato «Ci sono soltanto tredici stati negli Stati Uniti» può essere considerato come una formulazione ellittica o par­ziale di «C'erano soltanto tredici stati negli Stati Uniti nel 1790», che è vero nel ventesimo secolo proprio come lo era nel 1790. Se limitia­mo la nostra attenzione alle formulazioni complete o non ellittiche, il principio di identità è perfettamente vero e non criticabile.
Il principio di non contraddizione è stato criticato sulla base del fatto che esistono
“contraddizioni”, cioè situazioni reali in cui operano forze contrarie o in conflitto. Che
ci siano situazioni in cui operano forze contrarie deve essere ammesso; questo è vero sia nel regno della meccanica, sia nella sfera sociale ed economica. Ma chia­mare queste forze in conflitto «contraddittorie», vuoi dire usare una terminologia inadeguata e poco rigorosa. Il calore che tende a far espandere il gas in un contenitore e il contenitore che tende ad impedire al gas di espandersi, possono essere descritti come in con­flitto l'uno con l'altro, ma nessuno dei due è la negazione o la con­traddizione dell'altro. Il proprietario di una grande fabbrica, che per il suo funzionamento richiede il lavoro di migliaia di operai, può essere in contrasto con il sindacato dei lavoratori, ma né il proprietario né il sindacato possono essere definiti l’uno la negazione o la contraddizione dell'altro.
Il principio del terzo escluso ha subito un maggior numero di attacchi rispetto agli altri due. Si è detto che la sua accettazione conduce a un «orientamento bivalente», che implica, tra l'altro, che ogni cosa siao bianca o nera, con l'esclusione di qualsiasi grado inter­medio. Ma sebbene l'asserto «Questa cosa è nera» non possa essere vero insieme all'asserto «Questa cosa è bianca» (dove la parola «cosa» si riferisce esattamente allo stesso oggetto in entrambi gli asserti), l'uno non è la negazione o la contraddizione dell'altro. Ammettiamo pure che essi non possano essere entrambi veri, ma possono essere entrambi falsi. Essi sono contrari, ma non contraddittori. La negazione o con­traddizione di «Questa cosa è bianca» è «~ questa cosa è bianca», e uno di questi asserti deve essere vero - se la parola «bianca» viene usata precisamente nello stesso senso in entrambi gli asserti. Se ristretto agli asserti che contengono termini non ambigui, anche il principio del terzo escluso è perfetta­mente vero.
Dunque questi tre principi - il principio di identità, il principio di non con­traddizione, il principio del terzo escluso - sono indubbiamente veri. Alcuni logici tradizionali hanno assegnato loro uno status privilegia­to, ma ciò sembra opinabile. Il primo (identità) e il terzo (terzo escluso)  non sono affatto le sole forme di tautologia e la contraddizione esplicita p λ ~ p esclusa dal secondo principio non è in ogni caso la sola forma d'asserto contraddittoria. Eppure si può ritenere che le tre leggi del pensiero abbiano un certo status fondamentale in relazione alle tavo­le di verità. Mentre compiliamo le colonne successive facendo riferi­mento alle colonne iniziali, siamo guidati dal principio di identità: se troviamo una V sotto a un simbolo in una certa riga, allora, quando compiliamo le altre colonne corrispondenti alle espressioni che con­tengono quel simbolo, arrivati all'altezza di quella riga, consideria­mo che a quel simbolo sia ancora assegnata una V. Quando compi­liamo le colonne iniziali, in ciascuna riga mettiamo una V o una F, seguendo il principio del terzo escluso; e in nessun punto mettiamo insieme una V e una F, in linea con il principio di contraddizione. Le tre leggi del pensiero possono essere considerate i principi che go­vernano la costruzione delle tavole di verità.

 

2.8.   INCOERENZA

Se non c'è nessuna assegnazione di valori di verità agli asserti semplici che compongono un argomento che renda le sue premesse vere e la sua conclusione falsa, allora quell'argomento deve essere valido. Sebbene ciò segua dalla definizione di «validità», pure ha una curiosa conseguenza. Si consideri il seguente argomento, le cui pre­messe sembrano del tutto irrilevanti per la conclusione:

Se l'aereoplano avesse avuto problemi al motore, sarebbe atterrato a Bridgeport.
Se l'aereoplano non avesse avuto problemi al motore, sarebbe atterrato a Cleveland.
L'aereoplano non è atterrato né a Bridgeport né a Cleveland.
Quindi l'aereoplano deve essere atterrato a Denver.

e la sua traduzione simbolica:

A B
~ A C
~ ( B v C )
D.

Qualsiasi tentativo di assegnare valori di verità ai suoi compo­nenti, in modo da rendere falsa la conclusione e vere tutte le premesse, è destinato a fallire. Se ignoriamo la conclusione e concen­triamo la nostra attenzione sull'altra parte dell'obiettivo, quella di rendere vere tutte le premesse mediante un'assegnazione di valori di verità ai loro componenti, siamo destinati a fallire anche in questo progetto apparentemente meno am­bizioso.
La ragione per cui non è possibile rendere vere le premesse e falsa la conclusione è che nessuna assegnazione di valori di verità potrebbe in qualsiasi caso rendere vere le premesse poiché esse sono reciprocamente incompatibili. La loro congiunzione è auto-contraddittoria, in quanto è un esempio di  forma propo­sizionale auto-contraddittoria. Se dovessimo costruire una tavola di verità per l'argomento dato, dovremmo trovare che in ogni riga al­meno una delle premesse è falsa. Dato che non c'è nessuna riga in cui le premesse sono tutte vere, non c'è nessuna riga in cui le premesse sono tutte false e la conclusione è falsa. Pertanto la tavola di verità per questo argomento proverebbe la sua validità. La sua validità può essere provata anche mediante una dimostrazione formale.
Vediamo così che se un insieme di premesse è incoerente, quelle premesse determineranno validamente qualsiasi conclusione, per quanto irrilevante.      L'essenza della questione si mostra più semplicemente nel caso del seguente argomento, le cui premesse evidente­mente contraddittorie ci consentono di inferire validamente una con­clusione irrilevante e fantastica:

Oggi è domenica. Oggi non è domenica.
Quindi la luna è fatta di gorgonzola.

In simboli abbiamo

 1. D
2. ~ D /  L

Come è possibile che delle premesse così insignificanti e addirittura incoerenti rendano valido un qualsiasi argomento in cui rioccorrano? È opportuno     osservare prima di tutto che, se un argomento è valido a causa di un'incocrenza nelle sue premesse, non è possibile che sia un argomento giusto. Se le premes­se sono contraddittorie l'una con l'altra, non possono essere tutte vere. Nessuna conclusione può essere provata vera da un argomento con premesse incoerenti, perché le sue premesse non possono essere tutte vere.
Questa situazione è strettamente legata al cosiddetto paradosso dell'implicazione materiale, la cui forma proposi­zionale ~ p → (p → q) è una tautologia, avendo tutte le sue esemplifi­cazioni vere. La sua formulazione in italiano asserisce che «Se una proposizione è falsa allora implica materialmente qualsiasi proposi­zione», il che può essere facilmente provato mediante le tavole di verità. Quanto è stato stabilito fin qui è che la forma d'argomento

p
~ p
 q.

