Letteratura il realismo magico e la sua leggerezza

Letteratura il realismo magico e la sua leggerezza

 

 

 

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Letteratura il realismo magico e la sua leggerezza

1. REALISMO MAGICO

1.1. Una cronologia.

La storia della categoria letteraria del realismo magico è circondata da un’aura nebulosa, molte ambiguità intorno ad essa non sono mai state risolte. Troppo spesso autori e artisti che si sono appellati al realismo magico per categorizzarsi o per discuterne, non hanno prima speso tempo sulla chiara definizione di quest’espressione; cosicché ancora oggi essa si presta al fraintendimento, dati i confini troppo labili che stabilisce con altre categorie estetiche.

Il primo incontro con il termine realismo magico avvenne nel campo delle arti plastiche in Germania. Franz Roh, critico d’arte tedesco, coniò questa formula nel 1925 (Nach Expressionismus: Magischer Realismus: Probleme der neuesten europäischen Malerei) per definire una nuova corrente pittorica post-espressionista, nata come alternativa agli eccessi soggettivistici che caratterizzavano l’Espressionismo. Oggetti ordinari venivano, a partire da quel momento, dipinti da occhi meravigliati che intravedevano in essi l’aura di una nuova Genesi, come se provenissero da un mondo che sorgeva di nuovo – dopo l’Apocalisse espressionistico – intatto, innocente e magico. La nuova arte segnava quindi un ritorno dell’Oggetto, della mimesi. Ma una nuova e particolare intensità veniva adottata nell’approccio alla realtà: un’aura di magia avvolgeva questi oggetti comuni, quotidiani.
Il termine, prima di approdare sulle coste americane e diventare argomento di discussione di molti critici della letteratura ispanoamericana, venne tradotto in spagnolo da Ortega y Gasset, che pubblicò il saggio di Roh per la «Revista de Occidente» nel 1927 (Anno V, No XLVIII).
In quegli anni Bontempelli, autore italiano della prima metà del Novecento, scriveva sulla rivista «900» invocando la magia come principio comune per gli scrittori che aderivano con lui a quell’avventura Novecentista. Sempre Bontempelli impiegherà l’espressione “realismo magico” in una raccolta di suoi scritti e manifesti pubblicata nel 1938 e intitolata L’avventura Novecentista: Selva polemica. Dal Realismo Magico allo Stile Naturale. Soglia della terza epoca. Ma non vi è alcun riferimento alla fonte germanica della formula.
È curioso osservare che il  primo autore ad applicare la formula alla letteratura ispanoamericana fu Arturo Uslar Pietri nel 1948, che Bontempelli conobbe a Parigi e nel 1930 viaggiò in Italia. Anche Uslar Pietri in Letras y hombres de Venezuela (1948), non specificava la provenienza dell’espressione, diceva semplicemente che “lo que vino a predominar […] y a marcar su huella de una manera perdurable fu la consideración del hombre como misterio en medio de los datos realistas. Una adivinación poética o una negación poética de la realidad. Lo que a falta de otra palabra podría llamarse un realismo mágico.”
Una coincidenza aneddotica che fa intuire la possibilità che sia avvenuta una sorta di trasfusione letteraria tra due lingue molto simili tra loro, come l’italiano e lo spagnolo, un passaggio di una formula che non era ancora stata chiarita in ambito narrativo, solo era stata definita nell’ambito delle arti plastiche, dove del resto era stata coniata.
In questa breve cronologia aggiungerei un’ultima data, che il Luis Leal suggerisce in collegamento con l’affermazione di Uslar Pietri scritta poc’anzi: il 1949, anno in cui Alejo Carpentier, nel prologo al suo romanzo El reino de este mundo, usò per la prima volta il termine “real maravilloso”. Ora, non vi sono dati certi che testimoniano la lettura da parte di Alejo Carpentier del numero XLVIII della «Revista de Occidente». La cosa sicura è che, già prima del suo arrivo a Parigi nel 1928, l’autore cubano avesse sviluppato un profondo interesse per il fondatore della rivista, José Ortega y Gasset, e che i loro contatti intellettuali furono talmente intensi da portare Carpentier a scrivere parole come queste: “la Revista de Occidente, fue, durante años, nuestro faro y guía.[…] ¿Cuántos autores alemanes, ingleses, franceses; cuántos filósofos; cuántos historiadores del arte, conocimos gracias a ella? […] La influencia de Ortega y Gasset en el pensamiento, las orientaciones artísticas y literarias, de los hombres de mi generación, fue inmensa.” È dunque assai probabile che il suddetto numero intitolato proprio Realismo mágico. Problemas de la pintura europea más reciente, passò tra le mani di Alejo Carpentier.
Quest’ultimo e Uslar Pietri hanno in comune un’importantissima esperienza letteraria europea: la rivoluzione surrealista. Entrambi erano infatti presenti in quei caffè letterari dove il dibattito culturale si accendeva intorno al rinnovamento delle tecniche della scrittura; con loro, moltissimi altri scrittori e artisti sudamericani ed europei – Miguel Ángel Asturias, Rafael Alberti, Giorgio de Chirico, Enrico Donati. È da qui che dovrebbe partire dunque la nostra analisi, da qui e dagli spunti creativi che il Movimento Surrealista ha suggerito ai vari individui che ne hanno preso parte.
Detto ciò, bisogna sottolineare che gli scrittori ispanoamericani, nel giro di un decennio, presero le distanze dall’estetica di Breton, considerandola troppo artificiale e europea. Questi aveva di fatto aperto nuovi orizzonti, e aveva dato le possibilità e le armi per affrontare altri percorsi. Dice Uslar Pietri al riguardo: “en el fondo era un juego creador, pero sin duda un juego que terminaba en una fórmula artificial y fácil” . Si tratta di una risposta agli eccessi di un’estetica che calza stretta. Così come è stato per Bontempelli e i suoi della rivista «900», che si opponevano al regionalismo del movimento Strapaese e alle esorbitanze futuriste, e per i post-espressionisti di cui parla Roh.
Potremmo quindi azzardarci a dire che il realismo magico è la categoria estetica nella quale sono confluite una serie di reazioni alternative a movimenti artistici che si percepivano come troppo costruiti e artificiosi. Forse anche da questo deriva la nebulosità che circonda questo modo artistico, per il timore dei suoi protagonisti di trasformarsi in burocrati dell’eccesso.

 

1.2. I caratteri fondamentali del realismo magico e le sue contaminazioni con altri modi letterari.

Come detto poc'anzi, il realismo magico è una categoria estetica che è stata vittima della mancanza di una vera e propria linea guida teorica. Una confusione provocata anche dalla compenetrazione nel realismo magico di altri modi letterari come quello fantastico o quello dell’extraño.
Molti autori classificati come magico realisti sono accomunati da una penetrazione profonda nella realtà che rende la loro Weltanschaung più poetica e complessa. La realtà quindi si presenta loro non solo nell’aspetto sensoriale e oggettivo delle cose, ma anche nel suo lato occulto, ambiguo e misterioso.
La critica letteraria si è dedicata per molti anni a rintracciare una descrizione chiara e completa di ognuno dei vari modi letterari che hanno a che fare con il sovrannaturale, che accidentalmente si sovrappongono e confondono. Riproporremo qui alcuni dei punti più importanti toccati dai vari autori che si sono avvicinati a questa problematicità.
Nel descrivere il fantastico è inevitabile imbattersi nel saggio di Tzvetan Todorov, Introduction à la littérature fantastique (1970). Nella sua dettagliatissima opera, egli scrive che il “fantastico è l’esitazione provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale.” Questo dubbio deve essere instillato dal narratore e dalla sua libertà immaginativa con la collaborazione dei protagonisti e deve lasciare il lettore nell’incertezza davanti al fenomeno che sconvolge le leggi fisiche da lui sempre ritenute veritiere.
Quando la manifestazione del sovrannaturale è seguita da una spiegazione razionale del narratore, alla fine del racconto, ci troviamo invece davanti al dominio dell’extraño, nel quale il dubbio sostanziale del fantastico viene dissipato riconducendo l’elemento strano al mondo naturale.
Altra possibile manifestazione del sovrannaturale, dice Todorov, è quella contenuta nel meraviglioso, davanti al quale, però, non vi è una particolare reazione emotiva, né da parte dei personaggi, né da parte del lettore. L’attitudine stessa del narratore è di assoluta impassibilità davanti agli eventi che vengono descritti. Questa assenza della sorpresa è dovuta al fatto che il mondo narrato dal meraviglioso è nel suo insieme al di fuori delle leggi fisiche. Il lettore finisce quindi per accettare come naturali fatti che nel suo mondo sono sovrannaturali. Il concetto del dubbio sparisce, non c’è sorpresa, e il lettore si fa trasportare in un nuovo cosmo. Si tratta, per ritornare alla definizione di Roh del realismo magico, di un nuovo tipo di oggettività che, nella sua incursione nella realtà quotidiana, sfiora e fa riemergere misteri insospettati. Si può vedere come esista una grande corrispondenza tra il realismo magico di Roh e il meraviglioso di Todorov, e che quest’ultimo è solo un ingrediente del primo.
Il realismo magico deve molto anche alla strada percorsa dalla categoria letteraria del fantastico; infatti si possono trovare tra i due modi alcune somiglianze in partenza che poi assumono, nello svolgimento narrativo, percorsi diversi. Il fantastico rappresenta l’esitazione provata da chi conosce soltanto le leggi naturali, di fronte ad un avvenimento apparentemente sovrannaturale; è un’intrusione repentina del mistero nel quadro dell’heimlich. Nel realismo magico, invece, ciò che è prodigio, strano o anormale fa parte della realtà e sottostà alle sue leggi. “En vez de presentar la magia como si fuera real, el narrador nos presenta la realidad como si fuera mágica” .
Prende posizioni diverse sulla teoria del fantastico Rosalba Campra nel suo Territori della finzione . L’autrice con “fantastico” intende l’azione, il processo che porta due ordini, originariamente inconciliabili, ad un contatto in cui però nessuno dei due trionferà sull’altro; vi sarà anzi una sovrapposizione, un incrocio che porta alla “sovversione assoluta del concetto di realtà”. Il risultato di questo procedimento è di trasgressione radicale, trasgressione dei limiti delle categorie di partenza, come tempo, spazio e essere.
Oltre ai concetti già visti da Todorov, l’autrice sviscera la categoria estetica con gli occhi del Ventunesimo secolo osservando che gli elementi sovrannaturali del “fantastico tradizionale” – si parla in particolar modo di elementi tematici come vampiri, fantasmi, etc. –, che provocavano lo straniamento e il senso del dubbio nel lettore dei secoli precedenti, ora non sono più così efficaci. L’arma che lo scrittore fantastico userà sarà il linguaggio: creando pericoli e insidie nella mente del lettore; sfruttando i silenzi incolmabili che causano nuovi spazi di smarrimento e senso di vertigine, giocando sugli squilibri tra detto-non detto.
Paradossalmente, l’evento aumenta la sua credibilità proporzionalmente all’ignoranza di personaggio, narratore, lettore. […] Il confine tra fantastico e meraviglioso, tra  fantastico e realismo si disegna su questo spazio bianco che il lettore potrebbe riempire con la sua libertà. Realismo e meraviglioso non implicano aperture, formano entrambi parte di paradigmi nei quali ogni elemento ha un posto nel suo schema.

E qui mi permetto di aggiungere che il realismo magico, in effetti, potrebbe condividere questa caratteristica con il realismo e il meraviglioso.
Attenendoci alla panoramica appena descritta, emergono due principali caratteri che possono assegnare ad un racconto lo statuto di “magico realista”: la presenza di un elemento strano o meraviglioso che viene accettato dai personaggi e dal lettore come se fosse un evento ordinario, e la narrazione di esso come se fosse un elemento in più della realtà. Si tratta di una sorta di democracia ontológica nella quale l’autore intreccia reale e irreale, miti, leggende e storia senza che sussistano chiare frontiere.
Nel fantastico, invece, vi è una dualità di piani ontologici che si contrappongono. La storia fantastica contiene l’asserzione di un modo di essere – quello del lettore – attraverso il quale ci vengono presentati dei fatti percepiti come alterazioni della norma prestabilita. Si crea quindi un’atmosfera in diretto contrasto con il mondo della normalità che lo stesso personaggio arriva a percepire.
Invece, il realismo magico non copia la realtà – caratteristica tipica del realismo – né la sfigura – peculiarità del surrealismo – né la sostituisce – carattere del meraviglioso. Il realismo magico capta il mistero che palpita nelle cose e non intende suscitare emozioni – obbiettivo della letteratura magica –  ma le vuole esprimere. Il suo spazio letterario oscilla, si barcamena tra realismo – cioè il nostro paradigma –, il fantastico – con la sua incertezza tra reale e irreale –, ed il meraviglioso – dove tutto è irreale senza intaccare il nostro paradigma.
Un’ultima distinzione va fatta, e riguarda il concetto di real maravilloso, utilizzato da Carpentier. Secondo l’autore cubano, la realtà americana è di per sé meravigliosa e solo se gli scrittori hanno fede nel reale meraviglioso americano riusciranno ad esprimerlo nella letteratura; “[…] Para empezar, la sensación de lo maravilloso presupone una fe. Los que no creen en santos no pueden curarse con milagros de santos.” Da questo, possiamo intuire che la nozione di real maravilloso a cui Carpentier pensava, era un’attitudine degli scrittori verso la realtà sudamericana. Questa fede-attitudine avrebbe agevolato gli autori ispanoamericani ad una capacità visiva molto più poetica; avrebbero cioè guardato la loro terra e i suoi abitanti con occhio più attento. Ma questa formula si allontana dal concetto di “modo letterario” o di “categoria estetica” che caratterizza invece il realismo magico. Il real maravilloso non è un’estetica ma piuttosto riguarda un modo di concepire la realtà.
Il realismo magico penetra nell’anima delle cose toccandone la loro enigmaticità. Vi è una doppia tensione: da una parte la dissoluzione della realtà nel magico, dall’altra la volontà di rappresentarla con accuratezza. Per questo motivo, si possono trovare delle connessioni tra mito e realismo magico. Nel momento in cui lo scrittore magico realista si deve confrontare con il soggetto della narrazione, sceglierà di presentare il mondo come appena generato appoggiandosi agli spunti dei vari miti. L’autore si appella alla realtà circostante e alle leggende che sono parte integrante del quotidiano. Il leggendario accade come parte della realtà e il meraviglioso fa sì che l’uomo e la natura siano una cosa sola; le leggi di questi due microcosmi devono essere rispettate nella loro integrità.
Nelle narrazioni magico realiste, il tempo non avanza in maniera lineare. Si tratta invece di un tempo circolare, come quello della natura, come il ciclo delle stagioni: il tempo dell’eterno ritorno in cui lo schema vita-morte-vita è in continuo svolgersi. È la coscienza mitica che rende possibile questo eterno circolo temporale dove, in ogni momento, quello che è già successo potrebbe riaccadere.
Come i territori mitici, anche i luoghi dove trascorrono le vicende magico realiste sono dotati di un’aura di mistero e di sacralità: villaggi, isole circondati da fiumi, foreste o deserti, il che determina il suo isolamento. Una volta all’interno di questo spazio sacro, il personaggio si ritrova a dover obbedire a nuove leggi che sovvertono qualsiasi tipo di ordine precostituito: “desaparecen las fronteras entre la vida y la muerte, se neutralizan las diferencias entre lo animado y lo inanimado, se presenta lo verosímil como inverosímil y la naturaleza puede convertir sus criaturas en hombres y a los hombres en criaturas.”


