Letteratura Umberto Saba opere

Letteratura Umberto Saba opere

 

 

 

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Letteratura Umberto Saba opere

UMBERTO SABA

Umberto Saba nacque a Trieste il 9 marzo 1883 da Ugo Edoardo Poli, veneziano, figlio della contessa Teresa Arrivabene, e da Felicita Rachele Coen, che apparteneva a una modesta famiglia di commercianti del ghetto. Il padre, quando si sposò, si convertì all’ebraismo e prese il nome di Abramo; ma, prima che il filglio nascesse, abbandonò la moglie e si diede a una vita avventurosa e vagabonda. Umberto conobbe il padre solo molto più tardi, a vent’anni circa.

Autobiografia – Sonetto 3
Mio padre è stato per me “l’assassino”,
fino ai vent’anni che ho conosciuto.
Allora ho visto che egli era un bambino,
e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.

Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più di una donna l’ha amato e pasciuto.

Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.

“Non somigliare – ammoniva – a tuo padre”.
Ed io più tardi in me stesso lo intesi:
eran due razze in antica tenzone.

Saba viveva un conflitto interiore fra la natura paterna e materna: da un lato ammirava istintivamente il padre, uomo libero e avventuroso, dall’altro provava affetto per quella madre, che portava i pesi della vita.
Umberto fu messo a balia presso Giuseppina (Peppa) Sabaz, una contadina slovena, moglie di un macellaio, che aveva perso da poco un bambino e che riversò tutto il suo affetto sul piccolo Berto. Da lei deriva lo pseudonimo Saba, pseudonimo che sostituì quello di Chopine, poi, di Umberto da Montereale, usati prima da Saba con gli amici, quando leggeva loro le sue poesie.
La balia viveva in collina, poco sopra Trieste, saba le si affezionò moltissimo, ma la madre, a tre anni, forse per motivi religiosi (era cattolica e portava il piccolo in Chiesa), lo rivolle con sé: il bimbo ne soffrì moltissimo, con negativi riflessi psichici, anche per il contrasto tra il carattere aperto della balia e quello chiuso e severo della madre, ansiosa e rigida nell’educazione del figlio.
Anche per questo la figura della Peppa assumerà poi un valore mitico.

 

 

Il piccolo Berto(1929 – 1931)
Tre poesie alla mia balia
1
Mia figlia
mi tiene il braccio intorno al collo, ignudo;
ed io alla sua carezza mi addormento.

Divento
legno in mare caduto che sull’onda
galleggia. E dove alla vicina sponda
anelo, il flutto mi porta lontano,
oh, come sento che lottare è vano!
Oh, come in petto per dolcezza il cuore
vien  meno!

Al seno
approdo di colei che Berto ancora
mi chiama, al primo, amoroso seno,
ai verdi paradisi dell’infanzia.

2
Insonne
mi levo all’alba. Che farà la mia
vecchia nutrice? Posso forse ancora
là ritrovarla, nel suo negozietto?
Come vive, se vive? E a lei mi affretto,
pure una volta, con il cuore ansante.

Eccola: è viva; in piedi dopo tante
vicende e tante stagioni. Un sorriso
illumina, a vedermi, il volto ancora
bello per me, misterioso. E’ l’ora
a lei d’ aprire. Ad aiutarla accorso
scalzo fanciullo, del nativo colle
tutto improntato, la persona chiana
leggera, ed alza la saracinesca.

Nella rosata in cielo e in terra fresca
mattina  io ben la ritrovavo. E sono
a lei d’allora. Quel fanciullo io sono
che a lei spontaneo soccorreva; immagine
di me, d’uno di me perduto…

 

 

 

 

 

 

 

3
…Un grido
s’alza di bimbo sulle scale.E piange
anche la donna cha va via. Si frange
per sempre un cuore in quel momento.

Adesso
sono passati quasi quarant’anni.
Il bimbo
è un uomo adesso, quasi un vecchio, esperto
di molti beni e molti mali. E’ Umberto
Saba quel bimbo. E va, di pace in cerca,
a conversare colla sua nutrice;
che anch’ella fu di lasciarlo infelice,
non volontaria lo lasciava. Il mondo
fu a lui sospetto d’allora, fu sempre
(o tale almeno gli parve) nemico.

Appeso al muro è un orologio antico
così che manda un suono quasi morto.
Lo regolava nel tempo felice
il dolce balio; è un caro a lui conforto
regolarlo in suo luogo. Anche gli piace
a sera accendere il lume, restare
da lei gli piace, fin ch’ella gli dice:

“E’ tardi. Torna da tua moglie, Berto”.

Il ricordo della casa della balia è un ricordo felice.

Poesie dell’adolescenza e giovanili (1900 – 1907)
La casa della mia nutrice

La casa della mia nutrice posa
tacita in faccia alla cappella antica,
ed al basso riguarda, e par pensosa,
da una collina alle caprette amica.

La città dove nacqui popolosa
scopri da lei per la finestra aprica;
anche hai la vista del mar dilettosa
e di campagne grate alla fatica.

