Poteri e doveri del datore di lavoro

Poteri e doveri del datore di lavoro

 

 

 

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Poteri e doveri del datore di lavoro

1. I poteri del datore in generale e i loro limiti.
Il rapporto di lavoro subordinato si caratterizza per la posizione di preminenza riconosciuta al datore di lavoro, cui corrisponde una posizione di soggezione del lavoratore. Tale situazione si evince già dalle norme codicistiche sul lavoratore subordinato, il quale collabora nell’impresa, prestando la propria opera alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore (art. 2094), ed al quale è addossato l’obbligo di obbedienza di cui all’art. 2104.
Tali posizioni di supremazia del datore sono state storicamente considerate come poteri giuridici esercitabili discrezionalmente dal datore, a tutela di un interesse proprio, ed ogni tentativo di assoggettare tali poteri al rispetto dei principi costituzionali (come quello di eguaglianza) sono rimasti senza seguito, almeno fino all’emanazione dello Statuto del lavoratori. Fino all'emanazione della L. n. 604/1966 sui licenziamenti, il potere di recesso ad nutum dell'imprenditore suggellava l'effettività della supremazia datoriale., e ciò risulta non coerente con la logica del contratto, che è egualitaria.
La natura contrattuale del rapporto risulta rivalutata attraverso la riduzione dei contenuti di comando e il rafforzamento dell'autonomia collettiva: il contratto non è più esclusivo strumento di soddisfacimento delle esigenze aziendali, ma riflette situazioni di interesse e poteri del lavoratore funzionali alla promozione dei valori costituzionali di dignità e libertà. Se non può negarsi che con il contratto di lavoro subordinato il lavoratore legittima l'esercizio di alcuni poteri unilaterali del datore, è altrettanto vero che questi poteri incontrano una serie di vincoli tali da ridurne il carattere “autoritativo”.
2. Il potere direttivo: contenuti.
Le innovazioni normative suddette incidono sul potere direttivo del datore di lavoro, il quale comprende una serie di poteri (o facoltà) del datore (potere organizzativo, di vigilanza, gerarchico, di conformazione, ecc.) finalizzati nel loro insieme a garantire l'esecuzione e la disciplina del lavoro in vista degli interessi sottesi al rapporto (art. 2104 c.c.). La disciplina riguarda i poteri imprenditoriali correlati allo svolgimento e alla disciplina del lavoro non, invece, le funzioni manageriali di gestione dell'impresa, queste sottratte alla disciplina legislativa dello Statuto.
3. I limiti del poter direttivo: principio di non discriminazione.
Ai poteri dell'imprenditore si riferiscono diverse norme del Titolo I dello Statuto dei Lavoratori, tra cui l'art. 7 sul potere disciplinare e l'art. 9 sul dovere di sicurezza del datore di lavoro. Un limite generale all'esercizio dei poteri imprenditoriali è il divieto di discriminazione.
Quello della tutela antidiscriminatoria è terreno classico di incidenza del diritto comunitario, rispetto al quale il diritto interno nutre oggi ineludibili obblighi di adeguamento (direttiva n. 76/201/CE, oggi modificata dalla direttiva n. 2002/73/CE, emanata in tema di parità di trattamento e di opportunità per uomini e donne sul versante occupazionale e delle condizioni di lavoro; oltre direttiva n. 2000/43/CE relativa a discriminazioni per religione, convinzioni personali, handicap, età, tendenze sessuali, oggetto della direttiva n. 2000/78/CE).
La costituzione all'art. 37 pone una direttiva di parità fra lavoratori e lavoratrici, con la precisazione che “le condizioni di lavoro devono consentire alla donna l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguata protezione.
Un’ulteriore fondamento può essere ritrovato all’art. 3, che esprime il principio di eguaglianza, formale e sostanziale. Col principio di eguaglianza formale, il costituente impone che situazioni eguali vengano trattate in modo eguale. Mentre il principio di eguaglianza sostanziale impone all’ordinamento di rimuovere tutti quegli ostacoli che limitano o impediscono di fatto la realizzazione di quella eguaglianza formale enunciata nel primo comma.
Non tanto una direttiva di eguaglianza, quanto piuttosto l'imposizione di un esercizio non arbitrario dei poteri datoriali, viene sancita dall'art. 15 St. lav., che dichiara nullo ogni atto o patto che rechi in qualche modo pregiudizio alla lavoratrice o al lavoratore a causa del suo sesso (più recenti interventi legislativi hanno esteso il divieto ad atti o patti discriminatori per motivi sindacali, politici, religiosi, razziali e di lingua).
4. La tutela contro le discriminazioni per ragioni di sesso. Parità di trattamento e parità retributiva nella L. n. 903/1977.
La L. n. 903/1977, in quanto pone specifici divieti di discriminazione, viene considerata attuazione del principio di eguaglianza formale.
A partire dall'Ottocento, forti limiti al lavoro delle donne sono stati posti tramite una normativa diretta a scoraggiarne ed emarginarne l'impiego, sia pur con intenti formalmente protettivi. Solo nel 1977 la L. n. 903 ha stabilito parità tra donne  e uomini, tenendo conto di tutti i profili del rapporto di lavoro, sia privato che pubblico, dalla sua costituzione alla sua estinzione.
