Retribuzione nel rapporto di lavoro

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Retribuzione nel rapporto di lavoro

LA RETRIBUZIONE NEL RAPPORTO DI LAVORO: FONTI, NOZIONE, STRUTTURA.
1.Fonti individuali e collettive
Sul piano del rapporto individuale la retribuzione costituisce (artt. 2094 e 2099 c.c.) la prestazione fondamentale del datore di lavoro nei confronti del lavoratore. L'obbligo retributivo connota così il contratto di lavoro come contratto oneroso, di scambio o a prestazioni corrispettive.
Sul piano collettivo le retribuzioni costituiscono una quota cospicua del reddito nazionale e rappresentano uno strumento decisivo per la sua distribuzione fra diversi gruppi e categorie sociali.
La disciplina della retribuzione, per quanto riguarda gli aspetti quantitativi nonché i modi ed i criteri di calcolo, è fondamentalmente determinata dalla contrattazione collettiva, la quale si conferma per tali aspetti la fonte prioritaria di disciplina de rapporto. All'autonomia individuale spetta un ruolo di miglioramento degli standard retributivi stabiliti in sede collettiva.
La legislazione ordinaria ha svolto un ruolo contenuto, di disciplina di aspetti secondari dell'istituto (forme, modalità di adempimento), fino ai provvedimenti sul costo del lavoro dal 1977 in poi, con i quali si è realizzato per la prima volta un controllo eteronomo delle dinamiche retributive.
Una funzione storicamente di grande rilievo è stata esercitata dalle direttive costituzionali, in materia di retribuzione proporzionata e sufficiente, per il tramite di una intensa opera di interpretazione giurisprudenziale. L'influenza della giurisprudenza è stata considerevole anche nell'interpretazione della complessa disciplina contrattuale dei maggiori profili dell'istituto. La materia retributiva esula dalle competenze comunitarie, salvo per quanto riguarda la parità fra uomini e donne.
2.Corrispettività e principi costituzionali: a)sufficienza e proporzionalità. Il concetto giurisprudenziale di retribuzione minima.
L’obbligo retributivo caratterizza il rapporto di lavoro come rapporto di scambio o a prestazioni corrispettive. La retribuzione rappresenta la controprestazione del datore di lavoro.
Tuttavia, nel rapporto di lavoro, tale controprestazione è soggetta ad una disciplina particolare, non riscontrabile in altri rapporti a prestazioni corrispettive. Infatti il nesso di corrispettività fra le prestazioni, così come disciplinato dai contratti sinallagmatici, subisce delle alterazioni (tassativamente previste) in una serie di casi di sospensione del rapporto di lavoro (malattia, infortunio, gravidanza, permessi sindacali, per motivi di studio, etc..); in tali ipotesi è fatto obbligo al datore di adempiere (in tutto o in parte) all’obbligo retributivo nonostante l’assenza di controprestazione.
La determinazione quantitativa della retribuzione risulta soprattutto dalla contrattazione collettiva (la legge generalmente si limita a disciplinare aspetti secondari dell’istituto della retribuzione, come le modalità d’adempimento; mentre alla contrattazione individuale è solitamente affidato un ruolo di miglioramento degli standard retributivi stabiliti in sede collettiva).
Ma la Costituzione contiene al riguardo precetti fondamentali. La norma di riferimento è l’art. 36, ove si sancisce che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa.
Il principio di sufficienza richiede un livello retributivo non solo correlato al minimo vitale, ma tale da permettere al lavoratore e alla famiglia un tenore di vita dignitoso, secondo il contesto storico, sociale e ambientale.
Il principio di proporzionalità invece esplicita una correlazione della retribuzione con le mansioni svolte dal lavoratore e con il tempo di lavoro.
È evidente come non vi sia omogeneità tra i due principi. La sufficienza impone di considerare elementi esterni al contratto, cioè l’inadeguatezza della retribuzione rispetto alle condizioni soggettive del lavoratore. La proporzionalità invece pone l’attenzione sull’equivalenza oggettiva dello scambio tra lavoro e retribuzione.