Qui – mi sovviene – nell’età primiera,
del vecchio camposanto tra le croci,
giocavo ignaro sul far della sera.

 

 

 

 

A Dio innalzavo l’anima serena;
e dalla casa un suon di care voci
mi giungeva, e l’odore della cena.

Cuor morituro  (1925 – 1930)
La casa della mia nutrice
I
O immaginata a lungo come un mito,
o quasi inesistente,
dove sei tu, ridente
casina, che dal primo verso addito?

Dov’è quella che avevi, viso a viso,
la tua Cappella antica?
E la finestra aprica
dov’è, che dà su tanto paradiso?

E quello che dal tetto fuor t’ usciva
con odori di cena,
dimmi, lo sparse appena
il vento? O tutta una vita fuggiva?

Perché dai suoi negozi al tuo beato
pendio torna chi corse
così lontano? Forse
sta per morire? O forse è innamorato?

Ama forse chi amare egli non deve,
o in silenzio soltanto,
fin che a un sorriso il pianto
matura, e un dono la vita riceve?

Io so dove tu sei, ma non lo dico,
cara amata casina.
Del tutto una rovina
ti fece il tempo, ai deboli nemico?

O dentro ancor la donna ti sfaccenda,
lei che già giovanetto
con un tenace affetto
visitavo, e la luce par vi splenda

di quelle sere? Mesto ero e felice,
e in ogni male puro.
No, non dico il tuo muro
.a qual s’appoggia divina pendice.

 

 

 

 

 

3
Ed a te non dirò strane parole,
se ancora operi e vivi,
a te che custodivi
me nella casa da cui sorse il sole

dell’infanzia, su cui tramonta quello
dell’abbagliante vita?
Ahi, che troppo smarrita
sei nel ricordo; il volto che sì bello

certo mi parve, è quale sulle mura
che umidità corrose
quella che un dì vi pose
immagine una pia rozza pittura.

Dov’è la donna che faceva fiori
di carta? Io non la vedo
che in ombra, mentre siedo
nella stanzetta con antichi odori.

E il balio che di molte cose sparte
ne congegna una sola?
Dove il tempo che invola
tutto, portò quella domestic’arte?

S’io non lo so non lo saprebbe alcuno
oggi nel mondo dire.
Di una casetta uscire
se vedo il fumo fuor del tetto bruno,

sempre quella che pare, e non è, un mito,
mi richiama alla mente,
che è quasi inesistente,
un sogno dall’adolescenza uscito;

un mesto sogno del tempo felice
che nel male ero puro,
nato da un vecchio muro
poggiato ad una solatia pendice.

La madre però non lo tenne con sé; lo affidò a due cugine, abitanti a Padova: Elvira e stellina, il che contribuì ad accentuare il trauma del distacco dalla balia.

 

 

 

 

 

 

Il piccolo Berto(1929 – 1931)

Partenza e ritorno

Di padre
Serbo in Serbia era nata. E aveva a Padova
la bella casa signorile.
Disse
mia madre un giorno: “Se mandassi Umberto
da zia Stellina e dall’Elvira? Forse
al suo ritorno alfine m’amerà.
Forse, lontano restando, la Peppa,
l’eterna Peppa dimenticherà”.
E andai lontano, a Padova. L’Elvira
molto mi piacque, mano assai la zia,
vecchia donna e severa. E quante cose
la bella Elvira m’apprese! le lettere
dell’alfabeto, un po’ d’astronomia
perfino. Il nome di lei mi piaceva,
e la sua stanza, e il suo profumo ch’era
di rose e mandorle amare. E una sera,
dalla finestra che dà sul giardino,
sento per nome chiamarmi. “Mi pare
- dico – mi pare di sentir la voce
della mia mamma di Trieste.”

                                       Un muro
Vedo ed ombre danzanti, un’altra ombra
china su me, che mi tranquilla. Sono
ritornato a Trieste; in un lettuccio
giaccio ammalato. Ma, guarito appena,
chiedo ancora di lei, della mia amica.
E tanto faccio che le son condotto,
subito. Più non m’aspettava, io credo,
la mia buona, la mia fida nutrice.
“Oh Berto, oh Berto!” esclamava, felice
a me versando il caffelatte. Io tutti
i miei progressi le appresi. Poi quando
- come un secreto tra noi due – mi chiese
se stavo bene a Padova, se stavo
meglio laggiù o con mia madre:”Era bello
coll’Elvira – le dissi ; - ma con te
- e la pregai si abbassasse, che dirle
io volli questo in un orecchio – è ancora
più bello”.

 

 

 

 

 Alla sua cara Itaca Ulisse
non ebbe forse un più lieto ritorno
del mio, di Berto in via del Monte. Il giorno
era sereno fulgido; modello
rimasto in me d’ogni bel giorno, immagine
viva parlante di felicità.

Con l’aiuto economico della zia Regina, che aveva un piccolo negozio rivendita di oggetti usati, Saba seguì gli studi fino alla quarta classe del ginnasio, ma con scarso profitto. Frequentò poi, solo per alcuni mesi, l’Accademia di Commercio e Nautica, perché, attratto dalla vita avventurosa, si imbarcò come mozzo su un bastimento mercantile, che praticava il piccolo cabotaggio fra i porti dell’alto Adriatico, come egli stesso ricorda.

