Industria italiana e trasformazione

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Industria italiana e trasformazione

L’industria italiana tra declino e trasformazione: un quadro di riferimento

“Delle cose nostre o non ne abbiamo parlato o ne abbiam parlato con insensato disprezzo e con più insensata lode. Se incominceremo a parlar delle nostre cose con ragione e dignità, forse troveremo mille volte motivi di renderci migliori e non mai di crederci pessimi, ed otterremo due cose alla società utilissime: la fiducia di esser buoni ed il desiderio di divenir ottimi” (Vincenzo Cuoco, Il Giornale Italiano, 1804).

Abstract
I dibattiti sulla crescita (o mancata crescita) del nostro paese si svolgono spesso senza valutare compiutamente i fatti e le statistiche da cui sono rappresentati. I cultori del declino lamentano la stasi della produzione, il mancato aumento della produttività, la perdita di quote sui mercati esteri, l’assenza di riqualificazione dell’offerta di beni industriali verso oggetti hi-tech che peraltro vedono già la presenza massiccia dei paesi emergenti. V’è chi reclama una maggiore insistenza sui servizi, chi l’abbandono della manifattura, chi vede il futuro nell’artigianato. Si tratta di questioni assai importanti poiché un giudizio errato sulle performance italiane può condurre nelle fasi critiche dei mercati finanziari ad un peggioramento delle attese sui nostri risultati oltre il livello che può essere giustificato dai fatti. Dopo l’adozione dell’euro, solo nel 2000 i dati Istat sulla crescita del Pil italiano a volume hanno superato il 2% mentre nel triennio 2008-10 siamo stati gli unici, tra i grandi paesi della moneta unica, ad infilare due regressi consecutivi a causa della crisi internazionale. L’obiettivo di questo scritto è quello di produrre un quadro di riferimento micro e macro in cui allocare più correttamente problemi e ricette per lo sviluppo di lungo periodo. Questo viene visto nel contesto di un processo di trasformazione indotto, da un lato, dalla crisi delle grandi imprese e, dall’altro, dall’emergere di una categoria di aziende di dimensione intermedia (quarto capitalismo) aventi elevate capacità innovative. Esse originano per lo più dai sistemi produttivi locali, si caratterizzano per la proprietà familiare e il basso ricorso alla finanza, operano a rete, restano radicate nei territori e proprio per questo configurano un nuovo ed efficace motore dello sviluppo italiano.

EconLit Classification: O100, O140, O170, O400, 0570, L160, L220, L250
Parole chiave: sviluppo, declino, eurozona, misurazioni statistiche della crescita, quarto capitalismo, distretti, grandi imprese


Premessa
L’obiettivo di questo scritto è quello di proporre un quadro di riferimento in cui allocare i dibattiti sulla crescita (o mancata crescita) del nostro paese. A tale scopo verranno chiarite alcune dinamiche dei valori di contabilità nazionale e degli aggregati di dati d’impresa che generalmente vengono presentate, erroneamente a mio giudizio, come prove del declino specifico dell’economia italiana nel contesto internazionale. La tesi di fondo è che la bassa crescita italiana, da un lato, è in buona sostanza coerente con i fatti recenti dell’eurozona aggravati da alcuni interrogativi sulla capacità delle rilevazioni statistiche di rappresentare compiutamente la nostra realtà; dall’altro lato, il lento sviluppo è anche attribuibile ad una mutazione della struttura produttiva nella quale il peso delle grandi imprese è diminuito quale effetto di un persistente declino prima e di processi delocalizzativi poi. Hanno quindi trovato spazio i sistemi di piccola e, successivamente, di media impresa (quarto capitalismo); questi stentano ad occupare con immediatezza i vuoti prodotti dalla scomparsa dei grandi complessi ed inoltre presentano componenti di più difficile rilevazione statistica rispetto alla innegabile “facilità” nell’acquisizione dei dati delle società maggiori . Infine, il contesto più recente vede l’effetto di politiche di contenimento della domanda che si riflettono inevitabilmente sulla crescita del prodotto lordo. Si procederà con l’analisi dei dati nel periodo dell’euro (dal 1999 in avanti) dando preferenza dapprima alle vicende fino alla grande crisi finanziaria del 2007 (che si è trasferita all’economia reale l’anno dopo); esse sono più significative ai fini del tema qui affrontato e presentano il vantaggio di dati ormai consolidati. Successivamente saranno esaminati gli anni 2008-2010.
Si è venuta formando una vasta letteratura che ha indicato nella piccola dimensione delle imprese e nei settori nei quali queste operano l’origine della bassa crescita italiana (tra le fonti più autorevoli, si vedano le ultime relazioni annuali della Banca d’Italia e inoltre Gallino 2003; Nardozzi 2004; Baldwin, Barba Navaretti  e Boeri 2007; Ciocca 2009; Rossi S. 2009). Per semplicità, nel testo ci si rivolgerà agli esponenti di questa letteratura con il termine (amichevole) di “declinisti”. Poiché il declino viene generalmente sostenuto richiamando l’industria, si cercherà di metterne in evidenza il contributo effettivo (in particolare, quello della manifattura), operando raffronti con i due paesi, Francia e Germania, paragonabili al nostro per dimensione e operanti nella stessa area monetaria. Ciò presenta il vantaggio di poter usare anche i valori a prezzi correnti che non risentono delle metodologie di stima (che temiamo disomogenee) applicate dagli istituti nazionali di statistica nel passare ai dati a volume.

  • La dinamica dei conti degli italiani: declino o crescita?

“Nel corso dei passati dieci anni il prodotto interno lordo è aumentato in Italia meno del 3 per cento; del 12 in Francia...”; così la Relazione 2011 della Banca d’Italia, a commento della scarsa crescita che ci distingue da lungo tempo. Il Governatore poteva ricordare anche il +9% della Germania e ci ha risparmiato i ben più consistenti sviluppi del trio di Paesi che ebbe a indicare come benchmark nella sua prima relazione, quella del 2006: Svezia +22%, Finlandia +20%, Regno Unito +15%. Queste percentuali sono ricavate dai dati Eurostat che misurano i prodotti nazionali a volume, cioè depurati della variazione dei prezzi (valori concatenati) aventi per fonte i rispettivi istituti di statistica. Il Graf. 1 descrive il profilo della variazione del nostro Pil in termini reali dal 1996. Dopo il 1999, anno della moneta unica, esso appare coerente con quello dell’eurozona, ma sempre inferiore. Tuttavia, quando si passa a misurare il distacco che separa i valori correnti assoluti in ciascun anno, in luogo delle stimate quantità fisiche, i risultati cambiano . A valori correnti, nel 2000 il prodotto italiano era pari al 58% di quello della Germania; nel 2010 siamo saliti al 62%, quattro punti in più, mentre assumendo i citati dati a volume avremmo dovuto declinare di oltre 3 punti; in rapporto alla Francia siamo scesi di tre punti (dall’83% all’80%) mentre seguendo i volumi avremmo dovuto cadere di oltre il doppio. Se poi ci rapportiamo al Regno Unito (paese al di fuori dell’euro) nei dati a volume precipitiamo di oltre 8 punti, in quelli correnti miglioriamo di circa 18; da ultimo, il duo virtuoso Finlandia e Svezia (solo la prima fa parte dell’eurozona) non si è praticamente mosso dal livello di un terzo circa del nostro prodotto mentre, secondo i dati a volume, avrebbero dovuto salire dal 34% al 40%. Dunque, come interpretare queste statistiche? Se per Regno Unito e Svezia vi è l’influenza dei movimenti del cambio (l’euro si è rivalutato, rispettivamente, del 30% e dell’8%), il confronto è inequivocabile con Francia e Germania che appartengono alla nostra stessa area monetaria. Sembra legittimo interrogarsi se non sia necessario, per paesi a moneta comune (perché solo per questi?), usare nei raffronti deflatori omogenei. Il Grafico 2 mette in evidenza la dinamica del rapporto tra il prodotto interno lordo italiano e quello di Francia e Germania sommate insieme. Il rapporto calcolato sui dati a volume (deflazionati) ci presenta un’Italia in declino quasi persistente, mentre quello calcolato sui dati a prezzi correnti segnala una crescita relativa fino al 2005 e un ripiegamento negli anni successivi, chiudendo nel 2010 ad un livello comunque superiore a quello del 1999 .
Quando si raffrontano i paesi occorre valutarne la diversa struttura. Limitando il dettaglio ai tre settori classici, primario secondario e terziario, si riscontrano alcune particolarità. Nel 2010 il valore aggiunto italiano (versione ai prezzi al produttore) è stato generato dall’agricoltura per il 2% e dall’industria per il 27,5% (la sola manifattura dei beni: 18,6%); il resto, oltre il 70%, è il frutto dei servizi; tra questi, quelli che transitano per il mercato (commercio, trasporti, servizi alle imprese) contano per il 56% mentre quelli che non vi transitano (principalmente, delle amministrazioni pubbliche) vengono accreditati di una quota del 15% circa che deriva, come noto, da criteri di valutazione quanto meno discutibili . Per il terziario è dunque tutt’altro che agevole misurare il contributo allo sviluppo e il quadro peggiora se si aggiungono le complicazioni del passaggio dai valori correnti a quelli a volume (nello specifico, valori concatenati con il 2000 come anno di riferimento).
Nella Tab. 1 abbiamo elaborato le variazioni del valore aggiunto lordo dal 1999 al 2007 (periodo dell’euro, ma prima della crisi) per i tre principali paesi, Francia, Germania e Italia, acquisendo i più recenti dati pubblicati dall’Eurostat nel suo sito internet.  A prezzi correnti, nel 2007 la manifattura incideva per il 24% in Germania, il 19% in Italia e il 13% in Francia; tuttavia, nel primo paese essa ha assicurato il 30,7% della crescita, contro il 13,4% in Italia e il 3,3% in Francia. In quest’ultima sono stati molto più importanti i servizi finanziari e alle imprese (42,8% dell’incremento del valore aggiunto), che vedono Italia e Germania quasi appaiate (36% circa). In Italia il terziario non di mercato appare più attivo (21,5% della crescita del prodotto contro il 18,5% tedesco, ma entrambi inferiori al 25,5% francese). Singolari i dati quando si passa ai valori a prezzi costanti (volumi): il contributo del manifatturiero tedesco sale dal 31% al 35%, il modesto dato francese guadagna una quota di oltre il 12%, mentre quello italiano cade dal 13% al 10%. Vi sono alcuni settori che guadagnano peso ovunque nel passaggio dai valori monetari alle quantità e sono i trasporti/comunicazioni e, in minor misura, il commercio. Queste variazioni nei pesi dovrebbero riflettere le dinamiche dei prezzi relativi secondo le stime degli istituti nazionali. Concentriamo l’attenzione sulla manifattura, sempre nel periodo 1999-2007. Le diverse proporzioni dei dati a prezzi correnti e a volume dipendono dai deflatori. La dinamica dell’indice dei prezzi stimati implicitamente dai tre istituti di statistica è presentata nel Grafico 3. E’ assai evidente la disomogeneità degli andamenti; l’indice francese tende a cedere, quello tedesco a rimanere costante mentre quello italiano si divarica sempre più dagli altri due. L’impennata dei prezzi manifatturieri italiani (tra il 1999 e il 2009: +20% rispetto a quelli tedeschi e +30% rispetto a quelli francesi) appare inspiegabile. La teoria delle aree valutarie ottimali (Mundell 1961) potrebbe suggerire fenomeni di aggiustamento provocati da spostamenti di domanda da una regione poco competitiva ad altre più performanti di un’area a moneta comune. In tale contesto, i declinisti considerano l’Italia la meno competitiva e quindi dovrebbe aver subito aumenti di disoccupazione misti a deflazione (De Grauwe 2006, p. 716).
Se usciamo dal modello di Mundell, dove, per l’ipotesi di piena occupazione, l’unica possibile causa di variazioni di prezzi è data dalla domanda, ci sono altre possibili cause di variazioni nei prezzi relativi dei manufatti, perfettamente spiegabili: per esempio una spinta proveniente dai costi derivante da una maggiore inflazione nei servizi (il vecchio settore “non tradeble”). Mi pare che questo aspetto sia un po’ trascurato dall’analisi.