Tuttavia la giurisprudenza, che ha giocato un ruolo essenziale nell’interpretazione della norma, ha sostanzialmente risolto l’antinomia a tutto vantaggio del secondo dei due principi, ritenendo in sostanza sempre e comunque rispettato il canone della sufficienza sol che lo fosse quello di proporzionalità.
Infatti il giudice si limita a verificare se la retribuzione è proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato, ritenendo che il livello retributivo così individuato sia di per sé idoneo a soddisfare le esigenze di vita del lavoratore medio e della sua famiglia.
La giurisprudenza ha così estrapolato dall’art. 36 un principio unitario di retribuzione minima. Ma vediamo più nel dettaglio il percorso giurisprudenziale.
Innanzitutto va detto che l’art. 36 è norma immediatamente precettiva; dunque il giudice può sindacare se la retribuzione spettante al lavoratore sia conforme al dettato costituzionale. Ma quale livello retributivo può ritenersi conforme ai canoni dell’art. 36? I giudici hanno fatto costante riferimento alla retribuzione base (i c.d. minimi tabellari) prevista dai contratti collettivi di categoria o di settore, considerati quale parametro affidabile a prescindere dalla diretta applicabilità del contratto (c.d. estensione indiretta del contratto collettivo).
Dunque le retribuzioni così individuate costituiscono il livello minimo vincolante per tutti i rapporti di lavoro di quella categoria o di quel settore.
Da ciò discendono due conseguenze. La prima è che i canoni di sufficienza e proporzionalità non rivestono un valore assoluto ed uniforme per tutte le categorie di lavoratori, ma variano in funzione del settore.
La seconda è la prevalenza assoluta del canone della proporzionalità su quello di sufficienza. Infatti i contratti collettivi ricercano un equilibrio tra la prestazione di lavoro e la controprestazione retributiva in una data situazione di mercato, senza occuparsi delle condizioni di vita del singolo lavoratore.
Se il contratto individuale non rispetta i canoni di sufficienza e proporzionalità, la relativa pattuizione deve ritenersi nulla per violazione di norma imperativa. Anzi, secondo i principi sulla nullità parziale, trattandosi di nullità di clausola essenziale, la conseguenza dovrebbe essere la nullità dell’intero contratto di lavoro.
Tuttavia secondo la giurisprudenza, in questo caso soccorre l’art. 2099 c.c., il quale stabilisce che, in mancanza di norme contrattuali (collettive o individuali) la retribuzione è determinata dal giudice. Tale percorso però non sembra condivisibile. L’art. 2099 infatti contempla l’ipotesi in cui una retribuzione non sia affatto concordata (attribuendo al giudice il potere di colmare tale lacuna), mentre in tal caso una determinazione della retribuzione vi è stata, per quanto travolta da nullità.
In realtà il procedimento seguito dalla giurisprudenza può giustificarsi in base all’art. 1339, in tema di prezzi o clausole imposte, in base al quale, a fronte di un regolamento contrattuale difforme, la conseguenza non è la nullità totale del contratto, ma la correzione del regolamento contrattuale alla stregua della regola normativa (nel caso in questione la retribuzione individualmente concordata è sostituita dalla retribuzione minima legale risultante dall’art. 36 Cost.)
Quel che è eccezionale non è tanto il meccanismo di correzione del contratto, quanto il fatto di aver riconosciuto efficacia erga omnes ai minimi retributivi individuati dalla contrattazione collettiva per ciascun settore o categoria. Sicché anche i lavoratori dipendenti da imprese non aderenti alle associazioni imprenditoriali stipulanti (e quindi non tenuti ex contractu a rispettare i minimi retributivi) possono richiedere l’applicazione delle tabelle collettive – che venga loro negata dal datore di lavoro.
La funzione di supplenza giudiziaria così realizzata nella tutela minima delle retribuzioni è stata estremamente importante, soprattutto in quei settori (lavoro a domicilio, piccole imprese, settori poco sindacalizzati) nei quali la giurisprudenza sulla retribuzione costituisce l’unico elemento di protezione.
Infine i principi di sufficienza e proporzionalità retributiva escludono che nel rapporto di lavoro possano adottarsi forme di retribuzione tali da non garantire un compenso al lavoratore, in quanto totalmente agganciate ad elementi incerti quali gli utili o le provvigioni (tali forme retributive quindi potranno essere solo parziali).
