Letteratura Italiana ottocento

Letteratura Italiana ottocento

 

 

 

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Letteratura Italiana ottocento

Le idee

Il gusto neoclassico

La definizione di gusto neoclassico per indicare il gusto predominante durante la cosiddetta “età napoleonica” (1796-1814) è della fine dell’Ottocento. Si tratta di una ripresa di orientamenti classicisti che determina in ogni settore (letteratura, pittura, scultura, architettura, arredamento, moda) la voga dell’antico, ma con una sensibilità che è decisamente moderna.
La sensibilità neoclassica ha il suo principale teorico in Johann Joachim Winckelmann (1717-68), che dedica tutta la vita alla ricerca e all’interpretazione delle opere d’arte dell’antichità greco-romana, con articolare attenzione alla statuaria. Nei suoi scritti più importanti ( Storia dell’arte nell’antichità, 1764) è significativo prima di tutto il primato assegnato all’arte greca (da lui studiata attraverso copie romane) su quella romana: si tratta di un primato non solo tecnico, ma soprattutto legato a un ideale di bellezza intesa come frutto di un’armonica fusione tra corpo e spirito e di un nobile dominio sulle passioni.  In altri termini, il Winckelmann sostiene che l’arte greca aveva realizzato l’ideale del bello assoluto ed eterno, al di là di tutte le specificazioni contingenti. Essenza di questa bellezza classica era « una nobile semplicità, una calma grandezza », che nasceva dal dominio delle passioni e dall’armonia interiore. L’arte e la letteratura devono mirare al “bello ideale”, cioè trasfigurare la rwaltà contingente  in forme perfette, in cui non esita alcunché di eccessivo o scomposto e il calore delle passioni e dei sentimenti si sublimi in armonia di linee, forme e suoni.
Sono idee che già erano presenti nell’idealizzazione della grecità propria di tutto il Settecento tedesco sino a Goethe e al primo Romanticismo, ma trovano ora la più ampia diffusione anche in Italia, soprattutto a Roma, dove operano ad esempio il pittore Raffaello Mengs (che fu anche un teorico del Neoclassicismo) e lo studioso Ennio Quirino Visconti.
Un ritorno all’arte classica era già stato uno dei fondamenti della cultura rinascimentale. Va precisato che la visione dell’antico degli artisti del Cinquecento aveva una funzione liberatoria rispetto agli schemi simbolici medievali, rappresentava un ritorno alla visione diretta della natura: «  ... non si cerca in essi un tipo ideale, divino, anzi un preciso metodo per render ciò che v’è di più incantevolmente animale nell’uomo» (Mario Praz).
Emblematica invece dell’atteggiamento dei neoclassici è l’interpretazione della celebre statua del Laooconte proposta dal Winckelmann: non parossismo, non esagerata drammaticità, ma al contrario sovrumano sforzo di dominio esercitato sul dolore:
« Il Laooconte è la statua del più forte patimento, e ci dà l’immagine di un uomo che, per opporsi ad esso, tenta di raccogliere tutte le forze dello spirito; e mentre il dolore gli gonfia i muscoli e gli tende i nervi, mostra il suo coraggio sulla fronte corrugata ».
Nell’ambito di questa emulazione dell’antico rientra la riscoperta del tradurre, con il fine di riscoprire l’antico e perduto ideale di bellezza. Ciò spiega come sui testi dei poemi omerici si impegnino alcuni dei maggiori autori del tempo, da Monti, a Foscolo, a Pindemonte.Una profonda svolta in seno alla cultura neoclassica avviene nel momento in cui l’influsso della cultura francese si fa più evidente e il vento rivoluzionario si abbatte sull’Europa. Roma lascia il suo primato a Milano, capitale prima della Repubblica, poi del regno italico; il neoclassicismo diviene espressione del regime, promossa e potenziata dal generale vittorioso e poi imperatore.
In realtà le premesse erano precedenti alla Rivoluzione: Jean Louis David dipinge proprio a Roma un quadro di fondamentale importanza, Il giuramento degli Orazi, del 1785: insieme con La morte di Socrate, del 1787, e con gli scritti teorici di Francesco Milizia, contribuisce ad affermare il mito della Roma repubblicana, un mito fatto di virtù civili e patriottiche, che testimonia il superamento dell’idealizzazione ellenizzante di Winckelmann e di Mengs. Il Neoclassicismo, da vagheggiamento estetizzante dell’antichità, diviene un classicismo impegnato sul fronte delle grandi battaglie storiche e destinato  a un impoverimento che lo porterà nel giro di pochi anni a celebrare i fasti imperiali.
Al di là comunque del Neoclassicismo celebrativo, vi è nell’età napoleonica un atteggiamento ben più profondo e nuovo, che, a detta del Binni, si colora di romanticismo: è il Foscolo delle Grazie, che concepisce l’antico come un mondo di armonia e bellezza da contrapporre a un presente inerte, oscuro, imbarbarito. È una sorta di Eden in cui cercare rifugio dai traumi della storia, dal dispostismo, dalla ferocia della guerra. Non si tratta però solo di nostalgia del paradiso perduto: per Foscolo la grande civiltà italiana ha raccolto l’eredità di quella greca ed esiste ancora la fiducia di poter far rivivere quelle forme perfette, in modo che la poesia agisca con funzione catartica sulla barbarie del presente.

