Letteratura Carlo Emilio Gadda

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Letteratura Carlo Emilio Gadda

CARLO EMILIO GADDA e il «Pasticciaccio»

La vita
L'opera di CARLO EMILIO GADDA registra nel modo piú intenso, con uno scavo nel piú profondo spessore del linguaggio, la trasformazione del tessuto so­ciale italiano verso la modernità, il definirsi di nuovi caratteri dell'identità italia­na, della vita privata e collettiva, negli anni tra le due guerre e poi ancora nel se­condo dopoguerra. Il singolare acume di questo scrittore si appoggia su scatti laceranti, in un nesso inestricabile tra risentimenti personali, curiosità per la realtà piú concreta, attenzione al piú vario manifestarsi delle forme linguistiche. Alle radici della sua originalità c'è senza dubbio il carattere atipico, non professiona­le della sua figura intellettuale: Gadda non è in partenza uno scrittore professio­nista, ma un ingegnere elettrotecnico dedito alla letteratura, che continua a lun­go a svolgere variamente la sua professione, da lui abbandonata definitivamente, per la letteratura, solo verso la fine degli anni Trenta. La sua formazione tecnica e scientifica e il suo legame con la tradizione letteraria lombarda, da Parini a Porta, a Manzoni, agli scapigliati, gli danno un senso tutto particolare della concretez­za, della razionalità, della costruzione, del carattere morale della letteratura: ma il confronto con la realtà personale e sociale lo porta a una prospettiva di assoluta negatività, di critica impietosa ai fondamenti umani e linguistici del mondo bor­ghese, a cui egli si sente strettamente legato, maverso cui manifesta un inconteni­bile risentimento. Gadda scopre che i comportamenti individuali e sociali della borghesia contemporanea e dell'intera vita italiana non corrispondono in nes­sun modo ai valori di praticità e di concretezza, alla razionalità organizzatrice, al­la morale severa della stessa tradizione borghese: ciò scatena in lui una polemica ossessiva, la vibrante constatazione di una mancanza e di un fallimento che inve­ste tutto l'orizzonte nazionale; partendo da una sdegnosa e nevrotica solitudine, da una vita timida e scontrosa di celibatario, la sua scrittura arriva cosí a rivelare alcuni dei caratteri piú profondi della realtà contemporanea.
Carlo Emilio Gadda nacque a Milano, primo di tre figli, il 14 novembre 1893, da famiglia della media borghesia lombarda, che passò da una sicura agiatezza a condizioni economiche difficili, per gli esiti disastrosi degli investi­menti economici del padre, legati per giunta alla smania di mantenere una fac­ciata esteriore di decoro e di dignità. Ciò gli fece passare un'infanzia e un'adolescenza dure e stentate, allietate dai lunghi soggiorni in Brianza, nella villa di Longone, fatta costruire dal padre alla fine del secolo e fonte di spese rovinose, sproporzionate rispetto alle possibilità della famiglia. Le difficoltà si accrebbe­ro alla morte del padre, che lasciò la responsabilità del mantenimento della famiglia alla madre, Adele Leher, che tra quotidiani sacrifici riuscí a far studiare i figli, pur senza disfarsi della villa di Longone, sentita come un osses­sivo legame con la memoria del marito. Rinunciando, per volontà della madre, agli studi letterari, si iscrisse nel 1912 ai corsi di ingegneria nel Politecnico di Milano. Ardente interventista, si arruolò volontario nella grande guerra come ufficiale degli alpini: e ne registrò la sua esperienza in alcuni diari. Partecipò a varie azioni (specie sui fronti dell'Adamello e degli altopiani vicen­tini) e, in seguito alla rotta di Caporetto, fu fatto prigioniero e deportato a Ra­statt e poi in Germania, a Celle (Hannover), dove ebbe compagni di prigionia Bonaventura Tecchi e Ugo Betti, con i quali si legò di grande amicizia. Al rientro a Milano nel ‘19 ebbe la notizia della morte in guerra del fratello Enrico: la delusione per l'esperienza vissuta, il dolore per la morte del fratello, la difficile situazione familiare, lo gettarono in uno stato di sconforto, da cui uscí in parte terminando gli studi, con la laurea in ingegneria elettrotecnica, e iniziando il lavoro di ingegnere, in Sardegna e in Lom­bardia e poi tra il yzz e il'24 in Argentina. Al ritorno a Mílano nel'24 si iscrisse alla Facoltà di filosofia e mise mano a progetti letterari; dopo aver insegnato per un anno matematica e fisica al liceo Parini, riprese l'attività di ingegnere al­le dipendenze della società Ammonia Casale, occupandosi degli impianti per la produzione di ammoniaca sintetica, viaggiando tra il 1925 e il '3r tra Roma, Milano e varie località d'Italia e d'Europa (soprattutto in Lorena e nella Ruhr).