Lungo questo capitolo, mi rifarò alle teorie di due dei più grandi critici del realismo magico ispanoamericano: Angel Flores (Magical Realism in Spanish American fiction, in «Hispania», Vol. XXXVIII, No. 2, 1955, pp. 187-192) e Luis Leal che, con il suo saggio El realismo mágico en la literatura hispanoamericana (in «Cuadernos Americanos», Año XXVI, Vol. CLIII, No. 4, 1967, pp. 230-235), ha posto una serie di obiezioni al lavoro del suo collega. I due professori hanno sviluppato due teorie in parte contrastanti e in parte coincidenti, si sono criticati vicendevolmente sulla scelta degli autori ispiratori del movimento. Non è utile però alla nostra ricerca soffermarsi sulle differenze che sussistono tra il lavoro di uno e dell’altro; cercheremo invece di prendere alcuni punti da loro sviluppati per inserirli nella nostra analisi in modo che risulti il più completa possibile.

EMIR RODRIGUEZ MONEGAL, Realismo Mágico versus literatura fantástica: un dialogo de sordos, in Otros mundos otros fuegos, Fantasía y realismo mágico en Iberoamérica, a cura di DONALD YATES, Pittsburgh, Latin American Studies Center of Michigan State University, 1975, p. 29.

MASSIMO BONTEMPELLI, L'avventura novecentista. Selva polemica (1926-1938); dal "realismo magico" allo "stile naturale". Soglia della terza epoca, Firenze, Vallecchi, 1938.

Citato in EMIR RODRIGUEZ MONEGAL, op. cit., p. 29.

ALEJO CARPENTIER, Letra y solfa, «El Nacional», Caracas, 20 ottobre, 1955, consultato in  http://revistas.ucm.es/ghi/02116111/articulos/QUCE8585120127A.PDF, il 4/06/2010.

Citato in JOSÉ MANUEL CAMACHO DELGADO, Comentarios filológicos sobre el realismo mágico, Madrid, Arco/Libros, 2006, p. 17.

Si cfr. SALVATORE GUGLIELMINO, HERMANN GROSSER, Il sistema letterario, Guida alla storia letteraria e all’analisi testuale. Novecento, Milano, Principato, 1994, pp. 550-551.

TZVETAN TODOROV, La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, 1977, p. 26.

Informazioni tratte da Ibid., p. 55.

Informazioni tratte da REMO CESERANI, Il fantastico, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 50, 52.

JOSÉ MANUEL CAMACHO DELGADO, op.cit., p. 20.

ROSALBA CAMPRA, Territori della finzione, Roma, Carocci, 2000.

Ibid., p. 97.

ARTURO A. FOX, Realismo Mágico: algunas consideraciones formales sobre su concepto, in Otros mundos otros fuegos, Fantasía y Realismo Mágico en Iberoamérica, cit., p. 55.

Informazioni tratte da EMIL RODRIGUEZ MONEGAL, op. cit., p. 29.

ALEJO CARPENTIER, Prólogo a El reino de este mundo, Santiago de Chile, Editorial Universitaria, 2006, consultato il 30 novembre 2009 in http://books.google.it/books?id=l9zrUqFkxosC&dq=ALEJO+CARPENTIER,+El+reino+de+este+mundo&printsec=frontcover&source=bn&hl=it&ei=1VELTKO_J5OQOPOw8NAP&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum=4&ved=0CC0Q6AEwAw#v=onepage&q&f=false, p. 11.

JOSÉ MANUEL CAMACHO DELGADO, op. cit., p. 23.

2. LA MAGIA NARRATA IN DUE CONTINENTI

 

2.1. In Italia.

Comprese tutte le peculiarità di un modo letterario difficile da categorizzare e confondibile con altri a lui contigui, possiamo osservare due delle aree di diffusione del realismo magico: l’Italia e il Sud America.
Il caso italiano è molto breve: Massimo Bontempelli è, come già detto, il primo autore italiano a fare uso di questa nuova formula estetica sulla rivista «900», redatta in francese per darle un tono più cosmopolita ed europeo. L’obbiettivo del suo fondatore – rifacendosi ai principi di un’altra rivista di taglio molto simile, «Solaria»– era infatti quello di aprirsi alle contemporanee esperienze del continente in polemica con i provincialismi dello Strapaese, avversa corrente intellettuale italiana. Lo sguardo era rivolto alla maggiore letteratura europea: Marcel Proust, Franz Kafka, James Joyce e Virginia Woolf.
Sulle pagine di «900» e su scritti posteriori alla rivista, Bontempelli teorizzava modalità e tecniche narrative da lui definite di “realismo magico”, rifacendosi anche al gusto che aveva appreso presso «Solaria», tendente ad una narrativa trasfigurante, che sottolineasse lo scarto tra dato reale e rappresentazione letteraria. Si trattava di realizzare un’arte “che rifiuta la realtà per la realtà come la fantasia per la fantasia, e vive del senso magico scoperto nella vita quotidiana degli uomini e delle cose”. Sempre nella sua Avventura Novecentista si può avvertire un certo impulso passatista e tradizionalista, quando parla dell’arte italiana del Quattrocento, che ebbe una grandissima influenza nei pittori metafisici: “in nessun’altra arte troviamo nel passato parentele più strette che con quella pittura, in nessuna vediamo così in pieno attuato quel realismo magico che potremmo assumere come definizione della nostra tendenza”.
Bontempelli sta reagendo agli eccessi del Futurismo, come poco prima avevano fatto i pittori descritti da Roh nei confronti dell’Espressionismo. Le due forme della stessa reazione estetica accompagnarono al potere due simili correnti politiche: l’Oggettivismo tedesco degenerò nell’arte ufficiale del regime nazista, mentre il Realismo Magico rappresentò, per Bontempelli, almeno fino al 1938, il modo letterario che potesse sostenere al meglio la dittatura fascista.
In Italia sono comunque pochi gli autori che possono essere avvicinati alla categoria di magico realisti – Tommaso Landolfi, Dino Buzzati e Alberto Savinio. Il realismo magico rimane un filone della narrativa italiana con poco esito e pochissima attenzione da parte della critica. Forse quest’assenza in Italia deriva dal fatto che non ci siano mai state esperienze precedenti di letteratura legate alla sfera dell’irrazionale, mentre nel resto d’Europa la fase romantica della letteratura ha permesso una maggiore sensibilizzazione su modalità connesse col fantastico. È solo verso la fine dell’Ottocento che una certa produzione soggettivistica trova espressione nella nostra narrativa. “Nel Novecento questo filone del fantastico è […] una sorta di fiume carsico dalle imprevedibili emersioni.”

 

2.1.1. Dino Buzzati e la cronaca della magia.

Dino Buzzati, uno dei primi autori italiani ad avere indagato spazi tra il meraviglioso e il fantastico, è stato duramente criticato per il suo assenteismo nella scena pubblica durante il fascismo in Italia. Egli svolgeva la sua attività di giornalista e scriveva racconti e romanzi imputati di disinteresse per il contesto storico-sociale del suo paese: egli aveva infatti optato per il divorzio dalla realtà a favore del fantastico. È proprio questa la protesta silenziosa di Buzzati contro un mondo che oscura i sogni e il desiderio, una rivolta individualista e per questo così poco compresa.
Con la sua narrativa, Buzzati scavalca il quotidiano e schiude al lettore le porte dell’altrove e dell’ignoto. Nel racconto “Il Babau”, è racchiusa tutta la tensione che l’autore ha tentato di far trapelare dalle sue righe: “galoppa, fuggi, galoppa superstite fantasia. Avido di sterminarti, il mondo civile ti incalza alle calcagna, mai più ti darà pace”.

Nato nel 1906 a San Pellegrino, nei pressi di Belluno, Buzzati crebbe in un contesto familiare di alta borghesia, data la discendenza della madre da una famiglia nobile di Venezia. Il padre era un famoso giurista e, al contempo, docente di diritto privato presso la Bocconi di Milano; per questo, la famiglia Buzzati alternerà periodi invernali nella casa nel capoluogo lombardo, a soggiorni estivi ai piedi delle Dolomiti bellunesi. I due luoghi saranno fulcri letterari fondamentali per il futuro scrittore che, in svariate opere, li trasformerà negli ambienti desolati e angoscianti che tanto lo hanno reso famoso.
Poco si sa della vita di Buzzati nell’età infantile, sennonché dimostrava di essere un bambino molto capace: era in grado di suonare pianoforte e violino a soli otto anni. Nel 1921 si iscrisse al Liceo Parini di Milano, uno dei più stimati del tempo. Per non tradire poi le volontà familiari, affrontò anch’egli gli studi giuridici. Poco prima di laurearsi, entrò come praticante al “Corriere della Sera”, iniziando la carriera giornalistica che lo accompagnerà per quarant’anni, saltando da un incarico ad un altro, arrivando poi a quello di redattore capo. Proprio la sua esperienza da cronista, di mediatore tra l’avvenimento e il pubblico, ha fatto di Buzzati lo scrittore che tutti noi conosciamo, essenziale, distaccato e poco incline all’artificio linguistico. Nel 1922 Mussolini raggiunse il potere senza troppa difficoltà, e poco impiegò ad imporre una censura sulla carta stampata (1924), limitando non solo la libertà di parola, ma anche la nascita di qualsiasi tipo di movimento intellettuale che non si prostrasse alle nuove leggi fasciste. In questo clima di prigionia della parola, Buzzati si affacciò alla scrittura creativa, ma senza prendere una posizione pubblica pro o contro la dittatura; si dissociò anche dall’ambiente intellettuale del suo tempo, appartandosi da temi e suggerimenti della sua contemporaneità. Molto più influenti furono per lui autori stranieri, da Poe a Flaubert, passando per Kafka e von Hoffmannsthal; tali letture gli valsero l’epiteto di “scrittore mitteleuropeo”. Un personaggio ai margini della società letteraria dunque, che “si astiene istintivamente da influenze”.
Nel 1933 apparve Bàrnabo delle montagne, considerato dalla critica come archetipo del modo narrativo del sogno, dell’altrove, delle paure remote che riemergono dall’immaginario infantile rielaborate dall’inconscio. Si notano, nelle pagine del Bàrnabo, chiari rimandi a saghe e leggende nordiche: Buzzati stesso dichiarò il suo interesse per le avventure di Andersen e dei Grimm. Ci sarà poi Il segreto del bosco vecchio (1935), con il quale egli approfondì la sua passione per le leggende antropomorfe, i miti e le avventure visionarie. Il bosco vecchio è il bosco sacro dove affonda le sue radici l’infanzia dello scrittore. Arrivò l’anno 1939, e Buzzati partì come inviato speciale del “Corriere della Sera” per l’Eritrea. Sarà in questo deserto naturale e umano che l’autore completerà Il deserto dei Tartari, dopo un lavoro durato quasi sette anni. Ideale speranza e volontaria accettazione della morte, l’attesa angosciosa e la fuga del tempo, solitudine e impossibilità di sfuggire al proprio destino: questi i temi del capolavoro buzzatiano, che si svolge interamente in una unità di tempo e luogo. Nel deserto le vie di fuga sono inesistenti e il protagonista, Drogo, attende l’arrivo dei Tartari per un tempo che pare enormemente dilatato; i Tartari però arriveranno solo quando l’uomo sarà troppo vecchio per combatterli, e si ritirerà nella fortezza militare per le sue cattive condizioni fisiche.
L’unica verità che emerge dai primi testi di Buzzati è la certezza della morte, e l’uomo non può far altro che attenderla, senza troppe illusioni di allontanarla. I personaggi dei suoi scritti sono vittime del destino, vittime delle situazioni che li circondano; si possono addirittura definire “personaggi anonimi e intercambiabili, proiettati in un mondo incerto e assurdo” , degli antieroi moderni insomma. Nel ’42 apparve I sette messaggeri, prima raccolta di racconti non precisamente databili: la quotidianità è qui rappresentata e trasfigurata nelle vesti dell’insolito con le tinte del mistero.
Dopo la guerra Buzzati seppe sfruttare appieno l’abilità di costruire brevi trame cariche di suggestione e, dando spazio alla sua disposizione fiabesca, propose, con una prosa scorrevole e quasi giornalistica, racconti che ottennero una conferma da parte del pubblico di un’Italia che tanto aveva sperato in un rinnovamento politico, ma che mai avverrà completamente.
Seguirà una fittissima attività letteraria, attraverso svariate modalità narrative. Mantenne un personale primato espressivo con le raccolte Sessanta racconti (1958) e Paura alla Scala (1949). Esse trattano i suoi temi più cari: l’angoscia e la suggestione tipica del fantastico seguono con coerenza la struttura di cronaca tipica dell’incedere letterario dell’autore. Si dedicò poi a sperimentazioni sceniche, una raccolta di aforismi, alcuni testi teatrali – tra i quali possiamo citare Un caso clinico (1953) e La fine del borghese (1968); e ancora, Poema a fumetti (1969), metà romanzo e metà illustrazioni, incentrato sul mito di Orfeo e Euridice.
Intanto, fuori dall’Italia, in una Francia che sempre lo amò di più, un personaggio di rilievo come Albert Camus tradusse Il deserto dei Tartari. Gli anni Sessanta furono significativi per l’autore bellunese sia dal punto di vista letterario – con la pubblicazione del romanzo Un amore (1963), delle raccolte di racconti Il colombre (1966) e La boutique del mistero (1968), oltre al già citato Poema a fumetti – che da quello personale: nel 1966, infatti, Buzzati si sposò con Almerina Antoniazzi.
All’inizio degli anni Settanta la sua salute cominciò a peggiorare; nel 1971 entrò nella clinica La Madonnina di Milano, dove si spense il 28 gennaio 1972. Egli fece comunque in tempo a vedere il volume Le notti difficili, una raccolta dei suoi elzeviri più significativi pubblicati sul “Corriere”: lì vi si trovano una raccolta “dei cosiddetti residui diurni del suo lavoro di giornalista, trasportati, col favore delle tenebre (“notti difficili”, appunto), alle soglie dell’incantesimo”.