 

Il gusto pre-romantico

Quello che è stato definito “gusto pre-romantico”, a cui il Petronio nega validità di scuola, serpeggia attraverso tutta la seconda metà del Settecento: vi è insofferenza nei confronti delle certezze razionalistiche dell’Illuminismo e l’intuizione di un nuovo modo di concepire l’esistenza individuale nel mondo.
Si cercano antecedenti in modelli trascurati dal classicismo, come Shakespeare e le espressioni poetiche connesse all’affermazione delle civiltà romanze. Si scoprono la ricchezza e la fecondità della dimensione interiore e fantastica (Rousseau) e si giunge a considerare il genio, grande non solo per la sua virtù e razionalità, ma anche per i suoi eccessi, i suoi errori e le sue contraddizioni.
Proprio tra il 1770 e il 1780 si produce in Germania un movimento di cultura che, dal titolo di un dramma di quel tempo, prende il nome di Sturm und Drang (Tempesta e Assalto) ed ha un carattere di ribellione contro l’Illuminismo allora dominante. I precedenti letterari di tale movimento sono da ricercarsi nella poesia di Klopstock e di Ossian, nei canti popolari, nella crescente ammirazione per il genio di Shakespeare e nel corrispondente odio verso l’intellettualizzata tragedia francese di Corneille e di Voltaire. Questi spontanei e sporadici impulsi acquistano forza e direzione più unitaria in seguito all’irruzione di Rousseau nella cultura germanica.
Qui la formula del “ritorno alla natura” è presa in tutta la sua serietà: sono per la maggior parte letterati quelli che reagiscono contro il costume letterario e che vagheggiano forme primitive di vita, individualità umane potenti che rompono i vincoli delle leggi e delle convenzioni, genialità creative che travolgono inveterate tradizioni. I mezzi con cui tali movimento si esprime sono di preferenza il dramma ed il romanzo, due generi letterari che con maggior aderenza imitano la vita, dando quasi l’illusione di ritrarla dal vero. I drammi giovanili di Schiller, i romanzi di Jacobi, il Werther e il Faust di Goethe, i drammi di Klinger sono le personificazioni più note dello spirito di ribellione che agita lo Sturm e che mira a fondare un nuovo dominio della passione, della forza e dell’incorrotta natura.


Il movimento romantico

Le date fondamentali del movimento romantico sono concentrate dal 1798 al 1827: nel 1798 inizia le pubblicazioni a Berlino la rivista Athenaeum, animata dai fratelli Friedrich e Wilhelm August von Schlegel, da Novalis, da Tieck: sulle pagine della rivista appaiono i primi manifesti del Romanticismo tedesco, che si articolerà attorno a tre “centri di irradiazione”  o “scuole”: Jena (1798-1805), Berlino e Heidelberg (1804-1815), la “scuola sveva” (dalla Restaurazione al 1840 circa).
Caratteristico del Romanticismo tedesco è il recupero delle tradizioni nazionali e popolari, collegato al nazionalismo, che derivava dall’occupazione napoleonica e si manifestava, soprattutto nella scuola di Heidelberg (Clemens Brentano, Adalbert von Chamisso), come esaltazione dello spirito germanico originario.  Altre caratteristiche rilevanti sono l’impulso alla fuga dal reale, il soggettivismo esasperato, la tensione verso l’infinito, ma anche l’ironia, la cosiddetta “ironia romantica”, che nasce dalla consapevolezza che il mondo esterno è solo proiezione dell’io.
Ogni realtà infatti, ogni impresa umana, per quanto grande e significativa, non è l’Infinito, non è l’Assoluto; da qui il senso dell’inadeguatezza nei confronti delle innumerevoli manifestazioni dello spirito umano, guardate con ironia appunto perché non sono eterne, né assolute. Al tempo stesso, accanto al gusto del fiabesco e del leggendario, trova spazio il gusto per situazioni fantastiche, irreali, per evocazioni spettrali e sinistre.
Nel 1798 la pubblicazione in Inghilterra delle Lyrical Ballads di Wordsworth e Coleridge dà l’avvio al Romanticismo inglese. Il programma dei due poeti inglesi è sostanzialmente riconducibile a due punti fondamentali: da un lato l’affermazione che il poeta deve usare un linguaggio semplice, vicino a quello della gente comune, quindi derivante dalla tradizione poetica popolare; dall’altro la convinzione che la poesia deve trattare cose e persone reali, quotidiane, umili.
Il “flusso di coscienza” implica la disgregazione delle normali strutture sintattiche e, nelle sue applicazioni più radicali, fa completamente saltare anche la punteggiatura e le sue scansioni logiche. Al flusso di coscienza, alla disarticolazione sintattica, alla mescolanza degli stili, Joyce aggiunge una straordinaria sperimentazione lessicale, sulla scia della grande lezione che proveniva da Baudelaire fino al Simbolismo. La parola viene infatti usata nella sua polivalenza di significati, nel suo potere allusivo-evocativo, nella sua capacità di sprigionare senso dal suono e dalle valenze onomatopeiche.
Dal secondo decennio dell’Ottocento si afferma una sorta di “seconda generazione romantica”, i cui maggiori esponenti sono Byron, Shelley, Keats: questi poeti hanno in comune l’ansia di libertà e il conflitto con la società inglese, rigidamente moralistica. Essi cercano la fuga verso il Mediterraneo greco e italiano, hanno il culto della bellezza: dalla trattazione della realtà quotidiana si passa a esplorare l’esperienza intima, soggettiva, in opposizione all’oppressione della società industriale. Il linguaggio si fa denso, prezioso, ricco di immagini, a volte perfino oscuro.
Nel 1809 il Corso di letteratura drammatica di W.A. Schlegel divulga in tutta Europa le idee di fondo del Romanticismo; analoga diffusione ha, nel 1813, De l’Allemagne di Germaine Necker de Stael; nel 1816 il Romanticismo penetra ufficialmente in Italia, mentre nel 1827 la prefazione al Cromwell di Victor Hugo costituisce un punto fermo nella storia del romanticismo francese. Lo scrittore francese sostiene che nell’arte devono convivere bello e brutto, sublime e grottesco, tragico e comico. Regole e convenzioni dei generi devono essere abolite perché si oppongono alla libera rappresentazione della natura: nessun modello, dunque, perché soffoca l’originalità del genio.