Aveva intanto continuato a scrivere e, grazie ai suoi rapporti con Tecchi, aveva iniziato nel '26 a collaborare a « Solaria », pubblicandovi frammenti nar­rativi e saggi. In un lungo periodo di riposo dal lavoro, dovuto alla necessità di curare i suoi disturbi gastrici, passato a Milano nella casa materna di via San Simpliciano, per tutto il 1928 e gran parte del '29 elaborò vari testi rimasti in­compiuti (la Meditazione milanese, cfr. 10.9.3, e il romanzo La meccanica cfr. 10.9.4) e altri racconti che costituirono il suo primo libro, La Madonna dei Filosofi, apparso nel y3 i per le edizioni di Solaria. Mentre, grazie alla rivista, intesseva nuovi rapporti con il mondo letterario, all'inizio del '3r si dimetteva dall'Ammonia Casale, tentando per la prima volta di vivere del lavoro lettera­rio, con la collaborazione a riviste e al giornale milanese « L'Ambrosiano » (in cui pubblicava tra l'altro alcuni articoli su una crociera nel Mediterraneo com­piuta nell'estate del '3z). Le difficoltà economiche gli imponevano però nel'3z di tornare all'ingegneria, con un impiego a Roma presso i servizi tecnici del Va­ticano e con altri vari lavori saltuari, accompagnati sempre da un forte impe­gno in campo letterario. Piú intensi divenivano i suoi rapporti col mondo cul­turale, specialmente con quello fiorentino. Nel '34 usciva la sua seconda rac­colta, Il Castello di Udine, che l'anno successivo otteneva il premio Bagutta. Al­le sue collaborazioni a giornali e riviste (anche con articoli di tipo tecnico) si ag­giungeva nel '34 quella alla « Gazzetta del popolo » di Torino. Varie prose liri­che e notazioni di quegli anni confluivano nel '39 nel volume Le meraviglie d'Italia. Sdegnosamente appartato rispetto a ogni diretta partecipazione alla vita politica, ma legato alle prospettive di un patriottismo conservatore, egli aveva guardato con una certa simpatia al sorgere del fascismo, ma aveva presto avvertito un profondo fastidio per la retorica, le finzioni, la cialtroneria che il fascismo portava con sé: solo la sua situazione personale e le necessità della so­pravvivenza lo piegarono ad esaltare, in alcuni articoli, programmi e iniziative del regime. Ma una sottile e risentitissima analisi dei caratteri profondamente malefici del fascismo serpeggia già in alcuni suoi scritti dei tardi anni Trenta, per esplodere poi vigorosamente dopo la catastrofe della guerra.