La L.903/1977 vieta ogni discriminazione per sesso nell’accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e del settore di attività, nonché nel campo della formazione e dell'aggiornamento professionale. La legge vieta esplicitamente anche ogni discriminazione fra uomini e donne nell'attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e nella progressione di carriera. Quest'ultima, è del resto, l'area di più frequente discriminazione a carico delle donne.
La L. n. 903/1977, modificando l'art. 15 St. lav. , dichiara nullo ogni patto o atto che rechi in qualche modo pregiudizio alle lavoratrici o al lavoratore a causa del sesso ed estende il divieto ai patti o atti discriminatori per motivi politici, religiosi, razziali e di lingua.
A presidio del divieto di discriminazione, la L. 903\1977 introduce un procedimento speciale, strutturato sulla falsariga di quello dell’art. 28 St. lav. Sicché, qualora vengano posti in essere comportamenti discriminatori, il lavoratore, o, per sua delega, le OO.SS., nonché, come vedremo, i consiglieri di parità, potranno ricorrere al giudice al fine di ottenere in via d’urgenza un decreto immediatamente esecutivo, contenente l’ordine di cessazione del comportamento e di rimozione degli effetti.
La L. n. 903/1977 si preoccupa di ribadire la parità di retribuzione per prestazioni uguali p di eguale valore tra lavoratori e lavoratrici. Inoltre i sistemi di classificazione del lavoro devono basarsi su criteri comuni per uomini e donne. Se ne desume l'illegittimità di quelle distinzioni fra lavori tipicamente maschili e lavori tipicamente femminili, frutto della “segregazione occupazionale”.
L'applicazione dei principi e degli strumenti di tutela giudiziaria della L. n. 903/1977 è risultata insoddisfacente nella prassi, per la scarsa efficacia preventiva e punitiva di questi ultimi: proprio questa mancanza di risultato è stato uno dei motivi dell'approvazione, dopo un lungo dibattito, della L. n. 125/1991.
5. Pari opportunità e azioni positive nella L. n. 125/1991.
La L.125/1991 , poi modificata dal D.lgs. 196/2000, ha un duplice obbiettivo: a) rimediare alle debolezze della L. n. 903/1977; b) porsi in un’ottica di uguaglianza sostanziale, cioè di promozione delle pari opportunità.
La L. n. 125/1991 provvede ad una definizione esplicita delle discriminazioni per ragioni di sesso, distinguendole tra dirette ed indirette. Dirette sono tutte le discriminazioni operanti sul piani individuale, cioè quei trattamenti differenziati , basati su condizioni soggettive, non ragionevoli ex. Art. 3 Costituzione. La L. n. 125/1991 definisce la discriminazione sessuale diretta come “qualsiasi atto, patto o comportamento che produce un effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta le lavoratrici e i lavoratori in ragione del loro sesso.
La discriminazione indiretta è invece più sottile e complessa poiché passa dal piano individuale a quello collettivo. La L. n. 125/1991 definisce discriminazione sessuale indiretta qualsiasi comportamento pregiudizievole, a prescindere dall'intento discriminatorio, conseguente all'adozione di criteri formalmente neutri ed eguali fra soggetti, ma che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori di un sesso senza giustificazione alcuna, in quanto non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa.
Per effetto della trasposizione nel nostro ordinamento della direttiva n. 2002/73/Ce, che ha modificato la precedente direttiva n. 76/2007/CE, la discriminazione indiretta per ragioni di sesso, è in procinto di essere novellata e allineata alle nuove nozioni di discriminazione indiretta per ragioni di razza od origine etnica, nonché di religione, convinzioni personali, handicap, età e orientamento sessuale, con una progressiva omogeneità per ciascuno dei tre ambiti considerati: discriminazioni di sesso, di razza od origine etnica e altre discriminazioni.
La ratio promozionale delle pari opportunità, propria della L. 125\1991, trova la sua massima espressione nel riconoscimento delle azioni positive. Le direttive di parità formale fin qui esaminate, infatti, si sono rivelate insufficienti a risolvere il problema della eguaglianza nel lavoro. Le situazioni di svantaggio infatti, non sono necessariamente il risultato di atti discriminatori intenzionali e specifici, bensì spesso risentono di condizionamenti strutturali radicati. Simili condizionamenti sono superabili solo attraverso azioni positive (azioni promozionali ed incentivi), dirette ad attuare l’eguaglianza sostanziale.
Tali azioni positive sono dunque quelle iniziative volte a rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione delle pari opportunità fra lavoratori e lavoratrici. Esse sono uno strumento di diritto diseguale, che tuttavia non contrasta con l’art. 3 Cost., essendo di natura transitoria. Si tratta infatti di deviazioni dall’eguaglianza formale legittimate dal perseguimento dell’eguaglianza sostanziale.
L'attuazione di azioni positive a favore delle donne è affidata a diversi organi promotori. La L. n. 125/1991 li elenca in modo tassativo, comprendendovi sia soggetti istituzionali (il comitato ed i consiglieri di parità), sia soggetti privati (sindacati e datori di lavoro). La legge contiene, inoltre, una cospicua strumentazione sanzionatoria, giudiziale ed istituzionale, orientata a riparare alla scarsa effettività della tradizionale normativa antidiscriminatoria.