La poesia

 

Per i romantici la poesia non è imitazione della natura, ma espressione assolutamente libera e fantastica del sentimento. Per secoli la poesia era stata concepita come “specchio” della realtà esterna e il ruolo del poeta era stato limitato a una ricezione passiva dell’ispirazione: ora per la prima volta si pone l’accento sul carattere soggettivo dell’attività poetica. Lo slancio poetico supera di gran lunga l’astratta esattezza del discorso comunicativo, esprime una conoscenza dei risvolti misteriosi della realtà ben più profonda di ogni logica.
L’io poetico non può comunque perdere coscienza del proprio limite, della propria condanna a una dimensione reale e finita. Di qui il carattere particolare della poesia che, non rispettando alcun confine, è contemporaneamente fantasia e razionalità, superamento del finito e coscienza della propria finitezza. La poesia romantica non accetta regole formali: il divenire è - secondo Schlegel - la sua vera essenza.
Rifiuto delle regole significa soprattutto rifiuto di limiti tematici e confini stilistici, in una parola l’abbandono dell’antichissima separazione degli stili e degli argomenti: nulla di ciò che è umano è fuori del terreno della poesia. Si nega, in sintesi, quella legge classica secondo la quale gli argomenti bassi vanno trattati con stile umile e quelli alti con stile sublime. Vi è nei romantici la convinzione che compito della poesia è allargare la sfera della conoscenza umana di quel mistero che è l’universo.
La condizione del poeta romantico è quella di una irrimediabile e permanente inquietudine, di un disagio indefinito del vivere, di un flusso di stati d’animo mutevoli accompagnati da un vago senso di infelicità e nello stesso tempo dall’aspirazione a evadere dall’esistenza reale, sentita nella sua finitezza, come una prigione dell’io. Nulla sembra che possa contenere questo slancio vitale se non un indefinito ampliamento dei limiti dello spazio e del tempo, il cui termine ultimo non può essere che l’infinito, inteso in senso positivo (Dio, assoluto, umanità) o negativo (annullamento dell’io e ritorno all’indistinto prenatale).
L’uomo romantico desidera dunque l’infinito, l’assoluto, ma questi gli sfuggono, sempre. Da qui una condizione di dissidio interiore, l’aspirazione continua a qualcosa di ulteriore. Come afferma il Mittner, la parola più caratteristica del romanticismo tedesco è Sehnsucht, cioè un senso perpetuo di inappagamento, un desiderio struggente di non si sa bene che cosa, un “male del desiderio”. Questa inquietudine spinge l’anima a protendersi sempre al di là del presente, avvertito come angusto e soffocante.
L’altro termine-chiave del Romanticismo è lo Streben, il “perenne tendere”, lo sforzo di superare i propri limiti, sforzo che si rinnova senza fine. Così al modello umano costruito dal Rinascimento secondo i canoni dell’equilibrio e dell’autocontrollo si sostituisce un nuovo tipo d’uomo, che sente la propria esistenza come incompatibile con il mondo reale: da un lato egli è malato nella volontà, incapace di modificare il reale, immerso nella noia (il “male del secolo”); dall’altro egli è il ribelle, l’eroe “satanico” così ben incarnato dai vari eroi byroniani.
Il soggettivismo, il rifiuto della realtà esterna e della razionalità che la regola, si traducono, come si è detto, in una tensione verso l’infinito, nell’ansia di superare le barriere del reale per attingere una realtà più vera, che è “al di là”, in cui l’io possa identificarsi con la totalità.
Da una disposizione analoga deriva un altro dei “miti” romantici, quello dell’infanzia. Il mondo infantile è visto anch’esso come un paradiso perduto di innocenza e di gioia, una stagione in cui il rapporto con le cose è fresco e immediato e in cui il sogno e l’immaginazione trasfigurano la squallida realtà. Se poi l’infanzia è quella dell’umanità, ecco allora il mito del primitivo, vagheggiato ( è presente l’influsso di Rousseau ) come depositario di una autenticità ormai perduta dall’uomo moderno.
Anche la visione del paesaggio muta profondamente: al locus amoenus della tradizione classica si sostituisce un paesaggio che è proiezione della soggettività dello scrittore, sia quando questa esprima uno stato di esaltazione e di felicità, sia quando venga sconvolta dalle tempeste delle passioni o minata dallo struggimento esistenziale.
Ecco allora la natura sia nei suoi aspetti più dolci e rasserenanti, sia in quelli più cupi e tenebrosi (cieli in tempesta, mari sconvolti, monti selvaggi, laghi solitari). Un esempio assai famoso è Ode to the West Wind, di P.B.Shelley: all’inizio il vento viene invocato come forza che trascina via le foglie morte, ma trasporta anche i semi da cui scaturirà la rinascita della natura a primavera (destroyer - preserver).
Il poeta vorrebbe poi condividere la forza impetuosa del vento, la sua libertà: la sua energia potrebbe liberarlo da una vita spenta, inerte, che pesa su di lui  e lo opprime. Tale energia vitale viene a coincidere con il canto poetico. Non si tratta però di un riscatto individuale : il poeta, negli ultimi versi, vuole che il vento sparga le parole del suo canto tra gli uomini, come “the trumpet of a prophecy”, che risvegli la terra addormentata:

...   O, Wind
If Winter comes, can Spring be far behind?

