Leopardi testi e commenti

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Leopardi testi e commenti

Dallo Zibaldone    Ritratto di madre

Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl’invidiava intimamente e sinceramente, perchè questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall’incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa [354]età, non pregava Dio che li facesse morire, perchè la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Era esattissima negli uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell’anima desiderava che fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che provava nell’interrogare o consultare i medici, era di sentirne opinioni o ragguagli di miglioramento. Vedendo ne’ malati qualche segno di morte vicina, sentiva una gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente con quelli che la condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un giorno allegro ed ameno, nè sapeva comprendere come il marito fosse sì poco savio da attristarsene. Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia. Non proccurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi pretendeva che in vista di essi, rinunziassero intieramente alla vita nella loro prima gioventù: se resistevano, se cercavano il contrario, se vi riuscivano in qualche minima parte, n’era indispettita, scemava quanto poteva colle parole e coll’opinion sua i loro successi (tanto de’ brutti quanto de’ belli, perchè n’ebbe molti), e non lasciava [355]passare anzi cercava studiosamente l’occasione di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere i loro difetti, e le conseguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce. Sentiva i cattivi successi de’ suoi figli in questo o simili particolari, con vera consolazione, e si tratteneva di preferenza con loro sopra ciò che aveva sentito in loro disfavore. Tutto questo per liberarli dai pericoli dell’anima, e nello stesso modo si regolava in tutto quello che spetta all’educazione dei figli, al produrli nel mondo, al collocarli, ai mezzi tutti di felicità temporale. Sentiva infinita compassione per li peccatori, ma pochissima per le sventure corporali o temporali, eccetto se la natura talvolta la vinceva. Le malattie, le morti le più compassionevoli de’ giovanetti estinti nel fior dell’età, fra le più belle speranze, col maggior danno delle famiglie o del pubblico ec. non la toccavano in verun modo. Perchè diceva che non importa l’età della morte, ma il modo: e perciò soleva sempre informarsi curiosamente se erano morti bene secondo la religione, o quando erano malati, se mostravano rassegnazione ec. E parlava di queste disgrazie con una freddezza marmorea. Questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo, ed era stata così ridotta dalla sola religione. Ora questo che altro è se non barbarie? E tuttavia non è altro che un calcolo matematico, e una conseguenza immediata e necessaria dei [356]principii di religione esattamente considerati; di quella religione che a buon diritto si vanta per la più misericordiosa "

Ecco il testo della lettera manoscritta recuperata dalla Guardia di Finanza di Lecce:
(Leopardi manifesta il proprio affetto per Antonio Ranieri in queste parole piuttosto discusse)

''Ranieri mio. Io credeva appena a' miei occhi leggendo la tua del 6. Tanta vigliaccheria in animo umano o muliebre non è né sarà mai credibile se non dopo il fatto, come in questo caso. Sento ch'è affatto inutile ch'io tenti d'esprimerti la mia compassione, perché qualunque più viva parola sarebbe infinitamente inferiore al vero. Vorrei poterti consolare da vicino, vorrei che questa cosa non si opponesse alla congiunzione, da noi tanto meditata e desiderata, dei nostri destini. Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai, ne' ti raffredderai nell'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi desidero ardentemente che tu provvegga prima d'ogni cosa al tuo benessere: ma qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo, che noi viviamo l'uno per l'altro, o almeno io per te; sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia. Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sara' eternamente tuo''.

L’Infinito
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
De l'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminato
Spazio di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e 'l suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E 'l naufragar m'è dolce in questo mare.