Non è accaduto nulla di ciò; al contrario, i livelli di disoccupazione tra il 1999 e il 2007 sono diminuiti in Italia e Francia (rispettivamente, di 4,8 e di 2 punti) e leggermente aumentati in Germania (mezzo punto). D’altro canto, la politica della banca centrale europea ha sempre puntato al controllo dell’inflazione, mentre la concorrenza, sia pur all’interno di mercati oligopolistici, mal si combina con quell’azione solitaria sui prezzi che viene generalmente interpretata come un’apparente perdita di competitività dell’Italia. Non si capisce. Se si vuol dire che la concorrenza non è solo di prezzo, e che un aumento di prezzo può derivare da miglioramenti del prodotto e non necessariamente perdita di competitività, meglio spiegarlo meglio La stessa dinamica degli indici armonizzati dei prezzi nei tre paesi non è così divaricata . Restano due principali ordini di possibili cause: un effetto di composizione attribuibile alla decadenza dell’area delle grandi imprese e quindi dei loro prodotti (di questo fenomeno si parlerà più avanti), un effetto di aumento di prezzo indotto da contenuti qualitativi superiori non intercettato dalle statistiche ufficiali. Un test sui dati disaggregati porta ad escludere la prima ipotesi, nel senso che l’indice dei beni prodotti dalle grandi imprese presenta, nei dati ufficiali, un profilo simile all’indice dei beni prodotti prevalentemente da imprese distrettuali e del quarto capitalismo. Non resterebbe dunque che la seconda motivazione. Assai ironicamente, un miglioramento produttivo strutturale dell’industria italiana finisce per essere reso statisticamente come segnale di declino.

 

  • La crisi delle misurazioni

Quasi venti anni fa, Giorgio Fuà scrisse un libro sulla crescita economica sottotitolandolo “Le insidie delle cifre” , segnalando per tempo il possibile danno che deriva dall’uso acritico delle statistiche che illudono di acquistare “un patrimonio di certezze vasto bensì ma falso”. Fuà chiarì la divergenza tra la nozione di crescita economica intesa come maggiori quantità di merci e la nozione “seducente ed elusiva di benessere” aggiungendo un terzo grande tema che riguardava le difficoltà di “ottenere misure soddisfacenti della crescita con la tecnica statistica in uso”. La parte del libro che riguardava questi ultimi aspetti, ebbe per titolo “la crisi delle misurazioni” che veniva fatta derivare dai cambiamenti che lo sviluppo economico moderno produceva nelle merci che dovevano essere misurate nel calcolo del prodotto nazionale. “Stiamo infatti inoltrandoci, sulla scia di altri paesi, in una fase dello sviluppo economico che rende male applicabili i calcoli a prezzi costanti per effetto di due fenomeni: la grande intensità e diffusione dell’innovazione merceologica e la forte espansione dei servizi” (Fuà 1993, p. 67). Il mantenimento in tali calcoli di un anno base relativamente lontano impedisce di considerare i nuovi beni introdotti successivamente a tale anno, mentre l’espansione dei servizi propone grandezze che non si prestano (quanto meno facilmente) ad essere misurate in quantità fisiche. Va da sé che questi difetti saranno tanto più gravi quanto più un paese tende a moltiplicare le merci che produce (ad esempio, puntando su beni molto differenziati anziché standardizzati) e quanto più dà impulso ai servizi, tra i quali quelli alle imprese costituiscono negli anni più recenti, come visto, i valori determinanti.
Vi sono anche motivi più semplicemente riconducibili ai modi e alle tecniche usati nella produzione di queste statistiche. Giorgio Fuà diffidava dei dati ufficiali, tanto che dovendo coordinare una ricerca sullo sviluppo economico in Italia dal 1861 in avanti chiese ad uno statistico di vaglia, Ornello Vitali, di integrare i numeri ufficiali della contabilità nazionale (Fuà 1969, Vitali 1999). I motivi di quella antica diffidenza non sono svaniti nel tempo poiché toccano proprio i campi nei quali si sono sviluppate le tesi decliniste di cui ci stiamo occupando: la stazionarietà dell’indice della produzione industriale, la dinamica insoddisfacente della produttività, la perdita di quota delle esportazioni italiane.
L’indice Istat della 1. produzione industriale con base 2000 pari a 100 è oscillato nei successivi otto anni tra il massimo di 99,4 nel 2001 e il minimo di 94,2 nel 2008 (serie dell’indice grezzo). Quindi, dal 2000 al 2008 si discuteva attorno ad una diminuzione del 6% circa che legittimava la buona fede dei declinisti. Nel 2009 l’indice della produzione è stato però corretto fissando la nuova base al 2005. Ebbene, mentre il vecchio indice segnava un calo delle quantità prodotte del 2% circa tra il 2005 e il 2008, il nuovo registrava +2,4%: per un indice di questo tipo uno scarto di 4,4 punti in un triennio costituisce un’enormità e rappresenta la linea ideale che separa il declino dalla crescita. Questa correzione dovrebbe implicarne una analoga sulla 2produttività del lavoro. Le nuove serie mettono ora in evidenza progressi, ma sempre modesti: +7,6% tra il 1995 e il 2006 contro il +3,2% del precedente indicatore. Ma resta evidentemente il problema dei deflatori. Nel 2009 il Centro Studi della Confindustria (2009, pp. 88-89) ha calcolato che tra il primo trimestre 2005 (termine iniziale della revisione) e il primo trimestre 2008 la produttività (valore aggiunto per ora lavorata, a prezzi costanti, dell’industria in senso stretto),  è aumentata del 5,5% invece dell’1,4% ricavabile dai vecchi dati dell’indice della produzione. Un risultato sostanzialmente simile (+6,7%) era stato elaborato da Mediobanca sui dati delle principali aziende manifatturiere le quali sul più ampio periodo 1999-2007 avevano segnato aumenti di produttività del 19%; la corrispondente variazione per le sole medie imprese era stata dell’8% (Mediobanca, 2008 p. XIX; Mediobanca-Unioncamere, 2010, p. XXXIV; produttività misurata con il valore aggiunto per dipendente deflazionato con gli indici Istat dei prezzi alla produzione) .
Per comprendere meglio, al di là dei difetti intrinseci di una metodologia, le difficoltà di rilevare la produzione industriale basti pensare che l’Istat indaga mensilmente 4300 imprese che dovrebbero essere rappresentative di un contesto che ne conta quasi mezzo milione, prevalentemente di piccola dimensione. Negli anni 1999-2010 le imprese manifatturiere iscritte nei registri delle Camere di commercio italiane sono state più di 360 mila e quelle cancellate più di mezzo milione, valore quest’ultimo che da solo rappresenta oltre i nove decimi dello stock a fine 2010; ogni settimana vi è stato perciò un turnover (tra nuove imprese fondate e vecchie imprese estinte) di 1.150 unità riconducibile per i tre quarti a ditte individuali. In secondo luogo, l’indice generale dell’Istat sintetizza 541 voci di prodotto; la criticità dell’indagine appare più evidente se si pensa che una nuova auto viene oggi immessa sul mercato con centinaia di personalizzazioni che portano ovviamente a valori di listino molto differenti le cui variazioni temporali sono per giunta eterogenee . Lo stesso accade all’offerta di un qualsiasi fabbricante di macchine utensili il quale tende spesso ad adattare i beni agli specifici bisogni del cliente che serve. E si potrebbe proseguire con i componenti meccanici ed elettronici. Il Presidente dell’Istat riconosce le difficoltà di separare le variazioni di quantità e di prezzo “in un mondo in rapida trasformazione, con un forte ricambio dei beni e servizi offerti sul mercato e con continue modifiche della qualità dei prodotti” (Giovannini 2010 b).
Negli anni più recenti, il Servizio Studi della Banca d’Italia ha prodotto alcuni lavori sui problemi di misurazione degli istituti ufficiali. Una sintesi utile è quella curata da Antonio Bassanetti, Matteo Bugamelli e Roberto Torrini nel quarto capitolo di un Rapporto pubblicato nel 2009 (AAVV 2009, pp. 41-50). Questi Autori prendono in esame la dinamica delle 3.esportazioni, della produzione, del fatturato e della produttività, e cioè gli argomenti che i “declinisti” portano generalmente come “prove” del loro sconforto. La perdita di quote di mercato mondiale viene generalmente osservata sui dati a prezzi costanti, ma questi Autori dimostrano che i calcoli sono gravemente inficiati da un difetto di metodo. I dati a volume vengono ottenuti in Italia applicando ai valori correnti un deflatore che, contrariamente a quanto avviene negli altri Paesi a noi affini, non è rappresentato da un indice dei prezzi dei beni esportati. Esso è invece  ricavato dai valori medi unitari ottenuti dividendo i valori complessivi per le quantità complessive (lo stesso vale per le importazioni). Ciò produce un divario notevole tra la dinamica dei valori correnti e quella dei valori stimati a volume. Il risultato, da noi calcolato, è nel Graf. 4. Il motivo è che in presenza di un importante riposizionamento commerciale verso beni di qualità migliore, il deflatore calcolato sui valori medi presenta incrementi molto più sensibili di quello calcolato (come si dovrebbe) sui prezzi alla produzione dei beni venduti all’estero . Sicché gli Autori citati concludono che se si utilizzassero metodi più appropriati la perdita di quota di mercato mondiale a prezzi costanti dell’Italia tra il 2002 e il 2007 si ridurrebbe ad appena tre decimi di punto (ibidem, p. 44). Calcolando le quote sulle sole esportazioni manifatturiere in dollari, usando i dati WTO, tra il 1999 e il 2007 l’Italia ha perduto 0,5 punti percentuali di mercato (da 4,1% a 3,6%). La Francia ha perduto 1,7 punti percentuali mentre la Germania, dopo aver aumentato la sua quota di mezzo punto nel 2003-04 è ripiegata praticamente allo stesso livello del 1999. Nello stesso periodo, la quota dei Bric (Brasile, Russia, India e Cina) è passata dal 6,2% al 13,5%, con volumi che hanno raggiunto l’80% di quelli dei tre maggiori paesi dell’eurozona nel loro insieme . Occorre sottolineare che, oltre al fatto che una sostanziale tenuta della quota italiana va considerata come risultato eccellente ove si consideri l’espansione del commercio mondiale per effetto dei newcomers, resta da misurare il maggior “contenuto” di valore di un bene migliorato rispetto a quello venduto in precedenza. Troviamo così confermata l’ “illusione statistica”, controproducente rispetto alla realtà, a cui si è già accennato a proposito del contributo della manifattura al Pil dell’Italia .


  • Le ombre nei dati delle imprese

Le difficoltà di rilevare correttamente i fenomeni economici non si fermano ovviamente ai dati della contabilità nazionale, ma si estendono pesantemente alle informazioni che riguardano le singole imprese. Tali difficoltà originano in primo luogo dal fatto che il nostro paese si caratterizza per un’elevata evasione fiscale la quale comporta una parallela opacità nell’informazione che, soprattutto, le imprese di piccola dimensione rilasciano a terzi. Nei confronti internazionali l’Italia figura sempre tra i paesi con i più elevati livelli di sommerso, contando tali le attività legali che sfuggono alla rilevazione (prevalentemente per evasione fiscale) e quelle illegali (commercio di merci rubate, di droghe, prostituzione, giochi e frodi), nonché le transazioni non monetarie (baratti, furti, fai-da-te, ecc.; Schneider e Enste, 2000). Friedrich Schneider e altri (2010, pp. 454-456) hanno stimato il sommerso italiano nel 27% del Pil ufficiale come media del periodo 1999-2007, percentuale relativamente stabile negli anni; in confronto, Francia e Germania si collocano tra il 15% e il 16% e il Regno Unito al 12,5% (Tab. 2). La media mondiale è tra il 31% e il 33% . L’incidenza italiana, escludendo dalla base la stima specifica dell’economia sommersa non illegale che l’Istat comprende già nei dati ufficiali del Pil (16% nel 2008; Tab. 3 ) salirebbe al 32%. L’istituto italiano di statistica vanta un’attività pionieristica nei tentativi di misurare l’economia non osservata (si vedano anche le relazioni presentate al Parlamento dai Presidenti in varie occasioni: Zuliani 1998, Biggeri 2005, Giovannini 2010a); resta tuttavia che l’ampiezza del fenomeno induce a diffidare dell’attendibilità dei dati che molteplici indagini ricavano da interviste alle imprese. Poiché gli insiemi coinvolti comprendono sempre in grande misura entità di piccola dimensione, ne deriva un’utilità pressoché nulla delle elaborazioni che si fanno, spesso con strumentazioni statistiche più che sofisticate, su quegli stessi dati. Uno dei principali risultati di queste elaborazioni riguarda la minore apparente efficienza delle piccole imprese rispetto alle grandi. Una valutazione attenta dei dati di base (che tendono a nascondere una quota della produzione abbassando conseguentemente la produttività) dovrebbe invece comportare una maggior cautela poiché alcuni seri indizi lasciano ritenere che in taluni casi, come nelle medie imprese manifatturiere, la realtà sia di tutt’altro segno (su questo si tornerà più avanti). Gli stessi raffronti internazionali, se fatti con paesi fiscalmente più virtuosi, tendono ad essere dunque controproducenti.
Non mancano ombre neppure sui dati correntemente comunicati dalle imprese più strutturate e cioè quelle di grande dimensione e quelle quotate in borsa. In primo luogo, viene loro consentito di tenere i conti seguendo principi contabili profondamente diversi. E’ infatti possibile optare per i principi IAS/IFRS, introdotti in Europa con effetto dal gennaio 2005; essi sostituiscono, per molti cespiti che figurano negli attivi dei bilanci, le classiche valutazioni prudenziali al costo storico con stime di fair value, spesso derivate da complessi e per lo più inattendibili modelli matematici. Non basta. In virtù di comportamenti ampiamente censurabili, molte società rilasciano dati da considerare falsi, specie sull’indebitamento e sulla consistenza patrimoniale (Coltorti, 2010 b, pp. 96-109). Da tutto ciò deriva una grande confusione di schemi e modi di valutazione che rendono i dati aziendali praticamente riservati agli specialisti; sullo sfondo campeggiano i recenti scandali che hanno coinvolto primarie società di revisione contabile e di rating. Vi è da chiedersi, come accennato nel caso delle imprese di dimensione minuscola, quale attendibilità debba essere riservata anche qui alle indagini su questionario.