Mediterranee
Ulisse

Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al  largo,
per sfuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

La madre lo fece poi assumere come praticante presso una ditta commerciale triestina, dove rimase alcuni anni.
Fu questo un periodo di “sterminate letture”, come autodidatta. Il suo poeta preferito era Leopardi, ma lesse anche Pascoli, Belli, Giusti, Pindemonte, Goethe, Rilke, Tasso, Ariosto, in una formazione disordinata, ma molto ampia, in linea con la città in cui viveva, Trieste, una città cosmopolita.
Soggiorna frequentemente, in questi anni, anche in Toscana: A Pisa nel 1903, a Firenze nel periodo 1905 – 1908, ed ha i primi contatti con l’ambiente letterario fiorentino, con il quale, fin d’allora, non legò.

Autobiografia (1924)
10
Vivevo allora a Firenze, e una volta
venivo ogni anno alla città natale.
Più d’uno in suoi ricordi ancor m’ascolta
dire, col nome di Montereale,

i miei versi agli amici, o ad un’accolta
d’ignari dentro assai nobili sale.
Plausi n’avevo, oe n’ho vergogna molta;
celarlo altrui, quand’io lo so, non vale.

 

Gabriele D’Annunzio alla Versiglia
vidi e conobbi; all’ospite fu assai
egli cortese, altro per me non fece.

A Giovanni Papini, alla famiglia
che fu poi della “Voce”, io appena o mai
non piacqui. Ero fra lor di un’altra spece. (sic)

Com’era il Saba di quegli anni? Eccone una descrizione tratta da Omaggio a Saba  apparso su Solaria nel 1928, scritto da Silvio Benco:
Vent’anni fa si aggirava per le vie di Trieste, con un passo molleggiante da bighellone che poi la vita gli ha fatto perdere, un giovane che s’era raffazzonato una figura alquanto bizzarra: pizzo biondo alla dannunziana e precocissima calvizie, curvo il largo torace come per abitudine di parlare a compagni di statura più bassa, una loquela pastosa, nasale, patinata a Firenze…….le mani calzate di guanti bianchi di lana che davano negli occhi mezz’ora lontano, e un nome letterario di similoro che non ingannava sul suo buon mercato, Umberto da Montereale……..Trieste, da lui amata svisceratamente, gli aveva tosto e con naturalezza dedicato un’antipatia, un’incredulità, una canzonatura da borgo natio, che soltanto la fama e certi mormorii lusinghieri nella conchiglia del mondo sono riusciti ad attenuare negli anni.

A Pisa si manifesta per la prima vota la nevrosi che lo avrebbe accompagnato, a fasi alterne, per tutta la vita.
L’idea ossessiva che lo perseguita nasce dal timore infondato che un amico, il violinista Ugo Chiesa, voglia vendicarsi di lui per gelosia (Saba era allora in corrispondenza con la sua fidanzata), denunciandolo per alcuni versi antiasburgici scritti anni prima.

La leva militare
Il 1908 lo vede soldato di leva in quanto cittadino italiano, a Salerno, dove scrive i Versi militari

Durante una marcia
I
Poi che il soldato che non va alla guerra
invecchia come donna senz’amore,
questo vorremmo: la certezza in cuore
di vincere, ed andar di terra in terra.

 

Qui andiamo sì, ma a tanta nostra guerra
manca il nemico che ci miri al cuore,
manca la morte che il fuggiasco atterra,
manca la gloria per cui ben si muore.

Son brutte facce intorno a me, e sudori.
Guardo il compagno: mezza lingua fuori
gli pende, come a macellato bue.

O canta, Carmen, le bellezze tue,
le lodi in coro della tua persona.
Il cielo, senza mai piovere, tuona.

Consolazione
E’ stata più che non pensassi in mia
vita la guerra finta e fragorosa.
Sparò nell’assordante artiglieria
l’onnipotente fanteria fangosa.

Ora in cortile, a sì diversa cosa
ciascuno attende. Ora si muta in vile
spazzino il fante. Ora non più il fucile,
ma la ramazza ha in pugno. E così sia.

Con tanto più diletto e più sincero
animo andrò nella mia chiusa stanza
tessendo e ritessendo il mio pensiero.

Su tappeti di porpora la danza
godrò leggera, bacerò il bel viso
di lei, nelle cui braccia è paradiso.

Negli anni della leva si precisa il senso di isolamento del poeta, come si può ben notare dalla seguente poesia, inizialmente raccolta nei Versi militari, poi spostata in chiusura delle Poesie dell’adolescenza e giovanili

Il sogno di un coscritto
(l’osteria fuori porta)
Or che di molte passioni l’urto
si addormì nel respiro
della notte profonda,
e fatto ha la ronda
ultima l’ultimo giro;

che là solo e di furto
arde ancora un lucignolo fumoso,
penso, in blando riposo,
penso lo smarrimento che al fervore
dei miei sogni seguiva, entro un’antica
osteria fuori porta, oggi, nell’ore
della libera uscita.