 

Una delle conseguenze più vistose dell’affermazione romantica della fantasia creatrice consiste nell’immissione nell’universo letterario di realtà di pura invenzione, ignote all’esperienza comune, o nella trasfigurazione di elementi della vita quotidiana al di là di ogni verosimiglianza, al fine di dare espressione simbolica ad aspetti profondi della condizione umana. Tutto nasce dalla fondamentale convinzione che ciò che è creato dalla mente umana ha una verità superiore o almeno non inferiore a ciò che cade sotto l’esperienza sensibile, e che il sogno, l’allucinazione, la visione hanno l’occhio più acuto e penetrante dello stato di veglia, in cui le coordinate del mondo appaiono stabili e regolari.
Già Coleridge si proponeva di trasfigurare i dati della realtà quando, nella Ballata del vecchio marinaio (1798), faceva di un’avventura di mare un simbolo del destino umano. Su questa linea vanno collocati alcuni racconti di Poe e altre opere fino al capolavoro dello scrittore americano Hermann Melville, vale a dire Moby Dick (1851): la lotta titanica che il capitano Achab ingaggia contro la Balena Bianca fino ad affondare con tutto l’equipaggio è così ricca di connotazioni simboliche da collocarsi ben al di là dell’avventura marina, presa a pretesto per dare espressione ai grandi motivi romantici del destino, della colpa, dell’ansia titanica di infinito.
Molte di queste narrazioni spingono la deformazione del reale fino ad accogliere esseri soprannaturali e ad utilizzare ampiamente elementi della tradizione popolare (vampiri, streghe, spettri, morti redivivi, elfi, gnomi). Vengono in tal modo recuperate antichissime credenze che avevano avuto una prima consacrazione letteraria nel Medioevo e nell’opera di Shakespeare. Maestri del genere sono E.T.A. Hoffman (1776-1822) e  E.A.Poe (1809-1849), i cui racconti si caratterizzano per le situazioni ambigue, al confine tra realtà e sogno, tra normalità e follia, tra razionale e irrazionale.
Sono presenti in questi racconti acute intuizioni del dinamismo psichico, come lo sdoppiamento di coscienza, con riflessi su aspetti inquietanti della psiche umana. La percezione di zone oscure  e paurose del nostro io sfocia più di una volta nella rappresentazione del demoniaco, che indica talvolta l’intervento di una forza soprannaturale malefica, ma spesso è la proiezione di componenti inconsce dell’io (aggressività, senso di colpa..).

Il romanzo

La prima apparizione moderna di questo genere si era avuta con i romanzi epistolari di Rousseau e di Goethe. La loro caratteristica consisteva nel fatto di essere, attraverso la confessione epistolare, una proiezione dell’io del narratore il quale, nella persona del protagonista, percorreva una serie di tappe drammatiche che conducevano a una soluzione spesso tragica. I personaggi come Werther (a cui si affiancherà in Italia l’Ortis del Foscolo) sono individui che bruciano la propria esistenza nel tentativo estremo di conseguire l’oggetto dei propri desideri, a costo di urtare contro le ferree leggi della realtà.
E’ ancora a Goethe ( Wilhelm Meister ) che si deve l’elaborazione di quello che la critica tedesca ha chiamato Bildungsroman (“romanzo di formazione”), in cui l’evoluzione del personaggio lo porta a stabilire con la realtà un rapporto dialettico e costruttivo, ad accettare progressivamente la realtà. Il centro del romanzo goethiano è la costruzione della personalità del protagonista; in altre esperienze narrative acquista valore anche l’ambientazione: nascono il romanzo storico e quello realista.
Il più noto rappresentante del romanzo storico è lo scozzese Walter Scott (1771-1832), autore di numerose opere tra le quali spicca Ivanhoe (1820), che ambiente le vicende dei personaggi sullo sfondo della lotta tra Normanni e Sassoni all’epoca di Riccardo Cuor di leone. Non sempre tuttavia il recupero del tempo passato è sorretto da un’accurata indagine storica e la stessa età medievale offre spunti di lettura diversi: ora essa viene sentita come l’epoca delle lotte per la libertà, ora come sfondo per grandi avventure e passioni d’amore.
Gli spazi ricostruiti tendono a evocare suggestioni fantastiche: frequente è la rappresentazione di foreste e castelli, nei quali ci si attende di veder apparire di momento in momento qualche personaggio magico o misterioso, ma non mancano anche ricostruzioni minuziose di luoghi o di consuetudini resi celebri dalla storia.
Elemento essenziale del racconto è comunque l’intreccio, basato in genere su una serie di colpi di scena. Sul piano letterario, Walter Scott genera addirittura una moda: non solo si scrivono numerosi romanzi sul suo modello, ma anche il melodramma, il genere musicale più caratterizzante e popolare dell’Ottocento, trae spunto dalle opere di Scott. Basti citare la Lucia di Lammermoor, musicata da Donizetti.
Un impianto diverso ha il romanzo realista: i personaggi e gli ambienti sono costruiti in una costante interconnessione reciproca e con l’epoca storica in cui si collocano, tanto da risultare plausibili solo in quel contesto; ancora, l’intera realtà sociale di un periodo, dagli strati più bassi a quelli più alti, viene accolta nel tessuto narrativo e trattata con pari dignità di stile. Viene quindi abbandonata ogni idealizzazione, tipica della tradizione classica, e viene accantonata ogni distinzione tra i vari livelli stilistici.
I primi romanzi realistici nel pieno senso della parola vengono scritti in Francia da Stendhal (Il Rosso e il Nero, 1830 - La certosa di Parma, 1839) e da Balzac (un vastissimo ciclo narrativo dal titolo La commedia umana, 1842). L’eroe stendhaliano è un eroe romantico per la smania di amore, di gloria, di affermazione che lo tormenta, ma la sua esperienza non si svolge tutta a livello esistenziale, ma si pone continuamente in rapporto con la dinamica politica e sociale del suo tempo. Anche per Balzac la realtà è la vera maestra: vicende e psicologie dei suoi romanzi acquistano verità e plausibilità esclusivamente per l’aderenza a condizione storiche e sociali determinate, quelle della società francese postnapoleonica. Il milieu sociale determina i costumi e i caratteri, le psicologie e le passioni, le professioni e i modi di vita, e il romanziere deve essere estremamente minuzioso e preciso nel coglierne tutti gli aspetti, se vuole davvero comporre un affresco esauriente e credibile di un’epoca, nell’infinita varietà dei suoi particolari. Balzac ha come filo conduttore la comprensione delle cause, del senso nascosto di quell’immenso groviglio di figure, di passioni e di avvenimenti: si tratta del movente economico, della legge del profitto e del guadagno, caratteristiche della società borghese che si sta affermando in Francia.
Fondamentalmente realistica è anche l’opera di Nicolaj Gogol (L’ispettore generale, 1836 - Le anime morte, 1842), anche se non in senso proprio come per l’opera di Balzac, dato che in Gogol è presente una forte tendenza alla deformazione grottesca, all’esasperazione delle situazioni e dei caratteri: il mondo reale, dietro le sue apparenze logiche e rispettabili, si rivela allo scrittore nella sua sostanziale, disarmonica assurdità.
Anche il romanzo maggiore di Victor Hugo ( I miserabili, iniziato negli anni Trenta, ma pubblicato nel 1862) ha una solida base realistica (la descrizione della vita degli strati più miseri della popolazione parigina intrecciata con varie vicende individuali e con i principali fatti storici, da Waterloo alle barricate del 1832), ma reca una forte impronta romantica per la presenza continua, nella pagina, dell’io dello scrittore, che giudica, esorta, spiega, si commuove, si sdegna, ironizza.
Per Hugo il romanzo è la grande epopea degli emarginati del mondo moderno. L’opera di Hugo diviene presto molto popolare e raggiunge ampi strati della piccola borghesia e dei ceti operai del tempo. In questo senso è importante l’opera di Charles Dickens (Il circolo Pickwick, 1836 - Oliver Twist, 1837-38  - David Copperfield, 1849-50).
Il realismo di Dickens è caratterizzato da una originale mescolanza di humour britannico e di forme accentuate di sentimentalismo e di patetismo. Gli eroi di Dickens sono in genere emarginati della società industriale, uomini e donne, spesso adolescenti o giovani, di cuore buono e generoso, che la vita trascina in situazioni dolorose spesso melodrammaticamente accentuate, dalle quali è possibile uscire solo dopo lunghe peripezie. Dickens è animato da seri intenti di denuncia nei confronti dell’oppressione e della prevaricazione, ma non ha fiducia nella rivoluzione e nella forza innovativa delle masse ( al contrario di Hugo), ma crede nella conversione del cuore, nella riscoperta, da parte dei ricchi e dei potenti, della fratellanza umana.
In lui sono dunque assenti le grandi scene collettive che si ritrovano in Stendhal e in Hugo e prevalgono invece situazioni di tipo familiare, descrizioni di interni o di squallidi scorci urbani, affidando così la rappresentazione della società contemporanea prevalentemente a storie individuali fortemente emblematiche.
Con la pubblicazione a puntate del suo Circolo Pickwick, Dickens apre una strada ricca di sviluppi, ma è un editore parigino che, nel 1836, ha l’idea di lanciare un periodico caratterizzato, oltre che dal basso costo e da inserti pubblicitari a pagamento, dalla pubblicazione, in appendice, di un romanzo a puntate.
Nasce così il romanzo d’appendice (o feuilleton), la cui caratteristica fondamentale è quella di far vendere più copie del giornale: l’interesse commerciale è dunque predominante, così il romanziere deve riuscire a tener desta l’attenzione del lettore, fornendogli ogni volta un episodio sufficientemente autonomo e definito, ma nello stesso tempo sospeso e incerto, tanto da generare il bisogno di leggere la puntata successiva. Per quanto riguarda i contenuti, è chiaro che non si va troppo per il sottile: belle fanciulle in pericolo, disgustosi tiranni, sentimenti sempre eccessivi, effetti vistosi fino all’inverosimile. Non mancano comunque opere che, al di là del mezzo di trasmissione, hanno una valenza letteraria di rilievo: ricordiamo I tre moschettieri (1844) di Alexandre DumasI misteri di Parigi (1842-3) di Eugène Sue.