3.b) Non discriminazione e parità retributiva.
Il dettato costituzionale, e in particolare i principi di eguaglianza e di non discriminazione, hanno spinto a sostenere l’esistenza di un principio di parità retributiva, in base al quale, ai lavoratori, a parità di mansioni e anzianità, spetterebbe un medesimo trattamento retributivo, senza possibilità per il datore di trattamenti differenziati.
Il principio di non discriminazione però, per la verità, si caratterizza in negativo, giacché inibisce trattamenti differenziati (fra gruppi di lavoratori) per specifici motivi (sesso, età, religione, ecc.).
Il principio di eguaglianza invece, il quale dovrebbe importare in positivo una parificazione del trattamento retributivo di lavoratori che ricoprano la stessa posizione professionale, non può in realtà configurare un principio generale di parità retributiva nei rapporti inter-privati di lavoro; l’art. 3 Cost. infatti opera solamente nei rapporti con il potere pubblico.
Né è possibile supportare il principio di parità retributiva con l’art. 36 Cost., il quale attiene all’equilibrio tra le prestazioni del singolo rapporto di lavoro e non implica dunque un rapporto “orizzontale” di parità retributiva fra diversi lavoratori che si trovino in situazioni analoghe (sicché un lavoratore non potrebbe rivendicare una retribuzione maggiore sol perché altri lavoratori con analoghe qualifiche o mansioni godono di un trattamento più favorevole).
Anche la Corte Costituzionale si è espressa sull’argomento, richiamandosi alla normativa legale (art. 16 St. lav) ed internazionale, la cui applicazione garantirebbe il diritto ad un’uguale retribuzione a parità di mansioni.
Tuttavia le conclusioni della Corte in merito all’effettiva sussistenza di un principio assoluto di parità retributiva non sono chiare, giacché essa contestualmente ammette che sono tollerabili e possibili disparità di trattamento per lavoratori in posizioni analoghe, qualora simili differenziazioni siano giustificate e comunque ragionevoli.
In definitiva si può ad oggi affermare l’inesistenza di un principio di parità retributiva del lavoratori a parità di mansioni; gli unici limiti esistenti alla definizione del trattamento retributivo sono la garanzia del minimo retributivo e il principio di non discriminazione. Un simile principio in effetti andrebbe a comprimere eccessivamente l’autonomia individuale privata nella determinazione dei trattamenti retributivi e delle condizioni di lavoro.
Nozione di retribuzione 
1. Il concetto di retribuzione. a)le definizioni legislative. b) la nozione giurisprudenziale onnicomprensiva. Critica.
Si è discusso se esista un concetto unitario di retribuzione o se piuttosto ne esistano molteplici, ognuno rilevante ad un fine diverso. La discussione non è accademica e comporta importanti conseguenze, poiché l’individuazione di una nozione onnicomprensiva di retribuzione consentirebbe di stabilire quali attribuzioni patrimoniali possano considerarsi effettuate dal datore a titolo retributivo (a tutti gli effetti). E stabilire che un determinato apporto è dovuto dal datore a titolo retributivo comporta due conseguenze:
-rende tale apporto non modificabile dal datore, né nell’ “an ne nel quantum”;
-fa si che tale apporto venga incluso nel calcolo di quegli istituti che fanno riferimento alla retribuzione come base di computo (indennità di fine rapporto, contributi previdenziali, tredicesima, ecc.).
Ebbene, va in effetti detto che vi sono una pluralità di definizioni legislative di retribuzione.
Una delle più importanti è quella fornita dall’art. 2121 c.c., che individua gli elementi retributivi da computare nel calcolo delle indennità di mancato preavviso; secondo tale definizione (alquanto ampia) devono essere inclusi nel calcolo “tutti i compensi corrisposti al lavoratore aventi carattere continuativo, con esclusione delle sole prestazioni erogate a titolo di rimborso spese”.