Il D.lgs. n. 196/2000 disciplina le cosiddette istituzioni della parità:
-il comitato nazionale della parità (CNP) è istituito presso il Ministero del lavoro con il fine di promuovere la rimozione dei comportamenti discriminatori che limitano di fatto l'uguaglianza delle donne nell'accesso al lavoro, nella progressione professionale e di carriera. Il CNP si caratterizza per funzioni propositive e consultive, la cui effettività, però, è più che mai affidata alla qualità ed autorevolezza dei suoi componenti, nonché all'efficienza delle strutture di supporto. Per superare questi limiti il legislatore ha recentemente stabilito che il CNP formuli annualmente un programma-obbiettivo con l'indicazione delle tipologie di progetti di azioni positive da promuovere, i soggetti ammessi e i relativi criteri di valutazione.
-la scelta del legislatore è stata nel senso di potenziare le consigliere e i consiglieri di parità, nominati a tutti i livelli di governo con funzioni di promozione e di controllo dell'attuazione dei principi di uguaglianza di opportunità e non discriminazione. Sono pubblici ufficiali con l'obbligo di segnalare all'autorità giudiziaria i reati di cui vengono a conoscenza.
La storia della “burocrazia di parità” si intreccia con la tutela giurisdizionale delle lavoratrici o dei lavoratori discriminati. La L. n. 125/1991 affianca all'azione individuale in giudizio, un'azione istituzionale in giudizio, promuovibile dal consigliere di parità competente per territorio autonomamente, quando le pratiche discriminatorie abbiano rilevanza collettiva o su delega del soggetto discriminato. Nell'ipotesi di azione su delega del soggetto discriminato, l'azione può condurre solo ad effetti limitati alla situazione individuale, mentre il giudizio instaurato sulla base dell'azione istituzionale autonoma conduce, coerentemente al carattere collettivo della discriminazione impugnata, ad un ordine di definizione di un piano collettivo di rimozione degli effetti discriminatori.
Un ulteriore innovazione rilevante della suddetta legge, riguarda la cosiddetta inversione parziale dell'onere della prova nel giudizio in tema di discriminazione. Quando il soggetto ricorrente (lavoratore o lavoratrice) fornisce elementi di fatto idonei a fondare, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso spetta al convenuto (datore di lavoro) l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione.
6. La tutela contro le discriminazioni per ragioni di razza o di origine etnica e le altre discriminazioni.
Con i D.lgs. 215 e 216 del  9 luglio 2003 si è data attuazione nel nostro Paese alle direttive n 2003/43/CE (parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica) e n. 200/78/CE( parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro). Quest'ultima è conosciuta anche come direttiva “altre discriminazioni” poiché si fa carico di assicurare un'adeguata tutela contro le discriminazioni per motivi connessi alla religione, convinzioni personali, agli handicap, all'età e all'orientamento sessuale: si tratta di un ambito residuale rispetto a quello delle discriminazioni per ragioni di sesso, di razza od origine etnica, già oggetto di disciplina comunitaria.
Un importante precedente dei  D.lgs. 215 e 216 del  9 luglio 2003 è rappresentato nel nostro ordinamento dal Testo Unico sull'immigrazione (D.lgs. n. 286/1998)
entrambi i decreti legge in questione contengono una propria peculiare definizione di discriminazione diretta ed indiretta per razza od origine etnica,  religione, convinzioni personali, agli handicap, all'età e all'orientamento sessuale:
-si ha discriminazione diretta  quando in ragione di tali motivi una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia , sia stata o sarebbe stata trattata un'altra in una situazione analoga.
-la discriminazione indiretta ricorre quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica, di una determinata religione o ideologia di altra natura o i soggetti portatori di handicap, o di una particolare età, o di un orientamento sessuale, in una situazione di particolare svantaggio rispetto alle altre persone.
A seguito dei decreti in esame anche l'ordine di discriminare rientra nell'area delle discriminazioni vietate. Lo stesso deve dirsi per le molestie, ovvero qualsiasi comportamento indesiderato, con lo scopo o l'effetto di violare la dignità delle persone e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. La nozione, nel suo riferimento a comportamenti lesivi della dignità personale, ricomprende le condotte di mobbing.
Sul piano processuale il soggetto discriminato ha innanzitutto la possibilità di ricorrere al giudice per vedere dichiarata la nullità dell'atto discriminatorio ai sensi dell'art. 15 St. lav. , come modificato dal D.lgs. n. 216.
per il resto, la tutela giurisdizionale prevista dai decreti in esame, ricalca il procedimento speciale già contemplato dal testo unico sull'immigrazione, che sul punto viene esplicitamente richiamato. Al fine di dimostrare la sussistenza del comportamento discriminatorio, la vittima può dedurre in giudizio elementi elementi di fatto anche sulla base di dati statistici. Non è, invece riconosciuta l'inversione parziale dell'onere della prova. Il giudice, con l'accoglimento del ricorso, ha il potere di ordinare la cessazione del comportamento e la rimozione degli effetti, nonché di provvedere, su richiesta, al risarcimento del danno anche non patrimoniale.
Il potere di controllo.
I limiti al potere di vigilanza: controlli nell'attività e visite personali.
La disciplina statuaria impone limiti specifici al potere di vigilanza del datore di lavoro sull'attività lavorativa.