Il Romanticismo italiano: la polemica classico-romantica

 

Il “tipo” di Romanticismo che si afferma più ampiamente in Italia è quello “liberale” e “nazionale”. Questa scelta di fondo viene compiuta negli anni della polemica dei romantici lombardi contro la tradizione classicista.
Le polemiche hanno inizio in seguito a un articolo di M.me de Stael, Sulla maniera e utilità delle traduzioni, pubblicato sul primo numero della Biblioteca italiana, una rivista stampata a Milano: l’articolo invitava i letterati italiani a rinnovarsi nello stile e nei contenuti attraverso la lettura e la traduzione dei testi romantici inglesi e tedeschi. Non si trattava, e la De Stael lo diceva chiaramente, di un invito all’imitazione, ma a un proficuo allargamento di conoscenze al fine di allontanare la cultura italiana dalla propria chiusa provincialità.
Molti letterati si levano a difendere la tradizione classicista, rivendicandone il carattere nazionale e respingendo ogni indebito intervento straniero: tra questi va ricordato Pietro Giordani (Lettera di un italiano, 1816), oltre a Giacomo Leopardi, una cui Lettera del 1818  non viene però pubblicata.
Pur se intelligentemente motivate, le scelte dei classicisti rimangono però legate a una visione astratta e statica del patrimonio culturale nazionale: essi limitano la disputa alle sole ragioni poetiche e letterarie, ancorati alla difesa delle “regole”, della mitologia, del “bello scrivere”. Altri scrittori, invece, prevalentemente lombardi e piemontesi, difendono le tesi della De Stael e ci offrono i primi “manifesti” del Romanticismo italiano: si tratta di Giovanni Berchet (Lettera semiseria di Crisostomo, 1816), di Ludovico Di Breme, Pietro Borsieri, Ermes Visconti. Lo stesso Manzoni scrive una Lettera sul Romanticismo (1823), ma essa viene pubblicata solo nel 1846.
I romantici avvertono l’esigenza di allargare il panorama culturale, coinvolgendo le diverse manifestazioni della vita intellettuale e civile. Essi accolgono i principi fondamentali del Romanticismo europeo, vale a dire:

  • rifiuto delle regole letterarie e dell’imitazione
  • opposizione tra il classicismo pagano e il mondo moderno cristiano e romantico;
  • rifiuto della mitologia;
  • ricerca di una poesia popolare, capace di suscitare un generale risveglio delle coscienze ( il termine popolare va inteso nel senso di “derivante direttamente dai bisogni e dalle esigenze più vive del popolo”);
  • rifiuto della ragione come entità universale astratta;
  • riscoperta del sentimento, inteso come espressione dell’animo individuale che, in unione con la ragione (non però astratta), forma l’uomo completo;
  • riscoperta della nazione, intesa come unità di lingua, cultura, tradizioni, stirpe. C’è, comunque, il rifiuto netto di ogni gretto nazionalismo: nel loro concetto di patria trova posto infatti anche un progetto per il futuro, con un senso di dinamismo della storia che era del tutto sconosciuto alla tradizione classica.