Ero là con i miei nuovi compagni;
là con essi seduto ad un’ingombra
tavola, quando un’ombra
scese in me, che la mia vita lontana
tenne, con la sua forza, con le sue
pene, da quel tumulto vespertino.
Centellinavo attonito i miei due
soldi di vino.

Non un poeta, ero uno sperduto
che faceva il soldato,
guatandosi all’intorno l’affollato
mondo, stupito e muto;

che come gli altri, in negro
vino il suo poco rame barattava
che coi baci la mamma a lui mandava,
triste no, non allegro;

con nella mente fitta
solo un’idea, recata
da un suon lontano: fosse la prescritta
ora trascorsa della ritirata.
Né si squarciò quel velo,
né a vivere tornai di questa mia
vita, prima che fredda nella via
fosse la notte e in cielo.
Il senso di estraneità al gruppo dei compagni dissolve il senso di appartenenza che nei versi precedenti era avvertito come un’affinità insolita, sperata, liberatoria. La consapevolezza di appartenere a un’altra razza, un’altra famiglia, prende il sopravvento come una condanna “la poesia ci dice Saba, condanna chi la pratica all’isolamento, anche se alimenta un inesausto, tormentoso desiderio di integrazione: ma le parole di tutti, i valori di tutti, ogni possibile identità con gli altri appaiono irraggiungibili perché la poesia funziona come una remora, come un azzurro spiraglio che il poeta conserva. (Lavagetto)

Lina
Saba aveva conosciuto Lina (Carolina Wolfer), la cucitrice in rosso scialle avvolta,  nel 1905. L’incontro con lei gli fa scrivere vivo e spero che un po’ di sole spunterà anche per me. Non ero forse quasi felice quando ero tra le tue braccia?
I due si sposano il 28 febbraio 1909 e si stabiliscono a Montebello, una collina sopra Trieste.
Il 24 gennaio dell’anno successivo nasce la figlia Linuccia.
Questa importante tappa della sua vita è registrata prima di tutto nel gruppo di poesie che hanno come titolo
Casa e campagna (1909 – 1910), tra le quali ricordiamo in particolare
A mia moglie (pag. 384 – 385 libro di testo)

La capra
Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.

Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

A mia figlia
Mio tenero germoglio,
che non amo perché sulla mia pianta
sei rifiorita, ma perché sei tanto
debole e amore ti ha concesso a me;
o mia figliola, tu non sei dei sogni
miei la speranza ; e non più che per ogni
altro germoglio è il mio amore per te.

La mia vita, mia cara
bambina,
è l’erta solitaria, l’erta chiusa
dal muricciolo,
dove al tramonto solo
siedo, a celati miei pensieri in vista.
Se tu non vivi a quei pensieri in cima,
pur nel tuo mondo li fai divagare;
e mi piace da presso riguardare
la tua conquista.

Ti conquisti la casa a poco a poco,
e il cuore della tua selvaggia mamma.
Come la vedi, di gioia s’infiamma
la tua guancia, ed a lei corri dal gioco.
Ti accoglie in grembo una sì bella e pia
mamma, e ti gode. E il vecchio amore oblia.

In quest’ultima poesia sono riscontrabili alcuni degli atteggiamenti di Saba che porteranno alla grave crisi coniugale del 1911: Lina abbandona il marito, sempre distante e chiuso in se stesso.
Questa crisi è raccontata nella raccolta di poesie Trieste e una donna, di cui sono qui riportate le più significative

L’autunno
Che succede di te, della tua vita,
mio solo amico, mia pallida sposa?
La tua bellezza si fa dolorosa,
e più non assomigli a Carmencita.

Dici :”E’ l’autunno, è la stagione in vista
sì ridente, che fa male al mio cuore”.
Dici – e ad un noto incanto mi conquista
la tua voce - :”Non vedi là in giardino
quell’albero che tutto ancor non muore,
dove ogni foglia che resta è un rubino?
Per una donna, amico mio, che schianto
l’autunno! Ad ogni suo ritorno sai
che sempre, fino da bambina, ho pianto”.
Altro non dici a chi ti vive accanto,
a chi vive di te, del tuo dolore
che gli ascondi; e si chiede se più mai,

anima, e dove e a che, rifiorirai.

Verso casa
Anima, se ti pare che abbastanza
vagabondammo per giungere a sera,
vogliamo entrare nella nostra stanza,
chiuderla, e farci un po’ di primavera?

 

Trieste, nova città,
che tiene d’una maschia adolescenza,
che di tra il mare e i duri colli senza
forma e misura crebbe;
dove l’arte o non ebbe
ozi, o, se c’è, c’è in cuore
degli abitanti, in questo suo colore
di giovinezza, in questo vario moto;
tutta esplorammo, fino al più remoto
suo cantuccio, la più strana città.
Ora che con la sera anche si fa
vivo il bisogno di tornare in noi,
vogliamo entrare ove con tanto amore
sempre ti ascolto, ove tu al bene puoi
volgere un lungo errore?