L’art. 2120 c.c., che disciplina il tfr da una diversa definizione di retribuzione da prendere a base di calcolo a tali fini; “tutti gli emolumenti corrisposti dal datore in dipendenza del rapporto di lavoro e a titolo non occasionale”. La formula “a titolo non occasionale” sembra ancora più ampia di quella di “compensi continuativi” data dall’art. 2121.
Ancora una diversa nozione di retribuzione viene poi data ai fini contributivi e fiscali; a tali fini vengono in considerazione “tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro”.
Tale varietà di forme retributive ha creato notevoli difficoltà alla giurisprudenza,la quale di conseguenza negli anni ’70 ha elaborato il c.d. concetto onnicomprensivo o unitario di retribuzione. Si sono dunque individuati alcuni caratteri strutturali che sarebbero propri della retribuzione in modo constante:
-la determinatezza richiesta per definirne la quantità, in misura sia variabile che fissa.
-l’obbligatorietà, che escluderebbe le prestazioni eventuali rientranti nella discrezionalità o liberalità del datore;
-la corrispettività, nel senso non di corrispondenza con specifiche prestazioni di lavoro, ma di una generica riconducibilità causale al rapporto di lavoro;
-la continuità, come corresponsione ricorrente nel tempo con carattere di regolarità, anche per compensi non configurati ex ante come stabili, ma erogati di fatto in modo continuativo (es. il lavoro straordinario).
Tali caratteri sono stati utilizzati per ricomprendere nella retribuzione grosso modo tutti i compensi erogati dal datore in dipendenza del rapporto di lavoro, con carattere necessario e ricorrente nel tempo, con la sola esclusione dei rimborsi spese (onnicomprensività del concetto).
Gli obiettivi perseguiti dalla giurisprudenza con l’elaborazione del concetto onnicomprensivo di retribuzione sono due:
-stabilire se certe prestazioni del datore (qualificate a vario titolo come prestazioni assistenziali o gratifiche liberali) dovessero ritenersi effettuate a titolo retributivo e dunque non modificabili nell’ an né nel quantum;
-identificare, attraverso i caratteri indicati nella nozione onnicomprensiva, quegli apporti che dovessero essere considerati per il calcolo di quegli istituti che hanno la retribuzione come base di computo.
È questo il caso delle indennità di fine rapporto, dei contributi previdenziali, dei c.d. elementi differiti della retribuzione (la tredicesima mensilità, la quattordicesima), delle maggiorazioni dovute per il lavoro straordinario.
L’elaborazione del concetto di onnicomprensività però ha portato ad ampliare enormemente la nozione di retribuzione. Altro è infatti, ritenere che una determinata indennità è retributiva, nel senso che non è discrezionale ma dovuta dal datore, altro è sostenere che per questo motivo essa vada computata in una serie di istituti che prendono la retribuzione come parametro di riferimento.
Proprio in virtù di tali implicazioni, tale orientamento giurisprudenziale è stato oggetto di critiche, sia giuridiche, sia di politica retributiva.
Sul versante giuridico si è osservato che il concetto onnicomprensivo non ha fondamento giuridico, in quanto è costruito su caratteri eterogenei (stabiliti per finalità diverse) che non possono avere valore assoluto al di fuori delle fattispecie per le quali sono stati elaborati. Ciascuna definizione di retribuzione non risponde ad una presunta omogeneità strutturale, ma ad esigenze particolari legate a particolari situazioni. Sicché la determinazione di cosa sia retribuzione va ricercata di volta in volta sulla base degli elementi strutturale e della ratio risultanti dalle fonti legali o contrattuali che vengono in rilievo per il singolo istituto.
Un’altra critica è poi quella che concerne il pericoloso effetto moltiplicatorio che la nozione onnicomprensiva può avere sulle dinamiche salariali. Ogni aumento di una singola voce retributiva si riflette (moltiplicando il suo peso) su tutti gli istituti il cui computo è rapportato alla retribuzione (gratifiche, scatti, ecc).
Tali critiche hanno determinato la fine di tale orientamento giurisprudenziale ed hanno portato a disconoscere la configurabilità di un concetto unitario di retribuzione.
Forme della retribuzione.
1.Tipologia legale.