 

2.2. In Sudamerica.

Alquanto differente è la reazione ispanoamericana davanti alle premesse del realismo magico. Alcuni autori arrivarono a definirlo un genere esclusivo del Sudamerica, insistendo sulla condizione privilegiata di una terra dove, in alcuni dei suoi anfratti, la leggenda e la superstizione riescono ancora a sconfiggere l’avanzata della contemporaneità. Tentiamo quindi di comprendere la ragione di questa diffusione così ingente del modo magico realista.
Rifacendomi alle parole di Miguel Ángel Asturias, per lui e per gli altri autori ispanoamericani presenti a Parigi, il surrealismo rappresentò l’incontro con la coscienza indigena e americana che si era depositata nell’inconscio troppo a lungo. Grazie alle innovazioni tecniche e tematiche del surrealismo, la letteratura ispanoamericana si liberava dalle connotazioni regionaliste tipiche dell’Ottocento e del Novecento per approdare ad una visione completamente nuova del mondo che la circonda. Quindi lo scrittore non deve inventare mondi immaginari e fantastici, deve solo riportare la sua realtà e renderla credibile al lettore. Lo stesso Gabriel García Márquez sottolinea questa situazione esclusiva dell’America Latina, aggiungendo che il vero problema è la mancanza di parole per descrivere un mondo tanto incredibile e smisurato.
Dopo il raggiungimento di una indipendenza intellettuale anche grazie alle innovazioni apportate dal movimento surrealista, gli scrittori ispanoamericani si distanziano da un’estetica considerata troppo europea e artificiosa. Dice il già citato Uslar Pietri al riguardo:

Lo que se proponían aquellos escritores americanos era completamente distinto. No querían hacer juegos insólitos con los objetos y las palabras de la tribu, sino, por el contrario, revelar descubrir, expresar en toda su plenitud inusitada esa realidad casi desconocida y casi alucinatoria que era la de la América Latina para penetrar el gran misterio creador del mestizaje cultural.

 

Alejo Carpentier, nel prologo de El reino de este mundo (1949), sostiene che i nuovi impulsi creatori rivendicati dai surrealisti e i nuovi mondi irrazionali suscitati dalla scrittura automatica diventano, una volta assunti come linguaggi unificanti del movimento, mere formule scientifiche che ricadono nella vacuità dell’artificio. Sempre secondo l’autore cubano, l’uomo europeo a stento riesce a comprendere la magia del reale, avendo dimenticato appunto come il reale possa risuscitare sentimenti atavici legati a mitologie, tabù, credenze esoteriche ed eroi millenari. Dal momento che “la sensación de lo maravilloso presupone una fe”, solo un popolo così legato a leggende precolombiane, a lotte ancestrali tra colonizzatori e colonizzati e a fatti storici quasi incredibili era in grado di raccogliersi intorno a tale modo letterario. Aggiunge Carpentier che “América está muy lejos de haber agotado su caudal de mitologías” e che il merito va dato alla mescolanza di culture, quella indigena, quella africana e anche quella degli invasori europei.
Camacho Delgado afferma che “el realismo mágico es la expresión literaria de la conciencia mítica en Hispanoamérica” . In effetti lo spazio sudamericano funge come da calamita per tutti i caratteri leggendari che amplificano la loro portata nei villaggi ispanoamericani, dove vi è una religiosità sincretica profonda; infatti si adorano ancora divinità precolombiane o africane nascoste dietro il Dio cristiano. E dove persino gli angeli vengono rappresentati in maniera inusuale; ne Los pasos perdidos (1953) di Alejo Carpentier, il personaggio-narratore, un musicista poco soddisfatto della sua vita, intraprende un viaggio esistenziale all’interno della foresta amazzonica, alla ricerca di alcuni strumenti musicali primitivi. Incontra ad un certo punto una rappresentazione molto particolare:

un ángel y una maraca no eran cosas nuevas en sí. Pero un ángel maraquero, esculpido en el tímpano de una iglesia incendiada, era algo que no había visto en otras partes. Me preguntaba ya si el papel de estas tierras en la historia humana no sería el de hacer posibles, por primera vez, ciertas simbiosis de culturas.

E noi sappiamo che nella chiesa di Calamarca (Bolivia) ci sono degli affreschi settecenteschi che rappresentano una serie di Arcángeles con arcabuz (figura sotto) che sono allo stesso tempo falconi. Questi, nella cultura incaica, erano la personificazione dei defunti, protettori della casa che li ospitava, ma con le loro fattezze angeliche e le vesti così sontuose e ispaniche risultano un esempio perfetto della compresenza di culture diverse.


MASSIMO BONTEMPELLI, op. cit., citato in EMIR RODRIGUEZ MONEGAL, op. cit., p. 31.

Ibid.

SALVATORE GUGLIELMINO, HERMANN GROSSER, op. cit. , p. 552.

DINO BUZZATI, Il babau, in ID., Le notti difficili, Milano, Mondadori, 2008, p. 8.

CLAUDIO TOSCANI, Guida alla lettura di Buzzati, Mondadori, Milano, 1987, p.22.

Ibid., p. 32.

Ibid., p. 78.

Cfr. JOSÉ MANUEL CAMACHO DELGADO, op. cit., pp. 15-16.

Citato in Ibid., p. 17.

ALEJO CARPENTIER, op. cit., p. 11.

Ibid., p. 14.                                                                                 

JOSÉ MANUEL CAMACHO DELGADO, op. cit., p. 23.

ALEJO CARPENTIER, Los pasos perdidos, Madrid, Cátedra, 1985, p. 183.

Informazioni tratte dal sito http://www.baroccoandino.com/psaarchibugeri.html. Consultato il 21/12/2009.

3.2.1. María Luisa Bombal e la tangibilità della magia.

María Luisa Bombal è una delle più stimate scrittrici latino-americane del Novecento. Nonostante la sua opera letteraria sia piuttosto esigua, essa viene segnalata come punto di svolta per la letteratura ispanoamericana sia per quanto riguarda il tono e lo stile, sia per i temi innovativi. Le sue opere avanguardiste – ritenute esempi primigeni di scrittura femminista – si distanziano dal clima machista, regionalista e realistico che dominava la prosa sudamericana degli anni trenta.
Bombal getta le basi del realismo magico, movimento letterario che caratterizzerà molti scritti sudamericani; inoltre influenzerà autori come Gabriel García Márquez e Carlos Fuentes. Per questo la critica postuma le attribuirà il nomignolo di madre fondatrice della successiva generazione di scrittori del continente sudamericano.

Nata l’8 di giugno del 1910 in una famiglia della medio alta borghesia presso Viña del Mar in Cile, María Luisa Bombal trascorse i primi dodici anni della sua vita con la madre di origini tedesche e il padre di origini argentine, godendo appieno dell’agiatezza culturale della sua famiglia. Quando il padre morì nel 1922, lei e la madre si trasferirono a Parigi, dove l’autrice completò gli studi con una laurea in letteratura e filosofia presso la Sorbona. Avida lettrice, scoprì il mondo dell’onirico grazie ad Andersen e ad alcuni scrittori nordici. Si dedicò inoltre ad altre attività artistiche come il teatro e la musica.
L’aspetto più importante della sua attività parigina fu il contatto con l’ambiente avanguardistico degli anni venti, che includeva scrittori latinoamericani del calibro di Vicente Huidobro e Alejo Carpentier. Con questa testimonianza importante ritorna in Cile nel 1931; lì la situazione economico-politica si era fatta complessa. Dopo il crack della Borsa di New York, i debiti cileni verso gli Stati Uniti erano triplicati e il presidente Carlos Ibáñez del Campo lasciò il suo incarico. Ma la situazione non si risolse in meglio: nel 1932, dopo un golpe, venne proclamata la Repubblica Socialista del Cile e solo dopo dodici giorni un contra golpe riportò alla presidenza Arturo Alessandri, leader del Partito Liberale-Radicale.
Nel 1933 abbandona il Cile per Buenos Aires che stava sperimentando un rinascimento culturale favorito dalla presenza di Jorge Luis Borges e altri grandissimi autori che si erano raccolti intorno a lui. Furono anni di fervida attività letteraria per Bombal che aveva cominciato a scrivere per la rivista Sur di Victoria Ocampo; in più, vivendo con Pablo Neruda e sua moglie, scrivevano insieme e si confrontavano con grande disciplina ed erano frequenti gli incontri con personalità di spicco come quella di Federico García Lorca. Quest’affinità con artisti internazionali favorì il suo distacco dal realismo regionalista che dominava la scena letteraria cilena.
Bombal è autrice di due novelas breves: La última niebla (1935), seguita da tre cuentos, e La Amortajada (1937). Tutti i racconti posteriori apparvero in diverse riviste e vennero pubblicati postumi nella raccolta Obras Completas (1996).
Dopo che nel 1941 sparò al suo amante di allora lasciandolo gravemente ferito, fu costretta ad emigrare negli Stati Uniti dove sposò un conte francese: Raphael de Saint-Phalle. Lì si dedicò alla traduzione in lingua inglese delle sue opere e a discussioni politico-letterarie con una serie di amici e artisti tra i quali era molto apprezzata nonostante la sua predisposizione malinconica che la portò all’alcolismo. Nel 1970, dopo la morte di suo marito, si ritrasferì in Cile dove morì nel 1980 nel sonno.
L’elemento onirico-fantastico dell’opera di Bombal permise all’autrice di affrontare la società patriarcale imperante nel Cile dei suoi tempi attraverso particolari figure femminili: le donne dei suoi racconti fuggono da essa e dalla solitudine entrando nel mondo dei sogni. In effetti, la natura è antagonista del dramma femminile e risulta una forza oppressiva pari a quella maschile. Il lirismo è il carattere dominante: ogni esperienza di donna è interiorizzata e descritta con tale intensità da far pensare ad aspetti autobiografici. Ogni volta c’è una donna con il suo abbandono, le angosce e la speranza.
“Bombal art is, in essence, the art of her personal solitude and the power to conjure in her stories the shadows of persons who appear and disappear like leaves in the forest of her childhood and her youth.”
Ne La última niebla troviamo una donna costretta ad un patto matrimoniale senza amore. È l’uomo a dettare le regole e la donna vi si sottomette. A causa di questa situazione alienante, la protagonista soffre di nevrosi isteriche e di forti allucinazioni e il rapporto sessuale che scaturisce nella coppia viene descritto come perverso e cinico. In uno dei suoi momenti di allucinazione onirica, la protagonista trova un amante e i loro incontri si svolgono sempre nell’oscurità di una fittissima nebbia; il lettore però non riesce a comprendere dove inizia la realtà e finisce il sogno.
In un altro testo di Bombal, La Amortajada, la struttura è basata sull’alternanza tra narratore in prima e in terza persona che ricrea un coro di voci con una certa struttura musicale. La voce della donna qui protagonista è quella di una donna morta che guarda dalla sua bara gli amici e parenti tutti che la accompagnano al cimitero. E ancora la donna sembra esser sola e silenziosa e parrebbe che la morte sia stata accolta come soluzione per distaccarsi definitivamente da coloro che la umiliavano e ignoravano in vita.
Bombal è anche una creatrice di grandi ambienti con risonanza atavica dove le immense e oscure foreste e le piogge torrenziali riportano in vita quel mondo tanto remoto che ha marcato la sua infanzia. Racconti come El árbol e Las islas nuevas – pubblicati entrambi nel 1939 sulla rivista Sur e solo nel 1941 inclusi nel libro La última niebla – riportano quel tipo di natura dove rimbomba la solitudine con eco vastissime.
La critica ha rintracciato alcune somiglianze tra il mondo della Bombal e quello di Virginia Woolf; è effettivamente probabile che durante la sua permanenza a Parigi si sia avvicinata alla natura sperimentale dei lavori dell’autrice inglese. Ma Bombal, a differenza di Woolf, non fu una femminista accanita; non era una combattente, piuttosto una emarginata che accettò le regole di una società machista e borghese nel momento in cui si sposò. Sicuramente si può dire che l’ambiente patriarcale in cui lei crebbe la ferì in maniera profonda: “she wrote about it with irony, pity and disillusionment” .

 

3.2.2. Gabriel García Márquez e la contingenza della magia.

L’opera letteraria di Gabriel García Márquez si può dividere in due periodi: prima e dopo Cien años de soledad (1967). Questo romanzo, denominato da Bellini “novela total” , fece meritare all’autore colombiano il Premio Nobel nel 1983; ma segnò il destino dello scrittore convertendo la sua figura pubblica in quella di una leggenda, costringendo tutte le sue pubblicazioni successive, così come quelle antecedenti, ad essere criticate in base al paradigma di Cien años de soledad. Nonostante ciò, la notorietà gli fruttò la riscoperta di opere previe al romanzo macondino che includono tre novelas e una raccolta di cuentos. La voce che avrebbe cambiato i canoni della letteratura ispanoamericana era stata ascoltata, riconosciuta e elogiata.