PARAFRASI
Mi è stato sempre caro questo colle solitario e questa siepe che sottrae (esclude) allo sguardo così gran parte dell'orizzonte . Ma quando mi siedo e osservo spazi interminati e silenzi sovrumani oltre essa, in tutta quella quiete, mi immagino, mi immergo nel pensiero al punto che per poco il cuore non si spaventa. E quando odo stormire il vento tra gli alberi, io confronto quell’infinito silenzio con questa voce e mi viene in mente l’eterno, il tempo passato e quello presente e vivo e il suo rumore; Così, in questa immensità il mio pensiero si annega e naufragare in questo mare sterminato è dolce.
COMMENTO Questo testo, scritto in endecasillabi sciolti, rappresenta un momento chiave della poetica di Leopardi, espressa appunto nel concetto dell’indefinito e del vago. La dimensione del componimento è prettamente immaginativa in quanto il poeta non riesce a vedere oltre la siepe ed immagina spazi interminati con silenzi sovrumani. L’unico elemento naturalistico che compare è il vento che stormisce tra le piante, è la sua voce che il poeta paragona alla propria immaginazione  e di nuovo ci si sposta in una dimensione mentale nella quale si pensa all’eterno, al passato ed al presente. Una della più complesse riflessioni sul tema dell’infinito termina con la metafora del pensiero che annega dolcemente in questo mare. C’è anche un accostamento ossimorico nel dolce naufragare in quanto nel naufragio non c’è normalmente nulla di piacevole, a differenza di questo naufragare nell’immenso dell’infinito che è così piacevole (teoria del piacere nello Zibaldone).

La quiete dopo la tempesta

  1. Passata è la tempesta:
  2. Odo augelli far festa, e la gallina,
  3. Tornata in su la via,
  4. Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
  5. Rompe là da ponente, alla montagna;
  6. Sgombrasi la campagna,
  7. E chiaro nella valle il fiume appare.
  8. Ogni cor si rallegra, in ogni lato
  9. Risorge il romorio
  10. Torna il lavoro usato.
  11. L'artigiano a mirar l'umido cielo,
  12. Con l'opra in man, cantando,
  13. Fassi in su l'uscio; a prova
  14. Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
  15. Della novella piova;
  16. E l'erbaiuol rinnova
  17. Di sentiero in sentiero
  18. Il grido giornaliero.
  19. Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
  20. Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
  21. Apre terrazzi e logge la famiglia:
  22. E, dalla via corrente, odi lontano
  23. Tintinnio di sonagli; il carro stride
  24. Del passeggier che il suo cammin ripiglia.
  1. Si rallegra ogni core.
  2. Sì dolce, sì gradita
  3. Quand'è, com'or, la vita?
  4. Quando con tanto amore
  5. L'uomo a' suoi studi intende?
  6. O torna all'opre? o cosa nova imprende?
  7. Quando de' mali suoi men si ricorda?
  8. Piacer figlio d'affanno;
  9. Gioia vana, ch'è frutto
  10. Del passato timore, onde si scosse
  11. E paventò la morte
  12. Chi la vita abborria;
  13. Onde in lungo tormento,
  14. Fredde, tacite, smorte,
  15. Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
  16. Mossi alle nostre offese
  17. Folgori, nembi e vento.

 

  1. O natura cortese,
  2. Son questi i doni tuoi,
  3. Questi i diletti sono
  4. Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
  5. È diletto fra noi.
  6. Pene tu spargi a larga mano; il duolo
  7. Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto
  8. Che per mostro e miracolo talvolta
  9. Nasce d'affanno, è gran guadagno.Umana
  10. Prole cara agli eterni! assai felice
  11. Se respirar ti lice
  12. D'alcun dolor: beata
  13. Se te d'ogni dolor morte risana.

