Pascoli itinerario poetico

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Pascoli itinerario poetico

PASCOLI
Pascoli fu il primo vero poeta dalla sensibilità decadente; subì le influenze del Positivismo, ma senza averne coscienza, del socialismo (inteso però prevalentemente nell’accezione di solidarietà umana e fratellanza – in questo senso l’aspetto poetico si fonde con quello politico), del nascente Decadentismo, soprattutto per il gusto del simbolismo e dell’utilizzo di espedienti tecnici quali l’analogia e la sinestesia (= fusione dei vari sensi – visivo, uditivo, olfattivo, tattile e del gusto – come: “un verde fruscìo”), che il poeta aveva mutuato da Baudelaire (“profumi freschi come carni di bambini, dolci come oboi, verdi come praterie”, in: ‘Corrispondenze’), e naturalmente del suo ‘maestro’ all’Università di Bologna, Carducci, di cui poi divenne il degno successore alla cattedra di Letteratura Italiana.
In lui la poesia, con la sua musicalità, è sempre evocatrice di significati magici e misteriosi. Dal mitico ‘maestro’ Carducci Pascoli assorbì il gusto per la poesia della natura, colta con naturalezza, ma in più goduta sensitivamente (sua caratteristica).
La critica afferma che “se c’è un poeta che nella sua interpretazione sembra facile e invece non lo è, questi è Pascoli”. Sappiamo infatti che ‘la’ grande vera poesia di Pascoli non è semplicemente scaturita dall’ingenuità e dall’inesperienza del ‘fanciullino’, bensì dai suoi grandi dolori e dalle poche gioie. Così, dalla dolce immagine di Valentino “vestito di nuovo” e dai piedi scalzi - figura di bambino che, oltre a significare un momento specifico della vita umana, incarna anche la sofferenza dell’infanzia di Pascoli -, a quella dell’Aquilone, ricordo affettuoso dei primi anni di scuola, dei luoghi e dei giochi dell’ormai lontana fanciullezza, fino al ritornello disperato della Cavallina storna e alla figura della rondine uccisa in X Agosto, le sue poesie raccontano in un’atmosfera da favola il dramma che sconvolse la sua adolescenza e tutta la sua vita: la morte del padre. Sono poesie che molti lettori conoscono fin dalle scuole elementari, ma ogni volta che si rileggono è possibile scoprirvi qualcosa di nuovo, qualcosa che era sfuggito alle letture precedenti. Quella di Pascoli è la poesia delle “piccole cose”, dalla vita di campagna a quella domestica, con i dolori e i desideri di tutti gli uomini, esperienze e sentimenti in cui ciascuno può riconoscersi.
Motivi bucolici e georgici presenti nella prima raccolta “Myricae” e anche nei “Primi Poemetti” si accompagnano inizialmente alla contemplazione appunto di ‘cose’ quotidiane, si trasformano poi in motivi cosmici dalla portata più universale nei “Canti di Castelvecchio” e nella trasfigurazione del passato nei “Poemi conviviali”.
L’ITINERARIO POETICO DI PASCOLI
MYRICAE
“Sicelides Musae, paulo maiora canamus: / non omnes arbusta iuvant humilesque myricae” = “O muse di Sicilia, cantiamo di cose un po’ più elevate: / non a tutti sono graditi gli arbusti e le umili tamerici” – così recitava Virgilio all’inizio della IV ecloga delle Bucoliche.
Già dal titolo della sua prima raccolta poetica Pascoli dunque rivela il suo amore per la natura e per la vita agreste, alludendo a una poesia ‘dimessa’, diversa da quella ‘aristocratica’ dell’amico D’Annunzio, ma lontana anche da quella ‘ufficiale’ del suo maestro, il poeta-professore Carducci. Le umili erbette, le ‘tamerici’ appunto, le piantine sempreverdi nominate con precisione, simboleggiano la scelta di una forma di poesia semplice, umile, ma nello stesso tempo, al di là dell’apparenza quotidiana del piccolo universo fatto di oggetti familiari, nascondono una capacità di ‘vedere’ il mondo assolutamente nuova nel senso che  le cose improvvisamente illuminate dallo sguardo creatore del poeta ‘veggente’ appaiono colte come in una rivelazione, per cui si parla di ‘epifania’ degli oggetti rustici → termine che molti anni dopo avrebbe usato James Joyce: nella realtà usuale, che pare come illuminata e vista per la prima volta, c’è un profondo senso di mistero a cui il poeta suggerisce di prestare attenzione.
