Letteratura Giacomo Leopardi nato a

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Letteratura Giacomo Leopardi nato a

Giacomo Leopardi (1798-1837)

Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno del 1798, primogenito del conte Monaldo, che fu il suo primo educatore insieme a vari precettori ecclesiastici.
La chiusura e la bigotteria dell'ambiente parentale, portano il giovane ad appassionarsi sempre di più e in modo estremamente solitario ai suoi studi. Impara da solo diverse lingue, tra cui l'ebraico, e si esercita in traduzioni scolastiche dai classici. Nel 1816 avviene la «conversione letteraria»: Leopardi si dedica per sette anni ad uno “studio matto e disperatissimo” da cui esce molto provato fisicamente. In quel periodo progetta una fuga da Recanati, dove ormai non riesce più a vivere, ma viene subito scoperto dal padre, cosa che lo getta ancora più nello sconforto. Nel 1817 egli scrive al classicista Pietro Giordani che aveva letto la traduzione leopardiana del II libro dell'Eneide e, avendo compreso la grandezza del giovane, lo aveva incoraggiato. Tra i due inizia così una fitta corrispondenza ed un rapporto di amicizia che durerà nel tempo.
In una delle prime lettere scritte al nuovo amico, datata 30 aprile 1817, il giovane Leopardi sfogherà il suo malessere:


« Mi ritengono un ragazzo, e i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di filosofo, di eremita, e che so io. Di maniera che s'io m'arrischio di confortare chicchessia a comprare un libro, o mi risponde con una risata, o mi si mette in sul serio e mi dice che non è più quel tempo [...] Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia »

In questi anni Leopardi annota pensieri di ogni tipo nello Zibaldone (che raccoglierà scritti dal 1817 al 1832); scrive le canzoni patriottiche come All'Italia; un saggio di poetica, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, e tra il 1819 e il 1821 i primi idilli (tra cui L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna) e varie canzoni. Il suo fisico è ormai fortemente debilitato e ha anche una grave malattia agli occhi che lo costringe a un riposo forzato.
Nel 1822 finalmente ottiene il permesso di uscire da Recanati per un viaggio a Roma, ma rimarrà deluso e annoiato dal clima di corruzione e di cultura arretrata che vi domina. Tornato a Recanati scrive quasi tutte le Operette morali (tra i più grandi esempi di prosa filosofica italiana).
Tra il 1825 e il 1828 compie diversi viaggi tra Milano, chiamato a collaborare presso l’editore Stella, Bologna, dove vive mantenendosi con l'assegno mensile dello Stella e dando lezioni private, e Firenze (dove conosce il gruppo di letterati appartenenti al circolo Viesseux) nel tentativo di rendersi autonomo con la propria attività di traduttore, ma senza successo. Dal '21 al '27 c'è un quasi totale «silenzio poetico, ma nel novembre del 1827 si reca a Pisa dove rimane fino alla metà del 1828. A Pisa, grazie all'inverno mite, la sua salute migliora e Leopardi torna alla poesia con Il Risorgimento e il canto A Silvia (figura forse ispirata alla figlia del cocchiere di Monaldo, morta giovane, Teresa Fattorini), inaugurando il periodo creativo detto dei Canti "pisano-recanatesi", chiamati anche "grandi idilli", in cui il poeta sperimenta la cosiddetta canzone libera o canzone leopardiana. Il periodo di benessere, però, era finito ed il poeta, colpito nuovamente dalle sofferenze e dall'aggravarsi del disturbo agli occhi, è costretto a ritornare a Recanati dove rimane fino al 1830 e dove scrive alcune delle sue liriche più importanti tra cui Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il passero solitario, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Grazie ad una sottoscrizione degli "amici di Toscana", ha l'opportunità di tornare a Firenze, dove il 27 dicembre 1831 viene eletto socio dell'Accademia della Crusca; cura un'edizione dei "Canti" e stringe amicizia col giovane esule napoletano Antonio Ranieri.
Risale a questo periodo la forte passione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti, conclusasi in una cocente delusione, che gli ispirò il cosiddetto "ciclo di Aspasia", una raccolta di poesie scritte tra il 1831 e il 1835 che contiene: Il pensiero dominante, Amore e morte, A se stesso, Consalvo e Aspasia. In questa raccolta manifesta la perdita dell'ultima illusione che gli era rimasta, quella dell'amore (l'inganno estremo).
Nel settembre del 1833 Leopardi, dopo aver ottenuto un modesto assegno dalla famiglia, parte per Napoli con Ranieri sperando che il clima mite di quella città possa giovare alla sua salute.
A Napoli compone gli ultimi Canti La ginestra o il fiore del deserto (il suo testamento poetico nel quale si coglie l'invocazione ad una fraterna solidarietà contro l'oppressione della natura) e Il tramonto della luna (compiuto solo poche ore prima di morire).
Torna diverse volte a Recanati e infine nel '33 si reca a Napoli con Ranieri dove morirà il 14 giugno del 1837.

 

La teoria del piacere:
L’uomo aspira a un piacere infinito, ma, dato che nessuno dei piaceri particolari goduti dall’uomo può soddisfare questa esigenza, nasce in lui un senso di insoddisfazione perpetua. Da questa tensione inappagata nasce l’infelicità dell’uomo, il senso della nullità di tutte le cose. La natura in un primo momento è concepita da Leopardi come madre benigna che ha voluto sin dalle origini offrire un rimedio all’uomo: l’immaginazione e le illusioni; in un secondo momento Leopardi considera che la stessa natura che ha messo nell’uomo quel desiderio di felicità infinita, senza dargli mezzi per soddisfarlo. La colpa dell’infelicità non è più dell’uomo stesso ma solo della natura e l’uomo non può che limitarsi a far cessare le sopraffazioni e le ingiustizie della società, aprendosi alla solidarietà degli uomini.

La noia
" La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani . (......) Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena , né, per dir così dalla terra intera, considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo ed il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e nobiltà, che si veggia nella natura umana. perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento e pochissimo o nulla agli altri animali ( LXVIII Zibaldone) 
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d’affanno
Quasi libera vai;
Ch’ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
Tu se’ queta e contenta;
E gran parte dell’anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
E un fastidio m’ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell’agio, ozioso,
S’appaga ogni animale;
Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

G. Leopardi, tratto da “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia”

 


A SILVIA
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi? 
Sonavan le quiete
stanze, e le vie d'intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno. 
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno. 
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi? 
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore. 
Anche perìa fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
ALLA SUA DONNA
Cara beltà che amore
Lunge m’inspiri o nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
O ne’ campi ove splenda
Più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l’innocente
Secol beasti che dall’oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara
Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?
Viva mirarti omai
Nulla spene m’avanza;
S’allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza
Verrà lo spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s’anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
saria, così conforme, assai men bella. […]
Se dell’eterne idee
L’una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l’eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
O s’altra terra ne’ superni giri
Fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T’irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d’ignoto amante inno ricevi.

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Giacomo Leopardi
(1798 -1837)

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
Move le greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in s
ul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolare dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
È lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir della terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in ciel arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, Alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni
stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda, o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avvess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia grerggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando l'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro
covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.

 

Fonte: http://www.artigianelli.org/wordpress/wp-content/uploads/2013/10/Giacomo-Leopardi.docx

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