García Márquez nacque nel 1927 ad Aracataca, un paesino sulla costa atlantica del tropico colombiano, dove venne cresciuto nella casa dei nonni materni, tra i racconti fantastici della nonna Tranquilina e la concretezza del nonno Nicolás . Molti avvenimenti di violenza della storia colombiana segnarono profondamente lo scrittore ancora bambino tanto che possono essere  rintracciati nei labirinti temporali di Cien años de soledad. Trasferitosi a Baranquilla dopo la morte dei nonni materni, questa città rimarrà per l’autore colombiano la sua capitale, preferendola sempre a Bogotà, dove si recò per terminare le scuole secondarie nel 1943.
Nel 1947 lo scrittore colombiano intraprese, con scarso interesse, gli studi politico-giuridici, preferendo invece i caffè letterari che soddisfacevano la sua sete di cultura. In quegli anni, El Espectador pubblicò i primi racconti di Márquez che ricevettero segni di approvazione dalla moderna cerchia culturale cachaca. Le vere e proprie collaborazioni come giornalista avverranno con El Universal a Cartagena e con El Heraldo a Baranquilla dove ritornò a causa dei fallimenti nello studio e delle sempre più violente incursioni dell’esercito dittatoriale per le strade della capitale, volute dal golpista Rojas Pinilla. La storia colombiana conobbe così il periodo noto come La Violencia, che insanguinò campagne e città con migliaia di morti. Mentre la “literatura de la violencia” racconta realisticamente delle vittime di questa dittatura con una forte crudezza estetica, García Márquez rifiuta questa linea e propone una nuova rappresentazione del dramma delle vittime che richiede un linguaggio più sottile e simbolico. La realizzazione di questo piano narrativo si può notare ne La hojarasca (1955), un romanzo in cui si legge lo sforzo di García Márquez per rendere la sua opera letteraria una testimonianza politica del grave periodo storico.
La raccolta di racconti Los funerales de la Mamá Grande (1962), insieme ai romanzi El coronel no tiene quien le escriba (1961) e La mala hora (1966), formano la prima parte della produzione letteraria di García Márquez e sono le opere segnate dalla presenza sempre più incombente del microuniverso Macondo, che solo nel 1967 arriverà al totale compimento. In questa sua prima tappa letteraria, si può notare come vi sia una corrispondenza tra ambientazione e linguaggi della narrazione, la cui combinazione oscilla tra due opzioni: da una parte c’è una realtà, una terra senza frontiere dove tutto è possibile e il linguaggio che gli corrisponde è barocco, fantasioso e metaforico; dall’altra c’è la polvere, il pueblo anonimo e abbandonato in cui la lingua parlata filtra una realtà oggettiva e lo stile è alquanto conciso. L’autore rivela così la propria realtà e la storia che gli appartengono riuscendo però a creare una sua maniera di raccontarle, allontanandosi così dal realismo convenzionale. Ne El coronel no tiene quien le escriba, tutti gli elementi messi in campo dallo scrittore come la capacità di alludere per elissi, la ripetizione della stessa scena con sfumature diverse, concentrare tutta una vita in un gesto rutinario che, da insignificante, viene investito di significato e ancora, la presenza di oggetti simbolici, permettono al lettore di sentire come il personaggio e provare anche l’atmosfera soffocante di ingiustizia che impera nel piccolo pueblo.
Le pressioni della dittatura di Rojas Pinilla si fanno sempre più forti e il peso della censura ricade anche su García Márquez che nel 1955 verrà mandato prudentemente in Europa da El Espectador. A Roma e Venezia alimenterà la sua passione per il cinema che guiderà tutta la sua carriera giornalistica. Trasferitosi a Parigi in un momento buio per la stampa colombiana, lo scrittore si costrinse a mendicare per trovare di che vivere , continuando intanto a lavorare sui romanzi suddetti. Dopo un viaggio molto deludente nell’Est europeo, riattraversò l’oceano approdando a Caracas dove, nel 1958, sposò Mercedes Barcha, conosciuta all’età di 18 anni. Dopo altri infiniti viaggi per il continente americano, sempre in condizioni di semipovertà, García Márquez si stabilizzò in Messico e lì iniziò ad essere riconosciuto a livello letterario. Fu nel 1967 che la sua vita cambiò in maniera radicale: con l’enorme successo di Cien años de soledad, fu costretto a trasferirsi a Barcellona per poter godere ancora di una vita privata e per poter continuare a scrivere. La saga dei Buendía, resa mito da una narrazione che non solo è latinoamericana, ma anche universale, rappresenterà per García Márquez “l’inizio di un cataclisma che gli cambierà la vita” . Ma c’è un altro motivo che lo spinge verso la Spagna franchista: vuole vivere sotto una dittatura per ispirare al meglio un “romanzo del dittatore” cui titolo sarà El otoño del patriarca (1975). Questo presenta la “máscara y la mascarada del poder” attraverso una metafora della miseria del potere assoluto dove il discorso narrativo si fa interminabile, senza pause né respiro.
Nel 1972 venne pubblicata la raccolta di racconti La increíble y triste historia de la cándida Eréndira y de su abuela desalmada, nata inizialmente come copione cinematografico. Le innovazioni stilistiche sono tante e Macondo e la selva tropicale lasciano spazio a villaggi dimenticati dove si assiste ad avvenimenti che rasentano il fantastico puro, passando dalla favola alla leggenda popolare.
Gli anni Ottanta si rivelarono molto attivi per l’autore che pubblicò tre romanzi assai diversi l’uno  dall’altro, dimostrando la sua capacità di sperimentare e sapersi rinnovare. Crónica de una muerte anunciada (1981) basa la sua storia su un fatto di cronaca, elaborato però con molta libertà. Nonostante García Márquez si attenga ai meccanismi dell’intrigo e della suspense tipici del thriller, fin dall’inizio rivela i nomi degli assassini; si dimostra così la grande versatilità dello scrittore colombiano che non riuscì mai a farsi etichettare e recludere in un unico genere, tentando, opera dopo opera, di evaderne le restrizioni. Infatti, El amor en los tiempos del cólera (1985), dovrebbe seguire le regole del romanzo d’amore, mentre invece le parodizza, le scavalca: la storia d’amore si consumerà solo quando i due protagonisti saranno al termine della loro vita. Un romanzo storico come El general en su laberinto (1989), fanno del protagonista Simón Bolívar un eroe umanizzato, le sue contraddizioni lo rendono non solo più umano, ma ne dipingono addirittura un profilo chisciottesco.
Ma la controversa realtà politica sudamericana e la violenza che ne seguì, vive come un’ombra sull’opera narrativa e giornalistica dell’autore colombiano, portandolo a pubblicare cinque volumi che raccolgono i suoi scritti sulle riviste che da sempre lo avevano supportato: è la Obra periodística.


 

3. RACCONTI ALATI

 

Premessa.
Durante questo capitolo, analizzerò i racconti in ordine cronologico di pubblicazione.

3.1. Las islas nuevas.

Las islas nuevas di María Luisa Bombal è forse il più criptico dei tre cuentos, data la natura onirica e surreale della storia. La rivista argentina «Sur», sulla quale è apparso anche questo lavoro, lasciò molto spazio all’autrice cilena per pubblicazioni di vari racconti brevi, successivamente ristampati in numerose raccolte. Borges lodò questi racconti per il loro fatalismo, il mistero e la fantasia; in essi vi trovò persino tracce del sentimentalismo di Emily Brontë.

Il racconto si apre con l’immagine di Yolanda, uno dei personaggi principali, che sta avendo un incubo e viene svegliata dal fratello, Federico. Egli la avvisa della nascita di quattro nuove isole nella laguna, lembi di terra che emergono dall’acqua, dove andrà a caccia con alcuni amici che poi verranno per cena a casa loro. La battuta di caccia non porta alcun frutto e, sulla via del ritorno verso la fattoria di Federico, gli amici, il vecchio don Silvestre e Juan Manuel, sentono che due dei cacciatori, parlano di Yolanda, donna che Juan Manuel non ha mai incontrato.
A cena, Juan Manuel, nativo di Buenos Aires, vede per la prima volta la leggiadra, silenziosa e misteriosa fanciulla, e ne rimane alquanto turbato. Finita la cena, don Silvestre è alticcio e, in preda a rimembranze nostalgiche, mostra a Juan Manuel una lettera scrittagli da una certa Yolanda trent’anni prima. Nella lettera si parla di un matrimonio che la donna ha rifiutato; quindi il giovane pensa sia la madre della Yolanda appena conosciuta, ma così non è. Don Silvestre spiega infatti che si tratta della stessa ancor giovane e bella Yolanda che ha cenato con loro. Sempre più allibito, Juan Manuel riflette come sia possibile che quel vecchio amico di suo padre sia stato fidanzato alla ragazzina che si trovava con loro a tavola.
Sarà una lunga e angosciosa nottata per due dei nostri personaggi. Juan Manuel fa fatica a prendere sonno, l’eco del passaggio di un treno in lontananza lo turba e ancora non riesce a capire che cosa c’è di così inquietante nell’immagine di Yolanda. Quest’ultima vive un’altra notte di strani sogni nei quali appare Juan Manuel: un incontro in giardino, un abbraccio e poi il risveglio brusco in preda a singhiozzi nervosi.
La mattina successiva gli uomini ripartono per cacciare sperando in maggiore fortuna. Arrivano su una delle isole emerse con delle barche ma l’atmosfera è molto greve. La terra emersa non si è completamente assestata e la natura circostante sembra risentire di questo fenomeno improvviso. I gabbiani volano in maniera minacciosa sulle teste degli uomini e Juan Manuel viene colpito dall’ala di uno di questi. La terra emette sbuffi di vapore e il vento è troppo forte per poter ritornare subito sulla terraferma, così accendono un falò aspettando il momento opportuno per imbarcarsi.
Giungono alla fattoria quando oramai è sera e Yolanda sta suonando il pianoforte. Juan Manuel viene come ipnotizzato dalle note e cerca la ragazza che, nel frattempo, è scappata in giardino. Lì, il sogno di Yolanda della notte precedente, prende forma: tra i due c’è una magnetica intimità che però viene bruscamente interrotta da qualcuno che dall’interno della casa chiama il giovane per accomodarsi a tavola. Juan Manuel è distratto, continua a pensare a cosa di strano possa avere quella leggiadra creatura, a cosa possa assomigliare. Si siedono a tavola e mentre Yolanda si sta per accomodare, sfiora Juan Manuel col suo vestito bianco e leggero. Così un’immagine gli balena nella mente e nella foga della scoperta a voce alta dice che Yolanda assomiglia ad un gabbiano. La ragazza sviene. Nessuno capisce cosa sia potuto accadere, ma il giovane di Buenos Aires si sente colpevole, come se avesse tradito l’intimità che legava lui alla fanciulla.
La terza mattina le isole nuove sono scomparse nell’acqua; inutilmente i cacciatori vanno al largo per trovare qualche rimasuglio di vita vegetale o animale. Ritornano allora alla fattoria e lì Juan Manuel trova una lettera di sua madre dalla quale si capisce che il giovane è vedovo da cinque anni.
Quella sera è Juan Manuel ad avere bevuto troppo e i suoi pensieri hanno un unico colore, il bianco della pelle di Yolanda. La va a cercare a notte fonda per il labirinto di stanze della fattoria, ha bisogno di vederla, di sentirla. Giunto alla sua porta la sente gemere e lottare in sogno. Decide così di svegliarla e lei gli racconta l’incubo appena fatto: piante giganti, silenzio, felci enormi e un ronzio rauco che Yolanda associa alla venuta della morte. Yolanda si riprende dal momento di smarrimento e allontana dalla sua stanza Juan Manuel che in preda all’ebbrezza la abbraccia e la bacia, ma c’è della brutalità nei suoi gesti. Yolanda piange e il giovane si accorge dell’errore commesso ed esce dalla camera.
Un altro giorno di caccia trascorre e Juan Manuel non smette un attimo di pensare alla strana creatura e la sera, quando fa ritorno alla fattoria, vede una luce accesa che lo guida nella nebbia fitta che intanto è scesa, la segue e trova Yolanda in bagno, nuda e perfetta, con un abbozzo di ala sulla spalla destra. Juan Manuel, troppo sconvolto, scappa e fa immediato ritorno a Buenos Aires, convinto di avere avuto un’allucinazione. Arrivato a casa di sua madre a notte fonda, corre a vedere se il suo bimbo sta bene. Ancora profondamente scossa dalla visione di Yolanda, la sua mente è un flusso inarrestabile di angosce. Per addormentarsi prende un libro di suo figlio e comincia a leggerlo. Essendo un libro di geografia vi trova la storia della terra, e legge di un paesaggio dell’era carbonifera. Questo panorama coincide con la descrizione di quello vissuto da Yolanda in uno dei suoi incubi. Troppo stanco per pensare, si abbandona ad un sonno poco rinfrancante.