La tempesta è passata, sento gli uccelli (augelli - arcaismo) far festa, e la gallina, tornata sulla strada che ripete il suo verso. Ecco che il sereno appare improvvisamente (rompe) a ponente, verso la montagna; la campagna si libera (sgombrasi, dall'oscurità e dalla nebbia che l'offuscava durante il temporale) e nella valle si torna a vedere il fiume.
Ogni (ogni…ogni - anafora) animo si rallegra [finito il temporale gli uomini provano un senso di gioia], da ogni parte riprendono i soliti rumori [risorge il romorio allitterazione ripetizione del suono r per suggerire l’idea dei rumori che scandiscono il ritmo della vita del borgo] e riprendono le occupazioni di sempre (lavoro usato).
L’artigiano, con il lavoro (opra - arcaismo) in mano,  si affaccia (fassi - arcaismo) cantando [in segno di gioia dopo la paura provocata dal temporale] sull’uscio a guardare il cielo umido; una fanciulla, facendo a gara [con le sue amiche] (a prova, in fretta , in contrasto al moto lento dell'artigiano: l'uno contempla, l'altra si affretta), esce a raccogliere (a còr - termine arcaico) l'acqua della pioggia (piova, termine arcaico) da poco caduta (novella); e l’ortolano ambulante (erbaiuol) ripete (rinnova) di sentiero in sentiero il consueto richiamo giornaliero [con cui annuncia il suo passaggio].
Ecco (ecco…ecco - anafora) il sole che ritorna a splendere (sorride personificazione: il sol sorride) per poggi e casolari (metafora). La servitù (la famiglia – latinismo) apre (apre…apre - anafora) le finestre, apre le porte dei terrazzi e delle logge: e dalla via maestra (via corrente) in lontananza, si sente un tintinnio di sonagli; il carro del viandante che riprende il suo viaggio stride.
Ogni animo si rallegra (riprende il v.8). Quando la vita è così dolce e così gradita come ora? Quando l’uomo si dedica (intende) con così tanta passione alle proprie occupazioni (studi) come in questo momento?
O torna al lavoro (opre)? O inizia una nuova attività (cosa nova imprende)? Quando si ricorda un po’ di meno dei suoi mali? [lunga serie di domande retoriche, 5, dal ritmo rapido e concitato per effetto di rime, assonanze ed enjambements].
Il piacere è figlio del dolore (metafora) [il piacere in sé non esiste ma è una momentanea cessazione del dolore], è solo una gioia vana [un'illusione], che nasce (ch’è frutto) dalla paura appena passata, per cui (onde…onde - anafora) anche chi detestava la vita (la vita aborria) arrivò (si scosse) a temere (paventò) la morte [a temere di perdere la vita]; per cui (onde con lo stesso valore del v.34) gli uomini raggelati dalla paura, silenziosi, pallidi [per paura appunto], con un lungo tormento, sudarono ed ebbero il batticuore nel vedere fulmini, nuvole e vento rivolti contro di noi (alle nostre offese).
O natura benevola (cortese, ironico nei confronti della natura), sono questi i tuoi doni, sono questi i piaceri (i diletti) che tu offri agli uomini (porgi ai mortali). Fra noi il piacere è smettere di soffrire (uscir di pena). Tu spargi in abbondanza (a larga mano) sofferenza; il dolore (duolo) nasce spontaneo e quel poco piacere che talvolta per prodigio (mostro, latinismo da mostrum/prodigio) e per miracolo nasce dal dolore (d'affanno), è un gran guadagno [detto ancora con sarcasmo].
O stirpe umana (umana prole) cara agli dei! [altra nota sarcastica: sono stati davvero misericordiosi se ti hanno dato questo destino!] puoi dirti davvero molto felice se ti è concesso (ti lice dal latino tibi licet) di tirare il respiro [se ti è consentita una breve tregua] da qualche dolore: [ma ti puoi ritenere] beata se la morte ti libera (risana, guarisce) da tutti i dolori.

COMMENTO
Composta nel settembre del 1829, descrive il ritornare della pace e dell’attività a Recanati dopo un temporale che aveva interrotto la trama regolare della vita del paese e provocato angoscia e spavento. Da questo susseguirsi Leopardi trae spunto per sviluppare il concetto a Lui caro dell’inconsistenza, anzi dell’inesistenza, del piacere e per mettere in evidenza la malignità della natura, che ci concede brevi piaceri che interrompono per poco un dolore.
Per il poeta la condizione umana è una condizione di dolore: il dolore è l’unica vera realtà della vita. Mentre per tutti la fine della tempesta rappresenta il ritorno ad una situazione rassicurante e il ritorno alla quotidianità, per Leopardi non vi è quiete per l’uomo la cui esistenza è una catena di sofferenze. L’unica quiete vera e duratura a cui l’uomo possa aspirare è data dalla morte.
Il canto, iniziato con una lieta apertura sulle campagne rasserenate e sui cuori umani che tornano ad essere fiduciosi, finisce con pensieri tristi sul destino umano, che raggiunge la vera felicità solo nella morte. Struttura tematico-lessicale:

  • la prima parte, che coincide con la prima strofa (1-24), è idilliaca e descrittiva;
  • la seconda, che occupa le altre strofe (25-54), è meditativa e riflessiva.