è valida. Abbiamo dimostrato che qualunque argomento con premes­se contraddittorie è valido, qualunque possa essere la sua conclusione. La sua validità può essere stabilita da una tavola di verità o da una dimostrazione formale  come quella data sopra.
Le premesse di un argomento valido implicano la sua conclusio­ne non meramente nel senso dell'implicazione «materiale», ma logi­camente o «strettamente». In un argomento valido, è logicamente impossibile che le premesse siano vere quando la conclusione è falsa.
E questa situazione si presenta ogniqualvolta sia logicamente impos­sibile che le premesse siano vere, pur ignorando il problema della verità o falsità della conclusione.
La discussione precedente aiuta a spiegare perché la coerenza sia altamente apprezzata. Una  delle ragioni è che asserti contraddittori non possono essere entrambi veri. Questo fatto è alla base della strategia del contro-interrogatorio, nel quale un avvocato può cercare di far cadere in contraddizione un testimone contrario. Se la testimonianza contiene asserti incompatibili o contraddittori, non può essere del tutto vera e la credibilità del testimone è distrutta - o quanto meno scalfita. Ma un' altra ragione per cui l'incoerenza suscita tanta avversione è che da asserti incoerenti presi come premesse se­gue logicamente qualunque conclusione. Gli asserti incoerenti non sono «insignificanti», il loro problema è esattamente l'opposto. Essi significano troppo: significano ogni cosa, nel senso che implicano ogni cosa. E se si asserisce ogni cosa, la metà di quanto viene asserito è sicuramente falso, dato che ogni asserto ha una negazione.
La discussione precedente ci offre anche incidentalmente una risposta al vecchio enigma: che cosa succede quando una forza irre­sistibile incontra un oggetto inamovibile? La descrizione implica una contraddizione. Perché una forza irresistibile incontri un oggetto inamovibile, entrambi devono esistere. Deve esserci una forza irresi­stibile e deve esserci anche un oggetto inamovibile. Ma se c'è una forza irresistibile non può esserci un oggetto inamovibile. La con­traddizione diventa allora esplicita: c'è un oggetto inamovibile e non c'è un oggetto inamovibile. Date queste premesse contraddittorie, si può validamente inferire qualsiasi conclusione. Così la risposta cor­retta alla domanda «Che cosa succede quando una forza irresistibile incontra un oggetto inamovibile?» è «Tutto!».

 

 2.9.    ASSERZIONI ANALITICHE E SINTETICHE

Abbiamo già introdotto la distinzione tra asserzioni o proposizioni analitiche e sintetiche nella sezione 1.1 e l’abbiamo ripresa nella sezione 1.10. Qui vogliamo fornire alcuni chiarimenti ulteriori.
La ragione per cui la verità di un'asserzione analitica può essere determinata senza ricorrere a qualcosa d'altro oltre ai signifi­cati dei termini consiste nel fatto che le asserzioni analitiche non contengono informazioni su questioni fattuali. Qualunque informazione trasmessa da un'asserzione analitica è un'informazione sul linguaggio, e non sui fatti cui il linguaggio si riferisce. Ciò non significa che le asserzioni analitiche si rife­riscano esplicitamente al linguaggio; piuttosto, esse esprimono relazioni  tra definizioni.  Le definizioni sono,  come abbiamo detto, convenzioni, le quali non sono né vere, né false. Le convenzioni hanno — comunque — conseguenze, e le asserzioni analitiche sono le conseguenze delle definizioni.
Possiamo spiegare nel modo che segue perché le asserzioni analitiche non hanno un contenuto fattuale. Supponiamo di avere una stanza, sul contenuto della quale non abbiamo nes­suna informazione. Possiamo, allora, immaginare ogni sorta di possibilità su quel che vi sia nella stanza, sebbene non abbiamo nessun modo per sapere quali di esse siano effettivamente vere. Supponiamo di apprendere che l'asserzione sintetica « vi è un libro nella stanza » sia vera. Possiamo, allora, escludere, come non reali, tutte le possibilità immaginabili sul contenuto della stanza, che non includano almeno un libro tra le cose conte­nute. Veniamo così a sapere che la stanza non è del tutto vuota, ma nemmeno colma di fiocchi di granoturco, e veniamo a sapere che essa non ha solo letti, sedie, tavole, lampade, tap­peti, ecc. Abbiamo alcune informazioni sul contenuto della stanza,le quali, però, sono limitate. Supponiamo di appren­dere, poi, che l'asserzione « nella stanzavi è esattamente un libro, di color verde, rilegato, con 348 pagine, di argomento poliziesco, e si trova sulla scrivania » è vera. Adesso, abbiamo più informazioni sul contenuto della stanza,in quanto la verità dell'ultima asserzione è incompatibile con un numero molto maggiore di possibilità immaginabili che non la verità della prima asserzione. Per esempio, adesso sappiamo che la stanzacontiene un solo libro, ma non è priva di scrivania, sulla quale non vi è alcun testo filosofia. Tutte le possibilità che abbiamo ora escluse erano compatibili con la verità della prima asser­zione. In generale, la quantità d'informazione fattuale di una asserzione è una funzione del numero di possibilità che la sua verità esclude. Più informazione è contenuta in un'asserzione, meno possibilità sono lasciate da essa aperte.
Consideriamo le asserzioni analitiche da questo punto di vista. Quante possibilità esclude la verità di un'asserzione analitica? La risposta è: « nessuna ». Poiché un'asserzione analitica è necessariamente vera, essa sarà vera quali che siano le circo­stanze di fatto sussistenti. La sua verità non esclude  alcuna possibi­lità e il sapere che essa è vera non con­sente di trarre alcuna specifica conclusione su quali possibilità siano  realizzate.   Supponiamo,  riferendoci  ancora  all'esempio precedente, di aver appreso che l'asserzione « tutti i libri verdi nella stanza sono verdi » è vera. Tale asserzione è analitica ed è completamente priva di informazione.
Essa non ci dice se vi è un libro nella stanza, e non ci dice nulla sul colore di ogni altro libro che potrebbe essere nella stanza. Essa è vera indipendentemente dal contenuto reale della stanza. È un'asserzione che non può essere falsa, e per questa ragione non   trasmette nessuna informazione.
Una caratteristica importante delle asserzioni analitiche è quella secondo cui le prove empiriche non sono rilevanti per la loro verità. Di conseguenza, sarebbe inutile tentare di con­futarle facendo riferimento ai dati osservativi. Un simile ten­tativo sarebbe irrilevante. Le asserzioni analitiche, allora, sono necessariamente vere, e non hanno nessun contenuto fattuale. È facile vedere che conclusioni sintetiche non possono essere validamente dedotte da sole premesse analitiche.  Come abbiamo rilevato, in un argomento deduttivo valido, non vi può essere nessuna infor­mazione nella conclusione che non sia già nelle premesse. Se tutte le premesse sono analitiche, allora esse non hanno nes­sun contenuto fattuale. Perciò, la conclusione non può avere un contenuto fattuale. Tuttavia, si danno spesso argomenti con premesse analitiche e conclusione sintetica. Tali argomenti non sono validi. Vediamone alcuni esempi.

a) Si difende a volte il fatalismo sulla base della premessa «sarà quel che sarà». Certamente, la premessa, presa letteralmente, è analitica; essa dice solo che il futuro è il futuro. Si potrebbe difficilmente negare tale premessa asserendo che qualche cosa che sarà, non sarà. La conclusione spesso derivata da siffatta premessa è che il futuro è completamente predeterminato e che le azioni e le scelte umane non possono avere nessun effetto sul futuro. Tale argomento non è valido, in quanto procede da una premessa analitica a una conclusione sintetica.

b) Molti uomini d'affari senza scrupoli hanno tentato di giustificare se stessi col  detto che «gli affari sono affari». Superficialmente, tale asserzione sembra analitica; tuttavia, se fosse analitica, non potrebbe implicare la conclusione tutt'altro che analitica, che la disonestà e l'irresponsabilità sono le legittime regole degli affari. Una premessa che debba garantire questa conclusione non potrebbe avere – più o meno - se non il significato che segue: «gli affari non sono, e non possono essere, condotti eticamente ». Enunciando la premessa in una forma analitica, si dà ad essa un'apparenza d'indubitabilità; mentre, specificando la premessa in una forma sintetica, la si rende retoricamente meno efficace, poiché non appare più indubitabile.

c) Vi è chi ha concluso con mestizia che la modestia, l'altruismo e la considerazione degli altri, sono completamente  assenti nell'uomo. La premessa da cui questa conclusione è derivata è:            «la gente non. agisce mai in modo disinteressato». Tale premessa non è, ovviamente, analitica; tuttavia, quando essa è messa in dubbio, troviamo che nessuna prova fattuale concepibile potrebbe rifiutarla. Allorché facciamo notare che i santi e gli eroi hanno sacrificato tutto per gli altri, sentiamo replicare che essi lo fecero perché lo volevano, agendo effettivamente in modo egoistico. Pare che nessun atto sia disinteressato, a meno che non risulti motivato da ragioni che l'agente non aveva. Ma, essere motivati da ragioni che non si hanno è logicamente impossibile. Quindi, la premessa risulta - dopo tutto - analitica, e l'argomento non è, perciò, valido.