 Della più assidua pena,
della miseria più dura e nascosta,
anima, noi faremo oggi un poema.

L’appassionata
Tu hai come il dono della santità.
Nacque con te, ti segue ove ti porta
la passione, fa dei peccati tuoi opere buone,
d’ogni giudizio ti rimanda assolta.

Questa grazia che a te fors’anco è ignota
è il nostro amore, è la tua verità.
Quando riguardi tosto a te si vota,
offre a te la sua vita.
Dell’inferta ferita
poi sanguini così dentro il tuo cuore,
che si chiede perdono a te, o devota,
o appassionata, o pura
sempre quanto la più giusta creatura;
che perderti volessi non lo puoi,
di cui s’amano i falli perché tuoi.

La tua voce che a me giunge più amara
e più impregnata dell’intima ambascia,
si ascolta come una musoca bassa,
come una lenta musica di chiesa.
Nell’anima che tu, innocente, hai lesa
strana dolcezza lascia,
pure al ricordo, la tua voce amara.

La bugiarda
Perché arrossire? Io credo
pure alle tue bugie.
Hanno più religione delle mie
verità; che se a volte in esse io vedo
ghiacce bevande di ardente calore
che consolano e crescono la sete;
i poeti, mio amore,

i gloriosi poeti e i vecchi saggi,
e gli eroi che tornavano da mete
lontane, dopo immortali viaggi,
e, forse, in sue secrete
leggi, nella giustizia sua l’Eterno,
sentono come me che non discerno
fra il pensato ed il vero.
E chi sa cha a sua immagine il pensiero
non muti fino le cose passate,
quando con cuore e con labbra agitate
dici la tua menzogna, e con l’ardore
di chi chiede ai suoi santi suoi perdoni,
che grazia impetra con sante orazioni.

Or tu dunque rallegrati. Io credo
solo alle tue bugie.
La tua voce ha le vie
del mio cuore; né in te ricerco traccia
di colpa; anzi più pura
ti vedono nel male gli occhi miei.
Altro dirti poss’ io se da natura
fatta così femminilmente sei?

Sappiamo dalla testimonianza di Aldo fortuna che Saba nel 1912 stava leggendo Sesso e carattere di otto Weiminger, un classico della misoginia e dell’antisemitismo, che alla donna e all’ebreo negava l’anima e, quindi, ogni facoltà morale, ogni capacità di scegliere tra il bene e il male. Questo spiega alcuni termini della poesia sopra riportata (femminilmente sei, il più evidente). Sarà solo con la psicanalisi, anni dopo, che saba supererà questa ambivalenza verso l’universo femminile.

Nuovi versi alla Lina

I
Una donna! E a scordarla ancor m’aggiro
io per il porto, come un levantino. uardo il mare: ha perduto il suo turchino,
e a vuoto il mondo ammiro.

Una donna, una ben piccola cosa
Una cosa  – Dio mio! – tanto meschina;
poi una come lei, sempre più ascosa
in se stessa, che pare ogni mattina
occupi meno spazio a questo mondo,
dare ad un’esistenza il suo profondo
dolore; solo io qui sentirmi e sperso,
se più di lei la mia città non riempio;
spoglio per essa, e senza altare, il tempio
dell’universo.

Una donna, un nonnulla. E i giorni miei
sono tristi; una donna ne fa strazio,
piccola, che una casa nello spazio,
un piroscafo è tanto più di lei.

2
Quando il rimorso ti dà troppe pene,
e in fretta mandi mie nuove a sentire;
vorrei pure rispondere :Sto bene;
ma che giova mentire?

Per amor tuo, per tua tranquillità
di fingermi felice anche ho pensato;
ma tu molto hai vissuto e sai se v’ha
pace in questo mio stato.

Pure non t’odio; e solo una preghiera
volgo, per tanta sconoscenza, a Dio:
che sappi che un dì che immensa cosa egli era
questo vecchio amor mio.

3
se dopo notti affannose mi levo
che l’angoscia dei sogni ancor mi tiene,
e se da quello il mio male mi viene
che più in alto ponevo;

se in ogni strada che vidi sì bella
vedo adesso una via del cimitero,
e della mia stanzetta il tuo pensiero
mi fa un’orrida cella;

quel giorno ancora chiamo il più felice,
dei miei giorni, che in rosso scialle avvolta
ho salutata per la prima volta
Lina la cucitrice.

4
Ora se in strada accanto a me ti sento
(sia vero o falso) tosto il passo affretto;
eppure credi che io non pavento
ricevere quel colpo in mezzo al petto.

Mi rivedi in un mese già invecchiato;
ma temo non sia solo il viver mio
che come il fazzoletto dell’addio
sarà tutto di lacrime impregnato.

Calpestato tu l’hai questo mio cuore!
Ma di una donna non sa far vendetta.
E’ abitato da Dio, pieno d’amore;
nei miei sogni ti chiamo benedetta.

5
Lascia i saluti, anche sinceri, i troppi
pianti, i messaggi della tua fantesca;
non v’è cosa di te che più m’incresca;
fingiti abbominevole(sic) ai miei occhi.