 

Alle spalle dei romantici lombardi c’è l’influenza dell’esperienza illuministica del Parini, con il suo carattere realistico e la grande sensibilità per la funzione civile della letteratura. Tale influsso spiega anche il rifiuto, generalizzato, nei confronti delle tematiche “lugubri” e degli orientamenti irrazionalistici del Romanticismo tedesco ( si ricordi al riguardo soprattutto Novalis). Il carattere “militante” della cultura romantica italiana  è dimostrato anche dalla breve, ma importante esperienza del Conciliatore, periodico milanese che esce una dozzina di volte negli anni 1818-19 prima di essere soppresso dalla polizia austriaca. Il giornale, finanziato da due nobili milanesi, il conte Confalonieri e il conte Lambertenghi, riunisce intellettuali lombardi e piemontesi (Berchet, Manzoni, Visconti, Pellico e altri).
Sul piano della letteratura, il giornale combatte ogni inutile estetismo., ma, oltre alla letteratura, il Conciliatore tratta una vasta gamma di argomenti e discipline (economia, scienza, storia, diritto, costume). I romantici lombardi si pongono in una posizione moderata rispetto al classicismo e alla cultura illuministica: essi non rifiutano la letteratura classica, ma ritengono che dai classici si debba imparare a produrre opere d’arte che derivino dai problemi morali e civili dell’epoca presente e della cultura della propria nazione. D’altro canto, essi respingono l’imitazione in senso stretto sia dal punto di vista formale, sia dal punto di vista del contenuto, così come rifiutano le regole aristoteliche e la mitologia, quest’ultima in quanto espressione di una realtà ben diversa dalle concezioni morali e religiose dei moderni.

Giovanni Berchet

Nato a Milano nel 1783, segue studi irregolari e si avvia a una carriera da impiegato. Dopo la pubblicazione della Lettera semiseria... è tra il fondatori del Conciliatore e si iscrive alla Carboneria. Compromesso nei moti del 1821, fugge all’estero, prima in Francia, poi in Inghilterra e in Belgio. Durante l’esilio compone il poemetto  I profughi di Parga (1821), le Romanze (1823) e il poemetto Le fantasie (1829). Rientrato in Italia nel 1845, partecipa ai moti del 1848, poi viene eletto deputato al parlamento subalpino. Muore nel 1851.
La sua poesia si avvale di grande varietà metrica e affronta i temi tipici della poesia risorgimentale (il tema della patria, quello dell’oppressione politica e dell’esilio) a cui si aggiunge, particolarmente nelle Romanze, il tema amoroso e sentimentale.
L’opera più nota è comunque la Lettera semiseria di Crisostomo, pubblicata a Milano nel 1816. L’opera è strutturata in forma epistolare, nel tono familiare di un padre, Crisostomo (dal greco, “bocca d’oro”), che scrive al figlio collegiale per spiegargli il senso della poesia romantica partendo  dal modello di due liriche di Bürger (Eleonora e Cacciatore feroce), alla cui traduzione in prosa la Lettera fa da premessa.
Berchet, proprio basandosi sulla traduzione in prosa, esprime l’esigenza di spostare dalla forma al testo (quindi ai contenuti) l’attenzione dello scrittore e del lettore di poesia. Egli passa poi a chiarire il concetto di poesia popolare: partendo dalla distinzione tra Ottentotti, Parigini e Popolo, egli giunge a una delle più illuminanti definizioni del pubblico al quale il poeta romantico intendeva rivolgersi.
I tre gruppi descritti dal Berchet si differenziano sia in base a elementi di carattere sociologico, sia in base a caratteristiche più specificamente culturali. Rifiutati gli Ottentotti, plebe necessariamente costretta all’ignoranza da condizioni materiali impietose, Berchet non trova il proprio destinatario neppure nei Parigini, fautori (i classicisti sono il bersaglio più evidente) di un’esasperata raffinatezza dell’arte. I lettori ai quali il poeta si rivolge sono i “milioni” di individui, dotati di una certa educazione e sensibilità (“leggenti e ascoltanti”), che egli qualifica come popolo, riferendosi evidentemente ai ceti borghesi.
Il tono semiserio è dato all’opera dal fatto che nella parte conclusiva si effettua una finta ritrattazione di tutto quanto era stato scritto, al fine di dimostrare per absurdum l’insostenibilità delle tesi avversarie ( il classicismo, il formalismo, il principio dell’autorità).