Si tratta perlopiù di componimenti brevi: quadretti di campagna (simili agli ‘idilli’ leopardiani) animati da immagini e fatti quotidiani. Ogni piccola cosa è chiamata, quasi ingenuamente, col suo vero nome, senza ricorrere a difficili perifrasi letterarie, perché così il poeta, proprio come un fanciullo, guarda e ancora di più osserva con stupore la vita che lo circonda. Una caratteristica costante della poesia di questa prima raccolta è la spontaneità, come un tema molto frequente di ‘Myricae’ è la nostalgia, rappresentata dal ricordo della giovinezza trascorsa in campagna (aspetto molto simile a Carducci, anche se per il ‘maestro’ si trattava della campagna toscana, mentre per l’allievo del paesaggio campagnolo della Romagna).
In ‘Myricae’ l’oggetto diventa simbolo (legame tra realtà e simbolo) mirando a cogliere le radici misteriose delle cose, oltre le mere parvenze della percezione.
Siamo lontanissimi dal realismo di Verga: tutto ciò che la parola estrae dal mondo fenomenico si carica di un valore allusivo (gli alberi, la nebbia, il cadere delle foglie, lo scrosciare della pioggia, lo stagliarsi di un aratro abbandonato in mezzo a un campo) e diventa un assoluto, una cifra dell’esistenza. Leggiamo a titolo di esempio la brevissima poesia ‘Lavandare’: Nel campo mezzo grigio e mezzo nero / resta un aratro senza buoi, che pare / dimenticato, tra il vapor leggero. // E cadenzato dalla gora * viene / lo sciabordare delle lavandare / con tonfi spessi e lunghe cantilene: // “Il vento soffia e nevica la frasca, / e tu non torni ancora al tuo paese! / Quando partisti, come son rimasta! / Come l’aratro in mezzo alla maggese”.
la ‘gora’ era il fossato presso cui le lavandare risciacquavano i panni.
Poesie contenute in questa prima raccolta sono: X Agosto, L’assiuolo, Temporale, Il lampo, Il tuono e Novembre, di cui riportiamo il testo e la parafrasi (da internet):
TESTO
Gemmea l'aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore...
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. E' l'estate
fredda, dei morti.
.
PARAFRASI
L’aria è limpida e fredda come una gemma (gemmea l’aria – metafora e sinestesia - gemmea – dall’aggettivo latino gemmeus), il sole è così luminoso che tu (il poeta usa la seconda persona con valore generico, impersonale)  ricerchi [con lo sguardo] gli albicocchi in fiore, sentendo nel cuore (non nelle narici) l’odore amarognolo (odorino amaro – sinestesia – odorato+gusto) del biancospino (prunalbo). 
Ma (avversativa che rompe l’illusione e riporta alla realtà) l’albero del biancospino è secco, le piante scheletrite/spoglie (stecchite) disegnano nel cielo sereno delle trame nere [con i loro rami spogli], il cielo è deserto [privo di uccelli, contrariamente a quanto avviene in primavera], e il terreno sembra vuoto sotto il piede e risuona  mentre lo calpesta (piè sonante - ipallage). 
Intorno c’è silenzio, soltanto grazie ai soffi di vento (ventate) si sente lontano un fragile (l’uso di questo aggettivo serve ad evocare sia l’aridità delle foglie sia la loro caducità autunnale) cadere (cader fragile –ipallage) di foglie, proveniente dai giardini e dagli orti. È la fredda estate (ossimoro) dei morti (novembre tradizionalmente è il mese del culto dei morti).