 

2.10.   ASSERZIONI CONTRARIE E CONTRADDITTORIE

Due asserzioni possono essere in relazione fra loro in modo tale che, se una di esse è vera, allora l'altra deve essere falsa; e se una di esse è falsa, allora l'altra deve essere vera. Pos­siamo non sapere quale sia la vera e quale sia la falsa, ma pos­siamo essere certi che una è vera e l'altra è falsa. Tali asser­zioni sono dette «contraddittorie», mentre la relazione che sussiste fra esse è detta « contraddizione». Le seguenti coppie di asserzioni sono contradittorie; si può notare che, in ciascuna coppia, è impossibile per entrambe le asserzioni risultare vere, com'è impossibile per entrambe essere false.
a)  Tutti i cavalli sono mammiferi. Qualche cavallo non è mammifero.
b)  Nessun logico è filosofo. Qualche logico è filosofo.
      c)  Qui piove. Qui non piove.
In generale, per ogni asserzione p, p e non-p sono contrad­dittorie. Inoltre, ogni asserzione della forma «p o non-p» è analitica e, di conseguenza, necessariamente vera; questa è detta la «legge del terzo escluso» o «tertium non datur». Così pure ogni asserzione della forma «Non entrambe p e non-p» è analitica ed è detta  «legge di non contraddizione». Tali leggi della logica esprimono il fatto che ogni asserzione è vera o falsa, e che nessuna asserzione è sia vera, sia falsa.
Due asserzioni possono essere in relazione reciproca in modo tale che sia impossibile per entrambe risultare vere, sebbene sia possibile per entrambe essere false. In tali casi, le asser­zioni sono dette «contrarie», mentre la relazione che sussiste tra di esse è detta «contrarietà». Ad esempio, le seguenti asserzioni sono contrarie:
d)      Qui è freddo. Qui è caldo.
Per ogni luogo e tempo, è impossibile che sia freddo e caldo, ma è possibile che la temperatura sia moderata. Cosi entrambe le asserzioni possono risultare false, mentre non possono essere entrambe vere.
L'incapacità di comprendere la differenza che sussiste tra asserzioni o enunciati contrari e contraddittori ha determinato molta confusione. Alcuni esempi possono illustrare quanto detto. 
a) Il dilemma del libero arbitrio afferma che la libertà del volere non esiste, in quanto essa è incompatibile sia col determinismo, sia con l'indeterminismo. Taluni hanno rifiutato tale dilemma, sostenendo che può esservi una terza alternativa, oltre il determinismo e l'indeterminismo. Per valutare tale obiezione, dobbiamo chiarire i significati dei termini «determinismo» e «indeterminismo». II determinismo è la dottrina secondo cui ogni cosa è determinata causalmente. L'indeterminismo, invece, è la dottrina secondo cui qualche cosa non è determinata causalmente. È facile notare che il determinismo e l'indeterminismo sono dottrine contraddittorie: una sola di esse deve risultare vera. Quindi, la premessa  «sussiste il determinismo o l'indeterminismo» è analitica e costituisce un caso della legge del terzo escluso.

b) Vi è la tendenza. da parte di molte  persone, di «pensare per estremi» ad esempio, di considerare ogni cosa interamente buona o interamente cattiva. Conosciamo tutti bene quelli che credono sia che la propria nazione non possa agire male, sia che, viceversa, le altre nazioni possono agire giustamente solo quando collaborano con noi, per il raggiungimento dei nostri scopi. Allo stesso modo, conosciamo tutti bene quelli che credono sia che il proprio partito politico stia dalla parte della ragione in ogni disputa, sia che viceversa  il partito d'opposizione stia sempre dalla parte del torto. II pensare per estremi confonde gli enunciati contrari con quelli contraddittori; cioè, tratta erroneamente le asserzioni contrarie come se fossero contraddittorie. «X é del tutto buono» è contraria rispetto a «X é del tutto cattivo»: il pensare per estremi procede come se esse non potessero risultare entrambe false.
c)  Alcuni hanno insinuato che la logica è pericolosa, in quanto conduce a pensare per estremi. Ciò deriva dal principio che ogni asserzione è vera o falsa. Sarebbe meglio - essi sostengono -considerare le asserzioni vere in qualche misura e false parimenti, per evitare queste forme di pensiero per estremi. Stranamente, tale critica nei confronti della logica incorre nello stesso errore in cui incorre il pensiero per estremi: confondere gli enunciati contrari con quelli contraddittori; «p è vera» e «p è falsa» non sono contrarie, e pertanto non possono essere considerate tali. Nella logica non vi è nulla che induca a confondere contrarietà e contraddizione; piuttosto, lo studio della logica dovrebbe porre fine a tale confusione.

2.11.   Proposizioni composte

 