Forma metrica: Canzone libera costituita da 3 strofe di settenari ed endecasillabi che si succedono variamente, secondo le esigenze dell’ispirazione. Anche la rima non ha schema prestabilito. L’unico elemento di regolarità è dato dal ripetersi del settenario alla fine di ogni strofa.
Dal punto di vista lessicale nella lirica vi è la presenza sia di termini aulici e letterari (augelli, romorio, fassi), sia di termini quotidiani (gallina, tempesta, artigiano).

 

 

 

Il sabato del villaggio
La donzelletta vien dalla campagna
in sul calar del sole,
col suo fascio dell’erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e viole,
onde, siccome suole, ornare ella si appresta
dimani, al dí di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dí della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch’ebbe compagni nell’età piú bella.
Già tutta l’aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
giú da’ colli e da’ tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore;
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dí del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l’altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega

del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s’affretta, e s’adopra
di fornir l’opra anzi al chiarir dell’alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave.

Parafrasi
La giovane contadina torna dai campi al tramonto del sole con il fascio d’erba e porta in mano un mazzetto di rose e viole, con il quale, come è usanza, si prepara ad abbellire il seno ed i capelli, domani per il giorno di festa. La vecchietta siede sulle scale a filare con le vicine, rivolta al tramonto, alla direzione in cui il giorno finisce; e inizia a raccontare della sua giovinezza, quando si faceva bella nei giorni di festa e, ancora in salute e in forma, era solita ballare la sera con quelli che furono compagni della sua giovinezza, della sua età più bella. Tutta l’aria si oscura già, il cielo ritorna azzurro e le ombre, alla luce bianca della luna sorta da poco, tornano a vedersi giù dai colli e dai tetti. Ora la campana annuncia la festa che arriva e si potrebbe dire che a quel suono l’animo trova conforto. I ragazzi, gridando a gruppi nella piazzetta e saltellando qua e là, producono un rumore che rende felici: e intanto lo zappatore ritorna a casa per il suo pasto frugale fischiettando e pensa tra sé e sé al suo giorno di riposo.
Poi, quando intorno è spenta ogni altra luce e tutto il resto è in silenzio, senti picchiare il martello, senti il rumore della sega del falegname che sta sveglio alla luce della lucerna nel chiuso della sua bottega e si affretta e si dà da fare per finire il suo lavoro prima del sorgere del sole.
Questo (il sabato), tra sette giorni, è il più amato, pieno di speranza e di gioia: domani (domenica) la tristezza e la noia riempiranno le ore e ciascuno tornerà col pensiero al suo lavoro consueto.
Ragazzo spensierato, questa età giovanile è come un giorno pieno di allegria, un giorno chiaro, sereno, che precede la tua maturità. Sii felice, ragazzo mio; questa è una condizione felice, un’età serena. Non voglio dirti altro; ma non ti sia di peso che la tua maturità tardi ancora a giungere.



Figure retoriche

  • Allitterazioni: “donzelletta, vecchierella, novellando, sulla, bella, colli”; “giorno, chiaro, ciascuno, gioia, stagion, pien, pensier, lieta”;
  • Metafore: “età più bella” (v. 15); “età fiorita” (v. 44); “stagion lieta” (v. 49) per indicare la giovinezza; “festa” (vv. 47 e 50) per indicare la maturità;
  • Similitudine: vv. 44-45: “cotesta età fiorita è come un giorno d’allegrezza pieno”;
  • Metonimia: v. 17: “il sereno” (ad indicare il cielo);
  • Enjambements: vv. 4-5: “reca in mano / un mazzolin di rose e di viole”; vv. 33-34: “la sega / del legnaiuol”; vv. 40-41: “tristezza e noia / recheran l’ore”;
  • Apostrofi: v. 43: “garzoncello scherzoso”; v. 48: “fanciullo mio”;
  • Preterizione: v. 50: “altro dirti non vo’”;
  • Iperbato: vv.6-7: “tornare ella si appresta / dimani, al dì di festa, il petto e il crine”; v. 41-42: “ed al travaglio usato / ciascuno in suo pensier farà ritorno”; vv. 50-51: “ma la tua festa / ch’anco tardi a venir non ti sia grave”;
  • Anastrofi: v. 11: “novellando vien”; v. 45: “d’allegrezza pieno”;
  • Anadiplosi: vv. 45-46: “un giorno di’allegrezza pieno / giorno chiaro, sereno” 