O mia povera amica, oggi, perché,
rattenermi? Non ho abbastanza amato,
sì che per sempre, e più assai che non credi,
del ben che t’ho voluto ti son grato?
Pianger di che? Non lacrime mi devi
di rimorso; ma andar diritta e forte,
ma il silenzio di te, ma la mia morte
nel tuo cuore; e se questo oggi ti appare
pena soverchia al dolor che hai recato,
sol che morto mi pensi, anzi, non nato,
posso ancora pensare
posso ancora sperare
che una mattina di sole al destarmi,
di quante cose che per te ho lasciato,
di quanta gloria saprei ricordarmi;
trovar dolci le notti, i giorni brevi
alla mia gioventù ch’è ancora in fiore;
sorridere in cuor mio del mio dolore,
e guarirmi di te.

Ma tu lasciami, tu che nulla sai
farmi che adesso una viltà non sia.
Senza volgerti segui la tua via,
fin che un mesto ricordo in me sarai.

Trieste
In questi anni si precisa un altro grande tema della poesia di Saba: Trieste.
Saba ama profondamente la sua città, una città  con una scontrosa grazia, con le sue vie strette e oscure, che si inerpicano verso il monte lasciandosi alle spalle il mare, le navi e i velieri ormeggiati al porto, gli odori, la folla del mercato, la prostituta e il marinaio.
Trieste pag. 386 del libro di testo
Città vecchia pag. 388 del libro di testo

 

Ricomposto il dissidio familiare, fra il 1913 e il 1915 soggiorna a Bologna, scrive i versi della raccolta La serena disperazione.
Il garzone con la carriola
E’ bene ritrovare in noi gli amori
perduti, conciliare in noi l’offesa;
ma se la vita all’interno ti pesa
tu la porti al di fuori.

Spalanchi le finestre o scendi tu
tra la folla: vedrai che basta poco
a rallegrarti: un animale, un gioco,
o, vestito di blu,

un garzone con una carriola,
che a gran voce si tien la strada aperta,
e se appena in discesa trova un’erta
non corre più, ma vola.

La gente che per via a quell’ora è tanta
non tace, dopo che indietro si tira.
Egli più grande fa il fracasso e l’ira
più si dimena e canta.

Vive  a Bologna fin quando torna sotto le armi per lo scoppio della prima guerra mondiale. Fervente interventista, sentiva la guerra come una necessità per la costruzione di una nuova Europa: fu soldato ma non combattente, perché non venne mandato al fronte e visse questo fatto come un’umiliazione. In questo periodo accanto al complesso del non combattente sviluppò la convinzione che la poesia, nella comune tragedia, non può far sentire la sua voce: perciò le sue poesie di guerra sono così poche.
Da Poesie scritte durante la guerra
La stazione
La stazione ricordi, a notte, piena
d’ultimi addii, di mal frenati pianti,
che la tradotta in partenza affollava?
Una trombet6ta giù in fondo suonava
l’avanti;
ed il tuo cuore, il tuo cuore agghiacciava.

Dopo la guerra, torna a Trieste dove apre una libreria antiquaria, con l’aiuto di zia Regina. Questa attività lo portò spesso  fuori Trieste in viaggi a Milano, Roma, Firenze, dove potè stringere amicizie e farsi conoscere come poeta, anche se in una ristretta cerchia letteraria, e gli diede l’indipendenza economica necessaria per dedicarsi con serenità alla poesia. La libreria diventa anche un luogo di ritrovo per scrittori e artisti.
Nel 1920 nascono  Cose leggere e vaganti.

 

Ritratto della mia bambina
La mia bambina con la palla in mano,
con gli occhi grandi colore del cielo
e dell’estiva festicciola:”Babbo
– mi disse – voglio uscire oggi con te”.
Ed io pensavo: Di tante parvenze
che s’ammirano al mondo, io ben so a quali
posso la mia bambina assomigliare.
Certo alla schiuma, alla marina schiuma
che sull’onde biancheggia, a quella scia
ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde;
anche alle nubi, insensibili nubi
che si fanno e disfanno in chiaro cielo;
e ad altre cose leggere e vaganti.

Nel 1921  pubblica L’amorosa spina e la prima edizione del Canzoniere.
Da L’amorosa spina

Sento che in fondo ai miei pensieri, a queste re beate e meste,
sei tu, bambina.

Sei tu Chiaretta, che non son due anni,
non più brutta, non bella
più d’ogni altra monella,
in corti ancora sgraziati panni
ti s’incontrava per via, dalla mamma
per il pane mandata ed il carbone.
Ora sai sola quali a te son buone
cose: sul braccio reggi la borsetta,
chiudi in quella lo specchio, giovanetta
tu dai limpidi seni. E c’è lì dentro,
c’è quasi un cuore: uccelletto che a prova
canta un’antica e nuova
sua canzoncina.
Nel 1923 esce la raccolta Preludio e canzonette

Il poeta (canzonetta n°11)
Io non so amare,
io non so fare
bene che questa cosa,
cui dava a me la vita dolorosa
unico scampo.