  • Freni e acceleratori: Nord e Sud, Est e Ovest

In Italia è noto che il Mezzogiorno sia l’area storicamente “depressa”. Il suo Pil per abitante, secondo i dati Eurostat,  era nel 2007 il 44% in meno di quello del Centro Nord (escluso il Lazio). L’altro paese europeo che in qualche modo ci somiglia in dualismo è la Germania dove i Land dell’ex Repubblica democratica sono stati equiparati ad un “Mezzogiorno” (Sinn e Westermann, 2000). Tuttavia le situazioni sono diverse poiché il divario nel reddito pro-capite è inferiore (32% in meno nel 2007), come pure la quota di popolazione interessata (20% del totale nazionale per l’ex-Germania Est, inclusa Berlino, contro 35% del Mezzogiorno italiano). Nella Tab. 4 i dati nazionali sono stati scomposti mettendo in evidenza l’area che ospita la capitale e le aree arretrate per Italia e Germania. In Francia non esiste un problema di dualismo se non tra la regione di Parigi (Ile-de-France), che concentra il 18% degli abitanti e il 29% del Pil nazionale, e il resto del paese; nelle aree periferiche le oscillazioni del reddito pro-capite sono relativamente basse .
In base ai dati della Tabella 4, nel 2007 il livello del Pil per abitante era simile in Francia e Germania (poco sotto i 30 mila euro, a prezzi correnti), mentre l’Italia si discostava per il 12% circa in meno . Se valutiamo il livello della parte “non arretrata” del Paese, il Pil pro-capite delle regioni italiane del Centro-Nord era simile a quello della parte “non arretrata” della Germania (31 mila euro circa) e sostanzialmente in linea al dato francese che, come detto, è peraltro caratterizzato dalla situazione particolare dell’Ile-de-France. Il reddito medio pro-capite del Mezzogiorno italiano era inferiore di circa un quinto a quello del “Mezzogiorno” tedesco e di un terzo a quello delle regioni francesi che non fanno parte della felice enclave parigina. Questi dati mostrano che il giudizio sulle performance italiane non può essere slegato dal dualismo territoriale.
Altre considerazioni riguardano le dinamiche. Nell’ottica della competizione tra sistemi paese che appartengono ad un’area monetaria comune, a noi pare che abbia sempre un senso anche il confronto a prezzi correnti. Orbene, la media nazionale del Pil pro-capite segna una variazione del 31% circa in Francia e Italia e del 21% in Germania. Quest’ultima ha sofferto della bassa crescita nelle aree più ricche (dieci punti in meno rispetto alle corrispondenti regioni di Francia e Italia), fenomeno che ha ispirato una vasta letteratura i cui toni hanno superato non di rado la veemenza dei declinisti italiani, mettendo in luce l’eccessiva elevatezza dei costi sociali (si veda ad esempio Sinn, 2007).
Quanto infine ai diversi contributi alla crescita, l’espansione del Pil italiano ha sofferto della bassa dinamicità del Mezzogiorno; quest’area costituiva nel 1999 il 24% circa del Pil nazionale, ma ha contribuito all’espansione dell’ottennio che stiamo considerando solo per il 22%; per il Centro-Nord le proporzioni sono invertite, sia pur di poco, mentre l’unica area con dinamica relativa elevata appare il Lazio il cui peso è infatti aumentato di mezzo punto, passando dal 10,5% all’11% del prodotto nazionale. Difficile tuttavia ritenere che il Pil laziale derivi da fattori esclusivamente interni alla regione ed estranei ai benefici dell’assetto amministrativo della capitale. In Germania i Land dell’Est hanno contribuito alla crescita in una proporzione maggiore rispetto al peso che avevano nel 1999; la “spinta” è stata peraltro debole come si vede dai dati già citati sulla variazione percentuale del Pil pro-capite (29,2% contro variazioni più elevate sia in Francia che in Italia). Poche, da ultimo, le modifiche di peso in Francia a causa della relativa omogeneità dello sviluppo territoriale di quel paese. Nella Tab. 5 sono riportati i dati italiani rilasciati dall’Istat sia a prezzi correnti che a prezzi costanti. I valori del Pil a volume confermano quanto detto per quelli a prezzi correnti. (non mi pare che le informazioni siano tutte necessarie ai fini della tesi, e sono troppo generali per capire cosa sia successo nel sud, che, d’altra parte, non è la finalità di questo articolo. Se si deve tagliare, qui si può asciugare).

  • Freni e acceleratori: il declino delle grandi imprese italiane

In precedenti lavori ho messo in evidenza come il contributo delle grandi imprese allo sviluppo italiano si sia progressivamente affievolito (Coltorti 2002 e 2011; Becattini e Coltorti 2004). Il declino ebbe origine già negli anni Settanta del secolo scorso e da allora non si è più arrestato salvo modesti recuperi in occasione delle due grandi ristrutturazioni industriali, la prima a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, la seconda all’inizio degli anni Novanta. Da ultimo, il processo di globalizzazione è stato affrontato dalle grandi imprese italiane insistendo sulla riduzione dei costi e delocalizzando all’estero quote importanti di attività produttive e di subfornitura. Le stesse decisioni sono state assunte, a partire dall’ultimo decennio, da importanti filiali di multinazionali estere le quali hanno preso a trasferire le funzioni produttive in altri paesi, mantenendo nel nostro strutture eminentemente commerciali. Nel solo ultimo triennio, le principali società a controllo estero hanno ridotto gli organici in Italia di oltre 26 mila unità (Mediobanca, 2011 a). A fronte di questi declini e smobilitazioni sono venuti emergendo sistemi produttivi locali incentrati su aziende di dimensione intermedia che abbiamo denominato “quarto capitalismo” . Si tratta di sistemi che rappresentano in buona parte evoluzioni delle aree distrettuali le quali rispondono in questo modo al fenomeno dei paesi emergenti che, da un lato, si configurano come competitori sulla produzione di beni a basso costo, dall’altro, propongono mercati in espansione il cui sfruttamento rende possibile bilanciare la bassa dinamicità dell’eurozona.
La Tab. 6 sintetizza le variazioni del valore aggiunto italiano dal 1999 al 2007, separando nella manifattura i contributi delle grandi imprese da quelli dei distretti e del quarto capitalismo. La classificazione è stata fatta sulla base di chi produce prevalentemente i beni; dobbiamo considerarla a titolo indicativo, ma ciononostante utile ai nostri fini . L’apporto manifatturiero allo sviluppo del Pil è venuto per oltre i due terzi dai beni di distretti e quarto capitalismo. Nei dati che l’Istat stima a volume le grandi imprese figurano addirittura aver prodotto un freno assai più consistente, presentando una variazione negativa. Il profilo è confermato dai dati Mediobanca sulle imprese manifatturiere (Graf. 5). Tra il 1995 e il 2010 il valore aggiunto a prezzi correnti delle società italiane facenti capo ai maggiori gruppi è diminuito del 16%, mentre le imprese del quarto capitalismo lo hanno aumentato del 32% con un massimo pari a poco meno del 50% nel 2007.
Non sfugge come il progresso del Pil italiano venga soprattutto dal terziario: 74,8% della crescita a prezzi correnti e 81,3% di quella stimata a volume. Nei dati di contabilità nazionale la quota del terziario sul Pil prodotto ogni anno oscilla intorno al 70% e da qui spesso prendono lo spunto quanti suggeriscono di abbandonare l’industria in suo favore. Ma, pur prescindendo dai problemi di misurazione, occorre considerare che una frazione importante dei servizi viene “mossa” dall’industria. Se noi immaginassimo di poterla cancellare d’un tratto dalla nostra economia, il Pil (calcolato al netto delle attività non market) si ridurrebbe di quasi il 60%; la manifattura conta in questo calcolo per la metà. Verrebbe infatti meno il valore dei beni materiali, ma anche quello dei servizi prestati alle imprese che producono. Difficile valutare in aggiunta l’impatto  dei fenomeni moltiplicativi. Come è noto, i servizi producono usando a loro volta altri servizi (ad esempio, un trasportatore di merci prodotte da una fabbrica utilizza i servizi legali e amministrativi di altre aziende del terziario). Secondo le tavole input-output recentemente pubblicate dall’Istat, il rapporto tra servizi acquistati e servizi venduti dalle branche del terziario era pari nel 2007 al 36%, con un moltiplicatore di 1,6 non chiaro. Lo sviluppo dei servizi cosiddetti avanzati, nei quali il nostro paese figura in ritardo, costituisce certamente un obiettivo da perseguire, ma il ruolo del settore secondario nella creazione di reddito appare difficilmente sostituibile; va aggiunto che il passaggio dalle attività direttamente produttive a quelle terziarie comporta, in linea di massima, un rallentamento dello sviluppo poiché cresce il peso delle risorse con produttività più bassa (è vero per tutti i servizi? Per es. trasporti, commercio, comunicazioni? Per non parlare della finanza) . Il “fuoco” del problema della crescita torna dunque sull’industria. Qui, come anticipato sopra, il problema principale del nostro paese non è costituito dall’area delle unità di dimensione inferiore (tesi cara ai declinisti), ma dalle grandi imprese. Queste ultime producono infatti valore aggiunto in misura decrescente (negli ultimi anni perché vanno a produrlo all’estero), mentre le prime mantengono un radicamento locale che genera progressivamente la maggior parte della ricchezza del paese.
La Tab. 7 propone la lista dei gruppi privati italiani con più di 10 mila dipendenti in ciascuno degli anni dal 1973 al 2009. Si possono notare alcune precise dinamiche. Le grandi imprese classiche, manifatturiere, sono venute declinando fortemente; l’unico gruppo che ha mantenuto una dimensione adeguata è la Fiat che tuttavia ha proceduto per alti e bassi chiudendo nel 2009 con una forza lavoro inferiore del 37%. Inoltre, all’inizio del 2011 si è scissa in due tronconi, il più grande dei quali si è poi integrato con la statunitense Chrysler. La dimensione di questo nuovo gruppo, che è sempre più difficile considerare “italiano”, è all’incirca pari a quella del gruppo Fiat nella sua configurazione del 2009. Al di fuori della Fiat si nota una relativa tenuta della sola Pirelli, ridotta peraltro a meno della metà della dimensione che aveva nel 1973. Scomparse Montedison, Olivetti e, di fatto, Snia. Ridimensionata del 75% circa la Zanussi, passata negli anni Ottanta  sotto il controllo della svedese Electrolux. La Falck si è ridotta alla taglia di media impresa, abbandonando l’originaria attività negli acciai speciali. Le imprese chimiche destinatarie di cospicui fondi pubblici stanziati per lo sviluppo del Mezzogiorno (contributi a fondo perduto e finanziamenti a tasso agevolato) o sono scomparse in breve volger di anni, come Liquigas e Sir-Rumianca, o hanno subito persistenti débâcle di ordine prevalentemente finanziario, come le già citate Montedison e Snia. Nel 2009 la forza lavoro è complessivamente aumentata, ma per effetto delle assunzioni estere che, essendo prevalentemente in paesi in via di sviluppo, assicurano bassi costi, ma producono riduzioni di produttività. Tra il 1993 e il 2009 i dipendenti in Italia si sono ridotti del 49% contro la flessione di un terzo accusata dalle maggiori multinazionali (rilevazione su insiemi parziali). Nella tab. 7 sono indicati gli occupati totali? (italiani e esteri?)
Per contro, sono venuti emergendo alcuni gruppi nuovi, principalmente nell’industria leggera. Il maggiore è attualmente Benetton che costituisce un conglomerato dove le attività originarie nell’abbigliamento sono affiancate a quelle finanziarie e di servizi pubblici (Autostrade) e commerciali (Autogrill), in gran parte  acquisite in occasione del programma di privatizzazioni degli anni Novanta del secolo scorso. Segue Luxottica, l’unica ad essersi espansa nel suo core business, sia pur con prevalenti investimenti nella distribuzione commerciale.
Vi sono poi 12 gruppi, prevalentemente newcomers, cresciuti in parte sulle privatizzazioni (come Riva) e in parte su acquisizioni soprattutto in beni durevoli e di largo consumo. Mancano imprese produttrici di beni tecnologicamente avanzati. In sintesi, un solo gruppo privato italiano figura nella classifica degli europei con più di 100 mila dipendenti (Tab. 8). Ma il contesto europeo presenta un’élite di imprese assai più stabili nella loro dimensione, sovente in crescita nell’ultimo quindicennio. Ultimo ma non per importanza, si tratta in prevalenza di società operanti in settori tecnologicamente avanzati, con importanti impegni nella ricerca; il che non è la norma nelle grandi imprese italiane.