Gli articoli 2 e 3 dello Statuto dei Lavoratori si rivolgono al personale di vigilanza in senso lato (guardie giurate). Tali norme mirano, non ad abolire la funzione di vigilanza, ma piuttosto a privarla degli aspetti polizieschi e di controllo occulto, talora storicamente assunti con la costituzione di vere e proprie polizie interne, utilizzate per finalità di controllo disciplinare o anche antisindacale.
L’art. 4 si occupa dei controlli esercitabili dal datore di lavoro, stabilendo che essi non possono realizzarsi mediante impianti audiovisivi (telecamere a circuito chiuso) o altre apparecchiature atte a sorvegliare a distanza l’attività dei lavoratori. Controlli a distanza possono giustificarsi soltanto se richiesti per esigenze organizzative, produttive o attinenti alla sicurezza del lavoro, cosicché il controllo sul lavoro ne sia al più una conseguenza accidentale. Per rafforzare l'effettività dell'art. 4 è prevista una garanzia procedurale a vari livelli: sindacale, amministrativo e, in ultima istanza, giudiziale. Le apparecchiature di controllo suddette sono installabili solo previo accordo con tutte le RSA o, in mancanza, con la commissione interna.
In difetto d'accordo con le rappresentanze sindacali, il datore di lavoro può ricorrere alla Direzione del Lavoro-Servizi Ispettivi, che decide le modalità d'uso degli impianti o ne esclude l'installazione. Contro tale provvedimento è dato ricorso al Ministro del Lavoro
Principi simili a quelli dell'art 4 sono stabiliti dall'art. 6 Statuto dei lavoratori, che regola le visite personali di controllo sul lavoratore. L’art. 6 pone il divieto delle visite personali di controllo (perquisizioni) sulla persona del lavoratore e sulle sue pertinenze (borse, etc.), salvo quelle che risultino indispensabili per la tutela del patrimonio aziendale. Ed anche in tal caso, le visite personali di controllo devono svolgersi secondo precise modalità volte salvaguardare la dignità e la riservatezza del perquisito (esse sono effettuabili solo all’uscita dei luoghi di lavoro e con sistemi di selezione automatica o a sorte dei soggetti con un metodo cosiddetto imparziale).
L’art. 5 limita il potere di controllo dell’imprenditore nei confronti del lavoratore assente dal lavoro per infermità o infortunio. Più precisamente vieta la prassi dei controlli diretti tramite i c.d. medici di fabbrica (nominati e pagati dal datore) e affida l’accertamento ai servizi ispettivi degli istituti competenti (l’inail per gli infortuni, l’asl per le malattie). Questi sono tenuti a compierlo quando il datore lo richieda, nel rispetto delle cosiddette fasce orarie di reperibilità. La ratio della norma è quella di garantire l’imparzialità del controllo sullo stato di salute.
Il 3° comma dell'art. 5 St. lav. riserva ad enti pubblici anche il controllo sull'idoneità fisica del lavoratore, vale a dire sulla capacità di proseguire il rapporto di lavoro.
2. Il divieto di indagine sulle opinioni e la tutela della privacy.
L’art. 8 infine vieta al datore di effettuare indagini (anche tramite terzi), ai fini dell'assunzione e nel corso del rapporto, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su tutti i fatti non rilevanti ai fini della valutazione della attitudine professionale di questo.
Nel complesso l’art. 8 indica una tendenza alla spersonalizzazione del rapporto di lavoro -cioè l’irrilevanza di fatti e comportamenti personali-estranei allo svolgimento corretto delle prestazioni dedotte nel rapporto.
Tuttavia la norma appare, come l'art. 4 St. lav., inadeguata a proteggere il lavoratore dalle informazioni che sul suo conto possano essere legittimamente raccolte ed elaborate. Anche su questo punto, un'adeguata tutela della riservatezza del lavoratore è realizzabile non tanto con divieti rigidi ed isolati, quanto un controllo procedimentale sulle informazioni, al fine di impedirne usi impropri. Nel nostro ordinamento è assente, a riguardo, una normativa settoriale completa, ma la materia è ricompresa nell’ambito della disciplina generale di tutela della privacy: il riferimento è stato la L. n. 675/1996, poi sostituita dal D.lgs. 196/2003 denominato Codice in materia di protezione dei dati personali. Quest'ultimo a differenza della L. n. 675/1996 perviene ad un'unificazione delle regole riguardanti il trattamento e la comunicazione dei dati, così mirando ad una semplificazione delle regole sul punto. Permane, invece, la differenziazione tra settore privato e settore pubblico (per cui è stabilita una disciplina speciale).
Le regole appaiono diverse per:
-i dati ordinari o comuni cioè tutti quei dati che non sono sensibili o giudiziari. Il loro trattamento è ammesso solo con il consenso espresso dell'interessato, salvo tassative eccezioni tra cui i trattamenti svolti per la gestione del rapporto di lavoro.
-i dati sensibili sono quelli idonei a rivelare l'origine razziale od etnica, le convinzioni religiose, filosofiche, le opinioni politiche, l'adesione ai partiti, ai sindacati, lo stato di salute o la vita sessuale dell'individuo.
-i dati giudiziari sono invece quelli idonei a rivelare i provvedimenti giudiziari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti, o la qualità di indagato o imputato.