2.11.1.  Scopo della teoria

Si è detto in precedenza che la soluzione di un sistema di equazioni equivale al modello del sistema assiomatico formale nel quale abbiamo tradotto la nostra teoria, a partire dal linguaggio naturale in cui era stata originariamente formulata. La soluzione del sistema di equazioni garantisce che la nostra teoria è coerente ossia che le ipotesi da cui è formata non sono tra loro incompatibili. Per comprendere il significato di questi termini, che fanno riferimento alla relazione logica di compatibilità o non contrarietà tra proposizioni, è necessario  premettere alcune semplici nozioni di logica preposizionale.  
Per proposizione, come è noto, si intende il significato di un enunciato e cioè di un'espressione, orale oppure scritta, che tra­duce in forma compiuta un nostro pensiero. Per esempio, sono proposizioni:  "nevica" e "ho com­messo l'errore di decidere così". Queste due proposizioni sono proposizioni semplici; ma una qualunque riunione di due o più proposizioni semplici costituisce una proposizione composta. Per esempio "nevica e desidererei uscire all'aperto, ma temo di buscarmi un malanno" è una proposizione composta.
Potrebbe sembrare logico procedere prima allo studio delle pro­posizioni semplici e successivamente a quello delle proposizioni com­poste. Tuttavia, si è rivelato più utile il processo inverso; infatti la straordinaria varietà di proposizioni semplici rende particolarmente complessa la loro analisi. D'altra parte, nella matematica, non è raro che si riveli l'utilità di supporre, almeno inizialmente, già risolto un certo problema denso di difficoltà, per procedere in modo più spedito alla risoluzione di un altro problema connesso col primo oppure derivante da esso. Così noi ora suppor­remo di avere già esaurito lo studio delle proposizioni semplici e ci applicheremo soltanto a quello delle proposizioni composte. Questo ultimo è un problema più semplice rispetto al precedente.
La proprietà fondamentale di cui gode ogni proposizione, e che è chiamata il valore di verità della stessa, è quella per cui essa può essere vera oppure falsa (e non può, nello stesso tempo, essere vera e falsa); naturalmente è utile stabilire subito quale di queste due eventualità sia verificata. Per una proposizione composta, però, è sufficiente conoscere quali delle proposizioni semplici che ne fanno parte siano vere, poiché proprio i valori di verità delle sue com­ponenti permettono di risalire alla determinazione del valore di verità della proposizione composta.
Quindi il problema che ci proponiamo è duplice: 1) in quanti modi distinti le proposizioni possono essere composte?; 2) come sta­bilire se una proposizione composta è vera oppure falsa, nell'ipotesi che siano noti i valori di verità delle sue componenti?
Nel seguito faremo uso di variabili, che indicheremo con le lettere p, q, r, s,…; tali simboli rappresenteranno generiche proposizioni, non necessariamente semplici. A noi basta sapere che ciascun simbolo variabile, dal momento che tiene il posto di una certa proposizione, ammette un valore di verità che, in generale, non è noto.
Faremo uso anche di simboli costanti per legare fra loro le varie parti delle proposizioni composte e, mentre introdurremo un solo simbolo per la negazione di una proposizione, ne avremo bisogno di diversi per la composizione delle proposizioni, quando queste risul­tino costituite da due sole componenti. Ma la composizione di tre o più proposizioni non richiederà l'introdu­zione di ulteriori simboli, poiché qualsivoglia composizione di questo tipo può sempre ridursi a quella di due proposizioni soltanto. Così, nella pratica, basta un numero limitato di simboli fondamentali, tutti gli altri essendo definibili in funzione di questi.
I simboli ausiliari che interverranno in questa esposizione sono, nella maggior parte dei casi, gli stessi usati comunemente nell'algebra elementare. Ogni qualvolta essi dovessero assumere un particolare valore, ciò verrà segnalato in modo esplicito.
Quali esempi di proposizioni semplici assumiamo le due seguenti: " il tempo è bello " e " fa molto caldo ". Indichiamo la prima scrittura con il simbolo p e la seconda con q.
L'affermazione simultanea delle due proposizioni precedenti con­duce alla proposizione composta " il tempo è bello e fa molto caldo," che simbolicamente scriveremo così: p Λ q. Il segno Λ, che legge­remo "e", costituisce un primo connettivo preposizionale.
Invece di un'affermazione come quella ora con­siderata, può essere che sì debba considerare una affermazione diversa, quale potrebbe essere quella che risulta dal conside­rare vera o l'una o l'altra delle proposizioni componenti; tale è la proposizione composta: " il tempo è bello o fa molto caldo". In questo caso scriveremo simbolicamente p V q ed il segno V, che leggeremo " o ", è un altro connettivo proposizionale.
Supponiamo poi di pensare che una delle proposizioni conside­rate sia falsa, cioè che sia vera la sua negazione: per esempio, si voglia asserire che "non fa molto caldo". Allora, simbolicamente, si scrive ~q, cioè si introduce il segno ~, da leggersi "non".
Avendo a disposizione questi tre segni connettivi, sì possono scrivere in simboli proposizioni composte anche abbastanza com­plesse, come "il tempo è bello e non fa molto caldo", che, in simboli, diventa: p Λ ~q.

 

2.11.2.  connettivi proposizionali “E”, “O”, “NON”

Abbiamo già detto che il valore di verità di una proposizione composta risulta determinato dai valori di verità delle proposizioni componenti. Per analizzare a fondo il significato di un segno con­nettivo proposizionale, bisogna stabilire per prima cosa in quale modo il valore di verità di una data proposizione, composta tramite il connettivo in questione, dipenda dai valori di verità delle sue com­ponenti. Un mezzo molto efficace per schematizzare questa dipendenza è quello di ricorrere ad un diagramma opportuno, detto tavola di verità.
Consideriamo la proposizione composta p Λ q; la proposizione p può essere vera oppure falsa e così la q. Esistono pertanto quattro modi possibili di accoppiare i valori di verità di p e di q e ci interessa conoscere, per ciascuno di tali accoppiamenti, il valore di verità di p Λ q. È immediato osser­vare che, se p e q sono entrambe vere, la p Λ q è vera, mentre essa è falsa in ogni altro caso: infatti, la scrittura simbolica p Λ q significa né più né meno che p e q sono entrambe vere.
La Figura 1 mostra la tavola dì verità per la proposizione p Λ q, congiunzione di p e di q. Questa riassume tutte le informa­zioni che possono interessare intorno al segno connettivo Λ. Infatti i simboli V ed F che compaiono stanno per vera e falsa e, distribuiti nelle tre colonne verticali, indicano rispettivamente i possibili valori di verità di p, di q e di p Λ q; mentre, al tempo stesso, distribuiti sulle quattro linee orizzontali, indicano, fino alla doppia linea verti­cale, le possibili combinazioni dei valori di verità di p e di q e, al di là di essa, i valori di verità di p Λ q corrispondenti a tali combinazioni.

Questa tabella evidenzia il valore di verità della congiunzione di due proposizioni, noti che siano ì valori di verità di queste.
Fissiamo ora l'attenzione sopra la proposizione composta p V q, disgiunzione di p e di q, la quale afferma che è vera o l'una o l'altra delle due pro­posizioni di cui è formata. Manifestamente, se una delle due propo­sizioni componenti è vera e l'altra falsa, allora la loro disgiunzione è vera, mentre, se p e q sono entrambe false, anch'essa è falsa senza dubbio. Questa constatazione permette di compilare subito le ultime tre righe della tavola di verità del segno V (cfr. Figura 2), ma essa non ci permette di concludere nulla a pro­posito del caso in cui p e q siano tutte e due vere. Una simile incertezza circa il valore di verità della p V q è ori­ginata dall'uso poco chiaro comune­mente fatto della particella "o". Pre­cisamente: "o" sta ad indicare "l'uno l'altro od entrambi" oppure "l'uno o l'altro, ma non entrambi"?

Cerchiamo di rispondere con degli esempi. La frase "quest'estate scriverò a Giovanna o a Francesca" non esclude la possibilità che chi parla scriva a tutte e due le ragazze. Invece l’affermazione  “mi iscriverò all'Uni­versità di Firenze o a quella di Bologna" implica la scelta di una, e di una sola, Università fra queste due. Una proposizione, poi, come "l'anno prossimo comprerò un televisore od un grammofono" può essere interpretata in tutti e due i sensi; colui che parla può voler significare che egli è ancora incerto quale dei due oggetti acquistare, ma anche che egli comprerà almeno uno di essi e, forse, l'uno e l'altro. Dagli esempi precedenti risulta chiaro che non sem­pre l'enunciato di un pensiero ne chiarisce il significato.
I matematici preferiscono non perdere tempo a discutere intorno al significato che "potrebbe" rivelarsi più appropriato per il segno di disgiunzione fra due proposizioni e, pertanto, preferiscono rico­noscergli due significati ugualmente accettabili: quello, cioè, di di­sgiunzione inclusiva (p o q od entrambe) e quello di disgiunzione esclusiva (p o q, ma non entrambe). Accanto al simbolo di disgiunzione inclusiva V viene pertanto introdotto anche quello V di disgiunzione esclusiva, per i quali valgono le tavole di verità riportate nelle Figure 3 e 4.

Quando non si avverta esplicitamente del contrario, si intende di riferirsi a disgiunzioni inclusive.
Consideriamo ora  il connettivo preposizionale costituito dalla negazione. Se p è una proposizione, la scrittura simbolica ~p, detta la negazione di p, esprime che la p è falsa. Quindi ~p è vera oppure falsa, secondo che la p sia falsa oppure vera. La Figura 5 mostra la tavola di verità relativa al connettivo della negazione.