Con l’espressione generica retribuzione si fa riferimento ad una complessa tipologia di attribuzioni patrimoniali cui è obbligato il datore di lavoro nei confronti del lavoratore, regolate da fonti diverse (per lo più contrattuali) e che presentano altresì forme e denominazioni diverse.
L’art. 2099 effettua un’elencazione di tali tipologie, individuando dunque varie forme retributive: retribuzione a tempo, retribuzione a cottimo, partecipazione agli utili o ai prodotti, provvigione e retribuzione in natura.
La forma retributiva di gran lunga più usata è quella a tempo, cioè determinata in ragione del tempo della prestazione di lavoro. Essa è l’unica forma adottata in maniera esclusiva. Le altre forme infatti possono costituire compensi parziali o elementi della retribuzione, la quale mantiene sempre una parte fissa determinata a tempo, al fine di garantire al lavoratore un minimo retribuito dovuto per il semplice fatto di aver prestato la propria attività lavorativa per un determinato periodo di tempo.
La retribuzione a cottimo costituisce l’altra fondamentale forma di retribuzione. In essa si tiene conto non soltanto del tempo impiegato ma anche del risultato, della produttività del lavoro e quindi del rendimento fornito dal lavoratore. Il riferimento al risultato, concetto tipico del lavoro autonomo, può trarre in inganno. Esso infatti deriva da una concezione dell’istituto radicata nella sua storia, ma non più attuale. Storicamente infatti, il cottimo è stato una forma tipica di corrispettivo del lavoro autonomo. Tuttavia, lo sviluppo delle forme di lavoro a cottimo nella grande impresa industriale hanno portato ad una rimeditazione dottrinale dell’istituto, che lo ha distinto dal contratto d’opera e acquisito nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato. A ben vedere infatti, nella determinazione della retribuzione a cottimo rileva la quantità della prestazione, e quindi il rendimento, e non propriamente il risultato (il quale può dipendere anche da fattori esterni all’attività del prestatore). Il risultato può essere preso in considerazione solo in quanto e allorché identifichi in concreto l’attività svolta dal prestatore (altre volte invece il risultato non coincide con la quantità di attività prestata). Ciò comporta che ogni qualvolta il risultato venga meno per fattori non attinenti alla prestazione del lavoratore (difettosità della materia prima, guasto alle macchine) resta fermo il diritto alla retribuzione di cottimo corrispondente al lavoro svolto o che si sarebbe potuto svolgere. Si possono distinguere varie forme di cottimo, in dipendenza dell’unità presa a base di misurazione del rendimento e quindi del compenso: cottimo a forfait (in cui il compenso è commisurato all’opera finita), cottimo a misura (in cui è commisurato alla quantità prodotta), cottimo a tempo (si considera il tempo risparmiato rispetto al tempo standard). Si distinguono inoltre il cottimo individuale dal cottimo collettivo, nel quale si considera il rendimento di un gruppo di lavoratori. La disciplina legislativa del cottimo è contenuta in 2 sole norme (ormai di rilievo residuale, dato il ruolo preminente assunto dalla contrattazione collettiva). L’art. 2100 prevede il c.d. cottimo obbligatorio, stabilendo che il lavoratore deve essere retribuito a cottimo nelle ipotesi in cui, in conseguenza dell’organizzazione del lavoro, è vincolato ad un certo ritmo produttivo (es. catena di montaggio), oppure quando la valutazione della sua prestazione è fatta in base al risultato della misurazione dei tempi di lavorazione (per cui si prestabiliscono i tempi standards e su tale base si fissa la retribuzione). Il cottimo obbligatorio è inoltre previsto per il lavoro a domicilio. Qui la ragione va ricercata nelle particolari condizioni di espletamento del lavoro, che si svolge fuori dall’impresa e non è quindi controllabile nel tempo impiegato ma solo quanto al risultato. L’art. 2101 stabilisce alcuni principi generali in ordine alle procedure di fissazione della retribuzione a cottimo che spettano all’imprenditore, ma con due ordini di limiti. Anzitutto la legge gli impone di comunicare preventivamente ai lavoratori gli elementi costitutivi della tariffa di cottimo, le lavorazioni da eseguire. Inoltre il datore può modificare tali elementi solo nel caso in cui siano cambiate le condizioni di lavoro che li giustificano (ed il nuovo sistema di cottimo diventa definitivo dopo un periodo di adattamento previsto dai contratti collettivi).