Queste ultime due tipologie di dati possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso scritto dell'interessato e previa autorizzazione del Garante per la protezione dei dati personali.
La duplice regola generale (consenso e autorizzazione) conosce tuttavia eccezioni e temperamenti. Esistono infatti numerose ipotesi in cui il trattamento è ammesso anche senza consenso, sulla base della sola autorizzazione del Garante. In forza di ciò, il datore di lavoro potrà trattare la gran parte dei dati sensibili attinenti ai propri lavoratori senza ottenere il preventivo consenso. L'autorizzazione del Garante può essere, poi, rilasciata anche con riferimento a determinate categorie di titolari o di trattamenti (c.d. autorizzazioni generali).
Il garante ha adottato alcuni provvedimenti con cui ha esonerato dall'obbligo della richiesta di autorizzazione in una serie di occasioni tra cui l'adempimento di obblighi o compiti previsti da leggi, regolamenti e contratti collettivi o dalla normativa comunitaria, gestione ed estinzione del rapporto di lavoro, dell'applicazione della normativa in tema di assistenza e di previdenza anche integrativa, o in materia di igiene e sicurezza del lavoro.
Il lavoratore ha diritto di accedere ai dati personali, nonché di ottenere l'aggiornamento, la rettificazione, l'integrazione, la cancellazione la trasformazione in forma anonima o il blocco, se trattati in violazione della legge.
Codice di deontologia e di buona condotta, la cui sottoscrizione è promossa dal Garante, con la possibilità di prevedere, tra l'altro, specifiche modalità di informativa all'interessato e di eventuale prestazione del consenso relativamente alla pubblicazione degli annunci per finalità di occupazione, nonché alla ricezione di curricula contenenti dati personali, incluso quelli sensibili. Il codice mantiene fermo quanto disposto dagli artt. 4 e 8 St. lav: dunque la disciplina sulla privacy si conferma quale regolamentazione aggiuntiva rispetto a quella settoriale di limitazione del potere di controllo del datore e impone una lettura integrata dei due sistemi normativi (legge sulla privacy e Statuto dei lavoratori).
Alla luce della normativa sulla privacy e di quella statuaria (St. lav.) va risolto anche il problema della legittimità di controlli tecnologici sulle comunicazioni telefoniche del lavoratore, nonché sull'utilizzo da parte di questi del computer aziendale, della posta elettronica e di internet.
Nel caso in cui un dipendente abbia effettuato conversazioni private con il telefono aziendale, è stato considerato legittimo il licenziamento, nonché la registrazione ad opera del datore di lavoro dei numeri telefonici chiamati, anche in assenza della procedura determinata dall'art 4 St. lav. Ciò sul presupposto che tale norma si occuperebbe della sola vigilanza sull'attività lavorativa, non invece dei controlli sulle condotte illecite del prestatore di lavoro (c.d. Controlli difensivi).
Un'attenzione ancora maggiore suscitano le questioni legate alla vigilanza sull'uso di apparecchiature elettroniche da parte del personale, ad esempio il computer aziendale. Secondo il Garante, la posta elettronica andrebbe protetta alla stregua della corrispondenza epistolare o telefonica, con conseguente piena applicabilità della normativa penale, che protegge le comunicazioni personali di tal fatta (art. 616 ss. c.p.). La giurisprudenza ha però escluso gli estremi del suddetto reato nella condotta del datore che, all'insaputa del lavoratore, ne aveva controllato la posta elettronica e ciò proprio in ragione della natura non privata, bensì aziendale dell'indirizzo e-mail.
Problemi analoghi ha sollevato il controllo  sulla navigazione in internet del lavoratore. L'estrema delicatezza della materia, suscettibile di implicazioni anche con riguardo all'art. 8 St. lav., suggerisce l'intervento di una disciplina ad hoc, allo stato assente nell'ordinamento. Il Garante ha rammentato che la miglior tutela della riservatezza delle comunicazioni personali si realizza con la previsione delle condotte illecite del personale, mentre il controllo ex post assume  carattere di extrema ratio.
Il potere disciplinare.
1. Il fondamento del potere disciplinare.
Il potere disciplinare indica la facoltà del datore di irrogare sanzioni al lavoratore che venga meno ai suoi doveri contrattuali. Il riconoscimento unilaterale al datore di lavoro di un potere punitivo, costituisce sicuramente un’anomalia sul piano dei rapporti contrattuali, ispirati tendenzialmente ad una logica paritaria ed egualitaria. Si è dunque tentato di trovare un fondamento a tale potere disciplinare, così da giustificarlo anche in un’ottica quale quella contrattuale.
Taluni hanno ricondotto tale potere alla subordinazione del prestatore di lavoro. Altri hanno ricondotto tale potere all’area delle c.d. pene private convenzionali (le clausole penali). Altri ancora hanno negato il fondamento contrattuale di tale potere e ne hanno individuato la matrice direttamente nell’organizzazione del lavoro (ossia nel potere direttivo del datore) oppure nella contrattazione collettiva.
Con l’emanazione dell’art. 7 St. lav., il potere disciplinare viene ricondotto alla funzione organizzatoria del contratto di lavoro. Sempre l’art. 7 poi, unitamente all’art. 2106 c.c., provvede a sottoporre il potere disciplinare del datore a precise forme di esercizio e di controllo, al fine di renderlo compatibile con la logica egualitaria del contratto.