Ciascuno dei connettivi fondamentali che abbiamo introdotto, oltre ad essere usato da solo nella formazione delle proposizioni com­poste, può essere applicato più volte allo scopo di permettere la scrittura simbolica di proposizioni composte anche piuttosto complesse: allo stesso modo espressioni algebriche complicate possono essere scritte mediante simboli aritmetici fondamentali. Per esem­pio ~(p Λ q), p Λ ~p e (p V q) V ~p sono tutte scritture che, simbolicamente, traducono proposizioni composte. Esse devono esse­re lette con lo stesso metodo che si seguirebbe dinanzi ad un'espres­sione algebrica, cioè a partire dal suo nucleo centrale, raggruppando tra loro prima le quantità entro parentesi e poi le espressioni otte­nute dal primo raggruppamento, ecc. Ciascuna proposizione composta ammette una tavola di verità che può essere costruita seguendo un procedimento fisso, facilmente deducibile dagli esempi che seguono.

1.  Consideriamo la proposizione composta p V ~q. La costruzione della corrispondente tavola di verità richiede che, per prima cosa, si scrivano nelle due colonne a sinistra della doppia riga verticale le quattro possibili combinazioni dei valori di verità della p e della q; che alla destra, invece, della doppia riga verticale, si scriva la proposizione in esame, lasciando fra i segni connettivi un certo spazio sufficiente, affinché sotto ciascuno di essi si possa inserire un'ulte­riore colonna di segni, e si riporti­no i valori di p e q, già precedente­mente elencati a sinistra, sotto i corrispondenti simboli nella pro­posizione composta. Si otterrà co­sì lo schema fornito dalla Figura 6.
Successivamente, si fissi l'at­tenzione sopra la proposizione più interna, cioè sulla negazione della q, procedendo nella compilazione del grafico come nella Figura 7. Infine si compili la colonna sottostante al segno di disgiunzione, la quale fornirà così il valore di verità della proposizione composta in corrispondenza di tutte le possibili combinazioni dei valori di verità delle sue componenti.

Per indicare che questo è il risultato finale si orlano ambedue i lati della colonna risultante con due tratti paralleli verticali, come appunto si nota nella figura 8.

I due esempi che seguono forniscono le tavole di verità, otte­nute con procedimento analogo a quello seguito nell'esempio precedente, di proposizioni composte un poco più complesse. Vi sono soltanto due regole fondamentali da ricordare per l'esatta compilazione di questo genere di diagrammi:

  • iniziare sempre dal nucleo centrale della scrittura assegnata;
  • i valori di verità della proposizione composta sono gli elementi dell'ultima colonna determinata dal processo logico se­guito.

 

2. Nella figura 9 è riportata la tavola di verità della proposizione (p V ~q) Λ ~p insieme ai numeri indicanti l'ordine con cui si ottengono le varie colonne.

 

3. La tavola di verità della proposizione: ~[(p Λ q) V (~p Λ ~q)] è in­dicata nella Figura 10. Si noti che tale proposizione composta am­mette la stessa tavola di verità della proposizione p V q; quindi que­ste due proposizioni sono equivalenti.

 

2.11.3.  I CONNETTIVI PROPOSIZIONALI “SE…ALLORA” E “SE E SOLTANTO SE…ALLORA”

Supponiamo ora di voler avanzare non un'affermazione assoluta, ma piuttosto un'affermazione contenente una condizione. Come esempi, consideriamo le seguenti proposizioni: "se il tempo sarà clemente, uscirò a fare una passeggiata"; "se questa ipotesi è vera, allora dimostrerò il teorema"; "se il costo della vita continua a salire, il governo imporrà rigide sanzioni". Ciascuna di queste proposizioni è del tipo "se p allora q". Il condizionale è dunque un nuovo connet­tivo, che si indica simbolicamente con la freccia →.
Naturalmente la definizione precisa del connettivo proposizio­nale ora introdotto deve essere data per mezzo di una tavola di verità. Se p e q sono entrambe vere, allora p→q è certamente vera, mentre, se p è vera e q è falsa, allora p→q è senza dubbio falsa. Così le prime due righe della tavola di verità della Figura 12a.

possono essere facilmente compilate. Supponiamo ora che p sia falsa; come possiamo completare le ultime due righe della stessa tabella? In un primo momento si potrebbe pensare che la soluzione migliore fosse quella di lasciare il quesito senza una risposta determinata, tuttavia un simile modo di procedere andrebbe contro la nostra ipotesi fon­damentale che ciascuna proposizione o è vera o è falsa.
Quindi noi, con una convenzione del tutto arbitraria, decideremo che la proposizione ipotetica p→q sia vera ogni qual volta la p sia falsa, senza curarci del valore di verità della q. Tale convenzione ci permette di completare la tavola di verità per il connettivo proposi­zionale condizionale, come mostra la Figura 12b. Ma un rapido esame di questa tabella conduce ad osservare che la proposizione ipotetica p→q è considerata falsa solo se la p è vera e la q è falsa. Se vogliamo, possiamo giustificare la convenzione arbitraria posta sopra, dicendo che, se la p è falsa, allora diamo alla p→q "il beneficio del dubbio" e la consideriamo vera.
Nell’ espressione verbale del nostro pensiero è normale associare fra loro soltanto le proposizioni semplici che sono legate da una certa relazione. Così possiamo dire "oggi piove e io prenderò l'ombrello", ma non diremo mai "sto leggendo un buon libro e prenderò l'ombrello". Tuttavia, il concetto di  legame o dipendenza fra due proposizioni o fra due idee è difficile da stabilire. Infatti concetti legati fra loro nella mente di un individuo non sempre sono legati allo stesso modo in quella di un altro. La logica preposizionale non impone alcuna condizione sul legame fra due proposi­zioni, di modo che esse possano essere unite da qualunque segno connettivo. Questa libertà talvolta conduce a strani risultati, quando si faccia uso del condizionale. Per esempio, riferendoci alla tavola di verità della Figura 12b, la proposizione "se 2 x 2 = 5, allora il nero è bianco" risulta vera, mentre la proposizione "se 2 x 2 = 4, allora le mucche sono scimmie" è falsa. Dal momento che, in generale, noi usiamo le parole "se ... allora" soltanto quando fra due pro­posizioni intercede una relazione di causalità, potremmo essere ten­tati di considerare entrambe le proposizioni precedenti come assur­dità. A questo punto è importante ricordare che l'introduzione del simbolo → non implica nessun nesso causale di questo genere; il significato del condizionale è messo in luce nella Figura 12b e non è suscettibile di altre interpretazioni all'infuori di quella ivi indi­cata. Questa discussione sarà ripresa più avanti quando verrà analizzata l'implicazione fra due propo­sizioni.
Intimamente legata al connettivo condizionale è la proposizione bicondizionale (detta anche ipotetica in senso stretto) p↔q, nella quale il simbolo ↔ può leggersi "se e soltanto se". Una  proposizione composta di questo tipo afferma che q è vera se p è vera e q è falsa se p è falsa.

Ne segue che una proposizione bicondizionale è vera in questi due casi e falsa in tutti gli altri, per cui la tavola di verità del simbolo connettivo corrispondente può essere facilmente compilata come ri­sulta dalla Figura 13.
Il bicondizionale è l'ultimo dei cinque connettivi proposizionali di cui faremo uso. La tabella della figura 14 ha lo scopo di riassumere le loro caratteristiche.

Si ricordi che la definizione completa di ciascuno di questi segni con­nettivi proposizionali è fornita dalla sua tavola di verità. Gli esempi che seguono serviranno a chiarire l'uso degli ultimi due connettivi introdotti.

1. Nelle figure 15 e 16, seguendo un procedimento ana­logo a quello indicato in precedenza, sono presentate le tavole di verità di due proposizioni com­poste.
È possibile anche scrivere delle proposizioni composte da tre o più proposizioni semplici. L'esempio seguente serve appunto ad illu­strare il caso di una proposizione composta formata da tre proposi­zioni semplici p, q, r. Si noti che esistono in totale otto possibili terne di valori di verità delle tre proposizioni semplici conside­rate e quindi la tavola di verità riportata nella Figura 17 presenta otto righe.