La sintesi è piuttosto lunga trattandosi del più esteso dei tre racconti presi in considerazione; ma la motivazione principale è che poco o nulla succede in questa narrazione, sono molti i pensieri, molte le congetture a metà tra il reale e l’onirico, quindi alquanto difficili da sintetizzare.
Come tutti i racconti affrontati fino ad ora, il narratore è esterno non facendo parte degli avvenimenti che narra; si mantiene esterno alla narrazione anche grazie all’effetto dell’impersonalità dato dall’uso della terza persona. La focalizzazione è di tipo “zero”, ciò significa che abbiamo un narratore onnisciente che, in questo caso, approfitta appieno delle possibilità che questa condizione gli offre. Si sposta da un luogo all’altro – dalla fattoria di Yolanda a Buenos Aires – ed entra liberamente nelle coscienze dei personaggi. Le voci che vengono più spesso riportate sono quelle di Yolanda e di Juan Manuel, e solo una volta, spostata brevemente la narrazione a Buenos Aires, ci viene proposta la voce della madre di Juan Manuel, ed anche il suo punto di vista.
È molto interessante osservare come il punto di vista di Juan Manuel venga utilizzato dal narratore per donarci, man mano proseguiamo con la storia, un numero sempre maggiore di dettagli fisici riguardanti Yolanda. Nonostante la precisione descrittiva di Juan Manuel, la figura della giovane donna si fa più enigmatica di pagina in pagina, fino ad arrivare alla rivelazione dell’ala che ha sulla spalla destra. Questo particolare annebbia le conclusioni già poco razionali a cui Juan Manuel ci aveva portato; il mistero si complica con lo svelamento della nudità di Yolanda che invece avrebbe potuto portarci ad una maggiore chiarezza. Quindi anche la Natura, con le sue leggi, perde il potere di svelarci la vera identità della donna. L’autrice lascia così intuire che la realtà narrata non coincida esattamente con il mondo reale in cui viviamo; potremmo invece avere a che fare con un altro mondo, dominato da altre leggi e dove sia possibile una Yolanda eterna. Questa sarebbe la spiegazione più plausibile per la solitudine che circonda la sottile fanciulla, impenetrabile a chiunque. La compresenza di due mondi ci potrebbe far pensare allo sdoppiamento del reale tipico di una scrittura magico realista: in uno regnano i sensi, che conducono Juan Manuel allo svelamento della nudità di Yolanda; nell’altro, quello di Yolanda appunto, il mistero, la solitudine e l’intangibilità che confondono chiunque provi a penetrarlo. Ma per questo racconto possiamo addurre un’obbiezione: vi si possono infatti ritrovare alcuni spunti fantastici. Per esempio, parlando dei due mondi, quello di Yolanda e di Juan Manuel, non possiamo non dire che essi non sono propriamente in relazione, anzi, risultano essere in contrapposizione sotto molti aspetti. Basti pensare a come Juan Manuel reagisce quando entra in camera di Yolanda e lei si è appena risvegliata dal sogno, il suo vero mondo: la abbraccia e la bacia ma in maniera brutale, e lei lo allontana. Non c’è contatto tra il sogno e la realtà, la delicatezza intangibile e la fisicità greve. Non siamo davanti ad una democracia ontologica, c’è un evidente squilibrio tra i due cosmi, sono inconciliabili: ci sono delle tensioni, delle angosce, soprattutto da parte di colui che condivide con il lettore le stesse regole naturali.
Ad accrescere questo distacco sarà poi lo svelamento del segreto della fanciulla, che sconvolge talmente Juan Manuel da farlo scappare dalla fattoria fino alla città, il ritorno alla certezza, lasciando un abisso di silenzio in mano al lettore che non può far altro che immaginare una soluzione finale, perché una vera è propria risoluzione non è stata scritta. Campra suggerisce nel suo Territori della finzione che silenzi, o “opportuni addormentamenti” sono fondamentali per la resa linguistica del fantastico. Infatti, per trasgressioni fantastiche, ella non intende solamente a livello tematico, ma soprattutto a livello comunicativo, e in questo Bombal si distingue: molte frasi rimangono in sospeso, i sogni di Yolanda vengono interrotti all’improvviso senza essere approfonditi, le scale musicali che rimangono strozzate senza una conclusione.
La grande capacità poetica dell’autrice ci regala una sensazione di straniamento fino alla fine della lettura, incapaci noi lettori di distinguere, nella narrazione, il piano del reale da quello del sogno. Bombal è molto abile a sradicare le nostre certezze fisiche e non fa altro che lasciarci vagare nella nebbia, insieme a Juan Manuel. Questa situazione di instabilità è rafforzata dall’uso del discorso diretto per i pensieri che scorrono come in una sorta di flusso di coscienza (siamo comunque lontani dallo stream of consciousness di Joyce). È frequente l’utilizzo di interrogative senza una chiara risposta, di esclamazioni che esulano dal filo logico del pensiero che si stava sviluppando, e ci sono fantasie, senza censure. I dialoghi sono tutti in discorso diretto, a rafforzare lo scorrere fluido degli avvenimenti.
Nonostante la trasparenza dei confini tra il mondo dei sogni e quello reale, il tempo è ben scandito dalle giornate nelle quali i cacciatori escono a cacciare. Fabula e intreccio, di nuovo corrispondono; non si riscontrano infatti inversioni nell’ordine logico-cronologico delle vicende. Ci imbattiamo in una analessi quando don Silvestre fa leggere la lettera di Yolanda risalente a trent’anni prima: con questo tramite si apre una breve parentesi sul passato della fanciulla, che sembra essere popolato di misteri insolvibili e circondato dalla stessa foschia che ci accompagna nella lettura del racconto. Molto frequenti sono le ellissi, graficamente rintracciabili nello spazio lasciato tra un paragrafo e l’altro; dal punto di vista contenutistico, esse creano dei vuoti temporali di poche ore, una nottata o mezza giornata. Si può inoltre intuire una circolarità temporale che unisce il mondo onirico – e in particolare gli incubi di Yolanda – alla realtà terrestre. Infatti Yolanda dice a Juan Manuel che “durante el sueño volvemos a los sitios donde hemos vivido antes de la existencia que estamos viviendo ahora” . Nel sogno è contenuta una nuova genesi, un eterno ritorno, un ciclo di continue rinascite, lo stesso ciclo di cui le isole nuove sono protagoniste: la loro comparsa non è inaspettata, si intuisce che è un fenomeno comune in quelle terre, e così come appaiono e nascono, così scompaiono e muoiono.
Gli spazi e gli ambienti rispecchiano perfettamente l’enigmaticità dei protagonisti e della vicenda stessa, mancano i contorni, i dettagli, la luce del sole non sembra penetrare il velo di mistero che Yolanda si è costruita attorno. Tutto il racconto è avvolto nella nebbia, noi stessi lettori ci smarriamo nella pampa misteriosa che circonda la casa di Yolanda e Federico, e queste isole nuove rimangono un’incognita, un luogo leggendario. E come ogni luogo leggendario necessitano di un’iniziazione per avervi accesso, e così sarà per i cacciatori che tenteranno di addentrarvisi. Ma essi non superano la prova e vengono come puniti da coloro che le custodiscono, il mare e i gabbiani che, schierati in spirali minacciose, vogliono allontanare i cacciatori intrusi. La natura non è benevola con l’uomo, ma ha stretto una segreta alleanza con Yolanda: le sue camelie, il giardino, le piante tropicali e leggendarie che sogna di notte. Forse anche Yolanda ha fatto parte di questo mondo naturale atavico, che trasuda ritualità e magia. Ma la sua sofferenza e la sua solitudine sono chiare: lei è destinata a non scomparire, a rimanere per sempre in bilico tra sogno e realtà, tra una natura selvaggia e il mondo umano, che è però modellato sul corpo maschile.
Si potrebbe quindi individuare la coppia spaziale città-campagna, la prima luogo dell’avvocato Juan Manuel, la seconda regno di Yolanda. Il giovane scappa in città dopo aver visto la fanciulla nuda con un’ala sulla spalla destra, è lì dove cerca rifugio alle sue presunte allucinazioni. È sempre a Buenos Aires, dove gli stimoli sensoriali sono alquanto ridotti, che può rinfrancare il suo flusso di pensieri senza esser aggredito da altre immagini allucinate.
Non si può non accennare alla capacità sensoriale della scrittura di Bombal e alla resa eccezionale di similitudini, metafore inaspettate e sinestesie spiazzanti. L’udito per esempio sembra essersi sovrasviluppato in Juan Manuel che, nel silenzio notturno della pampa, viene tormentato dall’eco e dalla “palpitación sofocada y continua” (p. 18) del treno in lontananza. Il rumore del vento viene accostato a quello di un “galope aventurero” (p. 19) che scandisce i giorni di caccia degli inquilini della fattoria. Si odono le rane nel giardino, “y es como si desde el horizonte la noche se aproximara agitando millares de cascabeles de cristal” (p. 21). La musica suonata al piano da Yolanda, “estrecha escala de agua sonora” (p. 14) anch’essa è resa eco dalla desolazione della campagna argentina. Alle orecchie di Yolanda, una creatura delicata abituata a convivere con i suoni della pampa, anche la camelia che cade ha un suono: “una camelia marchita se desprende por la corola y cae sobre la alfombra con el ruido blando y pesado con que caería un fruto maduro” (p. 19). Anche del tatto si può parlare, quando Juan Manuel assapora con mani la dolcezza della pelle di Yolanda, la sua freschezza, toccherà i suoi seni duri come le camelie che lei coltiva. Di odori se ne avvertono molti, ma quello che più colpisce è la “oleada de calor varonil que se desprende de él, y la alcanza y la penetra de bienestar” (p. 21). È la fanciulla, che al primo abbraccio con Juan Manuel viene quasi tramortita dal suo calore mascolino, e questo le dà un senso di benessere. La vista è invece il senso più offuscato, sempre per la nebbia che dà ad ogni soggetto un contorno allucinatorio, una nebbia che “descuelga a lo largo de la pampa sus telones de algodón y silencio” (p. 28).
Le immagini sopra elencate danno sicuramente un tono più soggettivistico alla narrazione, distanziandola così dall’oggettività tipica del realismo magico. Ma altri caratteri magico realisti possono essere rintracciati in questo testo. Da parte dell’autore vi è una profonda penetrazione nella realtà e un tentativo di sviscerare gli enigmi dell’elemento occulto; in questo caso è il personaggio di Yolanda che, prima di far precipitare uno spaurito Juan Manuel nell’oblio del mistero, verrà associato a svariate idee che il giovane avvocato ha per la testa. Un gabbiano, un’amazzone vista in un vecchio quadro, un insetto simile ad una libellula, tutte definizioni plausibili, ma non approfondite, come per paura di perdere la magia che in lei risiedeva.
Come per altri testi magico realisti, anche qui esistono dei rimandi al mito, ad un irreale leggendario. Infatti “Bombal handles symbols and leitmotiv […] to evoke ancient sounds and meanings, ancestral connotations. The reader may recognize, for instance, allusions to Christianity and Druidism in the use of agua and árbol” . L’eco palpitante del treno potrebbe ricordare il suono di un tamburo tribale di un rito di iniziazione in una di quelle religioni che l’invasore spagnolo cancellò imponendo il Dio cristiano.
Ulteriore aspetto sicuramente fondamentale per tutta la narrazione è l’intensità del colore bianco, sempre associato alla leggera Yolanda e a tutto ciò che pare lei abbia toccato con mano. Nella scelta di questo colore si può leggere la virginalità della ragazza, la sua purezza incontaminata. E allo stesso tempo la sua solitudine.

 

3.2. La moglie con le ali.

Passando ad un caso italiano, prenderemo in analisi un racconto di Dino Buzzati, La moglie con le ali, facente parte della raccolta Le notti difficili. Il volume è del 1971 e consiste in una selezione da un vasto materiale in parte inedito e in parte già pubblicato per il “Corriere della Sera”.
Ultimo libro pubblicato dallo scrittore bellunese ancora vivente, Le notti difficili è un collage delle tematiche buzzatiane, all’interno del quale non troviamo una mera ripetizione di motivi a lui cari, ma bensì una conferma del suo sistema narrativo. La lettura in chiave fantastica della realtà viene resa tramite un’oscillazione continua tra un realismo di cronaca e un realismo favoloso.

La moglie con le ali narra di una coppia sposata, Giorgio Venanzi, un nobile di provincia, e Lucina Ruppertini, nobile anch’essa ma meno benestante, e di come la loro serena razionalità venga bruscamente interrotta da un fatto alquanto straordinario: la crescita di un paio d’ali sulla schiena della giovane Lucina.
Giorgio Venanzi, uomo meticoloso e indifferente a tutto ciò che potrebbe essere associato alla facoltà immaginativa, scopre una notte che sulla scapola sinistra di sua moglie c’è una strana protuberanza. Dopo averla osservata una prima volta con tutti gli strumenti del caso, non riesce a trovare una spiegazione. Man mano i giorni passano, questi sospetti foruncoli – ora sono due, ne è infatti cresciuto uno identico sulla scapola destra – assumono le sembianze di due ali. Giorgio Venanzi è terrorizzato, teme infatti per la sua reputazione, per quella della casata; invece sua moglie sembra totalmente indifferente, anzi, è più allegra del solito. Ma per rispetto verso le apprensioni del marito, tiene quelle ali da neonato ben nascoste sotto le sue vestaglie e non esce più di casa.
Il conte decide così di parlarne alla madre, donna risoluta, che gli sconsiglia di consultare un dottore. Decidono invece di chiamare don Francesco, cappellano della famiglia, data la probabile natura religiosa del fenomeno. Sbigottito anch’egli davanti a tale stranezza, sostiene che, se sono ali donate da Dio, bisogna lasciar volare Lucina, dato che sicuramente le sono state date per compiere una missione. Nonostante le rimostranze del conte Venanzi, i tre decidono di far fare alla ragazza una prova di volo, per verificare la veridicità di tali ali.
Aspettano qualche giorno che le ali abbiano raggiunto dimensioni adulte e una notte si dirigono fuori città, nel bosco; lì Lucina scoprirà la gioia di avere un paio di forti ali e di poterle usare librandosi nell’aria gelida.
Dopo questo esperimento, Giorgio Venanzi è ancor più agitato di prima anche perché don Francesco sostiene che Lucina deve essere lasciata libera di volare e di compiere la missione divina. Al contrario, la ragazza viene tenuta in un appartamentino, lontano da tutti, cosicché la notizia scandalosa non si possa diffondere.
La povera Lucina soffre enormemente di questa clausura forzata, e l’unica persona che va a farle visita è suo marito, ma solo di notte. Così in uno di quei pomeriggi d’autunno nei quali la nebbia regna sovrana, la giovane moglie comincia una serie di fughe clandestine nel cielo uggioso lontano dalla città, nei pressi del bosco.
Succede però che, in uno dei suoi soliti vagabondaggi aerei pomeridiani, durante una discesa in picchiata, un cacciatore si accorge della sua presenza e le punta il fucile addosso. Lucina si accorge della situazione e grida all’uomo di non sparare. Quest’uomo, Massimo Lauretta, è un amico della famiglia Venanzi, un giovane rampollo della nobiltà contadina, che esterrefatto per la comparsa angelica si mette a pregare. Allora la nostra giovane scioglie l’equivoco e gli chiede di portarla nel capanno, per scaldarsi un po’, date le basse temperature di quell’autunno ormai inoltrato. Ma nel casolare c’è il guardacaccia e Lucina non vuole rischiare di farsi vedere anche da lui. Così si fa abbracciare da quel salvifico giovane, ancora scosso da quell’apparizione.
Quando la sera il conte torna a casa, Lucina non ha più le ali. La giovane sposa finge indifferenza davanti alle domande del marito che ha come l’impressione di avere fatto un brutto sogno. L’argomento sarà considerato tabù da tutte quelle persone che ne erano a conoscenza e così, senza soluzione razionale alcuna, si conclude la vicenda.