A tal fine sono stati individuati requisiti sostanziali e procedimentali per l’esercizio di tale potere. Si tratta di presupposti che condizionano l’esercizio del potere disciplinare e la cui mancanza determina la nullità della sanzione.
2. I requisiti sostanziali.
Presupposto sostanziale del potere disciplinare è anzitutto la sussistenza del fatto addebitato che spetta al datore di lavoro provare. Sul lavoratore grava invece l’onere di provare l’eventuale riconducibilità del fatto addebitato a causa non imputabile a lui.
È necessario che vi sia proporzionalità fra infrazione e sanzione. La tipologia legale delle sanzioni contempla il richiamo verbale, l’ammonizione scritta, la multa per un massimo di 4 ore e la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per un massimo di 10 giorni, nonché il licenziamento disciplinare. Tale tipologia esaurisce in pratica l’area delle sanzioni irrogabili. Infatti provvedimenti attinenti alla normale gestione del rapporto di lavoro (trasferimento, mutamento di mansioni, ecc.) non sono utilizzabili quali sanzioni, con una distorsione della loro funzione naturale.
Tale limite peraltro è rafforzato dall’art. 7, il quale stabilisce che non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro (salvo il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo).
 Sulla relazione di proporzionalità influisce (in termini di un aggravamento della sanzione) l’eventuale recidiva. Tuttavia lo statuto pone a ciò un limite, stabilendo che non può tenersi conto delle sanzioni disciplinari, decorsi 2 anni dalla loro applicazione (circoscrivendo così il possibile utilizzo dell’aggravante entro limiti temporali).
3. I requisiti procedimentali.
Anche i requisiti procedimentali, come quelli sostanziali, sono presupposti del potere disciplinare, sicché la loro assenza si traduce nell’inesistenza del potere, e, conseguentemente, nella nullità della sanzione.
Preesistenza del codice disciplinare
È necessaria la preesistenza di un testo che, oltre alle procedure di contestazione, individui le infrazioni e le relative sanzioni, in modo che non si abbia la creazione ex post delle une e delle altre.
Va precisato tuttavia che il codice non deve contenere una precisa e sistematica previsione di tutte le singole infrazioni e delle relative sanzioni, alla stregua dei precetti penalistici del nullum crimen sine lege, essendo sufficiente una proporzionata correlazione tra le singole ipotesi di infrazioni, sia pure di carattere schematico, e le corrispondenti previsioni sanzionatorie, anche se suscettibili di discrezionale adattamento secondo le effettive e concrete inadempienze del lavoratore.
Certo la funzione garantista della norma può essere svuotata attraverso clausole la cui indeterminatezza consenta nella sostanza la creazione ex post del precetto da parte del datore di lavoro. Ma d’altronde un’analitica elencazione di tutti i possibili comportamenti vietati è impensabile ed altrettanto impensabile è una correlazione tra infrazione e sanzione che non presenti ragionevoli margini di elasticità.
Pubblicità del codice
L’art. 7 impone che il codice disciplinare venga portato a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. In caso di licenziamento disciplinare, tuttavia, l’affissione costituisce formalità necessaria solo quando al lavoratore vengano contestate violazioni di doveri che discendono da disposizioni del datore di lavoro o del contratto collettivo, non quando si tratti di violazioni di doveri che derivano dalla legge.
La contestazione dell’addebito
A garanzia del contraddittorio, il datore non può irrogare la sanzione al lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa. Il datore di lavoro, dopo la contestazione dell’addebito, è tenuto a sentire oralmente il lavoratore che ne faccia richiesta e a ricevere le sue eventuali difese scritte (il lavoratore ha anche facoltà di farsi assistere da un rappresentante sindacale).
L’addebito deve essere contestato con immediatezza (tra la conoscenza del fatto e la sua contestazione non può trascorrere più del tempo ragionevolmente necessario al datore per fare un minimo di accertamenti ed assumere la decisione di dare inizio al procedimento disciplinare) e specificità (deve individuare i fatti con sufficiente precisione, sì da consentire al lavoratore di rendere le giustificazioni del caso).
I provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi 5 giorni dalla contestazione per iscritto dell’addebito. Tale periodo, secondo la cassazione, non va considerato come una pausa di riflessione per il datore (in modo che non prenda decisione avventate), ma piuttosto come un lasso di tempo necessario al lavoratore per approntare le proprie difese, sicché l’attesa non si giustifica più allorché tali difese siano state già presentate.
L’art. 7 non prevede alcun obbligo di motivazione del provvedimento per il datore. Tuttavia, qualora il codice disciplinare o il contratto collettivo prevedano l’obbligo del datore di motivare la sanzione, l’inosservanza di tale obbligo comporterà la nullità del provvedimento disciplinare.
Contro il provvedimento disciplinare, il lavoratore può, oltre alla normale ricorso giudiziario, avviare una procedura arbitrale presso la Direzione provinciale del lavoro. Si tratta di un rimedio speciale, previsto dall’art. 7, che da facoltà al lavoratore di chiedere entro 20 giorni la costituzione di un collegio di conciliazione e arbitrato. Tale collegio, ove non riesca a comporre la controversia, è tenuto a pronunciarsi sulla sua legittimità ed anche a determinare l’entità della sanzione. La scelta della via arbitrale è incentivata, giacché la sua attivazione comporta la sospensione della sanzione fino alla pronuncia sulla controversia.