Una lacerazione determinante per tutta la vita successiva dello scrittore si ebbe nell'aprile del ‘36 con la morte della madre, accompagnata da violenti sensi di colpa, seguita da un lungo soggiorno a Roma e dalla vendita della villa di Longone: da quella lacerazione nacque il nucleo centrale de La cognizione del dolore, romanzo pubblicato incompleto su « Letteratura » tra il 1938 e il ‘41. Abbandonata completamente l'ingegneria, dopo due anni trascorsi a Milano, Gadda si trasferí nel '4o a Firenze, in piú stretto contatto con scrittori e critici amici, come Bonsanti, Montale, Longhi, Bo: passò gli anni tremendi tra il 1943 e il'44 nei dintorni della città (dove nel'44 vedeva la luce L'Adalgisa) e poi mol­ti mesi a Roma, col sostegno di amici ed estimatori. Sul finire della guerra iniziò impetuosamente la stesura di Quer pasticczàccio brutto de via Merulana, di cui apparvero ampi « tratti » su « Letteratura » nel '46. Alla difficile situazione eco­nomica del dopoguerra cercava di rimediare con collaborazioni a giornali: ma trovò una migliore sistemazione nel 'So, quando ebbe un incarico di redattore dei programmi culturali della Rai, per il Terzo Programma (lavoro che svolse in modo rigoroso e preciso, stendendo anche delle Norme per la redazione di un testo radiofonico). Mentre uscivano altri volumi e raccolte di suoi scritti, l'edi­tore Livio Garzanti, che lo incontrò nel 1953 (anno in cui Gadda ottenne il pre­mio Viareggio con le Novelle del Ducato in fiamme), lo spinse, anche con un adeguato sostegno economico, a sistemare e portare a termine il Pastzcciacczó, a cui lavorò intensamente, dopo aver lasciato nel '55 la Rai, e che apparve in vo­lume nel 1957. L'opera ebbe notevoli consensi e allargò per la prima volta la fa­ma di Gadda a un pubblico piú ampio; nel '63 usciva in volume La cognizione del dolore, che ottenne il Prix International de Littérature. Considerato capo­scuola sia da Pasoliní che dagli scrittori della neoavanguardia, Gadda reagiva in modo scontroso alla sua fama, si aggrovigliava sempre piú nella sua solitudi­ne e nella sua nevrosi, pieno di risentimenti e di diffidenza verso il mondo cul­turale, insofferente dei giornalisti e di quanti cercavano di trascinarlo nel « ru­more » della comunicazione di massa, preso da manie di persecuzione e da ter­rori per ignote, indefinibili minacce. Fin dal '55 si era trasferito in un apparta­mento a Monte Mario, in via Blumenstihl, muovendosene il meno possibile. Assistito negli ultimi anni dalla governante Giuseppina, lí morí il 21 maggio 1973. Negli ultimi anni, senza piú occuparsene direttamente, aveva lasciato che si pubblicassero vari scritti inediti risalenti agli anni precedenti; e altri hanno continuato ad apparire postumi.

Letteratura, tecnica, scienza, filosofia.
L'interesse di Gadda per la letteratura si appoggia fin dall'inizio a un'esi­genza di concretezza, a un proposito di conoscenza della realtà nelle sue artico­lazioni piú particolari: egli sembra mirare subito a una narrativa che si ricolle­ghi alla tradizione naturalistica e ai grandi modelli ottocenteschi, ma con la convinzione dell'aspetto problematico della stessa realtà, dell'inutilità di ripro­durla esteriormente, delle deformazioni e delle difficoltà che si pongono a chi intenda rappresentarla non nella sua apparenza, ma nei suoi caratteri piú veri e profondi.