Racconto questo un po’ più breve rispetto a quello di Bombal, è anch’esso narrato in terza persona. La figura del narratore è molto chiara: si tratta di un narratore esterno, non partecipe alla storia e che gode del potere dell’onniscienza (focalizzazione “zero”). Infatti la voce narrante può cambiare il punto di vista in base alle esigenze della storia, penetrando anche nei pensieri dei personaggi, differentemente dal narratore di García Márquez che, con una focalizzazione esterna, non riporta le opinioni dei protagonisti. La linea della focalizzazione zero viene seguita in maniera costante e sono riportati non solo i pensieri, ma anche i dialoghi. Il narratore non sarà comunque troppo intrusivo: non è di sicuro lo scopo di Buzzati quello di effettuare un’analisi psicologica completa di ogni individuo. Sceglie, invece, di riportare solo quelle elucubrazioni mentali cariche di significato per lo svolgimento dell’enunciato narrativo. Addirittura i punti di vista adottati dal narratore sono solo due, quelli dei personaggi principali, Lucina e Giorgio Venanzi.
Molto particolare l’utilizzo di queste due voci. Sarà solo Giorgio a descriverci la nascita delle ali sulle scapole della moglie, saranno i suoi pensieri a guidarci verso una ricerca spasmodica di una spiegazione razionale. Saranno sempre gli occhi del conte a portarci in quella radura dove Lucina per la prima volta potrà aprire le sue splendide ali e solo in quel momento il narratore ci offrirà, a brevi pennellate, il punto di vista di Lucina. Niente monologhi per lei, ma solo pochi istanti di sensazioni. Tutto ciò rafforza l’aura di delicatezza e di  innocenza che circonda la giovane donna.
La simulazione d’autenticità viene ovviamente meno con l’adozione di un narratore onnisciente; Buzzati, però, è molto abile nell’alleggerirne l’azione con un vasto impiego del discorso diretto per i dialoghi tra i personaggi. È chiaro poi che, per riportare i pensieri dei coniugi Venanzi, l’autore ricorra al discorso indiretto, e a volte al resoconto sintetico di alcuni pensieri.
L’essenzialità e la scrupolosità del linguaggio, a tratti scarno e burocratico, sono caratteristiche rintracciabili in molte opere di Buzzati, derivanti con probabilità dai suoi studi di Legge e dalla sua attività di cronista presso il “Corriere della Sera”. Queste peculiarità hanno delle ripercussioni anche sul piano del contenuto; mi riferisco alla precisione con cui l’autore sceglie le informazioni da inserire nei suoi ragguagli narrativi sui personaggi. Non vi sono metalessi prolisse o futili e le poche e brevi analessi che incontriamo sono mirate ad una delucidazione del carattere del personaggio, in funzione dello svolgimento della storia.  Un esempio potrebbe essere questo: “La fantasia certo non era il forte di Giorgio Venanzi, laureato in agricoltura ma tenutosi sempre lontano, per indifferenza o pigrizia, dagli interessi letterari e artistici” (pp. 315-316). È chiaro che il narratore vuole indirizzare il nostro giudizio a proposito del conte e farci provare compassione, o sdegno anche, per una persona di così limitate vedute.
Sempre parlando di sobrietà ed incisività del linguaggio dell’autore, possiamo trovare degli esempi in tutto il testo, sottoforma di valutazioni psicologiche, intrusioni d’autore molto brevi e con sfumature ironiche. Definirà nelle prime righe del racconto Giorgio Venanzi come un “signorotto”; dirà poi che, andato nello studio, “trovò puntualmente lo strumento desiderato” (p. 314, mia la sottolineatura in corsivo). L’esattezza scientifica nella narrazione potrebbe essere avvicinata a quella realista e nel caso della descrizione dello sviluppo delle ali si tratta di realismo magico: un elemento sovrannaturale raccontato con un’attenzione al dettaglio e alla veridicità che rende l’idea di democracia ontológica della quale abbiamo parlato precedentemente.
È raro imbattersi in sequenze descrittive, e le poche presenti sono di nuovo essenziali per pennellare a grandi linee le informazioni più utili alla narrazione. Di grande importanza è invece la coppia spaziale chiuso-aperto che simboleggia la differente attitudine dei due sposini. È infatti solo all’aperto che Lucina riuscirà ad esprimere la sua anima libera e tutta la sua bellezza, e solo durante i suoi voli clandestini riesce a ritrovare la felicità sempre repressa dal marito. Quest’ultimo è ricollegabile allo spazio chiuso dove regna sovrano. Lì Lucina non ha voce in capitolo e viene continuamente segregata a causa delle fobie del conte, della sua gelosia e della sua mania di avere sempre tutto sotto controllo. Ragione-istinto potrebbe essere una dialettica riassuntiva, dove la ragione è l’unica via di conoscenza per Giorgio Venanzi e solo attraverso essa riesce ad essere felice. Mentre la sua giovane moglie è serena solo nel momento in cui si abbandona all’istinto del volo, che le è stato donato insieme a quelle magnifiche ali.
Il racconto segue un ordine logico-cronologico nel suo incedere, fabula e intreccio coincidono. Sennonché ci imbattiamo in qualche ellisse: l’autore sceglie di eludere la fase di sviluppo delle ali di Lucina, ci dice che sono passati dieci giorni e ce ne descrive le attuali dimensioni. Facendo ciò, Buzzati ricorre all’uso del sommario, riferendo con poche frasi quello che è successo in un tempo reale più ampio – i dieci giorni appunto –. Queste scelte sono finalizzate ad accelerare il tempo della narrazione e portare il lettore subito al nocciolo della storia.
Se ora osserviamo attentamente i personaggi, si nota subito come vi sia una maggiore profondità psicologica in questi piuttosto che in quelli di García Márquez. Se lo scrittore colombiano, anziché utilizzare analessi o intrusioni d’autore valutative, sceglie di connotare i personaggi dalle loro azioni, Buzzati vuole essere un narratore onnisciente a tutti gli effetti, calibrando le informazioni per ogni individuo e lasciando intendere anche il suo giudizio su ognuno di essi, ricorrendo molto frequentemente all’ironia. Don Francesco è un uomo di filosofico umorismo e la signora Venanzi è una donna di buon senso. Massimo Lauretta, invece, è un giovane disinvolto e rappresenta la chiave di volta della vicenda, sarà infatti la sua comparsa a farci comprendere la ragione della crescita delle ali sulla schiena della contessina. Ai personaggi principali, Lucina e Giorgio, il narratore dedica molto spazio e vari incisi descrittivi sulla loro condizione sociale, sul motivo della loro unione in matrimonio e sul loro carattere. Sicuramente, giocano un ruolo rilevante anche i dialoghi tra i vari individui che, con alcune battute, permettono al lettore di inferire con maggior precisione la personalità di ognuno di essi.
Ancor più ironico e divertente è il parallelismo esistente tra la graduale crescita delle ali di Lucina e la reazione del marito a quella “stregoneria” (p. 316). Il dubbio legato ad un accadimento sovrannaturale si instilla nella mente di Giorgio solo la mattina dopo la scoperta dello strano foruncolo sulla spalla della moglie, che nel frattempo si è ingrandito, è comparso sull’altra spalla e si è piumato. Il “senso di scoraggiamento” (p. 315) iniziale è proprio dato dalla natura ultra-esperienziale dell’accadimento e dall’incapacità del conte Venanzi di trovare una spiegazione razionale per questo. Nel suo delirio di uomo calcolatore, chiederà infatti alla moglie se negli ultimi tempi ha frequentato gli zingari, ricevendo da lei una risposta negativa. E “così come il malato fa con l’enigmatico gonfiore che potrebbe nascondere la peste” (p. 317), continua a toccare inorridito e terrorizzato ciò che pare impossibile alla sua mente poco immaginativa. La scelta di questa similitudine amplifica l’atteggiamento incredulo e disgustato di Giorgio davanti all’“inquietante problema” (p. 317). L’importante parere teologico di Don Francesco, per il quale le ali realmente funzionanti della donna erano quasi certamente un dono divino, non scalfisce la testardaggine del marito di Lucina. Le sue ali, ora che hanno raggiunto la massima crescita, sono per il Venanzi una “vergognosa deformità” (p. 321); e se questa disgrazia fosse stata resa pubblica, avrebbe significato disonore per lui e per la sua famiglia. L’approccio iniziale di questo personaggio è quello tipico del protagonista di un racconto fantastico, la cui quotidianità viene turbata dall’intrusione repentina del mistero, dell’oscuro.  Ma non rimarrà così fino alla fine; anzi, si tramuterà infatti poco dopo quando la ragione riprende il sopravvento nella mente del conte, e lo induce a pensare all’onta pubblica che rappresenterebbe sua moglie con le ali.


María Luisa Bombal, Contemporary Authors Online, Literature Resource Center Gale, 2003, consultato nel luglio 2009.

 María Luisa Bombal, Latin American Writers, Literature Resource Center Gale, p. 5.

Ibid., p. 2.

GIUSEPPE BELLINI, Historia de la literatura ispanoamericana, Madrid, Castalia, 1986, p. 589.

Informazioni tratte dall’introduzione di BRUNO ARPAIA a GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ, Opere Narrative, Milano, Mondadori, 2004, p. LIX.

“Cachaco”: termine usato per riferirsi agli abitanti di Bogotà, la capitale colombiana, in genere appartenenti alla classe medio-alta.

JOSÉ MIGUEL OVIEDO, Historia de la literatura hispanoamericana. Vol. IV. De Borges al presente, Madrid, Alianza, 2001, p. 302.

Informazioni tratte dall’introduzione di BRUNO ARPAIA a GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ, Opere Narrative, cit., p. LXIX.

Ibid., p. LXXVI.

JOSÉ MIGUEL OVIEDO, op. cit., p. 310.

ROSALBA CAMPRA, Territori della finzione, Roma, Carocci, 2000, p.82.

MARÍA LUISA BOMBAL, Las islas nuevas, «Sur», V, 53 (feb. 1939), pp. 13-34. Consultato in http://www.memoriachilena.cl/archivos2/pdfs/MC0011099.pdf, p. 27. Consultato nel luglio 2009. Le citazioni seguenti da questo testo di M. L. Bombal appariranno solo con il numero di pagina.

Maria Luisa Bombal, Latin American Writers, Literature Resource Center Gale, p. 3.

Informazioni tratte dall’introduzione di DOMENICO PORZIO a DINO BUZZATI, Le notti difficili, [I ed. 1971], Milano, Mondadori, 2008, p. VI. Le citazione seguenti di questo testo di D. Buzzati appariranno solo con il numero di pagina.

Il comportamento di Lucina, la sua indifferenza alle paure del marito, la sua spensieratezza verso la crescita delle ali e la sua accettazione spontanea e disinvolta di queste appendici piumate, richiamano l’atteggiamento tipico dei personaggi di un racconto magico realista – o meraviglioso, come avrebbe detto Todorov –. Infatti la sua reazione davanti alla crescita delle ali – fatto sovrannaturale – può essere paragonata a quella davanti alla crescita di un fiore raro nel proprio giardino: semplice e serena. “Lucina è allegra come al solito. Anzi, si direbbe che si diverta”, p. 320 (Mia la sottolineatura in corsivo). Il lettore si sente attratto maggiormente dalla sua lettura del fatto e, come lei, lo accetta come naturale, come plausibile. Sembra che la fanciulla sia dotata di uno sguardo magico sugli oggetti quotidiani e riesca a coglierne l’aspetto più fantasioso. “Nella sua innocenza, un po’ frivola, la giovane contessa non si chiedeva perché proprio a lei fossero cresciute le ali” (p. 326).
In un certo senso, riprendendo quello che Roh diceva nella sua definizione di realismo magico, per Lucina, queste ali rappresentano una nuova genesi, una rinascita, una riscoperta di sé o, ancor meglio, uno svelamento di sé, non avendo mai avuto la possibilità di incontrarsi e di conoscersi come individuo. Da non dimenticare anche l’incontro con Massimo Lauretta, il cacciatore, momento di vera rinascita corporea e sessuale; le ali scompaiono proprio nel momento in cui questa liberazione corporea avverrà.

3.3. Un señor muy viejo con unas alas enormes.

Il racconto di García Márquez Un señor muy viejo con unas alas enormes fu scritto tra il gennaio e il luglio del 1968, mentre l’autore si trovava a Barcellona. Il progetto iniziale era quello di un libro di racconti per bambini – l’autore aveva infatti preparato altri tre cuentos in quel periodo –. Due di questi racconti vennero pubblicati per delle riviste ispanoamericane, e l’idea del libro per bambini fu abbandonata nel momento in cui Gabriel García Márquez decise di dedicarsi alla stesura di una sceneggiatura cinematografica che poi nel 1971 trasformò in un racconto, La increíble y triste historia de la cándida Eréndira y de su abuela desalmada. L’ulteriore abbandono della scrittura della sceneggiatura derivava dal fatto che, man mano García Márquez procedeva con il lavoro, gli si aprivano sempre più nuovi orizzonti romanzeschi, e passava così dalla scrittura di un racconto a quella di un nuovo romanzo, senza alcun ordine logico. Fu così che, nel 1972, mentre riceveva un premio dopo l’altro per Cien años de soledad e lavorava freneticamente a El otoño del patriarca, decise di raccogliere le brevi narrazioni scritte fino a quel momento, in un volume dal titolo La increíble y triste historia de la cándida Eréndira y de su abuela desalmada che contiene anche il nostro racconto.