  • Economie e diseconomie interne ed esterne

 

L’analisi precedente ci presenta una grande impresa che in Italia fatica a restare tale e si rimpicciolisce sempre più, mentre a livello europeo (e mondiale) il gruppo dei grandi protagonisti tende a mantenersi integro rafforzando per di più la propria dimensione. I motivi della deriva italiana sono difficili da individuare. Una prima riflessione riguarda il ruolo dei governi e della politica industriale; governi deboli e di vita breve si sono susseguiti senza dettare indirizzi precisi. Le due maggiori politiche industriali del dopoguerra, quella per il Mezzogiorno e la nazionalizzazione elettrica, hanno avuto cattivi esiti; la prima ha favorito cospicui esborsi finanziari a favore di imprese capital intensive incapaci di promuovere innovazioni importanti e sviluppo diffuso sui territori depressi; la seconda ha prodotto una redistribuzione di risorse in favore di imprenditori del tutto impreparati alla bisogna. Effetto collaterale, l’impoverimento del listino borsistico e il conseguente progressivo depauperamento di una fonte di impiego del risparmio che avrebbe potuto sostenere uno sviluppo economico basato su aziende di grande dimensione; a ciò ha contribuito il sostanziale fallimento del progetto originario dei fondi comuni d’investimento, incapaci di qualificarsi in visioni di lungo periodo (Coltorti 2010 a).
La grande impresa ha rappresentato un luogo di prevalente “contrapposizione” tra capitalisti e lavoratori. Il confronto è risultato lesivo degli interessi del paese e soprattutto del possibile ruolo che una grande impresa, quale luogo di “composizione” delle tensioni, avrebbe potuto rappresentare per il nostro progresso. Ne è derivata una “deformazione” manageriale verso la pura riduzione dei costi di lavoro a scapito dell’espansione dei ricavi quale frutto delle innovazioni tecnologiche. Una logica conseguenza, nella fase di globalizzazione che stiamo vivendo, è la preferenza per l’offshoring (delocalizzazione all’estero di interi processi produttivi) in luogo dell’outsourcing (che lascia quote importanti di produzione nel paese di origine) .
Resta inspiegato il ruolo della proprietà familiare. Nelle piccole aziende essa è insostituibile, ma anche nel contesto del quarto capitalismo la famiglia (potremmo aggiungere “illuminata” quando, in caso di debolezza, si avvale di dirigenti esterni) appare un fattore propulsivo e non regressivo come taluni insistono dimenticando l’evidenza dei fatti. Diverso sembra il caso della grande impresa  che produce complessità difficilmente risolvibili nella ristretta cerchia delle parentele. Ma resta il fatto che l’unico grande complesso manifatturiero di questo paese, avente tuttora una dimensione mondiale, si caratterizza per un assetto di controllo familiare, mentre le imprese cosiddette manageriali (Montedison, Snia e, da un certo momento in avanti, Olivetti) si sono sostanzialmente estinte. Non pare dunque la famiglia il problema centrale, ma il rapporto tra chi esercita il controllo e chi gestisce le operazioni; in altri termini, (un simile argomento è sostenuto da chi critica il moderno capitalismo americano manageriale, che alimenta il short-termismo al vecchio  capitalismo dei capitani d’impresa più attento agli sviluppi di lungo periodo dell’impresa)si tratta di un problema di governance, ovvero delle norme (scritte nei codici, ma anche derivate dalle consuetudini di un mercato forse troppo ristretto) che la costituiscono.
Il nostro paese si caratterizza inoltre per una relativa debolezza dei media, i quali, dopo l’avvento del fascismo negli anni Venti del secolo scorso, sono prevalentemente controllati dai grandi complessi. Gli effetti di un esame più severo delle performance dei grandi gruppi da parte della pubblica opinione sono difficili da stabilire, ma non v’è dubbio che gli assetti di governance sarebbero risultati senz’altro migliori e più adatti al progresso tecnico oltre che sociale . (questo paragrafo è rilevante?)
Quanto infine alla disponibilità di risorse finanziarie, non è vero che queste sono mancate; è invece vero che risorse cospicue sono state disperse in investimenti errati attraverso l’azione di intermediari quanto meno impreparati . Vi furono epoche in cui venne richiesto l’apporto del “mercato”, termine di cui si dimentica sempre di specificare il regime. Ma quando questo ha consentito il finanziamento senza troppi vincoli (ad es., a metà anni Ottanta del secolo scorso), è stato possibile evitare la diluizione del controllo attraverso l’emissione di titoli privi del diritto di voto o di prestiti e titoli di debito collocati dal sistema bancario senza accurato esame del merito. Ciò ha forse impedito il formarsi di una classe manageriale che garantisse con autonomia tecnica la guida delle grandi imprese avendo di mira il bene di tutti gli stakeholders e non solo degli azionisti di controllo. 
Il “problema” dello sviluppo italiano visto dal lato delle grandi imprese sta pertanto nell’insieme delle falle che ne caratterizzano gli assetti istituzionali. In un’ipotetica lotta per la conquista delle risorse necessarie per produrre (lavoro e capitale), un’impresa di grandi dimensioni riesce quasi sempre vincente; dunque, a me pare che non occorra chiedersi il perché le “piccole donne” non crescano (parafrasando una simpatica frase di Ciocca, 2009), ma perché  le donne che erano “grandi” abbiano smesso di essere tali. Occorre cioè indagare a fondo i motivi che hanno portato, e continuano a portare, le nostre grandi imprese ad esiti nefasti.
Se ora osserviamo i livelli di produttività non sembra affatto scontata l’ipotesi che i più assumono e cioè che tali livelli crescano con la dimensione. E’ ben vero che questo risultato emerge da alcune analisi dell’Istat e della Banca d’Italia, ma si tratta di elaborazioni di dati sui quali abbiamo già manifestato riserve . In una recente verifica comparativa dei livelli di produttività delle medie imprese manifatturiere in tre paesi europei, riferita all’anno 2006 e fondata su statistiche rese omogenee (elaborate da R&S), il risultato è l’esatto opposto (Confindustria, R&S e Unioncamere 2010; Coltorti e Garofoli 2011). Qui l’analisi è stata fatta su insiemi di imprese (nel caso italiano si tratta dell’universo) classificati sulla base dell’assetto di gruppo. (forse vale la pena spiegare, data la rilevanza dell’argomento: il gruppo coincide con la rete e se no, in che relazione stanno?) Ebbene, il particolare (per i più, inconsueto) di una produttività che diminuisce all’aumentare delle dimensioni è verificato sia in Italia che in Germania e Spagna. Questo risultato deriva in buona sostanza dal fatto che generalmente (ed erroneamente) le economie di scala vengono associate solo ad imprese di grande dimensione. E’ invece del tutto evidente che quei benefici possono essere ottenuti, oltre che nei numerosi stabilimenti nei quali si articola un grande complesso, da insiemi di imprese di dimensione inferiore le quali si coordinino tra loro formando una “rete” o filiera. In questo caso, le economie di scala sono “esterne” all’impresa, ma interne al sistema  a cui essa appartiene, come accade ad esempio nei distretti industriali e, più recentemente, nelle catene di fornitura che si avvalgono persino di partner internazionali . Tuttavia, le stesse grandi imprese operano nelle proprie organizzazioni di gruppo attraverso unità produttive che rientrano sovente nelle classi dimensionali intermedie. E’ proprio l’esistenza di queste “economie esterne” che consente oggi di operare efficientemente con organizzazioni a “sistema” i cui membri sono indifferentemente imprese piccole, medie e grandi.

  •  Cambia l’impresa

I passi precedenti sono più comprensibili se visti nel contesto dei cambiamenti intervenuti storicamente nell’organizzazione delle imprese, ben riassunti da alcuni noti Autori . Dalle prime gerarchie nell’organizzazione dei complessi ferroviari americani, all’introduzione del taylorismo nelle fabbriche di Ford e poi della forma multi-divisionale negli anni Venti del XX secolo, sino alla caduta del fordismo a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. In quell’ultimo periodo si è verificata una vera “rivoluzione” (secondo la terminologia usata da Jensen) che ha condotto ad importanti miglioramenti di produttività. Si è passati da anni nei quali contava la crescita in sé e per sé, con il relativo effetto-miraggio delle economie di scala “interne” alle grandi imprese, ad una nuova fase nella quale le innovazioni nei prodotti, nei mercati e nelle organizzazioni (ad es. la produzione snella giapponese) generano continui eccessi di capacità che vedono nascite ed espansioni di imprese nuove (Apple ne è un esempio), a fronte di ristrutturazioni ed espulsioni delle imprese che non si adeguano.
Caratteristica principale delle nuove imprese “moderne” è il downsizing e il ricorso sempre più esteso all’esternalizzazione di intere fasi di processi produttivi che i metodi fordisti, bloccati su beni standardizzati, reclamavano all’interno della grande fabbrica. La globalizzazione completa il quadro aggiungendo le delocalizzazioni dei centri produttivi nei paesi a basso costo della manodopera.  Un aspetto curioso di questo fenomeno è che la maggiore efficienza produttiva venne storicamente cercata per superare innanzitutto un problema di natura finanziaria tipico delle imprese deboli. Come ha rivelato un antesignano, membro della famiglia che controlla la Toyota, la trasformazione da un sistema di produzione integrata all’interno dell’impresa ad un sistema sempre integrato, ma basato su flussi di prodotti forniti da terzi (cosiddetto TPS, Toyota Production System) consentì di eliminare i fabbisogni di capitale necessari per la fabbricazione dei componenti e il loro magazzinaggio. Fu così possibile vendere il prodotto finito prima ancora di aver pagato la fornitura delle parti necessarie per produrlo (Toyoda, 1985). E’ proprio su questi principi (sconosciuti in Occidente sino agli anni Ottanta del secolo scorso) che ebbero origine i nostri distretti industriali la cui fioritura risale tuttavia a una decina d’anni prima. La divisione spinta del lavoro, non più in capo a un’unica grande impresa unificante (come era il caso Toyota), ma all’interno di un sistema locale che nel distretto fonde comunità sociale e comunità di imprese, consentì di superare il collo di bottiglia finanziario individuato dal famoso Rapporto Macmillan negli anni tra le due guerre (Committee on Finance & Industry 1931), sfruttando nel contempo la differenziazione della domanda espressa da mercati nei quali le fasce a reddito medio-alto divenivano sempre più importanti.
Si è prodotta una diversa struttura delle grandi imprese. Le esternalizzazioni, le innovazioni nei macchinari e nelle comunicazioni consentono ora di mantenere il controllo dei mercati con apparati produttivi ridotti. La relazione tra cash flow generato dalla gestione corrente e investimenti in macchine e impianti vede emergere nella grande impresa multinazionale una costante eccedenza di cassa. Secondo l’ultima indagine R&S sulle 252 maggiori multinazionali industriali della triade, nel periodo 2001-2009 a fronte di un cash flow di circa 8 mila miliardi di euro, gli investimenti tecnici hanno assorbito appena 3.400 miliardi, lasciando un saldo di cassa di 4.600 miliardi. Questa liquidità entra nei mercati finanziari attraverso le operazioni M&A, la distribuzione di cospicui dividendi e il riacquisto di proprie azioni; se esistono investitori istituzionali efficienti e correttamente regolati le risorse tornano ai cicli produttivi finanziando nuove iniziative. Questo genere di impieghi “conta” dunque molto più delle stesse decisioni di investimento tecnico da cui derivano le innovazioni che spingono la produttività e il progresso sociale. In altre parole, abbiamo di fronte un sistema di imprese giganti che adotta strutture patrimoniali con all’attivo poste finanziarie che si bilanciano con quelle industriali e, al passivo, dotazioni di mezzi propri decrescenti (Tabb. 9 e 10). Le poste finanziarie tendono a giocare nei mercati più evoluti, quelli anglosassoni, mentre quelle tecniche prendono sempre più la via dei paesi emergenti, cercando di mantenere tuttavia nel paese d’origine il controllo delle funzioni che assicurano il progresso tecnologico. Qui si scopre un’altra debolezza italiana nell’incapacità di finanziare, con nuovo capitale, iniziative che puntino alle grandi dimensioni; non per mancanza di capitali, ma per difetto di istituzioni capaci di indirizzarli nelle produzioni avanzate.