La raccolta ‘Myricae’ ha avuto diverse edizioni (3) rivedute e corrette, con sempre nuove aggiunte, ma in tutte Pascoli ha espresso la sua concezione del mondo, le sue riflessioni sul bene e sul male, delineando paesaggi perlopiù notturni di campagna (di gusto quasi preromantico) in cui le realtà più usuali evocano immagini lontane; la lontananza evocativa è un frequente omaggio funebre alla memoria dei ‘suoi’ morti.
IL LINGUAGGIO DI ‘MYRICAE’
La poesia di ‘Myricae’ è costruita spesso con la tecnica dello stile nominale, che sottintende il verbo per mettere in risalto la presenza delle cose e sottolineare il suono delle parole: è il cosiddetto ‘fonosimbolismo’, ovvero l’evocazione del mistero attraverso il suono stesso delle parole nel tentativo di alludere ad ‘altro’.
I PRIMI POEMETTI
Questa seconda raccolta vuole essere di genere più elevato rispetto a  ‘Myricae’ (ricordando ancora il verso virgiliano: “paulo maiora canamus”, cioè: “solleviamo un po’ il tono del canto”); Pascoli usa proprio l’espressione latina “paulo maiora”, confermando la sua ambizione a fare con i Poemetti delle ‘Myricae’ un po’ più grandi, che quasi venissero a costituire un romanzo poetico.
Si nota infatti nel LINGUAGGIO un certo lirismo narrativo, il desiderio di raccontare una storia utilizzando termini comuni, a volte anche colloquiali, scrivendo una sorta di veri e propri racconti in versi. La critica ha usato a questo proposito l’espressione: esperimenti di ‘parlato’.
Il concetto generale del volume è che non solo nella vita, ma anche nella morte c’è del buono, basta solo non esigere troppo. Scrive Pascoli: “C’è del gran dolore e del gran mistero nel mondo, ma nella vita semplice e familiare e nella contemplazione della natura, specialmente in campagna, c’è una gran consolazione, la quale pure non basta a liberarci dall’immutabile destino”. I temi sono dunque ancora quelli della natura e della campagna, della vita contadina (depositaria di valori tradizionali e autentici) e dei lavori nei campi, oltre alle meditazioni sul dolore e sul mistero del mondo e sulle possibilità di consolazione offerte all’uomo.
Sempre sotto forma di simbolo il poeta comunica al lettore il proprio senso del mistero, l’aspirazione alla pace e alla fratellanza universale (sua idea del socialismo).
Appartengono a questa raccolta poesie come la “Digitale purpurea” e “L’aquilone” che hanno per tema gli affetti della vita di collegio, ora propria (ne L’aquilone), ora delle sorelle (in Digitale purpurea), e rivelano anche la sensualità repressa del poeta.
Anche di questa raccolta ci sono pervenute 3 edizioni.
Ai ‘Primi’ seguono i ‘Nuovi’ Poemetti.
NUOVI POEMETTI
I “Nuovi Poemetti” comprendono le liriche delle grandi contemplazioni stellari, la poesia del macrocosmo. Ѐ il cosiddetto: Pascoli “poeta astrale”, che ricorda un po’ il Leopardi dell’Infinito (“interminati spazi…” ecc.). Si tratta di fantasie che nascondono forse un sogno di regressione nel nulla, una fuga dal ‘peso’ delle cose materiali e un desiderio di proiettarsi altrove nel tempo e nello spazio (cosmico).
CANTI DI CASTELVECCHIO (così chiamati dal borgo di Castelvecchio di Barga, LU)
Come lo stesso Pascoli dichiara nella Prefazione ai “Canti di Castelvecchio”, l’intento di questa raccolta vuole essere lo stesso di “Myricae”: “Crescano e fioriscano intorno all’antica tomba della mia giovane madre queste myricae autunnali”. Nel termine ‘tomba’ si avverte l’inclinazione funebre del poeta che si sente indissolubilmente legato ai ‘suoi’ morti, la cui memoria torna in modo quasi ossessivo in queste poesie.