 

2.12.   Relazioni logiche

Finora abbiamo considerato proposizioni a sé stanti, tuttavia qualche volta si devono prendere in esame le relazioni che interce­dono fra coppie di proposizioni. La più interessante di simili relazioni è quella per cui una proposizione ne implica (dal punto di vista logico) un'altra. Se la r implica la s, possiamo anche dire che la s segue dalla r oppure che la s è (dal punto di vista logico) deducibile dalla r. Per esempio, in qualunque dimostrazione matematica l'ipotesi implica la tesi.
Se abbiamo elencato tutte le possibilità logiche per una coppia di proposizioni r e s, allora potremo caratterizzare l'implicazione nel modo seguente: la r implica la s, se la s è vera ogni qual volta è vera la r, ossia se la s è vera in tutti i casi logicamente possibili nei quali la r è vera.
Per le proposizioni composte che ammettono le stesse compo­nenti, le tavole di verità forniscono un metodo conveniente per sta­bilire tale relazione: esso è illustrato nella Figura 28. La nostra ipotesi r sia la proposizione composta p↔q e la tesi s sia la nostra proposizione composta p→q. Dal momento che r è vera soltanto nel primo e quarto caso e che la s è vera in entrambi questi casi, si vede facilmente che la proposizione p↔q implica la p→q. Invece la proposizione p V q è falsa nel quarto caso e quindi essa non è implicata dalla p↔q. Inoltre, da un con­fronto fra le ultime due colonne della stessa Figura 28, segue che la proposizione p→q non implica (e non è neppure implicata da) la p V q.
La relazione di implicazione fra proposizioni ha una stretta affi­nità con la proposizione condizionale, ma è molto importante non confondere l'una con l'altra. Il condizionale è una nuova proposizione,  composta mediante due proposizioni assegnate, mentre l'im­plicazione è una relazione fra queste due proposizioni. Il legame fra i due concetti è il seguente: la proposizione r implica la proposizione s se, e soltanto se, la proposizione condizio­nale r→s è logicamente vera.
Quanto precede risulta chiarito da questo semplice ragiona­mento. La proposizione r implica la proposizione s, se la s è vera ogni qual volta sia vera la r. Ciò significa che non si presenta mai il caso in cui la r sia vera e la s falsa, ossia il caso in cui la r→s sia falsa. Ma questo, viceversa, significa che la r→s è logicamente vera.

Esaminiamo ora brevemente i "paradossi" del condizionale. Le proposizioni condizionali si presen­tano come veri e propri paradossi, quando le loro compo­nenti non siano in qualche modo legate fra loro. Per esempio, suona strano affermare che la proposizione: "se è una bella giornata, il gesso è di legno", è vera in una giornata di pioggia. Va ri­cordato che, in virtù delle convenzioni precedentemente adottate, la proposizione condizionale ora enunciata non vuole esprimere né più né meno che una sola delle seguenti circostanze: 1) "è una bella giornata ed il gesso è di legno", oppure 2) "non è una bella giornata ed il gesso è di legno" oppure 3) "non è una bella giornata ed il gesso non è di legno" (cfr. Figura 12b). E, in una giornata di pioggia, l'affermazione 3) risulta vera.
Ma non è mai vero che la proposizione "è una bella giornata" implichi logicamente la proposizione "il gesso è di legno". È possibile dal punto di vista logico che la prima proposizione sia vera e la seconda falsa (infatti questo si verifica in una bella giornata e quando il gesso sia fabbri­cato con i metodi consueti), quindi l'implicazione non esclude tale possibilità. Così, mentre la proposizione condizionale sopra riportata è vera in una particolare giornata, essa non è invece logicamente vera.
Nel linguaggio comune, le parole "se...allora" general­mente si usano per avanzare affermazioni in tema di logica. Perciò qualunque uso di esse, nel quale si riscontri che tale afferma­zione è vera, ma non logicamente vera, conduce ad un paradosso. Considerazioni analoghe valgono per l'impiego comunemente fatto della locuzione "se e soltanto se…allora".
Se la proposizione bicondizionale r↔s non solo è vera, ma è anche logicamente vera, allora essa stabilisce una relazione fra la r e la s; inoltre, poiché la r↔s è vera in ogni caso logicamente possibile, le proposizioni r e s ammettono in ogni caso lo stesso valore di verità. In questa ipotesi, noi diremo che la r e la s sono equivalenti (dal punto di vista logico). Le tavole di verità costituiscono uno strumento effi­cace per stabilire l'equivalenza di proposizioni composte dalle stesse componenti: sarà sufficiente verificare che le proposizioni composte, delle quali si vuole mettere in luce l'equivalenza, presentino identiche tavole di verità. La Figura 29, per esempio, mostra appunto che la proposizione ~pΛ~q è equivalente alla ~(p V q). Si tratta di una delle cosiddette leggi di De Morgan.

Una terza relazione logica notevole che può intercedere fra due propo­sizioni è quella di incompatibilità. Due proposizioni, r e s, si dicono incompatibili quando non possono essere simultaneamente vere, ossia quando la proposizione r Λ s è logicamente falsa. Per esempio, le proposizioni p Λ q e ~q sono incompatibili. Una delle applicazioni più significative della logica si presenta  nella dimostrazione dell'incompatibilità degli assiomi di certi sistemi.
La relazione dell'implicazione è caratterizzata dalla circostanza che non può mai darsi il caso che da un'ipotesi vera discenda una con­clusione falsa. Se due proposizioni sono equivalenti, è impossibile che l'una sia vera e l'altra sia falsa. Quindi, per un'implicazione non deve presentarsi un solo caso della corrispondente tavola di verità, mentre, per un'equivalenza, non devono presentarsi due dei quattro casi di un'analoga tavola. La mancanza di uno oppure di più casi nella tavola di verità è dunque la caratteristica delle relazioni logiche. Esamineremo ora tutte le possibili relazioni logiche che possono sussistere fra due proposizioni.
Diremo che due proposizioni sono indipendenti ovvero che tra di esse non sussiste alcuna relazione logica, se per esse si può presentare ciascuno dei quattro casi della tavola di verità della Figura 30 ; se invece uno o più dei quattro casi illustrati nella Figura 30 non possono presentarsi, diremo che le due propo­sizioni sono dipendenti ossia che tra di esse intercorre una relazione logica.

Se p e q sono proposizioni tali da escludere una, ed una sola, delle possibilità elencate nella Figura 30, si dirà che la relazione che intercede fra esse è  semplice. Ov­viamente, esistono le seguenti quattro possibili relazioni semplici:

  • resta escluso il primo caso, allora le due proposizioni non possono mai essere entrambe vere ed esse costituiscono, come si usa dire, una coppia di proposizioni contrarie, o, secondo la terminologia già introdotta, incompatibili;
  • resta escluso il secondo caso, allora la p im­plica la q;
  • resta escluso il terzo caso, allora risulta falsa l'affermazione che la q sia vera e la p   s  i a  falsa, ossia la q    implica la p;
  • resta escluso il quarto caso, allora le due proposizioni non possono essere entrambe false, cioè una di loro è senz'altro vera, e si dice che esse costituiscono una coppia di proposizioni sottocontrarie.