Un señor muy viejo con unas alas enormes racconta che i coniugi Pelayo e Elisenda abitano in una casa che guarda al mare, poco distante dalla spiaggia. Hanno un bambino appena nato che, probabilmente a causa del fetore di molluschi marciti dopo le ultime grandi piogge e basse maree, ha una febbre che sembra molto alta.
Una mattina, la calma e la tranquillità di una vita tinteggiata di fatiche e povertà, conosce la sua svolta. Compare nel cortile della casa di Pelayo un vecchio alquanto ammaccato, e impacciato da un paio di ali enormi. Dopo un iniziale stupore che rasenta il disgusto, Pelayo e sua moglie tentano di parlare a quella figura tanto inquietante, ma la risposta che ottengono è in una lingua che loro non conoscono.
Cominciano così le ricerche per una spiegazione che, in realtà, poco importa alla nostra coppia. Sarà il mondo circostante, fatto di buffoni, giocolieri, preti taglialegna – Padre Gonzaga per esempio, il prete del villaggio – ed esperti tuttologi, che si ostinerà a cercare di comprendere la natura di un essere tanto simile ad un angelo quanto umano nelle sue sofferenze da vecchio decrepito. La vicina saggia dirà che è un angelo che stava per portare via il figlio della coppia, ma siccome era troppo vecchio, è stato abbattuto dalle piogge.
L’essere alato viene così messo nel pollaio assieme alle galline. Dopo la prima notte passata insonne, pianificando di rimandare l’angelo in mare su una zattera, marito e moglie si risvegliano e trovano tutto il vicinato che si diverte con la creatura celeste, tirandole cibo e stuzzicandola.
Di lì a breve, il cortile di Pelayo ed Elisenda si trasforma in un circo vero e proprio, con gente che accorre da ogni luogo per ricevere la grazia dal vecchio angelo. I due decidono quindi di far pagare il biglietto d’ingresso al cortile, cosicché in pochissimo tempo, mettono da parte abbastanza soldi per rifarsi la casa.
Mentre la feria nel cortile si abbandona a congetture sulla provenienza e la natura del vecchio con le ali, quest’ultimo sopporta pazientemente il fracasso, disdegnando qualsiasi tipo di attenzione gli venga rivolta. Tali elucubrazioni proseguono fino a quando arriva nel paese un circo con una ragazza ragno. Questo nuovo caso umano distoglie l’attenzione dall’anziano celestiale. Così il mondo si dimentica del povero angelo che continua a non muoversi dal pollaio. Intanto il bambino, che aveva recuperato le energie, cresce e spesso gioca con l’inerme creatura.
Dopo un inverno molto rigido, le ali del vecchio rottame di mare sembrano riacquistare vigore ed egli tenta di prendere il volo. Vari goffi tentativi precedono il momento in cui, silenziosamente, quel naufrago dei cieli se ne va, senza più scalpore, senza miracoli, ma lasciando una famiglia che, proprio grazie lui, ora vive meglio.

Il cuento appena sintetizzato è caratterizzato da una narrazione in terza persona. Inoltre il narratore è esterno e lascia poche tracce di sé nel suo organizzare eventi o coordinare i pensieri dei personaggi. Si tratta di un racconto a focalizzazione esterna, dove il narratore ne sa meno dei personaggi. Non ci dà una risposta alla domanda che tutti i personaggi del racconto si pongono, e si colloca perciò sul loro piano.
Comunque può essere fatta un’obiezione seguendo i canoni del Grosser. Egli ci ricorda che una delle caratteristiche della narrazione con focalizzazione esterna è la mimesi dei dialoghi, una sorta di registrazione degli scambi di battute tra i personaggi. Questo aspetto è totalmente assente dal nostro racconto; infatti, anche i sermoni di padre Gonzaga sono trascritti in discorso indiretto, così come la storia della ragazza-ragno è assimilata nel racconto in terza persona.
A proposito di questa classificazione, anche Grosser ne ammette i limiti e i problemi scrivendo che tutto, come sempre, dipende dalla volontà dell’autore. Potremmo dunque concludere che abbiamo a che fare con un caso di focalizzazione variabile. L’autore sceglie l’esterna in alcuni punti; adotta poi la tecnica del racconto non focalizzato (narratore onnisciente) quando vuole sottolineare l’individualità, la personalità dello sguardo verso la figura alata, intorno alla quale ruotano tutti gli altri personaggi. È come se cambiasse l’inquadratura per avere un dipinto poliedrico di un essere del quale nessuno sa nulla e a proposito del quale neanche l’autore prende posizione.
Nonostante il narratore si mantenga esterno ai pensieri dei personaggi, verso la fine del racconto abbiamo un’avvisaglia di intrusione nella mente dell’angelo, il quale “debía conocer la razón de esos cambios, porque se cuidaba muy bien de que nadie los notara, y de que nadie oyera las canciones de navegantes que a veces cantaba bajo las estrellas” (p. 15). Ma l’utilizzo astuto del verbo debía conocer dà l’impressione che l’autore stia inferendo queste considerazioni, non che le stia invece prendendo pari passo da un pensiero del personaggio.
Per quanto riguarda lo spazio, sappiamo grazie alle informazioni del narratore che ci troviamo ai Caraibi, nella casa di Pelayo ed Elisenda che dà sul mare. Pochi sono gli enunciati descrittivi forniti per dare una maggiore concretezza alla storia ma il semplice dire che ci troviamo ai Caraibi, zona dell’America Latina dove, in alcuni villaggi sperduti, la quotidianità è scandita da rituali di origini ancestrali, fa presupporre che ci potremo imbattere in leggende e miti che prendono vita e popolano la terra.
L’ambiente, oltre ad essere utile a noi lettori per dedurre argomenti probabili e incontri possibili lungo la storia, è un espediente di cui l’autore può usufruire per caratterizzare i personaggi. Grosser dice infatti che l’ambiente, dalla seconda metà dell’Ottocento in avanti, diventa la causa del comportamento degli individui e in particolar modo possono dirsi molto influenti sulla costruzione dei personaggi gli spazi sociali. Prendiamo, per esempio, Padre Gonzaga e Pelayo: entrambi hanno svolto un lavoro molto pratico, il primo era un taglialegna, l’altro un gendarme. Sono due mestieri che richiedono una buona dose di precisione e di freddezza e che richiamano un ambiente non avvezzo a leggende e misteri. Questo li porta ad essere persone concrete, spicce e in parte anche diffidenti. Tutto ciò è verificabile nell’atteggiamento che questi assumono confrontandosi con la questione dell’angelo, dove il primo, fin da subito, cercherà di mettere in guardia i più creduloni dalle menzogne diaboliche, e il secondo sorvola sull’inconveniente delle ali e lo tratta come una vecchia gallina inutile, diffidando dell’aspetto magico della situazione.
Passando ora al tempo dell’avventura, si può solo dire che fabula e intreccio coincidono; non vi sono prolessi o analessi che alterano il tempo cronologico. Vi è un’unica frase che può essere considerata un’analessi: “El mundo estaba triste desde el martes” (p. 17). Un flashback potrebbe essere considerato il momento della narrazione intradiegetica della ragazza-ragno, nella quale abbiamo un racconto delle origini delle sue disgrazie.
Ulteriore osservazione che può essere fatta riguarda l’incipit della storia: il racconto inizia come in medias res, e solo poche righe dopo viene data una breve descrizione della situazione spazio-temporale.
In questo racconto i personaggi sono pochi e ben costruiti; possono essere tutti inclusi nella categoria di personaggi a tutto tondo, a parte la vicina saggia, figura tipica della anziana del villaggio che pare conoscere la verità su ogni cosa e per questo ci si rivolge prima a lei piuttosto che ad un dottore. È curioso come l’unico esempio di discorso diretto esca proprio dalle labbra della vicina, come a darle maggiore attendibilità rispetto alle parole, riferite tramite discorso indiretto, degli altri personaggi.
È molto importante, tenendo presenti gli obiettivi della nostra analisi, osservare come i vari personaggi si avvicinino e commentino la figura del vecchio con le ali. Ogni individuo gli associa un appellativo diverso. Il primo ad incontrare sulla sua strada il vecchio alato sarà il gendarme Pelayo, che subito considera questa figura tanto scomoda e sporca come un incubo. Insieme ad Elisenda lo analizzano meglio, e noteranno il suo vestiario da straccivendolo e il suo aspetto da bisabuelo ensopado (p. 8). Concludono poi che si tratta di un naufrago solitario. Ma l’opinione della vicina redime il vecchio dal suo aspetto di grande avvoltoio e sarà definito “angelo” per la prima volta.
Il giorno dopo la folla comincerà ad accorrere incuriosita al pollaio di Pelayo ed Elisenda, dove era stato buttato l’angelo, e sarà proprio la folla a trasformarlo in un fenomeno da baraccone, o animal de circo (p. 9), attribuendogli miracoli che in realtà non hanno nulla di miracoloso, offrendogli pasti luculliani, indispettendolo ma senza ottenere risposta alcuna.
Ci sarà poi padre Gonzaga che, dopo un’acuta analisi teologica, concluderà che il demonio gioca brutti scherzi agli ingenui, e così il probabile angelo assumerà una nuova forma, quella di un inviato diabolico per confondere la gente. Poca gente dà peso a questa prima analisi del sacerdote. Qualcuno più avanti arriva a dire che si tratta probabilmente di un norvegese con le ali adducendo il fatto che le parole del vecchio paiono arrivare da un altrove così lontano da essere associato ad una landa sperduta come la Norvegia. Infine l’angelo viene messo nel dimenticatoio, e l’attenzione della massa passa alla ragazza che è diventata un ragno dopo aver disobbedito ai genitori. Nel frattempo il vecchio alato rimane sempre lì, nel pollaio di Pelayo, senza la minima considerazione se non quella di essere un peso per la famiglia.
L’unico parere razionale in questa vicenda dai toni magici è quella di un medico, che giunge a casa di Pelayo per visitare il bambino che ha contratto la varicella. Anche l’angelo presenta gli stessi sintomi, così il medico visita anche lui, e si stupisce assai per le ali che “resultaban tan naturales en aquel organismo completamente humano, que no podía entender por qué no las tenían también los otros hombres” (p. 14).
Possiamo ora avvalerci dell’analisi compiuta nel capitolo precedente sul realismo magico e osservare come una categoria estetica può essere utile all’ermeneutica di questo e degli altri racconti. In Un señor muy viejo con unas alas enormes è interessantissimo notare la reazione di Pelayo ed Elisenda davanti al sovrannaturale elemento chiave di tutta la letteratura legata al magico, surreale e fantastico. Il racconto inizia infatti con i presupposti di una narrazione fantastica perché al ritrovamento dell’angelo, Pelayo rimane “asustado por aquella pesadilla”. Con sua moglie lo osservano con “callado estupor” (p. 7). Ma basteranno pochi attimi ai due personaggi – e poche righe a noi – per dimenticarsi della stranezza ultraterrena capitata nel loro giardino; infatti “se sobrepusieron muy pronto del asombro y acabaron por encontrarlo familiar” (p. 8). La diffidenza iniziale verso il sovrannaturale scompare, e l’heimlich prenderà il sopravvento, tanto che le ali del vecchio saranno solo un “inconveniente” (p. 8). Anche noi lettori finiamo per accettare la familiarità dell’angelo caduto, così come non ci stupiamo davanti alla storia della ragazza-ragno. Il lettore è portato ad accettare come naturali avvenimenti che, in realtà, apparterrebbero alla sfera del sovrannaturale. E questo grazie all’abilità dell’autore di riportare per gradi il momento della comparsa dell’unheimlich nella normalità quotidiana del paesaggio caraibico. Si passa dunque dallo spavento all’abitudine, e dalle molestie allo sfruttamento economico nei confronti del vecchio.
C’è un altro aspetto che concorre a sottolineare la plausibilità dell’esistenza di un vecchio con le ali: il tono della narrazione. García Márquez rende la vicenda con tono burlesco e di domestica confidenza che, normalmente, sarebbe in antitesi con personaggi celestiali. Ma qui la normalità scompare, l’angelo con le sue sofferenze è fonte di guadagni per la famiglia di Pelayo, e noi non ce ne scandalizziamo. L’accumulazione iperbolica di immagini ci facilita l’accostamento ad una realtà come quella caraibica qui descritta. E la combinazione antitetica di elementi quotidiani con elementi sovrannaturali (il bambino e l’angelo prendono “la varicela al mismo tiempo”, p. 14; quando il vecchio sbatte le ali si crea un vortice di “estiércol de gallinero y polvo lunar”, p. 12) ci ipnotizza e ci trascina irresistibilmente nel mondo d’incanto qui narrato.
Ci sono due campi semantici che accompagnano le varie descrizioni del vecchio alato; si alternano infatti quello legato alla realtà terrena e quello connesso alla sfera del celestiale. Le galline cercano tra le sue ali “parásitos estelares” (p. 11), e la gente definisce la sua straordinaria passività come quella di un “cataclismo en reposo” (p. 12).
Anche lo spazio e il tempo possono essere ricondotti all’ambito del realismo magico. Infatti la casa di Pelayo ed Elisenda sulla spiaggia – che supponiamo possa trovarsi nei Caraibi – pare un luogo reale, un qualsiasi luogo ma con una connotazione in più, quella dell’accettazione del sovrannaturale che poi diviene uno spettacolo. Il tempo fluisce senza inversioni, ma con una circolarità tipica delle narrazioni magico realiste; infatti, l’angelo se ne va così com’è arrivato, volando come un avvoltoio senile, lasciando tutti alleviati dalla pena che ha loro procurato, anche se noi possiamo capire che, in realtà, poche disgrazie aveva causato.