I doveri del datore di lavoro.
1. L'obbligo di sicurezza e l'art. 2087 cod. civ.
L'ambiente di lavoro comprende non solo il contesto materiale di svolgimento della prestazione, ma anche l'insieme delle condizioni dell'organizzazione del lavoro.
L'art 2087 c.c. vincola il datore ad un obbligo di sicurezza nei confronti dei lavoratori, imponendogli di adottare tutte le misure atte a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Il suddetto articolo specifica una serie di norme regolamentari sulla prevenzione degli infortuni e e per l'igiene del lavoro (D.P.R. n. 547 del 1955; D.P.R. nn. 302 e 303 del 1956), nonché norme speciali che limitano l'orario di lavoro dei minori e delle donne in gravidanza.
Inoltre tale articolo impone al datore di predisporre tutte le misure idonee, secondo l'esperienza, la tecnica e la particolarità del lavoro, a prevenire situazioni di danno della salute fisica e la personalità del lavoratore alla luce della mutevole realtà produttiva (c.d. principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile).
La debolezza dell'effettività dell'art. 2087 è dovuta ad una disparità di poteri delle parti. Esso è invocato per lo più per ottenere il risarcimento dei danni dovuti a infortuni o lesioni già verificatisi, mentre non ha avuto rilievo nella sua funzione preventiva. La tutela delle condizioni di lavoro è stata inoltre pregiudicata dalla endemica debolezza della presenza sindacale in azienda e da una contrattazione più incline a monetizzare i rischi dell'ambiente che a intervenire per migliorarlo.
2. (Segue): dall'art. 9 dello Statuto dei lavoratori al D.lgs. n. 626 del 1994 e successive modifiche.
L'art. 9 St. lav. attribuisce ai lavoratori il diritto di controllare “mediante loro rappresentanze” l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l'elaborazione e l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.
Il D.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, nell'attuare la disciplina comunitaria, regolamenta ex novo la materia con ambizioni sistematiche e di completezza in ordine alla salvaguardia della sicurezza del lavoro. Il sistema risulta ora imperniato sul principio della prevenzione, da realizzarsi tramite una propedeutica valutazione di tutti i rischi presenti in azienda. L'obbiettivo è di eliminarli alla fonte, ove possibile o comunque di ridurli al minimo, mediante un'attività di programmazione degli interventi. È il cd. Modello partecipato della sicurezza: accanto al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, nonché agli organismi pubblici di controllo (ASL e Direzione del Lavoro- Servizi Ispettivi), già presenti, il legislatore introduce nuovi soggetti: il servizio di prevenzione e protezione e il suo responsabile; il medico competente; i lavoratori; il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS). Ciascuno, in relazione alle proprie responsabilità, è chiamato a dare attuazione al principio generale di prevenzione. Tuttavia, il datore di lavoro resta il principale responsabile in materia di sicurezza.
L'obbligo di sicurezza a carico del datore viene scomposto in una serie di specifici adempimenti svolti in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e con il medico competente, previa consultazione del rappresentante per la sicurezza:
-il primo consiste nelle c.d. valutazione dei rischi.
-il secondo è rappresentato dalla redazione del c.d. documento per la sicurezza contenente: 1)una relazione sulla valutazione dei rischi; 2)l'individuazione delle misure di prevenzione; 3)le modalità ed i tempi per la realizzazione del programma di sicurezza.
L'introduzione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è il segno dell'accoglimento di istanze partecipative nel nostro sistema di relazioni collettive. Il rappresentante viene consultato oltre che nei casi appena detti, in merito alla designazione degli addetti al servizio di prevenzione ed all'organizzazione della formazione dei lavoratori. Egli riceve tutte le informazioni in materia, elabora proposte ecc. Deve essere eletto o designato dai lavoratori in tutte le aziende o unità produttive. Le sue funzioni sono prevalentemente tecniche a differenza di quelle attribuite alle RSA o RSU.
I dipendenti devono contribuire con il datore all'adempimento degli obblighi in tema di tutela della salute (c.d. principio del coinvolgimento del lavoratore), ubbidendo alle direttive generali loro impartite in materia, utilizzando correttamente i macchinari; sottoponendosi alla formazione; segnalando le carenze. Essi hanno, in ogni caso, diritto ad allontanarsi dal posto di lavoro in caso di pericolo grave, immediato e inevitabile. La violazione degli obblighi da parte del lavoratore viene sanzionata (anche penalmente). Si è assistito inoltre all'estensione dell'obbligo di sicurezza anche ai contratti di lavoro flessibili e di somministrazione, nonché ai contratti in cui ci si avvale di lavoratori autonomi.
3. L'assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali.
A tutela dei lavoratori contro i rischi inerenti all'ambiente di lavoro, è finalizzato il sistema delle assicurazioni sociali obbligatorie contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, attualmente gestito dall'INAIL.