Quando la p e la q sono proposizioni tali da escludere due, e soltanto due, delle possibilità riferite dalla Figura 30, allora si dirà che la relazione che intercede fra loro è  duplice. Esistono sei possibili modi di scegliere due casi dai quattro assegnati, ma alcuni di essi non conducono a relazioni notevoli. Per esempio, supponiamo che vengano a mancare la prima e la seconda possibilità, allora la p non può mai essere vera, ossia è logicamente falsa. Analogamente, se non possono presentarsi il primo ed il terzo caso, è logicamente falsa la proposizione q. D'altra parte, escludendo il terzo e il quarto caso, oppure il secondo ed il quarto, risulta che è logicamente vera la poppure la q. In questi casi non emergealcuna nuova relazione tra le due proposizioni. Ci restano pertanto solo altre due eventualità:

  • mancano il secondo ed il terzo caso, cioè le due proposizioni sono equivalenti;
  • mancano il primo ed il quarto caso, cioè le due proposizioni non possono essere entrambe vere e non possono essere entrambe false; in altre parole, l'una deve essere vera e l'altra deve essere falsa; diremo allora che la p e la qsono propo­sizioni contraddittorie.

Non è difficile rendersi conto che non esistono relazioni triplici, perché, se nella Figura 30 si cancellassero tre casi possibili, allora ri­marrebbe una sola possibilità per ogni proposizione, di modo che ciascuna delle due dovrebbe essere o logicamente vera o logicamente falsa.
Abbiamo già discusso l'implicazione e l'equivalenza, facendo os­servare il loro legame rispettivamente con il condizionale ed il bicon­dizionale. Possiamo procedere in modo analogo per le tre relazioni che ancora restano da considerare. Se lap e la qsono sottocontrarie, esse non possono essere entrambe false; poiché è questo l'unico caso in cui risulta falsa la loro disgiunzione, notiamo allora che la p e la q sono sottocontrarie quando, e soltanto quando, la p V q è logica­mente vera. Se la p  e la q sono contrarie, esse non possono essere entrambe vere; poiché questo è l'unico caso in cui la loro congiun­zione risulta vera, si conclude che la p e la q sonocontrarie quando, e soltanto quando, la p Λ qè logicamente falsa. Infine, se la p  e la qsono contraddittorie, risultano eliminati il primo ed il quarto caso della Figura 30; quindi la p «qè logicamente falsa e la p   V qè logica­mente vera. Lo schema della Figura 31 fornisce un riassunto delle caratteristiche delle sei relazioni considerate.
Le proposizioni sottocontrarie non presentano una grande im­portanza teorica; ma notevole interesse da questo punto di vista go­dono quelle contrarie e quelle contraddittorie. Ciascuna di

queste relazioni può essere generalizzata in modo da renderla valida per più di due proposizioni soltanto. Cosí, per esempio, date nproposizioni distinte, che non possano essere tutte contemporaneamente vere, di­remo che esse sono incompatibili ed in tal caso la loro congiunzione deve essere falsa. Casi particolari di proposizioni incompatibili sono i seguenti: per n = 1, troviamo una singola proposizione contrad­dittoria in termini e, per n = 2, una coppia di proposi­zioni incompatibili (per esempio, due proposizioni contrarie).
Se sono assegnate nproposizioni distinte tali che una, ed una sola, di esse può essere vera, si dice che esse costituiscono una classe completa di alternative. Ancora, al caso particolare di n = 1 corrisponde una sola proposizione logicamente vera e, ad n = 2, una coppia di proposizioni contraddittorie.
Le tavole di verità, anche in questo caso, costituiscono un efficace metodo per riconoscere se, fra proposizioni note, sussi­stano delle relazioni logiche. L’esempio che segue mostra come si può procedere per tale riconoscimento.

1. Consideriamo le cinque proposizioni composte, tutte con le stesse componenti, che sono messe in evidenza nella Figura 32. Troveremo tutte le relazioni che intercedono fra tali proposizioni prese a due a due.
Per prima cosa notiamo che la proposizione terza e quinta pre­sentano identiche tavole di verità, quindi esse sono equivalenti; di conseguenza possiamo limitarci a considerare una sola di esse, per esempio la terza. Le tavole di verità della prima e della seconda pro­posizione, invece, sono l'una il contrario dell'altra, quindi queste due proposizioni sono contraddittorie. Dal confronto delle tavole di ve­rità della prima e della terza proposizione vediamo che non risulta il caso V-F, quindi la prima proposizione implica la terza. La prima e la quarta proposizione sono, poi, contrarie, perché esse non sono mai entrambe vere; mentre la seconda e la terza sono sottocontrarie, per­ché esse non sono mai entrambe false. Infine, confrontando la seconda oppure la terza con la quarta ed osservando che mai si verifica il caso F-V, possiamo concludere che tanto l'una quanto l'altra sono impli­cate da quest'ultima.

 

2.13.   CONDIZIONI NECESSARIE E SUFFICIENTI

Il condizionale di due proposizioni differisce dal bicondizionale, dalla disgiunzione e dalla congiunzione di esse, in quanto manca di simmetria. Così la p V q è equivalente alla q V p, la p /\ q è equiva­lente alla q Λ p e la p « q è equivalente alla q « p; ma la p ® q non è equivalente alla q ® p. L'ultima proposizione, ossia la q ® p, dicesi la coversa o la complementare della p ® q. Molti degli errori più comuni che si commettono pensando scaturiscono proprio dalla confusione di una proposizione con la sua coversa.
Presenta pure un certo interesse fissare l'attenzione sopra le proposizioni condizionali formate da due proposizioni p e qe dalle ne­gazioni di queste ultime. Le tavole di verità di queste quattro propo­sizioni condizionali, insieme ai loro nomi, sono riportate nella Fi­gura 33. Notiamo l'equivalenza fra la p ® q e la ~q ® p; questa ultima proposizione è detta contropositiva della precedente e costi­tuisce in molti ragionamenti una forma molto utile del condizionale. Analogamente, la proposizione ~p ® ~q è la coversa di questa contropositiva. Poiché la contropositiva è equivalente alla p ® q, la coversa della prima è equivalente alla coversa della seconda, come si può vedere dalla Figura 33.

L'uso del condizionale sembra procurare più difficoltà di quello degli altri connettivi, forse a causa della suddetta mancanza di simmetria, ma forse anche perché vi sono numerosi modi diversi di esprimere un periodo ipotetico. In molti casi, soltanto un'analisi molto accurata di una proposizione condizionale mostra se colui che la asserisce intende riferirsi ad essa oppure alla sua coversa; talvolta poi si intende esprimere entrambe queste proposizioni, ossia si ri­corre implicitamente al bicondizionale (v. esercizio 5).
La proposizione "farò una passeggiata solo se ci sarà sole" co­stituisce una variante di una comune proposizione condizionale. Una proposizione riducibile alla forma "p solo se q" è strettamente le­gata alla proposizione "se p allora q", ma come esattamente? In realtà, esse esprimono il medesimo concetto. La proposizione "p solo se q"stabilisce che "se  ~q allora ~p" e quindi equivale alla "se p allora q". Allo stesso modo la proposizione "farò una passeg­giata solo se ci sarà sole" è equivalente alla "se farò una passeggiata, allora ci sarà sole ".
Altre frasi, usate frequentemente dai matematici, le quali indi­cano una proposizione condizionale sono: "una condizione necessa­ria" ed "una condizione sufficiente". Dire che p è una condizione sufficiente per la q equivale ad affermare che, se si verifica la p, allora è vera anche la q. Quindi la frase "p è una condizione sufficiente per q" è equivalente alla "se p allora q".
Analogamente la frase "p è una condizione necessaria per q" è equivalente alla "q solo se p". Poiché noi sappiamo che quest'ul­tima proposizione equivale alla "se q allora p", segue che l'afferma­zione di una condizione necessaria è la coversa dell'affermazione di una condizione sufficiente.
Infine, quando si affermano simultaneamente una proposizione condizionale e la sua coversa, si fa realmente ricorso al bicondizio­nale. Quindi la proposizione "p è una condizione necessaria e suffi­ciente per q " equivale alla " p se, e soltanto se, q ".



Nella figura 34 sono schematizzate le varie relazioni di equiva­lenza, che le precedenti considerazioni hanno messo in luce, fra i di­versi modi di enunciare una proposizione.