  • Le perdite di capitali (questa sezione è molto eterogenea e forse non ben rappresentata dal titolo)

L’Italia è rimasta a lungo sprovvista di intermediari aventi natura di investitori istituzionali nel senso anglosassone, adatti cioè a mercati nei quali vengono negoziati titoli di public companies. Tuttavia, soprattutto per effetto della governance emanata dal trattato di Maastricht (?), anche nel nostro paese hanno assunto importanza le gestioni professionali del risparmio; in prevalenza, fondi comuni e gestioni patrimoniali di banche rivolte a clientela cosiddetta affluent. Tra il 1995 e il 2005 i mezzi così gestiti, includendo le assicurazioni, sono passati da 582 a 1.110 miliardi di euro. I fondi comuni, quelli potenzialmente più interessati agli impieghi azionari, furono istituiti nel 1983 con lo scopo di raccogliere il risparmio indirizzandolo verso impieghi a medio e lungo termine nel sistema produttivo nazionale. Essi hanno raggiunto il massimo favore all’inizio del 2000 quando il patrimonio affidato dagli investitori superò i 485 miliardi di euro. Visti nel loro insieme, gli esiti delle gestioni sono stati però mediocri, inseguendo prospettive di breve periodo e impiegando il capitale prevalentemente in titoli di stato e obbligazioni (Coltorti 2010 a). Secondo i dati della Banca d’Italia la frazione di patrimonio destinata alle azioni è passata dal 40% circa nel 2000 al 23% nello scorso giugno, ma, quel che più conta, i titoli delle società italiane sono stati sempre una quota minoritaria e per giunta declinante, passando dal 25% nel 2000 al 13% dei valori azionari (al 30 giugno 2011 i possessi di azioni italiane costituivano meno del 3% del patrimonio complessivo dei fondi italiani). Gli stessi risultati della gestione hanno comportato nel tempo forti disavanzi, grandemente indotti da svalutazioni di titoli esteri, che hanno costituito vere e proprie perdite di capitali per i risparmiatori nazionali a favore delle altre economie dell’eurozona (si può spiegare? Quali titoli? E perché hanno favorito le altre economie?). Si aggiunga che i gestori italiani hanno indirizzato una quota cospicua del risparmio raccolto verso fondi gestiti all’estero (soprattutto in Lussemburgo). Questa esperienza ha dunque aggiunto un altro freno alle nostre potenzialità di sviluppo producendo per contro un ulteriore limite nella scelta di organizzazioni produttive capital intensive.
In sintesi, quanto sin qui affermato porta a ritenere che, per lo meno nel periodo 1999-2007, l’economia italiana abbia proceduto a freni e spinte nel mezzo di una trasformazione strutturale della sua industria, seguendo le vicende degli altri due principali partner dell’eurozona, in alcuni casi reagendo meglio al nuovo scenario della moneta unica. E’ stato proprio questo cambiamento a spingere le nostre imprese di dimensione intermedia a fondare la propria competitività sulla riqualificazione dei prodotti, essendo ormai precluso gran parte dell’effetto delle svalutazioni del cambio. Il dualismo territoriale da un lato (Centro Nord vs Mezzogiorno) e il dualismo dimensionale dall’altro (distretti e quarto capitalismo vs grandi gruppi) hanno agito introducendo quelle spinte e quei freni che si sono contrapposti rallentando lo sviluppo economico del paese visto nel suo insieme. Molto sembra però cambiato dopo la crisi. Tornando alle curve del Graf. 2, si nota una perdita relativa di velocità a partire dal 2006. E’ qui dunque che dovrebbe iniziare la ricerca delle debolezze.
Molti invocano problematiche di contesto: lacune di infrastrutture, eccessiva regolamentazione, ecc. Si tratta di problemi importanti, concreti e di forte impatto, ma essi esistevano in gran parte anche in precedenza e gli altri grandi paesi non ne sono esenti. Ricordo la battuta per nulla sarcastica dell’ex Cancelliere tedesco Helmut Schmidt: “la straziante iperregolamentazione non soltanto in Germania, ma anche in Francia e in Italia – l’Italia è, comunque, in una posizione più felice poiché lì non è necessario ottemperare a tutte le norme” (Schmidt 2000, p. 35).  I veri aspetti nuovi sono stati: i) la grande crisi del 2008 che l’anno successivo ha colpito severamente le nostre imprese costringendole a ridurre la forza lavoro (in primo luogo utilizzando la cassa integrazione) e, conseguentemente, frenando la domanda aggregata;  ii) il cambiamento di segno nei saldi del commercio con l’estero, a partire dal 2006; iii) uno sbilancio crescente nei redditi di capitale che concorrono al saldo finale della bilancia dei pagamenti oltre che allo stesso Pil.
Le ore di cassa integrazione utilizzate nelle grandi imprese, secondo i dati Istat, sono passate da una media intorno al 2% delle ore effettivamente lavorate nel secondo semestre 2007 e nel primo del 2008 al 4,4% nel luglio-dicembre 2008, ad oltre il 10% nel 2009; nel 2010 la percentuale è scesa all’8% e nel primo semestre di quest’anno al 7%. Nel biennio 2009-2010 sono state autorizzate oltre due miliardi di ore, delle quali 800 milioni nella sola industria in regime ordinario. L’effetto sui consumi è stato abbastanza evidente (Tab. 11). La media annua a volume è passata da 731 miliardi di euro nel 1999-2005 a 755 miliardi nel 2006-2010 (+3,3% appena). Le categorie penalizzate sono state quelle dei beni prodotti prevalentemente all’interno (vestiario e calzature, mobili e altri prodotti per la casa dove i consumi medi a prezzi costanti si sono ridotti tra il 4% e il 18%), mentre la spesa nei servizi ha scontato il rincaro delle tariffe pubbliche.
Lo sbilancio tra import ed export commerciale è riconducibile al peso dei prodotti energetici e agricoli, pari mediamente a oltre 50 miliardi di euro annui, non più pareggiato dalle esportazioni nette di manufatti, soprattutto per il più volte citato declino delle grandi imprese (Graff. 6 e 7). Nel 2009 e 2010 si è aggiunto l’onere delle importazioni di celle fotovoltaiche, incentivate da un regime particolarmente favorevole ai produttori che le utilizzano. Un ulteriore aggravio è venuto dalla dinamica del flusso dei redditi da e verso l’estero che può essere valutato rispetto ai saldi patrimoniali. La posizione netta dell’Italia è sempre negativa e ciò deriva essenzialmente dal concorso dell’estero al finanziamento del nostro debito pubblico. La consistenza di questa voce è andata aumentando raggiungendo nel 2010 i due terzi circa degli investimenti esteri di portafoglio. Gli investimenti italiani all’estero qualificati di portafoglio hanno una consistenza inferiore, ma soprattutto fruttano rendimenti inferiori (tra mezzo punto e un punto percentuale). Sembra confermata anche in questi dati la bassa qualità dei gestori di patrimoni. Gli investimenti diretti italiani all’estero (realizzati con profili di medio/lungo periodo) fruttano invece rendimenti superiori a quelli esteri in Italia, ma i volumi non sono tali da influire nei saldi negativi complessivi.
Venendo alla bilancia dei pagamenti, dal 2005 la sezione del conto corrente mette in evidenza saldi negativi di grande intensità (Tab. 12). Nell’ultimo triennio si è trattato di un’uscita di risorse pari a 85,5 miliardi di euro; nel periodo precedente (2005-2007, ma i dati sono disomogenei) si erano registrate uscite nette di risorse per altri 62,1 miliardi.
In definitiva, in aggiunta ai freni sul Pil di cui si è parlato, hanno contato fuoriuscite nette di mezzi finanziari a favore di investitori esteri. Il quadro delle risorse e impieghi è riassunto nella Tab. 13. La media annua del Pil a prezzi costanti è aumentata del 3,4% tra il periodo 1999-2005 e quello 2006-2010. L’espansione più importante è stata quella originata dalla spesa delle Amministrazioni pubbliche (+8,9%); il volume di spesa delle famiglie residenti è aumentato del 3,8% mentre gli investimenti sono la categoria in maggior sofferenza con appena il 2,3% in più. E’ forse sugli effetti di queste variazioni che occorrerebbe riflettere: l’efficienza (o l’inefficienza) dei consumi pubblici e la ridotta propensione ad investire nel complesso dell’economia.
I dati della Bilancia Commerciale indurrebbero a ritenere che, se anche c’è stata vitalità nelle imprese del quarto capitalismo, e dunque non c’è stato declino in senso stretto, la base produttiva è troppo ridotta per consentire al paese Italia di pagarsi le importazioni (e garantire l’occupazione di tutta la forza lavoro)