Dopo alcune poesie e un primo racconto rimasto allora inedito, scritto durante la prigionia nel 1918, La passeggiata autunnale, il primo grande impegno di Gadda nella scrittura letteraria si rivolse a un romanzo dedicato alla turbinosa realtà della Lombardia del dopoguerra, con un abbozzo di analisi dei conflitti tra le classi che avevano accompagnato il sorgere del fascismo. Il romanzo, iniziato in vista di un premio letterario per un inedito bandito dall'editore Mondadori, doveva avere per titolo Racconto di ignoto italiano del Novecento: ad esso Gadda lavorò tra il marzo del '24 e il luglio del 'z5, con abbozzi, stesure parziali, varie riflessioni di metodo e di poetica, affidate a due quaderni, che egli chiamò in francese Cahier d'études (Quaderno di studi), pubblicati solo nel 1983. Si tratta di un vero e proprio labora­torio, in cui i frammenti del romanzo in elaborazione (che seguiva torbide vicende amorose e familiari, nel mondo operaio e in quello borghese, sullo sfondo degli scontri tra socialisti e fascisti) si intrecciano ai materiali e agli spunti piú diversi. Il giovane ingegnere sente nel modo piú acuto i problemi teorici e tecnici posti dal suo proposito di rappresentare una realtà agitata e complessa, ricca di determina­zioni e di punti di vista: e avverte come la stessa realtà sociale e naturale sia condi­zionata in modo essenziale dalle esperienze psichiche degli individui, dalla loro irrí­ducibile particolarità, che è necessario analizzare fino in fondo. Vuole realizzare un « romanzo psicopatico e caravaggesco », che guarda al realismo violento e carico di tensioni psichiche del pittore lombardo Caravaggio (cfr. 5.i.6) e alla densità morale del realismo di Manzoni; ritiene necessaria la rappresentazione parallela di « fatti gravi, anormali» e di «fatti realmente normali», ed è convinto che anche quelli piú anormali rientrino sotto il dominio di una «legge», di una « necessità » che domina La «precisione i rapporti tra i personaggi. Ma la rappresentazione di una realtà cosí complessa del nevrastenico »         chiama direttamente in causa la posizione dell'autore, si appoggia su una sua nevro­tica ossessione dell'analisi e dell'ordine, talmente estrema da perdersi dentro se stessa: in appunti dal titolo Annotazioni per il secondo libro della poetica, inseriti in uno dei quaderni, Gadda indica, come sue caratteristiche personali, « l'ordine, lo spirito meticolosamente analitico di un organizzatore di servizi tecnici, la precisio­ne del nevrastenico che chiude tutto a chiave in bell'ordine e poi non riesce piú a trovar quel che cerca e confonde le chiavi e i lucchetti e le chiavi delle chiavi ».  
La passione per la realtà, per l'individuazione dei suoi caratteri piú precisi, trova cosí le motivazioni piú profonde nella tensione contraddittoria che agita lo sguardo dell'autore-osservatore, e si incontra con i suoi risentimenti, con la sua passione morale, col suo abito di tecnico, con la sua attenzione ai problemi posti dalla scien­za e dalla filosofia. Per la sua stessa formazione, Gadda sente un nesso strettissimo tra il metodo della conoscenza scientifica e quello della costruzione letteraria: e proprio nella fase finale degli anni Venti svolge un'acuta riflessione sulla filosofia della conoscenza, che, fuori dall'orizzonte idealistico italiano, si collega ad alcune delle prospettive essenziali dell'epistemologia moderna. Vari scritti di questi anni mostrano come Gadda stia cercando una letteratura come co­noscenza problematica del reale. Ricordiamo almeno due saggi apparsi su « Sola­ria»: Apologia manzoniana (1927), essenziale rivendicazione del valore conoscitivo dell'opera del grande milanese, e Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecni­che (1929), che affronta anche il problema del linguaggio e sottolinea il ruolo che nel suo sviluppo storico tocca al lavoro collettivo.
La « summa » della riflessione teorica di Gadda è costituita da un trattato filosofico incompiuto, la Meditazione milanese, di cui si hanno due stesure re­datte nel 1928 (pubblicate postume nel 1974): è un testo che non si occupa di­ rettamente di letteratura, ma si serve spesso di esempi ricavati dalla letteratura e rivela come, in ogni momento dell'esperienza di Gadda, sia essenziale l'inda­gine sulla natura della conoscenza, sui modi in cui l'osservatore umano costrui­sce il suo rapporto con la realtà. Vi si sottolinea come ogni conoscenza scienti­fica debba organizzarsi in sistema, articolarsi in un processo di « costruzione » degli stessi suoi oggetti: la realtà non è un dato chiuso in se stesso, ma è qualco­sa che viene costruito dal movimento della conoscenza, muta e si trasforma con esso (« Il flusso fenomenale si identifica in una deformazione conoscitiva, in un "processo" conoscitivo. Procedere, conoscere è inserire alcunché nel reale, è, quindi, deformare il reale»). Il pensiero deve d'altra parte confrontarsi con il carattere aggrovigliato dei suoi oggetti, con l'intrico entro cui si presenta ogni aspetto del reale: « tutto è indestricabilmente avvinto, ché tutto coesiste e tutto si codetermina ». È perciò necessaria una critica di tutte le categorie a priori, di tutti i concetti e gli schemi universali con cui gli uomini pretendono di cattura­re in modo tranquillizzante il significato e l'aspetto stesso della realtà. Questa critica ha un immediato risvolto psicologico e morale: quei concetti funziona­no infatti come inganni, illusioni con cui si pretende di affermare la persistenza del sapere e la « felicità » della condizione umana; ma la piú « vasta coscienza » del reale è « confessione e dolore » (e andrebbe indicato il rapporto di questa riflessione di Gadda con quella di Michelstaedter).