Io dico l’arte
d’incider carte
di difficili versi,
che spesso stanno tra lor come avversi
nemici in campo.

Quando più dolce
la rima  molce
l’orecchio, e quando pare
che della canzonetta il vago andare
segua d’amica;

ahi che nessuno,
fuor di me e d’uno
ne sa il prezzo in dolore.
Chi beve il vino, e dell’agricoltore
sa la fatica?

Per questo bene
di quante pene
devo regger l’assalto!
Muovere audace, trar rapido un salto
fuor della rete.

Ardito e scaltro,
per far non altro
che la mia buona guerra,
quante forze ho d’abbatter sulla terra,
e in me secrete!

Campar la vita
con l’infinita
pena di rei negozi;
e dar la mia giornata per gli ozi
aspri d’un’ora.

E tanto in cuore
aver d’amore
da dire : Tutto è bello;
anche l’uomo e il suo male, anche in me quello
che m’addolora.

 

In questi anni la vita di Saba è serena: la libreria, la famiglia, le conversazioni al caffè e, soprattutto, la poesia. Il suo nome comincia ad acquistare qualche notorietà: le Fughe suscitano poi un vivo interesse intorno a lui.
Con il 1928 ritornano momenti difficili: una crisi nervosa più grave delle altre nell’inverno gli impedisce di scrivere, di parlare con gli amici, di occuparsi di letteratura. Riprense a parlare di sé solo nel settembre e confida ad un amico di aver iniziato una cura psicanalitica con Edoardo Weiss. La raccolta Il piccolo Berto
Riporta ancora in vita le figure dell’infanzia, per collocarle in una nuova trama, terapeutica e liberatoria.
Nel 1934 esce Parole, che segna una tappa fondamentale nella sua poesia, di essa fanno parte Cinque poesie per il gioco del calcio.
Goal a pag. 393 del libro di testo
A questo volume segue un lungo periodo di silenzio, dovuto a due cause molto diverse tra loro: da un lato l’affermarsi dell’Ermetismo, rispetto al quale si sente isolato, dall’altro le leggi razziali.
Le leggi razziali del 1938  lo costrinsero a lasciare Trieste, dopo aver affidato alla moglie e all’amico Carlo Cerne ( Carletto) la libreria. Si recò a Parigi, dove non si sentiva al sicuro e non riuscì ad ambientarsi, tornò in Italia, prima a Roma, dove risiedeva la figlia, poi a Firenze: Qui rimasse nascosto fino all’arrivo degli Alleati, trasferendosi, per undici volte, da un’abitazione all’altra, presso amici. Le condizioni difficilissime non gli preclusero la scrittura: in clandestinità portò a termine alcune poesie che faranno parte della sezione 1944, in cui compare Teatro degli Artigianelli, uno dei testi più noti di Saba. (pag.394 libro di testo)
Dopo la Liberazione tornò a Trieste, presso la moglie, ma era affranto e provato. Rimaneva intatta però la sua volontà creativa e, grazie anche all’appoggio della famiglia, riprese a scrivere: è del 1944 il  volumetto Ultime cose.
Nel 1945 pubblica a Torino una nuova edizione del Canzoniere , una terza nuovamente riveduta, è del 1957.
Nel 1946 riceve il premio Viareggio, nel 1951 quello dell’Accademia dei Lincei, nel 1953 la laurea in lettere Honoris causa dall’università di Roma. Nello stesso anno esce il volume Uccelli – Quasi un racconto: qui il ripiegamento su di sé raggiunge il massimo. Nel teatrino privato delle gabbie su cui il poeta si china per ascoltare, nutrire, rimproverare, come una madre i suoi figli è madre e figlio, prigioniero e gabbia, vecchio e bambino, nella consapevolezza che la vita non accetta cure.
Ammalato, aveva quasi perso l’uso delle gambe, ( era stato anche in clinica a Roma), Rimane gravemente turbato da una grave malattia della moglie viene ricoverato d’urgenza all’ospedale di Trieste, dove porta a termine le Sei poesie per la vecchiaia.

Il poeta e il conformista
Come t’invidio,amico! Alla tua fede
saldamente ancorato, in pace vivi
con gli uomini e gli dei. Discorri scrivi
agevole, conforme volontà
del tuo padrone. In cambio egli ti dà
pane e, quale sua cosa, ti accarezza.
Arma non ti si appunta contro; spezza
il tuo sorriso ogni minaccia. E passi,
tra gli uomini e gli eventi, quasi illeso.

V’ha chi solo si pensa ed indifeso.
Pensa che la sua carne ha un buon sapore.
Meglio – pensa – chi è in vista al cacciatore
passero che pernice.

Ultima
Guardo, donna, il tuo cane che adorato
ti adora. Ed io…se penso alla mia vita!
Variamente operai, se in male o in bene
io non si; lo sa Dio, forse nessuno.
Mai appartenni a qualcosa o a qualcuno.
Fui sempre (”colpa tua” tu mi rispondi)
fui sempre un povero cane randagio.