  • Nuovi motori di sviluppo

Non esiste in letteratura una visione condivisa sui “motori” dello sviluppo. Gli economisti classici stabilirono che il progresso sociale è legato all’aumento della produttività del lavoro ; ma ne restano ancora indimostrate le principali cause. Le verifiche sui dati di lungo periodo hanno messo in evidenza il ruolo positivo, oltre che del capitale per addetto, della qualità delle risorse umane, dell’allargamento dei mercati e della riallocazione delle risorse verso i settori più produttivi, al netto delle riduzioni nell’orario di lavoro. Tuttavia, la maggior parte dei miglioramenti di produttività (oltre il 65% nel 1964-1982, come si ricava dai calcoli di Denison, 1985, p. 113) resta confusa in quel concetto di “residuo” che Moses Abramovitz definì nel 1955 “qualche sorta di misura della nostra ignoranza circa le cause dello sviluppo economico” e che Robert Solow nel 1957 chiamò progresso tecnico in senso lato, poi divenuto popolare come produttività totale dei fattori (PTF).
I conteggi della produttività totale dei fattori (“residuo”) sono spesso opinabili in quanto legati ad ipotesi arbitrarie (o teoricamente discutibili) (Abramovitz 1991, p. 17 dove cita Denison). I dati micro aggiungono altri interrogativi sugli effetti e le cause dell’eterogeneità di singole imprese e singole fabbriche (Syverson 2011). Le rilevazioni macro condotte con maggiore costanza sono quelle sugli Stati Uniti, pubblicate dal Bureau of Labor Statistics. Secondo i dati più recenti, nel periodo 1987-2010 la produttività oraria del lavoro nel settore privato è aumentata del 2,3% all’anno e il contributo della PTF è stato pari a circa il 40%. Ma tale quota è molto volatile nei singoli anni: nel 2010 è stata pari a quasi nove decimi, l’anno prima al 5% appena e nel 2008 la variazione è stata negativa; non pare che tale variabilità sia coerente al contenuto ideale che gli studiosi assegnano al dato (che sottintende lenti e costanti movimenti di lungo periodo) , lasciando interrogativi su metodi e statistiche usati allo scopo. E’ per tale motivo che alcuni suggeriscono di valutare il fenomeno non nel breve termine, ma su un tempo non inferiore a 40 anni (Baier, Dwyer e Tamura 2002). Le statistiche di confronto dei vari paesi sono raccolte dall’Eurostat e dall’Ocse, ma appaiono disomogenee e sovente scombinate. L’Ocse produce un dato sulla PTF per vari paesi senza riferirla ad un contesto complessivo omogeneo che riguardi innanzitutto la produttività oraria. Ricostruendo gli indici per la manifattura si otterrebbe che tra il 1999 e il 2007 la produttività italiana è aumentata del 7,5% appena a fronte del 35% e del 38% rispettivamente di Francia e Germania. Se la misura avviene sul valore aggiunto per occupato, l’incremento italiano è del 5,3% contro il +26,9% francese e il +34,2% tedesco. Pertanto, tra il 1999 e il 2007 la produttività italiana “relativamente” a quella tedesca sarebbe declinata del 22%. Ma se osserviamo i dati Eurostat sul “livello” della produttività, troviamo che il valore aggiunto lordo per occupato a prezzi correnti della manifattura italiana è aumentato nello stesso periodo dal 70% al 76% del corrispondente dato tedesco. Pur scontando la disomogeneità delle fonti di questi indicatori, tornano dunque i problemi già discussi nel paragrafo sulla crisi delle statistiche: l’incoerenza delle variazioni intervenute nel periodo con i livelli iniziali e finali è troppo grave per non togliere valore a quelle stesse variazioni. Qui si aggiunge una complicazione causata dalle politiche di offshoring: la delocalizzazione all’estero di fasi produttive comporta infatti la riduzione di manodopera diretta restando invariati o quasi gli occupati indiretti, poiché si mantengono in patria i centri di progettazione e le direzioni commerciali. (e il prodotto finale viene contabilizzato all’estero?)
Il dato Istat più recente, pubblicato nel 2010, mette in evidenza aumenti medi annui della produttività oraria per tutta l’economia italiana nel periodo 1980-2009 pari all’1,2%; la quota della PTF in tale incremento (su un periodo di quasi un trentennio) è pari ad un terzo. Il periodo pre-crisi da noi assunto nelle precedenti analisi (1999-2007) segna aumenti medi annui della produttività pari allo 0,5% (quota PTF pari al 40%) che salgono all’1% per la sola industria in senso stretto (con la PTF pari esattamente alla metà dell’intero incremento). La peggiore performance spetta ai servizi della pubblica amministrazione e per le famiglie che hanno accusato una riduzione media annua dell’1,3%, seguiti dalle costruzioni con -0,7% . Questi indicatori italiani sono ovviamente soggetti a tutte le riserve di cui si è parlato poco sopra e all’inizio di questo scritto. Se vi sono seri dubbi sul dato che riguarda la produttività del lavoro, ha poco senso impegnarsi a ricostruirne i dettagli; tuttavia, astraendo dal livello assoluto, par di vedere che nel nostro paese la spinta della PTF sia di qualche importanza e che derivi soprattutto dalla manifattura (se vi sono dubbi, valgono sia nel dettaglio che in generale e anche nella manifattura); resta ovviamente da capirne le cause.
Come detto, la letteratura è assai ferma nel condividere la tesi che attribuisce la crescita della produttività del lavoro al progresso tecnico. Un progresso che origina dalle grandi innovazioni radicali e dalle azioni minori volte ad applicare tali innovazioni nei vari settori dell’attività umana e quindi industriale. Contano gli investimenti in beni materiali, che incorporano una quota del progresso tecnico, come pure quelli in beni intangibili (educazione, training del personale, affinamento delle capacità direzionali, amministrative e commerciali, tempi dedicati alla ricerca e allo sviluppo delle invenzioni) che sono incorporati nel fattore lavoro e che si possono sintetizzare nella parola “saperi” (Abramovitz 1993; Romer 1986). Quando applichiamo questo concetto all’Italia, ci scontriamo nuovamente con la dominanza di sistemi di imprese basati su aziende medie e soprattutto piccole e micro. Queste realizzano correntemente innovazioni, ma non le dichiarano nei bilanci e assai poco agli intervistatori che le chiedono . In alcuni casi brevettano prodotti e processi, in altri evitano di farlo per non rivelare ai concorrenti dettagli tecnici dai quali essi potrebbero pervenire ad imitazioni pericolose; una pratica, quest’ultima, seguita anche dalle imprese tedesche del Mittelstand (Meyer e Venohr, 2007, p. 13). A parità di mansioni, le qualifiche del personale che occupano sono meno elevate. A fine 2010 le grandi società italiane manifatturiere contavano 44 impiegati e dirigenti per ogni 100 dipendenti; le medie imprese erano a 36 su 100 (dati Mediobanca), anche perché usavano in outsourcing alcuni servizi ad elevata densità di personale cosiddetto high-skill (servizi legali, pubblicitari, di amministrazione del personale, ecc.). E tuttavia, i tassi d’investimento tecnico delle imprese del quarto capitalismo nel 1999-2004 hanno superato quelli delle grandi multinazionali e negli anni successivi li hanno praticamente eguagliati (Tab. 14). Ciò fa presumere una maggiore capacità innovativa orientata allo sviluppo . Difatti, riferendoci alle sole attività in Italia, il valore medio annuo degli investimenti delle società manifatturiere facenti capo ai gruppi maggiori, nel triennio 2008-2010, è aumentato del 7,7% rispetto al 2001-2003 a fronte di una riduzione di personale del 10% (elaborazioni su dati Mediobanca 2011 a). Nel quarto capitalismo il flusso degli investimenti è aumentato solo del 2,6% (ma con volumi pari ad 1,7 volte quelli dei grandi gruppi) mentre gli occupati sono rimasti praticamente costanti. Quindi, nei grandi gruppi gli investimenti sono serviti essenzialmente a ridurre l’occupazione mentre nelle imprese del quarto capitalismo essi hanno anche contribuito ad un maggiore e miglior prodotto. Ciò dimostra che esse mantengono i saperi originali (che sono “contestuali”, nel senso indicato da Becattini 1999), ma sfruttano anche quelli codificati, incorporati nelle nuove macchine e nelle nuove organizzazioni reticolari. (qui forse si traggono troppe conclusioni dai dati)
Tutto ciò porta ad un aspetto poco approfondito dalle tematiche correnti sullo sviluppo economico e cioè il fatto che il contesto nel quale operano le imprese moderne si è fatto sovranazionale. Quando si stabiliscono sedi all’estero, oppure si organizzano filiere nelle quali fasi importanti escono dal paese di origine, lo sviluppo nazionale non viene a dipendere solo dalla capacità innovativa, ma anche e soprattutto dal luogo in cui tale capacità si realizza. Così, le grandi multinazionali negli ultimi anni hanno preso a delocalizzare fuori dell’Italia persino i principali centri di ricerca. Nello specifico caso italiano, tra gruppi maggiori e imprese del quarto capitalismo, non c’è dubbio che siano queste ultime le più radicate nei territori di origine. Resta da capirne la sostenibilità nel lungo periodo. Se richiamiamo il modello di Romer (1993), possiamo ritenere che il quarto capitalismo, anche in quanto prevalente evoluzione dell’assetto distrettuale, sia un “nuovo” motore dello sviluppo italiano grazie a tre aspetti specifici:

  • fondandosi largamente sui sistemi locali, e costituendone la logica trasformazione nei nuovi contesti globali, esso mantiene molto ampia la platea degli imprenditori, garantendo un potenziale molto vasto per l’espressione delle nuove idee che producono le invenzioni e quindi il progresso tecnico ;
  • il “nuovo motore” si basa su una nuova organizzazione della produzione che insiste su “sistemi” di imprese; la struttura è flessibile dal lato della manifattura, è finanziariamente capital saving e risulta solido patrimonialmente; viene superato il collo di bottiglia che limiterebbe altrimenti, per scarsità di mezzi finanziari, la possibilità di raggiungere scale produttive elevate. L’insistenza sulla specializzazione a livello di fabbrica e sulla nicchia a livello di vendita assicura l’appropriazione dei rendimenti crescenti generati dallo sviluppo delle innovazioni;
  • la nuova organizzazione è “nonrival” (non escludente) poiché è assumibile da ogni nuovo entrante nel mercato; assicura dunque il ricambio degli “uomini nuovi” che esprimono le idee da cui nascono i nuovi beni; ma le nuove idee portano a produrre beni “rival” poiché i mercati di nicchia configurano regimi di concorrenza monopolistica.

Su tali contesti è chiaro che l’unità di riferimento per la ricerca della competitività (e la sua valutazione dall’esterno) non è l’impresa in sé, ma il “sistema” a cui appartiene e che viene organizzato prevalentemente ad opera delle unità di dimensione intermedia. E’ tale sistema che assicura a tutti i partecipanti la fruizione delle economie di scala esterne; in sei casi su dieci (?) esso configura un’evoluzione di imprese distrettuali di fronte alle sfide e alle opportunità della globalizzazione.
Sulla capacità di un’impresa costruita su strategie di nicchia di difendere le proprie posizioni è sufficiente ricordare il pensiero di Piero Sraffa secondo il quale “quando ciascuna delle aziende che producono una merce si trova in siffatta posizione il mercato generale della merce risulta suddiviso in una serie di mercati particolari [...] ...all’interno del suo proprio mercato e sotto la protezione delle sue barriere, ciascuna si trova in una posizione privilegiata che le consente dei vantaggi i quali, se non nella misura, almeno nella loro natura sono uguali a quelli di cui godono i monopolisti ordinari” (Sraffa 1926, p. 78). La globalizzazione agevola queste imprese le quali possono estendere le loro nicchie su mercati più vasti. Si spiega in tal modo come, similmente al caso italiano, una quota importante del successo tedesco nelle esportazioni sia riconducibile alle unità del Mittelstand, anch’esse a controllo prevalentemente familiare e anch’esse basate sullo sfruttamento di nicchie. Nella realtà l’estensione della nicchia è molto variabile e può fondarsi sia sul messaggio di gusto e qualità proprio del Made in Italy, sia sulle innovazioni più tipiche dei comparti meccanici-elettronici che sono ora i mestieri predominanti del quarto capitalismo. Solo per citare alcuni casi noti, la Grafica Veneta (media impresa con 150 dipendenti) produce 100 milioni di libri all’anno, la Tesmec (300 dipendenti) installa e vende linee elettriche e macchine per scavo in oltre 100 paesi, il gruppo tessile Albini (1300 dipendenti) propone 5.000 nuove varianti di tessuto in ogni stagione, la Elica (2800 dipendenti) produce annualmente 17 milioni di cappe e motori per aspirazione.

  • Conclusioni: perché non si cresce?

Le considerazioni sviluppate in questo scritto assumono che l’insoddisfacente sviluppo negli anni dopo il 1999 non costituisce un aspetto specifico dell’economia italiana, ma appare in linea con quanto accaduto agli altri due maggiori paesi dell’unione monetaria. Sulla Germania uno dei più ascoltati economisti così si esprime: “...the country seems to have been abandoned by fortune and now seems to lack the wherewithal to encourage its return. From 1995 to 2005, Europe was the world’s slowest-growing continent, and, next to Italy, Germany was the slowest-growing country in Europe” (Sinn 2007, p. ix). Per la Francia il Rapport Attali di tre anni fa ha tralasciato la sfortuna, richiamando espressamente il declino: “Le déclin relatif a commencé. Au total, en 40 ans, la croissance de l’économie française est passée de 5% à 1,7% l’an pendant que la croissance mondiale suivait le chemin inverse [...] Notre économie a deux faiblesses majeures unanimement reconnues: une compétitivité déclinante et l’insuffisance de son réseau de moyennes entreprises” (Commission pour la libération de la croissance française, 2008, pp. 9 e 16). Il problema della crescita si sposta dunque al livello superiore.
Per l’Italia, l’analisi spassionata delle statistiche mette in luce una deformazione delle nostre effettive performance nel contesto di una progressiva trasformazione della struttura che al “declino” delle grandi aziende affianca l’emersione delle imprese del quarto capitalismo. Le vere specifiche difficoltà di crescita risalgono in larga misura alla grande crisi del 2008 e alla più lenta ripresa dei livelli produttivi originari. Almeno in parte, ciò è riconducibile ai processi di internazionalizzazione. Essi proseguono con delocalizzazioni importanti da parte delle grandi imprese e stanno ora interessando anche le medie, che tendono a soddisfare la domanda dei paesi emergenti attraverso insediamenti esteri. A tutto il giugno scorso i flussi esportativi avevano riguadagnato i livelli pre-crisi, ma occorre considerare l’aumento delle importazioni di beni intermedi e dunque l’effetto del saldo sfavorevole della bilancia commerciale. Esso limita la produzione interna (sostituita da quella offshore) comportando indebitamenti crescenti sui quali gravano oneri finanziari che si traducono in flussi verso l’estero. Verosimilmente aumenteranno ancora i flussi di materiali intermedi importati (la cui produzione può essere allocata in aree a costi più contenuti), mentre rallenteranno le esportazioni a causa delle politiche di protezione doganale adottate dai paesi a maggiore tasso di sviluppo (Sud America e Sud Est asiatico ad esempio). Il procedere della globalizzazione sta imponendo una nuova selezione di mercati e di prodotti; è verosimile che l’industria italiana e i nostri sistemi locali, pur con dinamiche eterogenee, abbiano le capacità per farvi fronte.
I metodi delle rilevazioni statistiche, sempre più complesse man mano che le reti d’impresa si diversificano e si estendono al di fuori dei confini nazionali, aggravano il quadro poiché distorcono le nostre performance relative; non è chiaro in quale misura ciò dipenda dai “nostri” metodi e in quale da quelli degli altri paesi. La questione è aperta, ma intanto vi è condivisione nel fatto che i valori deflazionati svantaggino le serie italiane (Deutsche Bundesbank 2011, p. 17). Difficile dall’esterno? valutare l’entità del fenomeno. Basti dire che, nel caso il valore aggiunto della manifattura italiana venisse deflazionato con gli indici tedeschi, la sua variazione annua tra il 1999 e il 2007 passerebbe dallo 0,7% “ufficiale” al 3,3%; se gli indici fossero quelli francesi, la crescita salirebbe al 4,2% . Un ruolo importante è anche giocato dall’economia sommersa (che una stima grossolana fissa al 32% del Pil italiano “emerso”) che induce a sottovalutare il flusso annuo del reddito. In ogni caso, resta il fatto che le variazioni annuali del prodotto non vengono mai rese coerenti con i livelli e sono questi, in ultima analisi, che determinano la competitività. Un altro esempio di “illusione statistica” è la dinamica regressiva dei margini di profitto della nostra manifattura quando viene calcolata sui valori macro. Se si considerano invece i dati d’impresa elaborati da Mediobanca (2011 a), che escludono in quanto inattendibili le piccole aziende, si ha modo di verificare che la quota del margine operativo lordo sul valore aggiunto negli anni dal 1999 al 2007 è rimasta elevata, oscillando tra il 37% e il 42% (valore quest’ultimo relativo al 2007): imprese redditizie mal si combinano con il paventato declino. La sistemazione di queste complesse questioni statistiche, anche con l’adozione di metodi unificati e gestiti a livello comunitario, potrà offrire una base numerica di maggiore qualità per la valutazione della nostra crescita relativa e la messa a punto di politiche più appropriate.
A mio avviso, i dati e gli indicatori qui presentati dimostrano che il problema italiano non è costituito né da una quota insufficiente della componente di servizi nella produzione del Pil (che resta fortemente influenzato dall’industria, circa il 60%), né da un deficit di produttività indotto dalla minor dimensione unitaria delle nostre imprese, né – conseguentemente – dall’insistere su settori di specializzazione che escludono quelli ad elevata tecnologia. Vi è chi cita, tra le possibili cause della nostra lenta ripresa dopo la grande crisi, la maggiore sovrapposizione delle nostre specializzazioni a quelle cinesi e quindi una maggiore pressione concorrenziale (Deutsche Bundesbank 2011, p. 29); il divario in tale sovrapposizione con Francia e Germania (stimato in tre punti percentuali) non appare tuttavia sufficiente per una risposta definitiva, tenuto anche conto dei diversi percorsi di globalizzazione delle nostre imprese (più offshoring e meno outsourcing).
In definitiva, la dinamica della produzione industriale italiana è soggetta a due coppie di forze contrarie: il declino delle grandi imprese fa regredire la generazione di ricchezza, mentre l’emergere dei distretti  prima e, prevalentemente al loro interno, dei sistemi d’impresa del quarto capitalismo poi, spingono in avanti. D’altro canto, nell’ultimo decennio il nostro Mezzogiorno non è stato capace di contribuire allo sviluppo nazionale con una spinta proporzionalmente superiore a quella delle aree più progredite. Quarto capitalismo e Mezzogiorno restano le più forti leve di cui disponiamo per combattere la tendenza recessiva indotta dalla grande crisi.
Per concludere, alcune chiose:

  • Circa il “dilemma” grandi imprese vs distretti e quarto capitalismo, è perfettamente inutile chiedersi quale sia la categoria da preferire. Il governatore Donato Menichella sistemò una questione simile esprimendosi in pugliese “Chiste so’ i sunaturi e cu chiste s’adda sunà!” (“questi sono i suonatori e con questi occorre suonare”; Menichella 1986, p. 46). Nell’industria i “sunaturi” sono quelli che abbiamo analizzato e non vi sono motivazioni plausibili per ritenere che possano essere in qualche modo sostituiti nel breve andare. Inutile quindi, oltre che dannoso, tentar di “agevolare” con aiuti ad fabricam la crescita dimensionale. L’assetto dell’impresa e la sua patrimonializzazione sono compiti fondamentali dell’imprenditore e sta a lui decidere per il meglio in base alle sue forze e debolezze. Se l’ampliamento sarà condizione di maggiore efficienza (o magari di sopravvivenza), le stesse imprese lo perseguiranno in autonomia, come puntualmente avvenuto alla fine del secolo scorso con l’emersione dai distretti delle imprese medie e medio-grandi; esse hanno tutte le capacità di giocare a livello internazionale grazie ai progressi dei trasporti e delle comunicazioni, progressi che – contrariamente a quanto viene comunemente sostenuto – favoriscono le aziende minori agevolando una presenza globale altrimenti riservata alle grandi multinazionali.
  • La crisi e il deterioramento della nostra classe dirigente ha fatto sì che le capacità imprenditoriali di cui il paese oggi dispone non siano quelle che portano ai grandi progetti , ma piuttosto quelle che Marcello De Cecco un paio di lustri fa (De Cecco 2000), forse con eccessivo pessimismo, ha confinato nell’ “economia di Lucignolo”; ma, nella favola di Pinocchio, Lucignolo è un personaggio negativo perché cerca senza sforzo divertimenti gratuiti che infine lo riducono in asino schiavo di altri. Possiamo dire altrettanto di imprenditori che hanno reagito il più delle volte con sacrifici all’impoverimento delle idee dei grandi, creando imprese che reggono alla competizione delle multinazionali giganti?
  • Toccando il tema della politica economica occorre prendere coscienza che lo sviluppo è questione di lungo periodo, mentre scosse e cambiamenti di passo si addicono alle azioni volte a sistemare fenomeni più contingenti, tra i quali si è ora inserita prepotentemente la crisi dei debiti sovrani; la sua sistemazione avrà effetti al momento poco prevedibili. Sotto il profilo strutturale, che qui interessa, le ricette più efficaci per lo sviluppo appaiono quelle che puntano sul capitale umano e sui servizi delle istituzioni nei territori, ovvero che producono effetti che non rischiano di evaporare negli innumerevoli e complessi percorsi della globalizzazione. Occorre eliminare i “freni”, riconducendo le poche grandi imprese che ci restano verso politiche di impronta nazionale a forte innovazione tecnologica (da misurare sui risultati effettivamente conseguiti e sulle ricadute locali), attivare nel Mezzogiorno meccanismi di crescita autosostenuta (che facciano dimenticare i meri trasferimenti di redditi di cui ha sinora beneficiato), rafforzare nei loro “luoghi” i sistemi d’impresa del quarto capitalismo che oggi appaiono come l’unico e veramente efficace motore di sviluppo; occorre infine riflettere sui servizi della pubblica amministrazione le cui dinamiche abbiamo intravisto foriere di nuovi e importanti freni al progresso sociale .
  • Resta difficile pensare che le attività estere dei nostri imprenditori si traducano largamente in flussi che rafforzino il Pil italiano, come accade ad esempio per la Germania. Questo paese fa transitare le produzioni estere per la madre patria con l’obiettivo evidente di massimizzare l’effetto brand estendendolo ad origini meno “nobili”; l’effetto “bazar” di questo offshoring (Sinn 2007, pp. 36 e ss.) si traduce in un margine che negli ultimi anni ha rappresentato di fatto l’intero attivo della bilancia tedesca ; ne deriva anche una grande disponibilità finanziaria dal corrispondente (forte) avanzo della bilancia dei pagamenti. Nel caso italiano, l’attivo sull’estero proviene da numerosi operatori che per lo più gestiscono i flussi internazionali utilizzando holding e sedi estere presso le quali tendono ad accumularsi quote importanti dei margini. Qui torna l’irrisolto problema della governance. Nel 1990 Indro Montanelli scrisse un articolo sottolineando che la “cultura” giapponese (che la nostra maggiore azienda privata si proponeva allora di imitare) aveva bisogno di alcune pre-condizioni che mancavano in Italia. Secondo il giornalista, ogni giapponese sottoscrive impegni precisi (“cambiali” nel suo lessico) sin dalla nascita verso la Patria, l’Imperatore, la Famiglia, la Scuola, l’Azienda. Sicché “il termine ‘lavoratori’ include, animata dallo stesso patriottismo e spirito di sacrificio, anche la Nomenclatura dei grandi padroni, dei grandi azionisti, dei grandi manager. Anch’essi, nascendo, sottoscrivono quelle cambiali e passano la vita a pagarle servendo l’azienda come tutti gli altri addetti e senza personale partecipazione agli utili, che vanno interamente all’azienda, entità astratta e suprema su tutto e su tutti” (Il Giornale, 29 aprile 1990). La degenerazione indotta negli operatori finanziari dall’interpretazione anglosassone del “mercato” introdotto dagli accordi di Maastricht fa temere che quella “cultura” sia di là da venire. Ma dobbiamo sperare che dalle attuali difficoltà nascano nuove forze di progresso che ci restituiscano, con la frase che Vincenzo Cuoco scrisse su un giornale di un paio di secoli fa,  “la fiducia di esser buoni ed il desiderio di divenir ottimi”.

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Scriveva Ernesto Rossi nel 1955: “le piccole industrie sono sempre una maledizione: nascono, crescono e muoiono fuori di ogni controllo. Non possono essere rappresentate nelle riunioni indette presso i ministeri romani, non si mettono mai d’accordo sui programmi”. Invece, le grandi industrie sono un “materiale solido [...] partecipano alle commissioni tecniche ministeriali con ‘esperti’ di gran classe; forniscono relazioni statistiche preparate dagli uffici studi” (Rossi 1955, p. 238).

Richiamai queste problematiche in un convegno tenuto a Milano l’11 marzo 2010. Ne nacque un dibattito cui contribuirono Marco Fortis ed Enrico Giovannini. Si vedano gli articoli pubblicati sul Sole 24 Ore il 19 e il 22 maggio 2010. In varie occasioni ho discusso questi argomenti con Marco Fortis che ringrazio, senza peraltro coinvolgerlo nelle mie personali vedute.

Si ottiene un risultato analogo osservando i valori del Pil pro-capite; nel 1999 l’Italia era all’83% della media franco-tedesca, nel 2007 era salita all’88%. L’appartenenza dei tre paesi ad un’area monetaria comune rende inutile nei confronti l’uso dei dati a parità di potere d’acquisto. E’ infatti sempre possibile per un cittadino dell’eurozona far valere in un altro paese della stessa area il potere d’acquisto del suo reddito espresso nella moneta comune. (questo mi sembra eccessivo: non vale neanche fra Nord e Sud d’Italia.)

Il contributo dei settori non market al valore aggiunto complessivo viene calcolato come somma delle remunerazioni ai fattori della produzione che corrispondono sostanzialmente ai lavoratori dipendenti (si veda Istat, Metodologie di stima degli aggregati di contabilità nazionale a prezzi correnti; Metodi e norme n. 21, 2004).

Con questo termine si intenderanno tutti quei servizi la cui valutazione non deriva dall’esistenza di prezzi di mercato. Per semplicità essi sono assimilati alla voce “Pubblica amministrazione e altri servizi pubblici, sociali e personali”.

Secondo i dati Eurostat, l’indice dei prezzi alla produzione, disponibile dal 2005 al 2010, è aumentato del 14% in Italia e del 12% in Francia e Germania. L’indice dei prezzi al consumo tra il 1999 e il 2007 è tuttavia aumentato del 21% in Italia, del 17% in Francia e del 14% in  Germania. Val la pena notare che il deflatore implicito del Pil tedesco appare molto basso con una variazione tra il 1999 e il 2007 pari  ad appena il 6,8%, contro il +17,3% della Francia e il +22,2% dell’Italia. Difficile qui non richiamare considerazioni di ordine opposto a quelle fatte per i dati italiani. oscuro

Lo scritto fu pubblicato nel 1992 come Appunti sulla crescita economica, Quaderno di ricerca n. 26, Università degli Studi di Ancona, Dipartimento di economia. Il Mulino lo pubblicò l’anno successivo.

L’indicatore più appropriato sembra quello riferito ai dipendenti poiché oggi il personale high-skill lavora spendendo anche molto del tempo impiegato nei trasferimenti casa-ufficio e nella propria residenza (v. anche Manasse e Stanca 2006). La rilevazione delle ore lavorate incontra inoltre molti problemi e sovente i dati comunicati dalle imprese sono poco attendibili.

Si veda ad esempio la nuova Lancia Y, presentata nel 2011 e offerta – dichiara la casa costruttrice – in oltre 600 personalizzazioni che derivano incrociando tre livelli di allestimento, 16 “livree”, 6 diversi rivestimenti interni, tre tipi di cerchi in lega e quattro motorizzazioni. Tutto ciò fa si che un’auto di questo tipo venduta in un dato anno sia diversa, anche di molto, da quella venduta l’anno prima o l’anno dopo.

Su questi processi rimando a De Nardis e Traù (2005) che vedono negli anni Novanta un nuovo modello di sviluppo basato sul consolidamento di produzioni già presidiate (e quindi simili a quelle dei paesi emergenti) attraverso un graduale upgrading qualitativo.

Nello stesso periodo la quota di mercato del Regno Unito è caduta di 1,7 punti, quella del Giappone di 2,2 punti e quella degli Stati Uniti di 4 punti. Tra il 1997 e il 2010 (dati provvisori), la quota di Italia e Francia è diminuita di poco più di mezzo punto e quella della Germania di 1,1 punti. I Bric hanno guadagnato altri 2,2 punti.