Il bisogno di una conoscenza sistematica e l'indicazione dei suoi limiti (per cui Gadda si appoggia su molteplici radici culturali, spaziando dalla filosofia di Leibniz a quella di Bergson) comportano un impegno ad approfondire la com­plessità del reale, le sue articolazioni piú minute, con un'attenzione esasperata verso i particolari e nello stesso tempo con un'ambizione enciclopedica: è ne­cessario infatti tener conto di tutte le determinazioni che ogni volta sono in gio­co e del rapporto di ogni frammento anche minimo con il sistema generale da cui viene estratto. Questo impegno trova una rispondenza immediata, al di là del terreno della scienza e della filosofia, in quello della letteratura, intesa ap­punto come conoscenza della complessità del reale: la scrittura letteraria di Gadda tenderà proprio a dare una immagine della molteplicità e della varietà del mondo, inseguendo i particolari piú minuti, costruendo cataloghi dei sin­goli oggetti e facendo risultare, dalla loro combinazione, il senso della totalità, della globalità inesauribile del sapere e dell'essere. Vi si potranno perciò rico­noscere due principi complementari, che sono stati riassunti da Roscioni nelle due formule latine singula enumerare ("elencare i singoli oggetti") e omnia cir­cumspicere ("avvolger con lo sguardo tutte le cose"). E per essa sarà essenziale il metodo combinatorio, la ricerca di una integrazione tra frammenti e dati
molteplici e divergenti. Il difficile intreccio tra questi principi deve appoggiarsi su una precisione tecnica e linguistica, che, come si è visto, rivela caratteri ne­vrotici e maniacali: il suo estremismo, la sua volontà di non lasciar cadere nes­sun frammento del reale, contengono però il rischio della dispersione, della di­sintegrazione, della frantumazione di ogni rappresentazione in mille círcostan­ze particolari.

Il Pasticciaccio.
La rappresentazione di Gadda si sposta dall'ambiente milanese e lombar­do a quello romano in Quer pasticcaàccio brutto de via Merulana, ideato intorno al 1945 entro un progetto di una serie di racconti gialli e poi trasformatosi in un
ampio romanzo, di cui apparvero subito cinque « tratti » nei fascicoli di « Let­teratura» del 1946.