Ricordiamo comprese in questa raccolta: Nebbia, La mia sera, Il gelsomino notturno.
Frequenti sono le corrispondenze fra il paesaggio (terrestre) notturno e la volta celeste, fra la piccolezza dell’essere umano e la vastità dell’universo, nel quale l’uomo si sente smarrito, come nei versi finali de “Il bolide”, termine con cui il poeta si riferisce al passaggio di una meteora, apparsa all’improvviso “dall’infinito tremolio stellare”, che illumina per un attimo “siepi, solchi, capanne, e le fiumane / erranti al buio, e gruppi di foreste, / e bianchi ammassi di città lontane”: “E la Terra sentii nell’Universo. / Sentii, fremendo, ch’è del cielo anch’ella. / E mi vidi quaggiù piccolo e sperso / errare, tra le stelle, in una stella”. Attraverso la sua immaginazione il poeta nasconde la propria paura nei confronti della vita (segnata dal tragico lutto familiare) e riflette sul senso di precarietà dell’esistenza umana destinata a ‘precipitare’ prima o poi nell’abisso della morte. Questo genere di poesia ricorda ancora quella astrale e cosmica della raccolta precedente.
Continua anche il discorso narrativo della poesia, come ne “Il gelsomino notturno”:  “E s’aprono i fiori notturni / nell’ora che (= in cui) penso ai miei cari. / Sono apparse in mezzo ai viburni / le farfalle crepuscolari” (= le farfalle della sera sono le falene, che simboleggiano le anime dei morti).
Infine l’ultima raccolta di poesie (a parte quella postuma latina) è quella dei
POEMI CONVIVIALI
Il titolo è tratto dalla rivista il ‘Convito’ su cui i primi componimenti di questa ultima raccolta furono pubblicati nel 1904, ma allude anche ai canti degli aedi (i cantori dell’Ellade) presso i banchetti, i ‘conviti’ appunto. Si tratta di poesie di argomento classico, in cui Pascoli riprende i miti della Grecia antica e li sviluppa secondo una visuale tutta soggettiva. Per spiegare le ragioni dei Poemi Conviviali è sempre da ricordare la sua formazione classica insieme al magistero carducciano. Inoltre gli ultimi decenni dell’Ottocento erano stati ricchi di importanti scoperte archeologiche.
Simile a Carducci è la rievocazione del mito classico come nostalgia del passato. In questo senso Pascoli anticipa quella che sarebbe stata poi la ripresa del mito nella letteratura europea dei primi decenni del Novecento da parte di scrittori come Joyce, Eliot, Rilke, tutti influenzati da un rapporto profondo con la mitologia intesa come scoperta di una umanità genuina andata perduta con la civiltà moderna, e di questo il grande Carducci ♥ era stato un precursore… Si pensi alla conclusione dell’ode barbara “Nella piazza di San Petronio”: “Tale la musa ride fuggente al verso in cui trema / un desiderio vano de la bellezza antica” (= Carducci aveva nostalgia della bellezza della poesia del mondo antico e il suo desiderio era ‘vano’ perché quel mondo era ormai tramontato per sempre).
L’ULTIMO PASCOLI
I ‘Carmina’ sono i componimenti scritti in un raffinato e personalissimo latino (pubblicati postumi nel 1914) che vogliono riprendere miti e momenti della vita dell’antica Roma. Comprendono i poemi latini con cui il poeta vinse per ben 13 volte il premio del concorso di Amsterdam (per cui gli venne ogni volta conferita la medaglia d’oro come ufficiale riconoscimento critico). Testimoniano l’ambizione di Pascoli a diventare il nuovo poeta-vate, dopo Carducci e insieme a D’Annunzio, cantore delle glorie e dei destini della gente italica. Le parti migliori, tuttavia, sono quelle i cui sono presenti, al di là della tematica ufficiale, elementi autobiografici, più consoni alla sua sensibilità di poeta.