Commento
Il sabato del villaggio fa parte dei cosiddetti “grandi idilli” e fu composto a Recanati nel 1829, subito dopo La quiete dopo la tempesta, con la quale presenta diverse analogie: ha la stessa struttura, con prima una parte descrittiva, poi una riflessione che prende le mosse dalla descrizione precedente. Inoltre, i due idilli sono complementari anche dal punto di vista tematico, in quanto nella Quiete il piacere era visto come assenza di dolore, mentre qui è l’attesa e l’illusione, destinata ad essere delusa, di un godimento futuro.
Si tratta di tematiche tipiche degli idilli leopardiani: le illusioni e le speranze della giovinezza, il ricordo, i quadri di vita paesana con le suggestioni date dalle immagini “vaghe e indefinite”, unite, però, nei cosiddetti “grandi idilli”, ad un pessimismo assoluto e ad una lucida consapevolezza dell’”arido vero”. Per questo, le immagini liete sono spesso create dalla memoria e si accompagnano sempre alla consapevolezza del dolore e della loro illusorietà.
Il sabato simboleggia l’attesa di qualcosa di più piacevole e lieto: tutti lavorano più alacremente, pensando che quello successivo sarà un giorno di riposo; ma quando arriva finalmente la domenica a dominare sono tristezza e noia e il pensiero va subito alle consuete fatiche che ci aspettano il giorno successivo. Il sabato, dunque, è come la giovinezza, ricca di attese e illusioni; mentre la domenica simboleggia le delusioni dell’età più matura. Per questo, Leopardi invita il suo “garzoncello scherzoso” a cogliere l’attimo e a godersi la sua giovane età, senza preoccuparsi del domani: non bisogna aspettarsi goie future, perché, come la domenica delude le attese del sabato, così l’età adulta è destinata a deludere le attese della giovinezza.
Il quadro di vita paesana, che si apre con la contrapposizione tra la “donzelletta” (v. 1), simbolo dei piaceri della giovinezza, e la “vecchierella” (v. 9) che rappresenta il ricordo dei piaceri passati, non ha nulla di realistico, sia perché rimanda a numerosi precedenti letterari, sia perché il paesaggio descritto è simbolico e ricco di quelle immagini “vaghe e indefinite” tanto care a Leopardi, perché permettono di evocare vastità e lontananze che stimolano l’immaginazione. Proprio a quest’esigenza di indeterminatezza risponde anche l’accostamento di rose e viole, inverosimile perché si tratta di fiori che fioriscono in mesi diversi e, per questo, criticato da Pascoli in un celebre saggio del 1896.
La parte finale di riflessione, a differenza di quella della Quiete, è breve e pacata; il colloquio col ragazzo non è angoscioso, ma affettuoso e delicato e vi sono evocate immagini di vita, legate al campo semantico delle gioie della giovinezza: “età fiorita” (v. 44), “chiaro”, “sereno” (v. 46), “festa” (vv. 47 e 50), “soave” (v. 48), “lieta (v. 49)”. Infatti, il poeta qui invita il ragazzo a non addentrarsi oltre l’angusto spazio dell’illusione giovanile, ma a godersela appieno, prima che l’”arido vero” della maturità arrivi a rovinarla. La tenerezza e l’affetto del poeta sono dimostrati anche dall’uso costante di diminutivi: “donzelletta” (v. 1), “mazzolin” (v. 4), “vecchierella” (v. 9), “piazzuola” (v. 25), “garzoncello” (v. 43).