 

2.14.   Corrispondenza tra insiemi e proposizioni composte 

Il lettore avrà avuto modo di osservare più volte che esiste uno stretto legame fra gli insiemi e le proposizioni e fra le operazioni sugli insiemi e la composizione delle proposizioni.
Dato un certo numero di proposizioni relative ad un insieme di possibilità logiche, esiste un modo molto semplice di far corrispon­dere un ben determinato insieme a ciascuna di esse. Innanzi tutto si assume l'insieme delle possibilità logiche assegnato come insieme universale. Poi, ad ogni proposizione, si fa corrispondere il sottoin­sieme dell'insieme universale di quelle possibilità logiche nelle quali la proposizione considerata risulta vera. Questo metodo racchiude un concetto molto importante che vale la pena di precisare attra­verso una definizione specifica.
Definizione. - Siano U un insieme di possibilità logiche, p una proposizione ad esso relativa e P quel sottoinsieme di possibilità logiche in corrispondenza delle quali p è vera; si dice allora che P è l'insieme di verità di p.
Se p e q sono delle proposizioni, allora sono proposizioni anche p V q e p Λ q; anche queste ultime due necessariamente ammettono insiemi di verità. Per determinare l'insieme di verità della proposi­zione pVq, osserviamo che essa è vera ogni qual volta è vera la p oppure è vera la q (oppure la p e la q sono entrambe vere). Quindi dobbiamo assegnare alla p V q le possibilità logiche che apparten­gono a P oppure a O (oppure ad entrambe); ossia dobbiamo far corri­spondere alla p V q l'insieme P È Q. D'altra parte la proposizione p Λ q è vera soltanto quando la p e la q risultano entrambe vere, cosicché alla proposizione p Λ q dobbiamo far corrispondere l'in­sieme P Ç Q.
Vediamo quindi che intercede uno stretto legame fra l'opera­zione logica di disgiunzione e l'operazione di unione fra insiemi e, allo stesso modo, fra la congiunzione e l'intersezione. Un accurato esame delle definizioni di unione ed intersezione mostra che nella definizione di unione figura la congiunzione " o " ed in quella di intersezione la " e ". Quindi non può sorprendere il legame osser­vato fra le due teorie.
Analogamente non possiamo meravigliarci che l'insieme di verità della proposizione ~p sia P~, poiché nella definizione di complemento di un insieme entra appunto il connettivo proposizionale "non". Questo è conseguenza del fatto che la ~p è vera quando la p è falsa, per cui l'insieme di verità della ~p contiene tutte le possibilità logiche nelle quali la p è falsa, ossia l'insieme di verità della ~p è P~.
Nella figura 50 sono schematizzati gli insiemi di verità di due proposizioni p e q. Nel diagramma sono anche messe in evidenza le varie possibilità logiche per le medesime proposizioni. Il lettore potrebbe ricavare da tale figura gli in­siemi di verità corrispondenti alle proposizioni p V q, p Λ q, ~p e~q.

La corrispondenza fra una pro­posizione ed il suo insieme di verità rende possibile trasformare un problema relativo a proposizioni com­poste in un problema sugli insiemi e viceversa. Dato un problema concernente degli insiemi, si consideri l'insieme universale come un in­sieme di possibilità logiche ed ogni sottoinsieme come l'insieme di verità di una proposizione. In questo modo il problema dato, relativo ad insiemi, si è " tradotto " in un problema relativo a proposizioni composte.
Finora abbiamo sempre considerato soltanto gli insiemi di verità corrispondenti a proposizioni composte che contenevano i segni V, Λ, ~. Tutti gli altri connettivi proposizionali si possono definire in funzione dei tre precedenti, di modo che possiamo facilmente stabi­lire quali insiemi di verità devono essere loro fatti corrispondere. Per esempio, sappiamo che la pro­posizione p ® q è equivalente alla ~p V q (vedi Figura 32); quindi l'insieme di verità della p ® q è lo stesso che compete alla ~p V q, ossia è P~ È Q. La figura 51 fornisce il diagramma di Venn per la p®q: l'area trat­teggiata è l'insieme di verità della medesima proposizione. Si osservi che, nella stessa figura, l'area non tratteggiata invece è l'insieme P - Q= P Ç Q~, che è l'insieme di verità della proposizione p Λ ~q.

Cosí l'area tratteggiata può riguardarsi anche come l'insieme (P - Q) = P Ç Q~, che è l'in­sieme di verità corrispondente alla proposizione ~[p Λ ~q]. Resta in tal modo dimostrato che le proposizioni (p ® q), (~p V q) e~(p Λ ~q) sono equivalenti fra loro : si tratta sempre delle circo­stanze che due o più proposizioni sono equivalenti fra loro se, e sol­tanto se, esse ammettono i medesimi insiemi di verità. Quindi l'equi­valenza fra due proposizioni può essere discussa attraverso l'esame dei diagrammi di Venn: proposizioni equivalenti ammettono lo stesso diagramma di Venn.
Supponiamo che p sia una proposizione logicamente vera. Qual è il suo insieme di verità? La p è logicamente vera se, e solo se, essa è vera in ogni caso logicamente possibile; quindi l'insieme di verità corrispondente ad essa è U. Analogamente, se p è una proposizione logicamente falsa, allora essa risulta falsa in ogni caso logicamente possibile e quindi ad essa corrisponde l'insieme vuoto Æ.
Consideriamo infine la relazione di implicazione. Ricordiamo che la  p implica la q  se, e soltanto se, la proposizione condizionale p®q  è logicamente vera. Ma la proposizione p®q è logicamente vera se, e soltanto se, il suo insieme di verità è   U ossia se risulta (P - Q) = U oppure (P - Q) = Æ. Dalla figura 49 vediamo che, se P - Q è l'in­sieme vuoto, allora l'insieme P è contenuto in Q. E noi possiamo caratterizzare la relazione di "essere contenuto" o di "appartenere" nel seguente modo: PÌQ significa "Pè un sottoinsieme di Q".

Concludiamo pertanto che la proposizione p - q è logicamente vera se, e soltanto se, PÌQ.
La Figura 52 va riguardata come una specie di "dizionario" utile per passare dal linguaggio in termini di proposizioni al lin­guaggio in termini di insiemi e viceversa. A ciascuna proposizione relativa ad un certo insieme di possibilità corrisponde un ben de­terminato sottoinsieme di U; ossia, precisamente, corrisponde l'in­sieme di verità della proposizione considerata. Ciò è messo in risalto dalle prime due righe del suddetto schema. Ad ogni connettivo pro­posizionale corrisponde un'operazione fra insiemi secondo le regole illustrate nelle quattro righe successive. Ed infine le ultime due righe dello stesso quadro mostrano che a ciascuna relazione fra proposi­zioni corrisponde una relazione fra insiemi.

Esempio1.  Per mezzo di un diagramma di Venn dimostrare che la proposizione [p V (~p V q)] è logicamente vera. L'insieme corrispondente alla proposizione ora scritta è [P È (P~ È Q)] ed il diagramma di Venn che ne costitui­sce la rappresentazione è dato dalla figura 53, nella quale l'insieme P è tratteggiato verticalmente e l'insieme P~ È Q orizzontalmente. L'unione di questi due insiemi è l'intera area tratteggiata, ossia U, di modo che possiamo concludere che la proposizione composta del nostro esempio è logicamente vera.

 

 

II pensare per estremi è stato spesso chiamato «pensiero in bianco e nero». Questa è una efficace caratterizzazioneazione dell'errore di cui stiamo discutendo, purché non induca a identificare il bianco col buono e il nero col cattivo.

 

Sulla definizione di enunciato cfr. Sezione 2.2.

Fonte: http://venus.unive.it/albertg/Logica.doc

Sito web da visitare: http://venus.unive.it/

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