La Banca Centrale Europea elabora “indicatori armonizzati di competitività” i cui risultati appaiono contraddittori. Quelli basati sugli indici dei prezzi al consumo segnalano una competitività italiana invariata nel periodo dicembre 1998-agosto 2011, contro miglioramenti del 4,1% per la Francia e dell’8,6% per la Germania. Sostituendo i prezzi al consumo con i deflatori del Pil l’Italia figura con un arretramento competitivo del 2,5% contro progressi del 3,2% per la Francia e del 16% per la Germania; divario simile per gli indicatori basati sui costi di lavoro unitari: Italia -6,6%, Francia -1,6%, Germania +18,5% (la differenza tra Italia e Germania è qui salita a oltre 25 punti). Ma i costi unitari di lavoro sono derivati dal rapporto tra le retribuzioni per dipendente e la produttività misurata come Pil a prezzi costanti diviso il totale degli occupati. Come si vede queste statistiche “si tengono” insieme, ma il difetto da noi paventato sul deflatore porta a giudicarle, più che inutili, tutte controproducenti.

Le stime di lungo periodo hanno messo in evidenza un aumento del peso dell’economia sommersa. In  Germania si è passati dal 2% nel 1960 al 13% nel 1995, in Svizzera dall’1% al 6,7%, negli Stati Uniti dal 3,5% al 9,5%. Le principali cause vengono individuate nell’aumento della pressione fiscale e delle contribuzioni sociali, nella maggiore regolazione dell’economia ufficiale (specie del mercato del lavoro), nella riduzione obbligatoria dell’orario di lavoro, nella disoccupazione e nel declino delle virtù civiche e della lealtà alle pubbliche istituzioni unitamente al deterioramento della responsabilità fiscale. Le metodologie di calcolo dell’economia sommersa sono molteplici e variamente criticabili, stante l’oggetto di studio. Il metodo usato da Friedrich si basa su un modello econometrico ad indicatori multipli (Multiple Indicators Multiple Causes, MIMIC), tra cui quelli monetari (quantità di moneta che non transita nei conti bancari), tassi di partecipazione e variazioni della forza lavoro, situazione dell’economia ufficiale.

Si tratta della cosiddetta ipotesi minima. Nell’ultimo comunicato l’Istat ha pubblicato anche un livello massimo possibile per l’economia sommersa, portandolo al 17,5% del Pil, ma come effetto anche di discrepanze statistiche di provenienza non chiarita.

Un fenomeno simile riguarda il Regno Unito con l’area di Londra che concentra il 12,5% della popolazione e il 21% del Pil.

Peraltro, tenuto conto del differenziale di economia sommersa (11%-12%, Tab. 2), il livello italiano risulterebbe del tutto in linea con quello franco-tedesco e ciò è confermato dal dato della ricchezza finanziaria pro-capite. Ricercatori dell’Allianz hanno recentemente misurato attivi finanziari pari a 61 mila euro per abitante, contro i 64 mila della Francia e i 60 mila della Germania. Questi livelli appaiono fortemente correlati al Pil pro-capite (AAVV 2011, pp. 32 e 91).

Intendiamo con questo termine l’industria che fa perno su imprese di dimensione media e medio-grande; a fini statistici la soglia di occupati è stata fissata dall’Area Studi Mediobanca sopra i 50 dipendenti, mentre i limiti di fatturato sono attualmente tra i 15 e i 3000 milioni di euro (www.mbres.it). Secondo le nostre stime, queste imprese con il loro indotto rappresentano il 40-50% delle società di capitale operanti nella manifattura italiana. 

La dimensione del quarto capitalismo è sottovalutata in tali calcoli. Infatti, alcuni beni sono attribuiti alle grandi imprese anche se in parte non marginale vengono prodotti dalle medie: i mezzi di trasporto (tra cui le imbarcazioni e i motocicli), la chimica e farmaceutica, la metallurgia (dove si ricorda la rilevanza dei medi produttori “bresciani”).

Rey (2011) calcola un differenziale di circa il 30% in meno nel 2008. E’ tuttavia vero che il terziario riduce la severità delle fasi cicliche negative, seriamente indotte dalle branche industriali. Lo stesso Autore calcola per il 2005 un’incidenza dei servizi avanzati sul consumo totale di intermedi pari al 5% nella manifattura tradizionale, al 5,1% nella chimica, al 7,3% nei metalli e all’8,1% nei macchinari, impianti e mezzi di trasporto. Le corrispondenti percentuali per la Germania sono, rispettivamente 13,4%, 14,4%, 9,2% e 11,7%, per la Francia 12,6%, 14%, 12,3% e 14,5%. Relativamente a tali usi, è tuttavia singolare che le imprese manifatturiere italiane presentino un’incidenza delle spese per informatica e ricerca e sviluppo superiore a quella di Germania e Francia.

Strategie opposte sono state perseguite dall’industria tedesca, mentre quella francese appare più simile alla nostra (Deutsche Bundesbank, 2011, pp. 30-31).

Basti ricordare la scarsa efficacia degli amministratori cosiddetti indipendenti, la ricordata manipolazione dei dati di bilancio e la loro viziosa presentazione al pubblico, la presenza in società appartenenti a gruppi ad azionariato diffuso di amministratori imparentati con il massimo responsabile, la conduzione di affari con entità in contrasto d’interessi. Il tutto sconta l’adozione a partire dal 1999 di un Codice di autodisciplina che impone a ciascun amministratore “indipendenza di giudizio”, principio di cui nessuna autorità ha sinora ritenuto di occuparsi.

“Ci siamo mossi e determinati entro la cornice di una volontà politica e di un clima di opinione che ponevano tra gli obiettivi principali dell’economia nazionale il riscatto del Sud [...] Lo abbiamo fatto secondo le norme che il quadro legislativo ci fissava, assistendo con i mezzi che il mercato ci forniva in grande copia [...] quelle rare iniziative industriali che ci venivano proposte, senza esclusione alcuna che il nostro onesto se pure fallibile giudizio di amministratori trovasse bancabile”. Lettera di Paolo Baffi (Governatore della Banca d’Italia) a Luigi Cappon (Presidente dell’Imi); Zamagni 2010. L’Imi fu il principale finanziatore del Gruppo Sir a cui i finanziamenti venivano elargiti senza esaminare il bilancio consolidato nel quale figuravano circa 200 società ed un rapporto debiti/fatturato pari al 216,7% (Coltorti 2002, p. 128 e 140).

“Il valore aggiunto per addetto mostra una netta tendenza a crescere all’aumentare della dimensione aziendale” (Istat, comunicato del 27 ottobre 2010 su “struttura e competitività del sistema delle imprese industriali e dei servizi. Anno 2008”). Spesso si tende inoltre a confondere i problemi dell’industria con quelli del terziario in genere. Ad esempio, nella Relazione 2008, sotto il capitolo “Il nodo della produttività”, la Banca d’Italia richiama i servizi pubblici, le rendite improduttive, le infrastrutture, la scuola e l’università, ma non cita la manifattura.

L’origine degli aumenti di produttività è ben nota sin dai classici. Dagli encyclopédistes francesi, a Jacques Turgot, a Cesare Beccaria per finire con Adam Smith. E’ l’espansione del mercato che consente la divisione del lavoro e la specializzazione nelle singole fasi. Alfred Marshall (Principles, 1920, Book IV, p. 266) distinse chiaramente le economie “interne” alle singole imprese da quelle “esterne” prodotte dalla generale espansione dell’industria. Giacomo Becattini ha speso buona parte della sua vita a dimostrare come in un mondo fatto di merci a domanda differenziata gli impianti imponenti della grande impresa siano perdenti: “Si riproduce, mutatis mutandis, la situazione dell’artigiano rinascimentale [...] che deve proporre cose sempre nuove al suo ‘signore’ (il ceto medio triumphans) per conservarne i favori” (Becattini, 2009, p. 109).

Rinvio a  Chandler (1962), Williamson (1987, pp. 417 e ss.), Womack e altri (1990), Jensen (2003, pp. 20 e ss.).

“The increase of production [...] is a result of the increase either of the elements themselves [Labour, Capital and Land], or of their productiveness” (Mill 1848, I.10.4).

I fattori esaminati da Denison comprendono educazione, età, sesso, spostamenti nell’allocazione delle risorse (agricoltura vs settori extraagricoli), inquinamento, salute e sicurezza sul lavoro, conflitti sindacali, andamento del tempo in agricoltura.

L’Istat riferisce correttamente tutto il contesto dei dati di produttività, sul modello del BLS americano. Nel citato periodo 1999-2007 la dinamica della PTF è stata negativa sia nei servizi della pubblica amministrazione (-1,7%, che spiega la variazione negativa della produttività complessiva nel settore), sia nelle costruzioni (-1,1%) che in agricoltura (-0,4%) e nel settore dei servizi finanziari e alle imprese (-0,2%).

Tuttavia l’Istat, nella sua recente indagine sull’innovazione nelle imprese italiane riporta che nell’industria in senso stretto il 40% delle imprese della classe 10-49 addetti ha realizzato innovazioni nel triennio 2006-2008. Oltre tale soglia la percentuale sale al 70% circa.

E’ un fenomeno peraltro noto, come testimonia Baumol ricordando che le grandi invenzioni sono venute da imprese minori, mentre le grandi preferiscono limitare i rischi acquistando le innovazioni proposte dalle piccole imprese sviluppando solo quelle che giudicano più promettenti. Tra le innovazioni importanti create nel XX secolo da piccole imprese americane egli cita il condizionamento dell’aria, l’aereo e l’elicottero, il magnetofono, la radio a modulazione di frequenza, il defibrillatore, le valvole cardiache, l’ormone della crescita umana, il circuito integrato, il microprocessore, la risonanza magnetica, il pacemaker, il personal computer, il supercomputer, il foglio elettronico, il circuito integrato, le case prefabbricate ecc. (Baumol 2010, p. 25 e ss.).

Secondo i dati Eurostat, l’Italia è il paese che genera il maggior numero di nuove imprese. Nel 2008, nella sola manifattura, sono nate 24 mila imprese, il doppio rispetto alla Francia e oltre il 70% in più rispetto alla Germania la cui popolazione è di molto superiore. Questo si verifica nelle ditte personali, ma anche nelle società di capitale dove il numero delle nascite risulta inferiore solo a quello britannico.

Il calcolo è da intendere a puro scopo indicativo. Esso è stato fatto sulla base delle statistiche Eurostat, dettagliate per 60 branche.

Ricordo i progressi industriali resi possibili dalla ineguagliata condotta professionale e morale di grandi personalità come, solo per citarne alcuni, Giuseppe Colombo, Giovanni Battista Pirelli, Oscar Sinigaglia, Agostino Rocca, Alberto Beneduce, Angelo Costa, Vittorio Valletta. Le moderne regole di governance dei “mercati” fanno ritenere problematica la possibilità che uomini di tale statura possano emergere nel mezzo degli inni all’arricchimento personale e nella selva di collusioni che distingue il contesto della moderna gestione societaria.

Il desiderio di uscire dalla povertà fu la molla che spinse la piccola e media imprenditoria italiana. Uno dei protagonisti così ricorda: “un enorme desiderio di fare, una fortissima volontà di emergere trasformarono molti di noi in uomini di attivismo frenetico. [...] In poco tempo il nostro paese fu capace di battere la miseria secolare” (Ferrero 1999). Questa “esplosione” di imprenditorialità fu segnalata da Giorgio Fuà (1965) come uno dei motori specifici del take off italiano ai tempi del miracolo economico.

E’ difficile raffrontare risultati ed efficienza delle amministrazioni pubbliche di paesi diversi, ma in tutti i confronti sinora tentati l’Italia resta molto distanziata da Francia e Germania. Si veda ad esempio, Afonso, Schuknecht e Tanzi, 2003, pp. 12 e 17. L’unico contesto a noi favorevole è quello sanitario dove la speranza di vita alla nascita è tra le più elevate e la spesa pro-capite inferiore del 27% (OECD 2011). Ma anche in questo caso sappiamo che le differenze territoriali sono enormi.

Nel 2010, secondo i dati SBD, la bilancia commerciale si è saldata (l’italiano è un po’ ardito) con un avanzo di 149 miliardi di euro; le merci prodotte all’estero (prevalentemente nell’ex Europa dell’est e in Cina), importate e rivendute all’estero vi hanno concorso per 152 miliardi. Negli ultimi anni, la quota di tali merci riesportate dalla Germania è oscillata intorno al 20-25% delle esportazioni complessive. La quota di beni intermedi o semi-finiti di provenienza estera che hanno concorso alla produzione del made in Germany esportato viene invece valutata in oltre il 40% (Deutsche Bundesbank 2011, p. 30).

 

Fonte: http://www.dipecodir.it/upload/file/Simonazzi/economia%20italiana%20ed%20eur/coltorti_ind%20italiana%20declino%20o%20trasformazione.doc

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