Da ricordare infine il Pascoli critico letterario con i suoi saggi su Dante e Leopardi, oltre al discorso dalle intenzioni civili e politiche del 1911 “La grande proletaria si è mossa”, in cui esprimeva il suo socialismo patriottico, in realtà più di cuore che di testa: il suo non era infatti il desiderio dannunziano di vedere nella propria patria una super-nazione, ma al contrario l’orgoglio di riconoscere nell’Italia ‘proletaria’, cioè della classe sociale operaia, la nazione per la quale erano necessarie nuove terre (in riferimento alla guerra in Libia) al fine di arginare la piaga dell’emigrazione. Pascoli era stato influenzato dalla lettura dei russi Tolstoj e Dostoevskij, che con il loro umanitarismo evangelico avevano richiamato alla sua mente l’idea di un’infanzia del mondo in cui gli uomini vivevano in fraternità (un’utopia consolatoria che rifletteva, in una prospettiva più ampia, il mito rassicurante del ‘nido’).

Oltre alla tecnica fondata su allitterazioni, onomatopee, ripetizioni e sapiente alternanza di vocaboli scelti e parole comuni, è da sottolineare in tutta la sua produzione poetica la ricerca costante di un trapasso dalla realtà quotidiana al mistero e all’indefinito (quest’ultima caratteristica anche di Leopardi con la sua “poetica del vago e dell’indefinito”, come si legge nello Zibaldone) attraverso suoni vaghi e luci crepuscolari in grado di creare un’atmosfera suggestiva capace di dare spazio sia all’immaginazione del poeta che alla fantasia dei lettori. Nell’introduzione a “Myricae” il poeta sintetizza così l’argomento della sua prima raccolta: “frulli d’uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane” e a proposito dei “Canti di Castelvecchio” scrive: “canti d’uccelli, di pettirosso, di capinere, di rondini che tornano, che vanno, che restano, e campane che suonano a gioia, a gloria, a messa, a morto”. Anche il frequente “din don” delle campane, come la cantilena di una ninna-nanna, rievoca l’immagine del nido familiare, simbolo di regresso all’infanzia.
Se in Carducci troviamo spesso il motivo della campagna assolata e meridiana (colta cioè nella viva luce del mezzogiorno - tranne alcune eccezioni -), che ricorda al poeta l’età spensierata della sua infanzia serena, in Pascoli la natura è perlopiù malinconica e preferibilmente colta nella penombra della sera. Dietro il simbolo del buio si cela sempre il dramma familiare dell’uccisione del padre, da cui derivò in (quasi) tutti i suoi componimenti una concezione dolorosa della vita, tanto che la sua poesia è stata definita dalla critica “un lungo canto funebre”.
Tuttavia, il lettore, quasi inconsapevolmente, subisce il fascino della poesia dell’ ‘ineffabile’: è la cavallina storna che rientra lentamente alla fattoria da sola dopo l’uccisione del padre di Pascoli che trasportava sul calesse, è il pianto di una capinera che cerca invano il suo nido, è lo “scampanellare tremulo di cicale”, è il fragile cadere “delle foglie di autunno”, è “dei grilli il verso che perpetuo trema” e delle “rane dei fossati un lungo interminabile poema” (citazioni tratte da poesie varie).
Come ha sottolineato Attilio Momigliano, Pascoli è vero grande poeta quando, attraverso la sua esperienza di dolore, riesce ad esprimere con un soffio misterioso il sorriso e le lacrime delle cose, come dice nella sua stessa definizione di ‘poesia’: “Poesia è… trovare nelle cose la loro lacrima e il loro sorriso” (prosa “Il fanciullino”), perché “vedere e udire, altro non deve il poeta”, andando al di là dell’apparenza.
Il documento fondamentale in cui Pascoli delinea il proprio ideale poetico è la prosa intitolata “Il fanciullino (1897), secondo cui la vera poesia scaturisce dall’ingenuità di un fanciullo (= il poeta) che vive in fondo a ciascuno di noi, ma che non tutti noi, presi dalla frenesia della vita di ogni giorno, riusciamo a percepire dentro di noi. Eppure è proprio da lui che ci giunge il senso del mistero del futuro che ci affascina e il rimpianto nostalgico di un tempo che non c’è più (necessità di evadere da questo mondo verso luoghi sconosciuti nel tempo e nello spazio = ‘esotismo’ decadente). Il poeta-fanciullo è “l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente…, il fanciullino eterno, che vede tutto con meraviglia, tutto come per la prima volta” e la sua voce vive dentro ognuno di noi. Quando siamo piccoli, il ‘fanciullino’ confonde la sua voce con la nostra, ma, quando cresciamo, egli resta piccolo: “noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare ed egli tiene fissa la sua antica meraviglia serena; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo di campanello”. Nell’età adulta noi lo soffochiamo poiché le incombenze quotidiane ci impediscono di ascoltarlo, ad esempio magari ci vergogniamo ad abbracciarci come farebbero i bambini, ma poi torniamo ad udire la sua voce durante la vecchiaia, quando ritorniamo ad essere un po’ bambini. Non è una questione anagrafica, ma di spirito. Così, con la sua semplicità, il ‘fanciullino’ (ovvero il sentimento poetico) nascosto dentro di noi ci fa vedere come per ‘illuminazione’ il mondo in modo limpido e immediato: “presenta la visione di una cosa posta sotto gli occhi di tutti e che prima nessuno vedeva”; il poeta-veggente ‘illumina’ le parvenze velate e le essenze celate ai comuni mortali.
La vera poesia non si inventa, si scopre, o meglio: è interessante notare che il poeta ‘inventa’ le parole - con cui dà il nome alle cose (agli alberi, ai fiori, agli animali, alle nuvole, alle stelle) - in senso etimologico (dal verbo latino ‘invenire’ = ritrovare), cioè egli ‘riscopre’, ‘ritrova’ qualcosa che c’è già in natura: la meraviglia del creato. Sono i più piccoli particolari quelli che svelano la vera essenza delle cose. Con questo Pascoli vuol dire che la poesia ha un carattere intuitivo, non razionale.
I caratteri fondamentali della poetica pascoliana sono:

  • Il sentimento poetico che è proprio di tutti e la (apparente) spontaneità e l’intuitività della poesia “delle piccole cose”, che si attua attraverso l’osservazione stupita e commossa di ciò che ci circonda e che dovrebbe – in teoria – rendere tutti gli uomini fratelli (identificazione della poetica con la politica socialista a cui Pascoli aderì nella fase iniziale del suo cammino di uomo e di letterato);
  • l’assoluta precisione nel nominare anche le cose più minute della natura, con le loro voci, come il lontano ‘uggiolare’ di un cane, il lamento particolare di un uccellino (pensiamo al ‘chiù’ dell’assiuolo), lo scricchiolio dei cartocci di granoturco, il lento ruminare di un bue (anche qui c’era stato prima l’esempio di Carducci, che ne “Il bove” aveva scritto: “T’amo, o pio bove…”), ecc., tanto che si è parlato di una “poetica dell’oggetto” e di “verismo pascoliano”;
  • la tendenza all’autobiografismo (con l’evento-chiave dell’assassinio del padre) e soprattutto il tema della memoria - in particolare i ‘suoi’ morti - e il ritorno all’infanzia, in cui si identifica la vera essenza della sua poesia;
  • il desiderio di vagheggiare un luogo lontano dalla vita contemporanea (cosa che Pascoli poteva fare nella sua amata casa a Castelvecchio di Barga, in Toscana, dove trascorse lunghi periodi della sua vita) per ritrovare nel silenzio della campagna la pace ideale e l’innocenza primitiva, dimenticando i problemi quotidiani;
  • il mito del ‘nido’, simbolo di un piccolo mondo ricco di affetti familiari, capace di offrire un rifugio dalla violenza e dal dolore del mondo esterno (fuori dal nido c’è l’ignoto). Ѐ significativo notare come Pascoli, restando nella metafora, non sia mai riuscito a “spiccare il volo” dal suo ‘nido’ familiare con le sorelle Ida e Maria creandosi una vita propria indipendente da uomo maturo. La sua casa-nido era l’unica struttura che gli desse sicurezza in un contesto di sfiducia generale verso il mondo;
  • il legame indissolubile fra Amore e Morte (Eros e Thanatos, i due impulsi fondamentali dell’uomo), come si può ben vedere in “Digitale purpurea”, ambientata nel collegio delle suore dove le sorelle Ida e Maria erano state educate (nella finzione poetica Ida è chiamata ‘Rachele’ e le due sono raffigurate non come sorelle, ma come due amiche): sboccia nel giardino del chiostro del convento un fiore misterioso dal profumo venefico, ma irresistibilmente attraente per l’inquieta Rachele (ovvero Ida: non a caso colei che se n’era andata dal ‘nido’ familiare per sposarsi), la quale confessa a Maria di aver ceduto un giorno alla tentazione di quel profumo  e di aver provato in quel momento il più alto grado del piacere e insieme la sensazione della morte (è evidente il riferimento sessuale: per Pascoli il fiore velenoso è simbolo di peccato). Ѐ sempre la morte il senso profondo dell’esperienza poetica pascoliana, e verso la morte, in modi diversi, alla fine convergono tutti i simboli (come gli uccelli – pensiamo ad esempio all’assiuolo);
  • ricordiamo infine il carattere intuitivo e alogico della sua poesia,  per cui l’arte secondo Pascoli ha un carattere irrazionale e la poesia è il solo mezzo di cui l’uomo dispone per mettersi direttamente in contatto con l’ignoto. La vera poesia per Pascoli sta nelle piccole cose viste con gli occhi di un bambino e allora anche un motivo qualunque come la campagna può rappresentare un mondo da scoprire, secondo un gusto estetico, da un punto di vista contemplativo. Contro le illusioni della ragione Pascoli usa il potere dell’intuizione.
    •  Per concludere con un confronto esemplare, leggiamo prima una poesia di Carducci, “Il bove,” e poi una di Pascoli dallo stesso titolo. Si tratta in entrambi i casi di sonetti. Tutti e due i testi hanno inizio con una descrizione paesaggistica e poi allargano la visuale ad un orizzonte più vasto, ma in modo differente: nella poesia di Carducci gli occhi del bue sembrano fondersi alla fine con l’ambiente circostante.