Il D.lgs. n. 38 del 2000 ha esteso l'obbligo assicurativo ai lavoratori parasubordinati, oltre che ai lavoratori dell'area dirigenziale, agli sportivi professionisti, ai lavoratori italiani operanti in paesi extracomunitari. Inoltre la novella ha ricompreso le ipotesi di infortunio c.d. “in itinere” (cioè subito dal lavoratore nel recarsi sul luogo di lavoro o fra due diversi luoghi di lavoro o nel normale tragitto di andata e ritorno rispetto al luogo ove il lavoratore consuma il pasto, in assenza di un servizio di mensa aziendale).
In caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale, il danno risarcibile ha coinciso per lungo tempo con il solo danno patrimoniale, legato alla perdita della capacità lavorativa (oltre all'eventuale danno morale ex art. 2059 c.c.).
Più recentemente la giurisprudenza è giunta a riconoscere l'esistenza e la risarcibilità del c.d. danno biologico, inteso come menomazione dell'integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata. Quello biologico è un danno (propriamente non patrimoniale e non morale) alla persona del lavoratore, che scaturisce dalla violazione del diritto alla salute da lui subita (risarcibilità ai sensi dell'art. 2087 c.c.).
Il D.lgs. n. 38/2000 ha disposto la copertura del danno biologico, definito dal legislatore come lesione all'integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona. La sua liquidazione avviene sulla base di un apposita tabella approvata con Decreto del Ministro del lavoro (D.M. 12 luglio 2000).
4. Il danno alla persona del lavoratore.
Al di là del danno biologico vi sono ulteriori pregiudizi alla persona del lavoratore, di cui i giudici ormai sostengono la risarcibilità, imputandoli al datore di lavoro a titolo di responsabilità contrattuale, sulla scorta dell'art. 2087 c.c, che protegge anche la personalità morale, oltre all'integrità fisica, del lavoratore. Si tratta di menomazioni alla dignità personale, connesse ad eventi diversi (demansionamento, soppressione del riposo settimanale, molestie sessuali, mobbing).
Il danno per demansionamento, il danno da usura psicofisica per frazionamento o soppressione del riposo settimanale, il danno da molestie sessuali e il danno da mobbing sono figure ricomprese nella figura del danno esistenziale, volto a ristorare qualsiasi pregiudizio alle attività realizzatrici della persona. La dottrina è preoccupata dalla tendenza all'eccessiva e confusa moltiplicazione delle fattispecie di danno alla persona risarcibili (danno morale, biologico, esistenziale).
5.Gli obblighi di informazione del datore.
Un'importanza crescente l'hanno avuta gli obblighi di informazione a carico dell'imprenditore. L'art. 27 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, ora art. II-87 della Costituzione europea ha riconosciuto un diritto di informazione e di consultazione nell'impresa a favore dei lavoratori i dei loro rappresentanti nei casi previsti dal diritto comunitario e dalle legislazioni e prassi nazionali.
Obblighi di informazione a favore del lavoratore sono soprattutto previsti dal D.lgs. n. 152/1997. Il decreto, di attuazione della direttiva n. 91/533/CE, pone a carico del datore un obbligo di informare il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro: luogo, orario, mansioni, durata del preavviso ecc.
Obblighi ulteriori di informazione in capo al datore sono disposti dalla disciplina contrattuale nei cfr. talora del lavoratore singolo e più spesso delle rappresentanze aziendali. Questi obblighi riguardano  non solo informazioni attinenti allo svolgimento dei rapporti di lavoro, ma anche notizie sulla gestione complessiva dell'impresa.
6.La cooperazione del datore all'adempimento.
La cooperazione del datore di lavoro è necessaria per l'adempimento della prestazione da parte del lavoratore. Questa posizione del datore è configurata come onere. Il rifiuto di ricevere una prestazione possibile, in capo al datore soltanto delle conseguenze tipiche della mora credendi: risarcimento danni o risarcimento della retribuzione.
Un obbligo del datore di permettere lo svolgimento della prestazione è configurato solo in rapporti di lavoro caratterizzati da un interesse specifico del lavoratore ad eseguire il proprio lavoro. Caso emblematico è l'apprendistato nonché il lavoro in prova, in quanto l'effettiva prestazione rappresenta un'occasione di formazione e risulta necessaria per valorizzare e mantenere la professionalità.
Di recente si è affermata l'esistenza in generale di un diritto del lavoratore a svolgere la prestazione e, quindi, di un correlativo obbligo del datore di porre in essere le condizioni necessarie a permettere tale svolgimento. Il fondamento di tale diritto è stato desunto dall'art. 13 dello Statuto dei lavoratori che riconosce e protegge la posizione professionale del lavoratore. Un'analoga indicazione è stata desunta dall'art. 18 St. lav., il quale protegge l'interesse specifico del lavoratore ingiustamente licenziato alla reintegrazione effettiva nel posto di lavoro e non solo alla retribuzione e alla continuazione giuridica del rapporto.
Le possibilità del lavoratore di far valere tale diritto al lavoro, sono oltremodo precarie, perché incontrano le tradizionali obiezioni circa la non eseguibilità in forma specifica di un obbligo infungibile del datore come quello di predisporre le condizioni per lo svolgimento del lavoro (non solamente di far entrare il lavoratore in azienda). D'altra parte è difficile per il lavoratore fornire la prova dei danni conseguenti al mancato impiego.

 

Fonte: https://associazioneetabetagamma.files.wordpress.com/2014/02/il-rapporto-di-lavoro-subordinato.doc

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