La vita diventa un inferno, soprattutto per l’aggravarsi della malattia di Lina, finchè convinto dalla stessa figlia e dal medico, si ritirò nella clinica Villa S. Giusto, a Gorizia, pochi giorni prima che gli morisse la moglie (25 novembre 1956). Saba esce dall’ospedale per l’ultima volta per il funerale della moglie e non scriverà più versi, fino alla morte, per infarto, il 25 agosto 1957 .

Epigrafe (1947 – 1948)
Epigrafe
Parlavo vivo a un popolo di morti.
Morto allora rifiuto e chiedo oblio.

 

Il Canzoniere

Il canzoniere, per dirla con Saba, è l’opera di tutta la sua vita. Il titolo, probabilmente è ispirato al Canzoniere di Tetrarca. In alternativa il poeta aveva pensato al titolo Chiarezza, in chiara polemica antinovecentista.
Quest’opera è una specie di romanzo psicologico in versi, che fa riferimento esplicito alla psicanalisi.
La più recente edizione è quella del 1965, pubblicata a Torino da Einaudi.
Il canzoniere è diviso in tre volumi, corrispondenti a tre parti:
- le poesie del periodo 1900 – 1920
- quelle del periodo 1921 – 1932
- quelle del periodo 1933 – 1938, con un’appendice di liriche dal 1948 al 1954.

 

VOLUME PRIMO
Poesie dell’adolescenza e giovanili (1900 – 1907)
Versi militari (1908)
Trieste e una donna (1910 – 1912)
La serena disperazione 81913 – 1915)
Poesie scritte durante la guerra
Tre poesie fuori luogo
Cose leggere e vaganti (1920)
L’amorosa spina (1920)

VOLUME SECONDO
Preludio e canzonette (1922 -1923)
Autobiografia (1924)
I Prigioni (1924)
Fanciulle (1925)
Cuor morituro (1925 – 1930)
Preludio e fughe (1928 – 1929)
Il piccolo Berto (1929 – 1931)

VOLUME TERZO
Parole (1933 – 1934)
Ultime cose (1935 – 1943)
1944
Varie
Mediterranee
Uccelli (1948)
Quasi un racconto (1951)
Sei poesie della vecchiaia (1953 – 1954)
Epigrafe (1947 – 1948)

Autore anche di numerose opere in prosa, Saba pubblicò nel 1948 Storia e cronistoria del canzoniere per
rettificare una Storia di Saba  pubblicata da Bruno Schacherl sulla rivista Letteratura. Perché ne sentì la necessità? Lo spiega proprio in quest’opera:
Perché gli artisti, anche quelli che hanno la più intima, profonda, giustificata coscienza del loro valore, sono così inconsolabili davanti all’insuccesso?.......L’opera d’arte è sempre una confessione; e, come ogni confessione, vuole l’assoluzione. Successo mancato equivale assoluzione negata. S’immagina quello che segue.

 

 

Temi
Il tema che si presenta come dominante è l’amore per la vita . il desiderio di cogliere la realtà in tutte le sue forme, assaporandola. La vita appare a Saba come un grande scenario in cui si svolge più spesso il dramma che non la commedia, ma egli sente il bisogno di viverla nella sua interezza. Perciò si accosta alla vita più quotidiana e comune, quella del popolo:soldati o contadini,marinai o clienti di osteria.
Ed è un amore che lo porta ad amare anche la natura: gli animali, gli alberi, perché essi fanno parte della nostra vita, spesso hanno un’immagine umana., sono spontanei, freschi, gioiosi, più dell’uomo stesso.
Per la spontaneità e la gioia il poeta spesso mette in scena i ragazzi e le fanciulle : essi, spesso mozzi, monelli, suscitano l’interesse di Saba perché sono la giovinezza, la vita che si affaccia alla vita. In essi trova un eco di sé, di qualcosa che egli vive come ricordo, con nostalgia. Le fanciulle hanno un’intera raccolta per sé: sono fanciulle alle quali Saba ha chiesto comprensione, simpatia, per le quali ha sognato (o vissuto) l’amore.
Saba cerca la vita anche nelle creature che gli sono più vicine: la moglie, la figlia. Lina è la figura femminile che domina nelle sua poesia, una donna che egli ha amato anche attraverso la figlia Linuccia , a cui sono dedicate poche liriche, ma disseminate in tutta l’opera, segno di un grande affetto.
Altro tema essenziale è Trieste : la città natale ha una costante presenza nel Canzoniere: piace al poeta, ma gli piacerebbe anche se non ci fosse nato. Il colore preferito di Saba è l’azzurro: mare e cielo di Trieste, che
ha innanzi a sé l’Adriatico selvaggio, aperto alle navi e ai sogni, ai marinai e ai poeti, a Ulisse/Saba. Tutta la città gli è cara: è un amore fisico, che si unisce a quello per la calda vita della città, crogiuolo di razze, dall’anima romantica così simile a quella del poeta.

 

La poetica

Vd. La modernità di Saba (di Luperini) pag. 389 – 90 del libro di testo
Quello che resta da fare ai poeti ( da Prose di Saba)pag. 381

 

Fonte: http://www.mlbianchi.altervista.org/umberto_saba.doc

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