    T’amo, o pio bove; e mite un sentimento
    di vigore e di pace al cor m’infondi,
    o che solenne come un monumento
    tu guardi i campi liberi e fecondi,
    o che al giogo inchinandoti contento
    l’agil opra de l’uom grave secondi:
    ei t’esorta e ti punge, e tu co ’l lento
    giro de’ pazïenti occhi rispondi.
    Da la larga narice umida e nera
    fuma il tuo spirto, e come un inno lieto
    il mugghio nel sereno aer si perde;
    e del grave occhio glauco entro l’austera
    dolcezza si rispecchia ampïo e quïeto
    il divino del pian silenzio verde.
    (Carducci nelle due parole conclusive si è dimostrato un precursore della sinestesia decadente)
    Carducci dipinge l’animale in maniera ‘importante’, quasi ‘sublime’, utilizzando già nell’ ‘incipit’ un verbo intenso, “t’amo”, e attribuendo al bue fin dal primo verso l’aggettivo ‘pio’, che richiama l’antico valore della ‘pietas’ latina (come il ‘pio’ Enea), ritraendolo “solenne come un monumento”, tant’è vero che gli attribuisce 2 volte l’aggettivo ‘grave’ (altro latinismo) ai versi 6 e 12. Con tale immagine Carducci conferisce un senso di forza, serietà e dignità al bue, che pure è descritto contemporaneamente come umile e servizievole nei confronti dell’uomo, come si vede dai versi 5 e 6 e nell’espressione: “pazienti occhi”. Una particolarità è anche il fatto che il poeta lo immagini ‘contento’ (come si legge al verso 5) nell’assecondare nel lavoro nei campi l’opera dell’uomo al quale sembra quasi rivolgersi sorridendo (“e tu co ‘l lento giro / de’ pazienti occhi rispondi”). Le caratteristiche del bue si trasferiscono al componimento stesso, conferendogli un ritmo lento e pacato.
    Confrontiamo ora questa poesia con quella di Pascoli, che ‘zoomando’ da lontano parla prima del fiume vicino all’animale, poi del gregge, in seguito del cielo e infine del mondo intero. Pur usando lo stesso procedimento (da qualcosa di vicino a qualcosa di lontano) della precedente, la lirica di Pascoli si fa ricca di espressioni volutamente indeterminate e a volte anche misteriose, come sottolinea l’aggettivazione: “grandi occhi”, “un mare sempre più lontano”, “antico nume”, “ampie ali”, “ciel profondo”, “sole immenso”, “montagne altissime”. Ѐ da notare infine come il buio della sera (“crescono già nere / l’ombre più grandi d’un più grande mondo”) richiami un’immagine inquietante e non certo serena di aldilà.; e m
    Al rio sottile, di tra vaghe brume,
    guarda il bove, coi grandi occhi: nel piano
    che fugge, a un mare sempre più lontano
    migrano l'acque d'un ceruleo fiume;

ingigantisce agli occhi suoi, nel lume
pulverulento, il salice e l'ontano;
svaria su l'erbe un gregge a mano a mano,
e par la mandria dell'antico nume.

Ampie ali aprono imagini grifagne *
nell'aria; vanno tacite chimere,
simili a nubi, per il ciel profondo.

Il sole immenso, dietro le montagne
cala, altissime: crescono già, nere
l'ombre più grandi d'un più grande mondo. un sentimento
Di vigore e di pace al
* lo sguardo del bove trasforma dei normali uccelli in immagini di grifoni: esseri alati mitologici e mostruosi
Tu guardi i campi e fecondi, 
giogo inchinandoti contento 

Dolcezza si rispecchia ampiouieto
Il divino del pian silenzio verde.

 entimento
Di vigore e di pace al m'infondi,
O ch0 che al giogo inchinandoti contento . 
Da la larga narice umida e nera Fuma il entro l'austera
Dolcezza si rispecchia ampio e quieto
Il divino del pian silenzio verde.

 

 

 

Fonte: http://www.luzzago.it/files/3114/5699/0995/PASCOLI.docx

Sito web da visitare: http://www.luzzago.it/

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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