Scienza e progresso: il Naturalismo in Francia

Dalla metà del secolo XIX avviene un profondo cambiamento della cultura sotto la spinta di due grandi fenomeni: l’ascesa vertiginosa della borghesia liberale, con la sua ottimistica fiducia nel progresso, e l’affermarsi della scienza. Ne deriva non solo una filosofia, ma un modo di pensare generalizzato, una mentalità scientifica diffusa. Tale insieme di esperienze culturali prende nome di Positivismo.
Sul piano più strettamente filosofico, il Positivismo è una teoria della conoscenza della realtà che, utilizzando i metodi della scienza, li applica poi all’uomo, al suo mondo spirituale, alla società. Le due correnti fondamentali, quella del positivismo sociale e quella del positivismo evoluzionistico, si propongono l’una di porre la scienza a fondamento di un nuovo ordine sociale, morale e religioso, l’altra di costituire una visione complessiva del mondo fondata sul concetto di evoluzione.
Augusto Comte, nel suo Corso di filosofia positiva (1830-1842), sostiene che l’umanità ed ogni settore della conoscenza umana passano attraverso la legge dei tre stadi : il primo è quello teologico, dove i fatti sono spiegati in base all’azione e all’intervento di forze soprannaturali; viene poi lo stadio metafisico, dove i fatti sono spiegati in base a ragionamenti astratti e deduttivi; infine c’è lo stadio scientifico o positivo, dove i fatti sono conosciuti in base all’osservazione dei fenomeni, alla loro misurazione e alla loro verifica sperimentale.
Secondo Comte, dunque, tutto quello che possiamo conoscere della realtà è costituito da ciò che possiamo osservare o legittimamente dedurre da ciò che osserviamo: non si può avere conoscenza dei problemi religiosi e metafisici, perché tali problemi hanno a che fare con un mondo che non può mai essere osservato. Scopo della scienza è allora la formulazione della legge, la cui conoscenza permette la previsione, che a sua volta guida e dirige l’azione dell’uomo sulla natura.
Lo stadio positivo dell’umanità potrà dirsi completamente attuato quando tutte le attività umane avranno fatto proprio il metodo scientifico. Esso si è già da tempo  imposto nella matematica, nell’astronomia e nella fisica, ma è del tutto assente dalla politica, dalla morale e dall’economia, ancora soggette alle superstizioni, ai pregiudizi e alle iniziative empiriche degli individui e dei gruppi.
Promuovere il passaggio allo stadio positivo di tutte le attività umane è appunto il compito della filosofia positiva: essa deve unificare tutti i risultati delle scienze particolari e poi indirizzarli alla realizzazione di una scienza della società, che Comte chiama fisica sociale o sociologia. Tale scienza è la premessa di una futura società pacifica e altamente produttiva, caratterizzata da una rigorosa divisione sociale e governata da un’élite di scienziati e di tecnici.
Charles Darwin (1809-1882), riprendendo le teorie del francese Lamarck, porta a compiutezza la teoria dell’evoluzione biologica. In due opere, L’origine della specie (1859) e L’origine dell’uomo (1871), Darwin spiega che l’evoluzione naturale obbedisce ad una legge fondamentale, quella della selezione naturale: tutti gli esseri viventi, fra i quali anche l’uomo, nel corso dei secoli e a contatto con l’ambiente hanno subito lente trasformazioni biologiche, trasmesse ereditariamente, durante le quali sono state eliminate le specie inadatte a sopravvivere nell’ambiente naturale, mentre sono sopravvissute e migliorate quelle più adatte.
La natura quindi, nella lotta per l’esistenza, elimina un numero sterminato di individui, mentre i pochi individui con qualità superiori lentamente si affermano, dando origine a nuove specie più perfette.
Per l’inglese Herbert Spencer (1820-1903) l’evoluzione è passaggio necessario da una forma meno coerente ad una forma più coerente: anche l’evoluzione sociale ha le stesse caratteristiche dell’evoluzione organica, cioè del passaggio meccanico da una specie all’altra. Nella visione di Spencer sembra quindi dominare una fatale rassegnazione, considerato che l’uomo non può aver parte nei mutamenti, che sono appunto meccanici e determinati da condizioni esterne, quali l’ambiente e l’ereditarietà.
A sua volta il francese Ippolito Taine (1828-1893) abolisce ogni differenza di qualità tra realtà naturale e realtà umana: l’uomo è un animale di specie superiore che produce filosofie e poesie, come i bachi da seta i loro bozzoli e le api i loro alveari. In questo contesto l’opera d’arte, come ogni fatto storico, è il risultato di tre fattori : l’ambiente (cioè circostanze fisiche, sociali, politiche culturali, religiose, climatiche ), il momento (la situazione storica in cui si nasce e vive), la razza (struttura del corpo, temperamento, caratteri ereditari, elementi fisiologici, istinti). L’opera d’arte è divenuta un prodotto sociale e la libertà e l’intervento personale dello scrittore sono ridotti a zero: l’artista è puro registratore del dato reale.
Il Positivismo esalta dunque la scienza, con una grande fiducia nella possibilità dell’uomo di progredire e di liberarsi dai suoi mali: in effetti, nella seconda metà dell’Ottocento, la fisica scopre le onde elettromagnetiche, i raggi X, gli elettroni, la radioattività dei sali d’uranio; la biologia le leggi dell’ereditarietà (con il monaco boemo Mendel ); la medicina scopre i bacilli di alcune malattie, studia il trattamento antisettico delle ferite, introduce metodi di vaccinazione nella cura di alcune malattie infettive.
Anche lo chimica registra un forte sviluppo: si trovano sostanze atte a combattere le malattie delle piante, a conservare gli alimenti nel freddo artificiale, a preparare acido solforico. Nel campo della metallurgia si scoprono metodi di preparazione dell’acciaio su larga scala, vengono inventate la turbina idraulica e la dinamo, si inizia lo sfruttamento dell’energia elettrica, si mettono a punto nuovi metodi di estrazione del petrolio. Vengono esaltate nuove figure sociali: lo scienziato, il medico, il maestro, l’ingegnere, il capitano d’industria. Anche la letteratura è profondamente influenzata dal clima dominante: ciò spiega anche lo stretto rapporto tra l’opera del medico Claude Bernard e del romanziere Emile Zola.