Un’altra forma di retribuzione prevista dall’art. 2099 è la retribuzione in natura, che è generalmente vista con sfavore e addirittura bandita in certi Paesi per le forme di sfruttamento cui dava adito, addossando ai lavoratori il rischio della trasformazione in denaro.
La provvigione è una forma di retribuzione agganciata agli affari trattati dal lavoratore nei casi in cui l’oggetto della prestazione consista appunto nella trattazione di affari in nome e per conto del datore.
La partecipazione ai prodotti, usata per lo più nelle attività di lavoro agricolo e nella pesca come retribuzione parziale, è una specie particolare di provvigione; qui però il prodotto non è l’affare ma il bene fisico oggetto dell’attività d’impresa.
Un’altra forma di retribuzione è poi la partecipazione agli utili. A tal fine , salvo patto contrario vanno considerati gli utili netti, e, per le imprese soggette a pubblicazione del bilancio, a quelli risultanti dal bilancio regolarmente approvato e pubblicato. Questa forma di retribuzione comunque non fa venire meno il carattere di rapporto di lavoro subordinato; mancando infatti, da parte del lavoratore una partecipazione alle perdite ed un’ingerenza nella gestione dell’impresa, non si crea alcun rapporto associativo fra prestatore e datore.
2.La disciplina contrattuale della retribuzione. La proliferazione delle forme retributive.
La disciplina contrattuale poi conosce tutta una serie di istituti diversi da quelli finora accennati, oltremodo variabili. Spesso le distinzioni sono solo nominalistiche, giustificate dalla volontà, spesso coincidente del sindacato e degli imprenditori, di mascherare aumenti retributivi normali sotto altri nomi quali indennità o elementi accessori, magari per eludere gli obblighi contributivi o inizialmente per conservare al datore margini di discrezionalità nella conservazione o meno dei singoli compensi.
Una distinzione ricorrente è quella fra retribuzione diretta, cioè corrisposta immediatamente al lavoratore nei singoli periodi di durata del rapporto, e retribuzione differita, cioè corrisposta in modo posticipato rispetto al periodo di maturazione; annualmente (gratifica natalizia o tredicesima mensilità e la quattordicesima) o alla fine del rapporto (tfr).
Un altro termine ricorrente è quello di automatismi retributivi, usato per designare diversi istituti che comportano incrementi automatici del trattamento economico al verificarsi di determinati fatti o cadenze temporali, senza bisogno di specifici interventi contrattuali o legislativi (scatti di anzianità e tfr sono automatismi connessi all’anzianità di servizio).
Il nucleo centrale della retribuzione è la retribuzione tabellare, risultante dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria. La contrattazione fissa vari standards che vengono periodicamente aggiornati in rapporto alle diverse categorie e qualifiche di lavoratori (ora chiamati livelli di inquadramento).
Le tabelle fissate nei contratti collettivi nazionali rappresentano il livello standard della retribuzione (la retribuzione base). Esse vengono integrate dalla contrattazione a livello aziendale, ove questa sia presente, finendo così per rappresentare un trattamento minimo.
Gli incrementi aziendali di solito non confluiscono nella retribuzione base. Spesso sono fissati in forme e con nomi diversi (premi annuali di produzione o di bilancio) e contribuiscono a formare la retribuzione normale o globale (che è composta dalla retribuzione tabellare, dalle integrazioni aziendali e dalle maggiorazioni previste per il lavoro straordinario, notturno e festivo, ossia dalla retribuzione base più tutti gli ulteriori eventuali elementi accessori, legati alle caratteristiche della prestazione individuale). La presenza di ulteriori trattamenti retributivi individuali (superminimi) è particolarmente diffusa per i lavoratori di medio-alto livello.
3. Le voci retributive contrattuali.
La retribuzione base (o tabellare) è connessa con la qualifica ricoperta dal lavoratore e quindi con le mansioni svolte. Tale voce retributiva era, fino al 1992, comprensiva dell’indennità di contingenza o scala mobile, un istituto di origine patrizia che ha costituito per quasi 40 anni il meccanismo automatico di adeguamento delle retribuzioni all’aumento del costo della vita.