 

 

A se stesso
Or poserai per sempre,
      Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
      Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
      In noi di cari inganni,
5    Non che la speme, il desiderio è spento.
      Posa per sempre. Assai
      Palpitasti. Non val cosa nessuna
      I moti tuoi, né di sospiri è degna
      La terra. Amaro e noia
10  La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
      T'acqueta omai. Dispera
      L'ultima volta. Al gener nostro il fato
      Non donò che il morire. Omai disprezza
      Te, la natura, il brutto
15  Poter che, ascoso, a comun danno impera,
      E l'infinita vanità del tutto.

Ora, o mio cuore stanco, riposerai ("poserai") per sempre. Svanì ("perì") l'ultima illusione ("inganno estremo") che avevo creduto eterna ("ch'eterno io mi credei"). Svanì ("perì"). Sento profondamente ("ben sento") che in me e in te ("in noi") non solo la speranza ma anche il desiderio di care illusioni ("cari inganni") è spento. Riposa ("posa") per sempre. Troppo hai sofferto ("assai palpitasti"). Non c'è nessuna cosa che valga ("non val cosa nessuna") i tuoi palpiti ("moti"), né il mondo è degno dei [tuoi] sospiri. La vita non è altro che amarezza ("amaro") e noia; e spregevole ("fango") è il mondo. Calmati ("t'acqueta") ormai. Rinuncia definitivamente ad ogni speranza ("dispera l'ultima volta"). Agli uomini il destino donò solo la morte. Ormai [o mio cuore] disprezza te stesso, la natura, il potere perverso ("brutto") che domina occultamente a danno di tutto "a comun danno imper") e l'infinita vanità dell'universo ("tutto").

v. 1 Riposerai ("poserai"): posa è più forte; rende meglio l'idea dell'abbandono ed è anche più freddo, impersonale: anche un oggetto si può posare.
v. 2 Svanì ("perì"): perire è più forte; è un verbo che solitamente si usa per gli uomini, per cui la morte di questa illusione provoca dolore come la morte di una persona.
v. 2 Illusione ("inganno"): è tipico del linguaggio leopardiano (cfr. Il Risorgimento, strofa 14, vv 5-6: "Proprii mi diede i palpiti, / natura, e i dolci inganni"; e Le Ricordanze, strofa 4, vv 1-2: "O speranze, speranze; ameni inganni / della mia prima età".)
v. 3 Che avevo creduto eterna ("ch'eterno io mi credei"): qui credo sia possibile una duplice lettura. Se al "mi" si attribuisce un valore pleonastico (come accade nelle Ricordanze, vv 22-23: "che varcare un giorno / io mi pensava") è chiaramente il poeta che reputa l'inganno eterno ("ch'eterno io credei"). Ma lasciando al "mi" il suo significato la lettura diventa "ch'eterno io mi credei", cioè è il poeta stesso a creder-si eterno. In realtà questa seconda interpretazione è strettamente legata alla prima nel senso che l'io del poeta si identifica con la propria illusione.
vv. 6-7 Troppo hai sofferto ("assai palpitasti"): si poteva anche intendere più letteralmente "troppo battesti", cioè " hai vissuto a lungo", ma nel contesto è chiaro il riferimento al dolore.
v. 10 Spregevole ("fango"): fango ha un valore più forte perchè non è un pensiero, ma un'immagine molto concreta.
vv. 11-12 Rinuncia definitivamente ad ogni speranza ("dispera l'ultima volta"): disperare va inteso nel senso letterale "di-sperare", cioè perdere, abbandonare la speranza. L'ultima volta, cioè definitivamente.
v. 14 Perverso ("brutto"): brutto è più forte perché rimanda ad un'immagine, a qualcosa di spaventoso.
v. 16 Universo ("tutto"): universo è riduttivo, perché il poeta non si riferisce solo a qualcosa di materiale, ma proprio a tutto ("illusioni, speranze").

 

Fonte: https://eischool.wikispaces.com/file/view/LEOPARDI+testi+letti.docx

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Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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