Il lavoro procedette intensamente, con varie stesure (ma tutti i manoscritti del­l'opera sono andati perduti) nel corso del 1946 e all'inizio del '47, in vista di un'edi­zione in volume che allora non ebbe luogo, anche per l'esitazione dell'autore nel­l'arrivare a una conclusione dell'opera. Tra il 1947 e il'48 Gadda ricavò dallo sche­ma del romanzo una sceneggiatura cinematografica, destinata alla Lux-film, dal ti­tolo Il palazzo degli ori (pubblicata solo nel 1983); varie difficoltà ostacolarono co­munque la sistemazione e l'edizione dell'opera, fino al momento in cui una propo­sta di Livio Garzanti, del luglio 1953, spinse l'autore a tornare al lavoro, che divenne piú intenso dopo l'abbandono della Rai, con la correzione di quanto già scritto (per questo fu importante anche la collaborazione di consulenti per i vari dialetti) e con la scrittura di nuovi capitoli, che comunque non approdò a una vera conclusione della vicenda. Nel luglio 1957 uscí l'edizione in volume, in dieci capito­li: rispetto ai testo pubblicato in « Letteratura » si aveva I' aggiunta di quattro nuovi capitoli e una diversa sistemazione della parte precedente, con l'eliminazione del fi­nale del tratto III e di tutto il IV, la cui materia riduceva il clima di suspense della narrazione. Mentre il romanzo suscitava grande curiosità nel mondo letterario, Gadda aveva in mente una sua prosecuzione, in vista di un eventuale secondo volu­me: ma il progetto si arenò ben presto e si ebbero nelle edizioni successive solo al­cune correzioni, soprattutto di carattere linguistico. Dal romanzo fu ricavata una nuova sceneggiatura a cui l'autore restò quasi del tutto estraneo per il film di Pietro Germi, Un maledetto imbroglio.
Il Pasticciàccio segue in apparenza la struttura del « giallo », con un delitto che avviene in un palazzo borghese e con lo svolgersi delle indagini relative: ma si tratta in realtà di un « giallo impossibile », che mantiene una suspense conti­nua e nello stesso tempo si perde in mille particolari, in una ricerca ossessiva delle molteplici facce della realtà e dei rapporti che quel delitto chiama in cau­sa. Il delitto, i fatti e le persone ad esso collegati, la stessa ricerca dell'assassino, tutto si configura nei termini di un inestricabile pasticcio: e questa parola si riaf­faccia in vari modi, nel corso dell'opera, con tutta la gamma dei suoi possibili significati (oltre all'accezione di imbroglio poliziesco, esso si riferisce ai miscu­gli di tutti i generi, alle mescolanze tra le materie, gli oggetti, le voci piú diverse, dal « pasticcio » alimentare a quello del sangue sul corpo della vittima, a quello della conversazione telefonica disturbata): l'insieme di questi significati rinvia d'altra parte alla concezione di.tutta l'opera come pastiche, e di tutta la realtà come intreccio, intrigo.
Tutto si svolge in pochi giorni del marzo 1027: in un palazzo di via Merulana, non lontano dal Colosseo, abitato da soddisfatti benestanti (e che l'immaginazione po­polare definisce « palazzo degli ori »), subito dopo una rapina ai danni della Menegazzi, una vecchia dama veneta, viene assassinata la ricca e bella Liliana Balducci, moglie di un uomo d'affari, che, nel suo cruccio per la mancanza di figli, era solita beneficare domestiche e accogliere presso di sé ragazze del popolo. Le indagini sui due episodi sono affidate al commissario di origine molisana Ciccio Ingravallo (che era solito frequentare la famiglia Balducci ed è tremendamente scosso dalla morte della signora), ma egli è affiancato da vari esponenti della questura romana e dai ca­rabinieri di Marino (nella cui zona risiedono varie persone sospette). Lo sviluppo del romanzo si dà tutto nel complicarsi delle indagini, nel loro sfiorare ipotesi di­verse e nel loro disperdersi in mille rivoli, anche se si acquisiscono alcuni risultati si­curi (soprattutto il ritrovamento delle gioie della Menegazzi in una povera casupola della campagna romana).
Tra i dieci capitoli del romanzo possono distinguersi due parti di pari ampiezza: i primi cinque sono infatti dedicati alla scoperta dei due delitti e alla prima fase del­le indagini nel mondo della borghesia e della piccola borghesia cittadina; i successi­vi capitoli mettono gli inquirenti in rapporto con il mondo del sottoproletariato, con la realtà povera, disperata, grottesca, della campagna romana, tra l'Appia e 1'Ardeatina, al limite dei Castelli romani, ai margini della vita della città. L'ultimo capitolo resta sospeso con la visita e la perquisizione del commissario Ingravallo nella catapecchia in cui abita una delle domestiche beneficate dalla vittima.