L’indennità di contingenza era un automatismo retributivo indicizzato al costo della vita, in misura fissa, avente la funzione di garantire il costante adeguamento del valore nominale della retribuzione a quello reale, al fine di salvaguardare i salari dalla perdita del potere d’acquisto per effetto dell’inflazione
Il Protocollo del 1992 sancisce la scomparsa del meccanismo della scala mobile. Il Protocollo del ’93 poi ha introdotto un nuovo sistema di difesa del potere d’acquisto dei salari, attribuendo alla contrattazione collettiva (in particolare al contratto collettivo nazionale di categoria) la possibilità di recuperare lo scarto tra livello reale dei salari e livello d’inflazione. In pratica, i soggetti sindacali, in sede di rinnovo della parte economica del contratto (che ha durata biennale), procedono alla comparazione tra inflazione programmata e inflazione effettiva e sulla base dello scarto registrato viene negoziato l’incremento dei livelli retributivi per il secondo biennio.
Ci si è anche preoccupati dell’eventualità che le trattative per i rinnovi contrattuali subiscano ritardi e le retribuzioni dei lavoratori risultino scoperte di fronte all’inflazione. per questo è stata introdotta una forma di adeguamento automatico delle retribuzioni al costo della vita, l' indennità di vacanza contrattuale.
L’istituto non si pone solo come garanzia per la difesa del potere d’acquisto dei salari, ma svolge anche una funzione di incentivo al regolare svolgersi dell’attività contrattuale. L’indennità spetta infatti ai lavoratori dopo il terzo mese dalla scadenza del contratto collettivo di categoria, se questo non è stato ancora rinnovato. L’indennità ha poi anche una funzione sanzionatoria; nel caso sia violata la clausola di tregua prevista dal Protocollo (ossia nel caso in cui le parti assumano iniziative unilaterali o procedano ad azioni dirette durante il “periodo di raffreddamento”, che comprende l’ultimo trimestre di applicazione del vecchio contratto ed il mese successivo alla sua scadenza), il termine di decorrenza dell’indennità può essere anticipato o fatto slittare in avanti (di 3 mesi).
Fra gli elementi retributivi compresi nella retribuzione normale o globale, i contratti collettivi prevedono gli scatti di anzianità. Si tratta di aumenti di retribuzione periodici (di solito biennali) stabiliti in varia misura, in rapporto all’anzianità di servizio del lavoratore, misurata dalla permanenza nell’azienda. Insieme al tfr costituiscono il principale automatismo retributivo legato all’anzianità.
I superminimi costituiscono incrementi aziendali rispetto alle retribuzioni contrattuali standard assegnati collettivamente (di solito in seguito ad accordi aziendali) oppure individualmente.
Istituti generalmente contrattati a livello collettivo, ma che possono pure assumere forma individuale, sono i premi, fra i quali troviamo, tra i più diffusi, i premi di produzione. Configurati all’inizio degli anni ’60 come strumenti per far partecipare i lavoratori ai benefici della produttività aziendale, cui dovevano essere correlati, sono stati quasi subito trasformati dalla contrattazione aziendale in compensi fissi (annuali) slegati dalla produttività, diventando così un integrazione aziendale della retribuzione base stabilita nel contratto nazionale.
Il Protocollo del ’93 portò ad una forte spinta all’utilizzazione dei premi in funzione radicalmente diversa da quella storicamente consolidata. In un contesto di ripartizione di competenze tra contratto nazionale di categoria e contratto di secondo livello (aziendale o territoriale), è previsto che a quest’ultimo spetti di prevedere erogazioni strettamente correlate ai risultati conseguiti nella realizzazione di programmi concordati fra le parti, aventi come obiettivo incrementi di produttività. Dunque ai sensi del Protocollo i nuovi premi di risultato dovrebbero costituire voci retributive variabili, collegate al raggiungimento di obiettivi predefiniti, deputate a premiare la professionalità dei dipendenti ed il loro impegno per il buon successo dell’impresa.