4. LEGGEREZZA E GRAVITÀ

 

Nel sentir parlare di figure alate, una delle prime immagini che si avvicina alla mente è quella dell’angelo, della creatura celestiale. Ma in questi tre personaggi non sussistono le caratteristiche angeliche dettate dalla chiesa Cattolica. Come li indica il catechismo: “Gli angeli sono creature puramente spirituali, incorporee, invisibili e immortali, esseri personali dotati di intelligenza e di volontà. Essi, contemplando incessantemente Dio faccia a faccia, Lo glorificano, Lo servono e sono i suoi messaggeri nel compimento della missione di salvezza per tutti gli uomini.”
È pur vero che l’associazione con la figura angelica appare evidente nel titolo di due dei nostri racconti: La moglie con le ali e Un señor muy viejo con unas alas enormes. Inoltre, in entrambe le narrazioni, vi è il parere di un personaggio legato alla sfera religiosa che, per prima cosa, ammonisce sulla possibile natura ingannevole e diabolica delle ali senza escludere l’eventualità di una reale condizione angelica nei personaggi in questione. Opzione, quest’ultima, non presa in considerazione dagli altri personaggi che, o per timore, o per indifferenza, pensano alla nascita delle ali come un pessimo inconveniente. Se consideriamo ora la scelta dei titoli, nei racconti di Buzzati e García Márquez viene prima presentata la persona – la moglie e un señor – poi viene riferita la presenza delle ali: un individuo terreno prima e poi alato.
Nel racconto di Bombal si potrebbe invece pensare ad un’origine mitica delle ali, ad un legame con una realtà atavica preesistente e dai contorni magici. Per Yolanda, per esempio, la connessione con un passato mitico è evidente, e la sua eterna giovinezza amplifica l’idea di una creatura che funge da continuum con un passato sacro e preistorico. Anche il “vecchio con le ali” è caratterizzato da un’alterità che può legarlo ad una sfera leggendaria: per incominciare, lo strano dialetto che parla, e poi le sue ali, anche se non sembrano proprio celestiali perché più simili a quelle di un avvoltoio decrepito.
Ma discutere della provenienza delle ali non frutterebbe grandi risultati. Per trovare un fil rouge tra le tre figure alate tornerei sulle narrazioni, sul linguaggio, e sulle descrizioni che vengono fatte dei tre personaggi alati. Nonostante le peculiarità individuali, queste figure hanno una forma ben definita: molti sono i dettagli che raccogliamo man mano, diverse sono le parole, gli sguardi, ma tutti assieme concorrono a dare loro un colore, un contorno, una forma, una levità.
Italo Calvino, con la sua lezione americana sulla leggerezza , riuscirà sicuramente a suggerirci la strada per affrontare questo tema. Secondo lo scrittore cubano-sanremese “la leggerezza è qualcosa che si crea nella scrittura, con i mezzi linguistici che sono quelli del poeta”(p. 638); essa è inoltre associata alla determinazione e alla precisione, non alla vaghezza o al caso. Calvino fornisce una serie di punti per esemplificare al meglio la sua idea di leggerezza, e la sua prima accezione è “un alleggerimento del linguaggio per cui i significati vengono convogliati su un tessuto verbale come senza peso fino ad assumere la stessa rarefatta consistenza” (p. 643).
Forse il migliore esempio da un punto di vista formale lo troviamo in Las islas nuevas, quando Yolanda descrive uno dei suoi incubi a Juan Manuel: “Un parque. Plantas gigantes. Helechos altos y abiertos como árboles. Y un silencio atroz. Un silencio verde como el del cloroformo. Un silencio desde el fondo del cual se aproxima un ronco zumbido que crece y se acerca. La muerte, es la muerte” . Come vediamo, la presenza dei verbi passa in secondo piano e i sostantivi hanno il compito di creare un effetto di svelamento dell’incubo.
Altra possibilità di imbattersi nella levità in letteratura è la presenza di “una immagine figurale di leggerezza che assuma un valore emblematico”(p. 644). Per questo punto Calvino compie un excursus letterario da Ovidio e le sue Metamorfosi fino a Boccaccio e Shakespeare. Noi ci serviremo del primo esempio che l’autore ha proposto, quello di Perseo, che più si adegua alla nostra indagine. Perseo è l’eroe che ha sconfitto Medusa, la Gorgone dallo sguardo pietrificante, grazie all’ingegno e ad un paio di stivaletti alati. I due personaggi incarnano gli opposti leggerezza-pesantezza, e tra i due è l’assenza di gravità ad averla vinta.
Se Perseo “si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole”(p. 632), Lucina riscopre la gioia di vivere negatagli dal marito per tanti anni, riuscendo grazie al dono delle ali a scrollarsi di dosso la gravità delle costrizioni morali che una società perbenista e bigotta le aveva imposto. La pesantezza di temi come l’emancipazione sessuale e la liberazione del corpo femminile viene perciò dissolta da Buzzati attraverso la leggerezza di una figura come quella di Lucina, frivola e lieve. Una figura in movimento che si oppone alla staticità e alla monotonia della sua vita precedente alla comparsa delle ali. Ma la catena maggiore che lega Lucina a terra è lo sguardo del marito, uno sguardo pietrificante nel senso di appesantito, o meglio, che appesantisce. Lo sguardo di Venanzi risulta greve ed egoista, non preoccupato per la salute della moglie ma impaurito dallo scandalo.
Per il vecchio con le ali di García Márquez la tanto ambita leggerezza verrà ritrovata solo alla fine del racconto. Il vecchio all’inizio è un individuo pesante, in quanto è precipitato dai cieli; egli non riesce a riprendere il volo, e rimane immobile per la maggior parte della narrazione. Torna alla mente l’albatros di Baudelaire che, catturato dai marinai, veniva deriso e sbeffeggiato perché alquanto goffo fuori dal suo elemento, lui, che in cielo era il re degli uccelli. “La vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante”(p. 639) costringerà al suolo il vecchio angelo, a sottostare alle leggi della gravità, trasformandolo peraltro in un corpo-spettacolo. Però, non appena l’anziano riacquista le forze e le sue ali lo possono sorreggere, si rialza, e scompare oltre la linea dell’orizzonte.
Qui lo sguardo degli altri personaggi sulla figura alata risulta il più difficile da sostenere: è una coralità di zavorre che il povero vecchio non riesce a scostare, nonostante il suo silenzio impenetrabile, tutti lo vogliono, tutti lo giudicano, tutti hanno una definizione pronta da appioppargli. Le occhiate di Pelayo e Elisenda sono le più indicative; sono caustiche a tratti, molto dettagliate nel cogliere tutti i difetti. E il narratore lascia parlare tutti, finché nessuno non ha più nulla da dire. Solo in quel momento l’angelo potrà disfarsi di tutti i pesi gettatigli addosso da un linguaggio crudele e provare a riprendere quota, tornando alla sua leggerezza.
Yolanda invece non può volare. È eternamente costretta dalla gravità, e il suo embrione di ala non è ancora in grado di lasciarla librare tra le nuvole. Ma la docile fanciulla è per altri motivi emblema di leggerezza: il suo corpo è “orgulloso, estrecho, blanco” , e durante tutto il racconto la sua descrizione si riempie di dettagli delicati. Si tratta delle osservazioni di Juan Manuel che, grazie ai mezzi linguistici di Bombal, alleggerisce la figura di Yolanda, togliendole la gravità contornandola, definendola e precisandola. “Se parece a una gaviota” le verrà detto, una creatura alata come similitudine-metafora di leggerezza. E come tale in maniera leggiadra ci guida nella nebbia della pampa argentina, dove i contorni sono sfuocati e lei, con la sua presenza, pervade l’atmosfera circostante.
Ma si deve assolutamente aggiungere che lo sguardo di Juan Manuel lavora anche come zavorra nei confronti della leggera creatura: l’approccio razionale del giovane di Buenos Aires la appesantisce e sottolinea lo scarto esistente tra il mondo reale e quello del personaggio femminile. Questo sguardo gli impedisce di coglierne la magica poesia, processo che avrebbe reso possibile l’avvicinamento tra i due giovani: la scelta di Bombal in chiusura di racconto lascia al lettore carta bianca e un po’ di frustrazione.
Nelle nostre narrazioni abbiamo sicuramente a che fare con tre immagini figurali di leggerezza, condizione che però è sottoposta ad una doppia tensione tra una “levitazione desiderata” e una “privazione sofferta”, come ci suggerisce Calvino. Questo binomio direi che si potrebbe ricondurre alla dicotomia “condanna-dono”, la quale ci permette di approfondire ulteriormente l’analisi di questi individui alati.
Partendo dal caso di Lucina, le sue ali sono in primis un dono per farle assaporare la libertà che però le viene negata dal marito. Invece il conte considera le piumate appendici come una condanna, come un attacco nei confronti della sua agiatezza, della decenza della sua figura pubblica ed è lui stesso a costringere la povera moglie alla clausura.
Passando poi al caso del racconto di García Márquez, il vecchio alato è stato, praticamente fin dal principio, costretto all’esposizione spettacolare del proprio corpo, una condanna di nuovo imposta dall’esterno, la privazione della desiderata levitazione. Nessuno gli ha poi riconosciuto il dono involontario che egli ha fatto, grazie alle sue ali, a Pelayo ed Elisenda: ha loro donato un miglioramento nella condizione di vita nonostante il parere dei due padroni di casa che hanno vissuto la sua permanenza sulla Terra come una condanna.
Per Yolanda, la dicotomia è rivolta tutta alla sua persona. L’eterna giovinezza che la caratterizza è al contempo dono e condanna: l’immortalità è considerata dal senso comune una condizione ambitissima, ma la fanciulla non pare interessata a questo aspetto, sembrerebbe che per lei si tratti di una condanna. O forse questa longevità è un dono nel senso che rifugge dalle norme della società patriarcale, non potendosi sposare e riprodurre .
La scelta della leggerezza nella letteratura è anche un’alternativa esistenziale: è scaturita dall’impossibilità di respirare e di muoversi nel mondo umano inerte, pesante e opaco. E nei momenti in cui questa gravità è più incombente che mai, Calvino dice:

penso che dovrei volare […] in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro…(635).

Questa descrizione ci riporta alla mente la formula coniata da Roh  nel 1925 per definire il realismo magico in cui la realtà ordinaria veniva dipinta da occhi meravigliati. Quindi, la rappresentazione magico realista avviene attraverso una scrittura “della leggerezza”, grazie alla rilettura della realtà che ogni autore riesce a proporre nelle sue narrazioni. E per di più non sono immagini oniriche che, col suono della sveglia potrebbero dileguarsi, sono immagini senza gravità ma ben definite.



CONCLUSIONE

 

All’inizio di questo elaborato, poche erano le cose in nostro possesso: tre cuentos di differenti autori con diversi background culturali e biografici. Due erano gli elementi in comune: l’appartenenza alla categoria magico realista ed un personaggio alato, figura chiave in ognuno di questi testi.
Si è quindi partiti dallo studio del concetto di realismo magico, se ne è ripercorsa la storia per comprendere quali fossero i vari ingredienti che, anno dopo anno, da una nazione all’altra, ne hanno arricchito i contenuti. Si è poi scelto di osservare le contaminazioni che hanno agito nel nostro modo letterario, notando che può risultare difficoltoso scindere tra una categoria estetica e un’altra vicina ad essa, anche perché, in casi come questo, esse vanno oltre la definizione di genere, per apparire soprattutto come un atteggiamento o un modo finzionale di rappresentazione della realtà. Inoltre, lo studio dei vari approcci al sovrannaturale in letteratura ha suggerito alcuni spunti per la migliore comprensione delle attitudini dei personaggi dei racconti. Si può concludere che il realismo magico non è una formula univoca, è soggetta alle esperienze individuali di ciascun autore, e dei luoghi da dove egli proviene. Lo studio della biografia di ciascun autore ha sicuramente aiutato la successiva opera ermeneutica sui testi.
Piuttosto interessante si è rivelato, all’interno del terzo capitolo, il confronto delle risposte dei diversi personaggi davanti all’elemento magico-sovrannaturale: in un’opera possono coesistere personaggi che incarnano differenti reazioni. Per esempio, in Bombal abbiamo da una parte lo stupore di Juan Manuel davanti al mistero e la frustrazione angosciata per la mancata risoluzione; dall’altra l’accettazione del mistero di don Silvestre. Nel racconto di Buzzati, il conte Venanzi si spaventerà davanti all’avvenimento sovrannaturale ma solo per le conseguenze che esso potrebbe avere sulla sua immagine pubblica; don Francesco accetterà il fatto ma riconducendolo ad un dono divino. Infine, in García Márquez, i coniugi Pelayo ed Elisenda di primo acchito si stupiscono incontrando il sovrannaturale, poi segue l’accettazione di esso per interessi propri; padre Gonzaga incarna il sospetto e la collettività agisce incorporando il sovrannaturale nella vita quotidiana, sfruttandolo come fenomeno da baraccone. Sta poi al lettore scegliere la posizione da assumere davanti a tale evento.
Dopo aver analizzato il corpus scelto dal punto di vista del realismo magico, le osservazioni di Calvino tratte dalle sue Lezioni americane sulla leggerezza, ci hanno dato un’ulteriore chiave di lettura. Abbiamo descritto alcune dicotomie legate sia alla levità delle nostre figure alate sia alla pesantezza di ciò che le circondava. E forse è un suggerimento quello di Calvino, di ritornare alla leggerezza, di ritrovarla. Se la fantasia fugge dalla ragione e dal mondo civile come immaginava Buzzati, essa viene difesa dagli autori magico realisti per essere salvata in racconti che riescono a mostrare i suoi tratti più enigmatici e più incompresi da un mondo greve e materialista. Per questa ragione la leggerezza non è solo una scelta stilistica, ma si inserisce in quella visione del mondo che il realismo magico cerca di esprimere.


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Informazioni tratte dall’introduzione di BRUNO ARPAIA a GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ, Opere Narrative, cit., p. 1453.

Informazioni tratte da HERMANN GROSSER, Narrativa. Manuale-Antologia, Milano, Principato, 2008.

Informazioni tratte da HERMANN GROSSER, op. cit., p. 172.

ITALO CALVINO, La leggerezza in Lezioni americane (Saggi,1945-1985, Milano, Mondadori, 1995, pp. 631-655). Le citazioni seguenti nel testo di questa edizione appariranno solo con il numero di pagina  presentato tra parentesi.

MARÍA LUISA BOMBAL, op. cit., p. 27.

CHARLES BAUDELAIRE, L’albatro, in ID I fiori del male, Milano, Feltrinelli, 2003, p.39.

MARÍA LUISA BOMBAL, op. cit., p. 30.

Ibid., p.22.

Ibid., pp. 16-17.

 

Fonte: http://www.filitesi.it/archivio/Salogni.doc

Sito web da visitare: http://www.filitesi.it/

Autore del testo: A.Salogni

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