La narrazione è priva di ogni centro: non ci sono punti di vista privilegiati, non c'è nessun vero protagonista che possa sicuramente identificarsi con la po­sizione dell'autore. Ai laceranti caratteri autobiografici della Cognizione del dolore si sostituisce una radicale immersione della scrittura in una realtà ogget­tiva dalle facce molteplici, in una scatenata polifonia, dove si aggrovigliano i brandelli, i residui, le combinazioni piú varie dei linguaggi collettivi dell'Italia contemporanea: un mondo sociale di estrema concretezza ci viene incontro con un « pasticcio » di voci diverse, nessuna delle quali può prevalere definiti­vamente sulle altre. La voce dell'autore si cancella mescolando all'infinito schegge di realtà e di linguaggio.
La mescolanza dà luogo a una frizzante sinfonia carnevalesca, che mette in primo piano il romanesco cittadino (in cui si sentono gli echi del piú diretto parlato contemporaneo, popolare e piccolo-borghese, e del grande modello di Belli): ma alle varie sfumature del romanesco si accompagnano il la­ziale della campagna romana, il napoletano parlato da burocrati e poliziotti (da cui si distingue solo parzialmente la variante molisana del commissario Ingra­vallo), il veneto della Menegazzi, apparizioni varie di altri dialetti, di forme to­scane, di lingue straniere, di linguaggi specializzati, sia di tipo colto che di estrema degradazione. Questi diversi linguaggi non si affacciano solo nei dialo­ghi e nella caratterizzazione dei singoli personaggi, ma investono tutto lo svol­gersi della parola narrativa, entrano nelle pieghe delle descrizioni delle cose e degli sviluppi dei fatti. La scrittura sembra erompere da un « magma germinale che può parlare insieme tutte le lingue, tutti i dialetti e tutti gli stadi delle une e degli altri» (C. Cases): in questo modo il plurilinguismo dì Gadda raccoglie in sé tutti i conflitti e gli scontri, tutte le frantumazioni della storia sociale e lingui­stica italiana, facendo esplodere insieme le mille facce dell'Italia. Nel miscuglio grottesco delle lingue e dei caratteri egli scopre con fulminante intuito il punto d'arrivo autenticamente « moderno » della storia italiana.
Il romanzo si pone cosí come una radiografia della vita sociale italiana negli anni del fascismo: e non a caso esso si svolge a Roma, la capitale dello Stato fascista, il centro in cui il regime autoritario di massa ten­de a far convergere, a intrecciare, a uniformare le molteplici anime dell'Italia, esaltandone gli aspetti piú negativi, la cialtroneria e la vanagloria, la vocazione all'esibizione e all'imbroglio. La vita romana si presenta al lettore del Pastic­ciacczó nella sua piú affollata concretezza, nel suo intreccio quotidiano tra mon­do popolare e mondo borghese, tra segni vuoti e fastosi del potere e improv­visazione di piccoli espedienti quotidiani, in mezzo alle tracce di una storia mil­lenaria, al proliferare di una distorta burocrazia, agli scarti di una modernità provvisoria e disgregata (ne sono segni macchine e oggetti meccanici, che ap­paiono sempre logorati, che funzionano sempre in modi avventurosi e impro­babili). In questa Roma fascista tutte le lingue e le realtà d'Italia si intrecciano in un baraccone spettacolare, in una fantasmagoria barocca e grottesca, in una buffoneria degradata: la vita di quegli anni si rivela qui come una vera e propria « autobiografia della nazione » (nel senso in cui del fascismo aveva parlato Go­betti, cfr. 10. 2.15), un insulso spettacolo le cui radíci sono in un'antica abitudi­ne alla «favola» e alla mistificazíone.