In verità i premi in questione si distinguono a seconda dei parametri di misurazione:
-premi di produttività, agganciati ad indicatori (la qualità o quantità del prodotto, il risparmio sui costi, ecc) che ricadono nella sfera di controllo dei lavoratori. Questi premi costituiscono effettivamente una forma di retribuzione incentivante dell’impegno lavorativo.
-premi di redditività, legati ad indici che denotano il successo dell’impresa sul mercato (quali il fatturato o l’utile d’esercizio) ed il cui raggiungimento dipende in larga parte da scelte strategiche che esulano dall’impegno dei lavoratori. Questi premi costituiscono un metodo di flessibilizzazione della retribuzione e quindi di alleggerimento del costo del lavoro in periodi di difficoltà (poiché se l’impresa non ha successo tali premi non vengono corrisposti).
Le gratifiche mantengono anch’esse, come i premi, solo il nome dell’originale corresponsione liberale. Costituiscono elementi integrativi della retribuzione, differiti in quanto corrisposti una volta l’anno., per far fronte a particolari spese o bisogni del lavoratore. La più diffusa e quella natalizia (detta anche tredicesima mensilità).
Una categoria particolarmente eterogenea è quella delle indennità, previste soprattutto dalla contrattazione collettiva. La denominazione suggerisce che si tratti di attribuzioni di carattere risarcitorio; ma la grande maggioranza di tali indennità, ancora una volta, è stata presto attratta nell’area della retribuzione, in qualità di elementi accessori. Infatti esse servono ad adattare il compenso complessivo del lavoratore a diverse particolarità del lavoro (condizioni temporali, di disagio, di gravosità), senza però che si possa configurare tipicamente la reintegrazione di una specifica perdita patrimoniale, danno o spesa subita dal lavoratore a causa del lavoro (solo il tale ultimo caso saremmo di fronte a prestazioni indennitarie o a rimborsi spese in senso tecnico).
L'adempimento dell'obbligo retributivo.
L'adempimento dell'obbligo retributivo, quale obbligazione di dare è regolato dagli artt. 1176 e 1218 c.c. nonché dall'art. 2099 c.c., il quale stabilisce più specificamente che i tempi e le circostanze del pagamento devono essere quelli in uso nel luogo dove il lavoro è eseguito.
Il diritto al pagamento della retribuzione sorge a lavoro compiuto; è questo il principio della post-numerazione, in base al quale il pagamento della retribuzione è posticipato rispetto all’erogazione della prestazione lavorativa.
Il termine per la corresponsione della retribuzione è stabilito dai contratti collettivi o in mancanza, dagli usi del luogo dove il lavoro è compiuto. I pagamenti seguono cadenze periodiche stabilite dai contratti (solitamente mensili). Periodicità diverse sono stabilite per gli elementi differiti della retribuzione (come la tredicesima ed i premi di produzione).
Per gli impiegati l’unità di tempo considerata a base di calcolo per la retribuzione è il mese, e quindi la retribuzione è corrisposta su base mensile ed è denominata stipendio. Per gli operai l’unità di tempo base è l’ora lavorata, e quindi per loro vale la retribuzione oraria, denominata salario o paga. Tale distinzione non ha rilievo per il termine d’adempimento, che può essere in ogni caso mensile, quindicinale o settimanale, ma per la diversa incidenza del rischio della mancata prestazione. L’impiegato non subisce alcuna decurtazione dello stipendio per le ipotesi di mancata prestazione dell’attività che non derivino da suo inadempimento, mentre l’operaio, la cui retribuzione è calcolata sulla base delle ore lavorate nel mese, risente delle interruzioni, anche non colpevoli, del lavoro.
Il datore ha l’obbligo (L. n. 4/1953)di consegnare al lavoratore, contestualmente alla corresponsione della retribuzione, il c.d. prospetto di paga (busta paga), nel quale sono indicati nome e qualifica professionale del lavoratore, periodo di riferimento e soprattutto l’elenco di tutti gli elementi che compongono la retribuzione corrisposta.

 

Fonte: https://associazioneetabetagamma.files.wordpress.com/2014/02/il-rapporto-di-lavoro-subordinato.doc

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