Ma la società cosí determinata e concreta rappresentata nel Pastacciaccio non è che la forma piú marcia e putrescente del male, della stupidità, della ceci­tà che dominano in genere il mondo e la storia: non c'è personaggio che non partecipi a questo orizzonte, che non sia immerso nella nebbia inestricabile dell'essere sociale. La stessa figura del commissario Ingravallo viene a tratti so­praffatta dalle cose, fino a identificarsi con l'ottusa materialità del mondo in cui si muove, a compromettersi con la sua cieca stupidità: ma in altri momenti essa cerca in qualche modo di districarsi dal grovíglio in cui tutto precipita, cerca di affermare una ragione organizzatrice, di ritrovare il filo di un ordine, che però sfugge continuamente, si disperde nel montare inarrestabile della confusione. Nella sua posizione di indagatore e poliziotto, Ingravallo rivela al­lora (ma solo a tratti) qualche somiglianza con la posizione dello scrittore, col suo proposito di imporre al caos un ordine e una conoscenza impossibili: tal­volta egli raggiunge un allucinato distacco dalle cose, che gli rivela il loro vuoto significato, che lo porta a una tragica comprensione della presenza del male (bellissime ad esempio le pagine sulla prima visita al luogo del delitto e sulla ri­velazione, davanti al corpo di Liliana, della « insospettata ferocia delle cose »).
La molteplicità delle cose e degli atti mescola e riavvolge il passato della na­tura e della storia con il presente piú frantumato, doloroso e grottesco: ogni presenza può deformarsi scambiandosi con altre realtà culturali e materiali. Ai comportamenti e agli oggetti degli uomini si sovrappongono aspetti animale­schi; su ogni artificio prevale la piú elementare fisicità, che si impone con una ossessiva attenzione per i cibi, per la digestione, per gli escrementi e l'evacua­zione, per un erotismo basso e volgare, per le deformazioni e le protuberanze corporee, per i grassi, la sporcizia, i residui organici, per le vesti e i manufatti logorati dall'uso, dotati di una loro irrazionale vita autonoma, per i rumori corporei o meccanici, che invadono lo spazio come una persecuzione índecifrabi­le. La serie infinita di intrecci tra questi e altri aspetti della realtà rivela la sini­stra continuità delle cose, della vita naturale e di quella sociale: con qualcosa di diabolico e di stregato, che si scatena soprattutto nella seconda parte del ro­manzo, nella rappresentazione della campagna romana, con una comicità biz­zarra e onnivora, negli itinerari picareschi dei carabinieri tra veri e propri luo­ghi infernali (in cui emergono la « strega » Zamira Pàcori e una serie di figure di ragazzotte ambigue).
Questo senso di sinistra continuità è sostenuto inoltre da alcuni temi sim­bolici che percorrono il romanzo in tutte le direzioni: tra essi si impone quello degli ori e delle gioie, che nel loro carattere di vani ornamenti recano le tracce della piú antica storia naturale e il segno di coloro che li hanno posseduti nel passato. Tra vari gioielli rubati e ritrovati, questo tema culmina nella scena del ritrovamento delle gioie della Menegazzi al capitolo 9, preceduta al capitolo 8 dal prestigioso pezzo del « sogno del brigadiere », scatenato delirio che travol­ge la sostanza fonica delle parole, la consistenza degli oggetti, la stessa linearità del tempo: alla visione del carabiniere impegnato nelle indagini la parola topa­zio suscita le piú bizzarre associazioni e deformazioni (per esempio, « s'era in­volato lungo le rotaie cangiando sua figura in topaccio e ridarellava topo-topo­topo-topo »).
Con questa inventiva linguistica, pronta a corrodere i contorni stessi del linguaggio, sospesa tra un'ilarità sconfinata e una disperazione rappresa, tra momenti di distacco impietoso e di partecipazione pietosa alla vita delle cose (e di alcuni « poveri esseri »), il Pasticciaccio dà voce a tutte le facce di un mondo incorreggibile, al pasticcio di linguaggi e di comportamenti, di ridicolo e di or­rore di cui è fatta non solo la Roma fascista, ma tutta 1'Italía che non corrispon­de a nessuno degli ideali razionali, morali, civili, in cui Gadda aveva creduto.

 

Fonte: http://www.calamandrei2013.altervista.org/GADDA.doc

Sito web da visitare: http://www.calamandrei2013.altervista.org/

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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Letteratura Carlo Emilio Gadda