Il primo, nell’ Introduzione allo studio della medicina sperimentale (1865) afferma che l’organismo animale non è in realtà che una macchina vivente che funziona seguendo le leggi della meccanica e quelle fisico-chimiche: non c’è pertanto alcuna differenza tra le principali scienze biologiche e le leggi fisico-chimiche. da queste ultime, Bernard ricava una metodologia di base applicabile alla medicina: formulare continuamente ipotesi e verificarle con l’esperienza fino alla scoperta della legge; solo così la medicina potrà guarire la malattia.  Analogamente, per Zola il romanzo sarà costruito con gli stessi strumenti della scienza, applicando il metodo dell’ipotesi e dell’esperienza.
Così, anche sul piano letterario si afferma il realismo. Nella letteratura francese un precursore è Honoré de Balzac, il quale applica alla società umana le teorie di condizionamento ambientale espresse dal biologo Geoffroy de Saint-Hilaire. L’individuo esiste dunque solo in rapporto alla realtà, ma l’uomo ha comunque, a differenza degli altri animali, la possibilità di mutamento sociale, di passare da un ruolo all’altro. Le cause di tali mutamenti vengono identificate da Balzac (Commedia umana, 1842 ) nell’economia capitalistica.
Il romanziere allora fa appello alla causalità economica per spiegare i rapporti tra gli uomini: il romanzo non è più volto ad individuare valori astratti ed assoluti, ma a ritrarre la società in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue classi dalle più umili alle più elevate. Eugenia Grandet è forse l’opera in cui Balzac riesce a disegnare con maggiore efficacia la società francese dell’epoca: la borghesia degli affari, della speculazione, dell’avarizia, appare in tutta la sua “grandezza”  negativa: lo scrittore punta lo sguardo su coloro che fanno del denaro un fine e si appagano della contemplazione dell’oro. Papà Grandet ne è un prototipo.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta si afferma poi in Francia una “scuola realista” (Courbet in pittura, Duranty, Murger ...) che si impegna in una forte polemica contro ogni tradizione, contro il Romanticismo e i suoi valori ideali, lo spirito borghese con il suo perbenismo e le sue ipocrisie.
La lezione di Balzac viene ripresa e approfondita da Gustave Flaubert e dai fratelli Goncourt. Il primo vuole un romanzo realisticamente particolareggiato ed esatto, dove sono presenti solo elementi oggettivi, ambientali e sociali e dove i comportamenti e l’agire dei personaggi sono condizionati e determinati dalle circostanze: “ La grande arte è impassibile e impersonale “ afferma Flaubert. E ancora:
« ... l’artista deve essere nella sua opera come Dio nella creazione, invisibile e onnipotente, sì che lo si senta ovunque, ma non lo si veda mai. E poi l’Arte deve innalzarsi al di sopra dei sentimenti personali e delle suscettibilità nervose. E’ ormai il tempo di darle, mediante un metodo implacabile, la precisione delle scienze fisiche».(1857).
Con Madame Bovary (1857) , Flaubert segna una svolta nella storia del romanzo europeo: tramonta il romanzo fondato sull’autore onnisciente, che regge palesemente i fili della vicenda, che interviene esplicitamente a spiegare, commentare, giudicare.
La vicenda, in Flaubert, è presentata dal punto di vista soggettivo e parziale dei personaggi: all’inizio e alla fine quello di Charles Bovary; in tutta la parte centrale quello di Emma. I fatti sono dunque visti secondo l’ottica del personaggio, con la tecnica  narrativa del  discorso indiretto libero.  Il romanzo è opera da non ridurre a definizioni univoche: da un lato Emma, con i suoi sogni e le sue aspirazioni a una vita più intensa, esprime una forma di contestazione del grigiore e della grettezza della borghesia di provincia; d’altro canto è anch’essa partecipe di quella stessa grettezza: i sogni romantici ricavati dai libri si esprimono infatti in luoghi comuni, in aspirazioni mediocri.
Ella, strumento di un’analisi critica di tutta una società e di tutta una mentalità, è al tempo stesso oggetto e vittima di quest’analisi implacabile. Nè lo scrittore si esclude, se in tal senso si vuole interpretare la famosa affermazione « Madame Bovary sono io ».
Nel 1864 esce Germinie Lacerteux dei fratelli Goncourt: il romanzo narra le esperienze sessuali e la graduale perdizione di una donna di servizio. Si apre la via alle classi dimenticate dalla storia, anche se sarebbe errato pensare che i Goncourt avessero interessi sociali e politici. Essi avevano piuttosto curiosità intellettuale e nella loro opera è manifesta la volontà di un rigoroso studio di ambienti e, soprattutto, di casi patologici.
Nella prefazione di quest’opera si afferma “il diritto al romanzo” da parte delle classi popolari, ad un romanzo serio e “vero”, non a forme di narrativa cosiddetta “popolare” quali ad esempio i feuilleton. Ciò significa soprattutto un allargamento della materia narrabile, sino a comprendere tutte le forme di degradazione umana e sociale che, per quanto per lo più escluse dalla letteratura, in realtà esistono e sono degne di una rappresentazione veritiera e appunto “scientifica”.
Grazie ai De Goncourt, ma soprattutto allo Zola del saggio sul roman expérimental, gli aspetti salienti del naturalismo francese assumono una salda base teorica. I fondamenti di tale dottrina poetica sono la fiducia nella scienza e nel progresso e il determinismo positivistico: i fenomeni psicologici e sociali non sono frutto di cause insondabili, di natura spirituale o metafisica; sono prodotti dell’attività biologica, fisiologica e psicologica dell’individuo e delle interazioni tra gli individui. Se ci appaiono misteriosi, di natura incerta, irrazionali, è solo perché la scienza non ha fatto ancora i progressi necessari, perché non sono stati sufficientemente analizzati: in futuro non appariranno più tali, proprio come quelli che in fisica e in chimica apparivano fenomeni misteriosi e ora sono spiegati razionalmente.
Da questi presupposti deriva la fiducia che il metodo scientifico, sperimentale, possa essere trasferito alla letteratura. Si delineano così per lo Zola la specificità e i compiti del romanzo sperimentale :
« possedere il meccanismo dei fenomeni umani, mettere in luce gli ingranaggi delle manifestazioni passionali ed intellettuali quali li spiegherà la fisiologia, sotto le influenze dell’ereditarietà e delle circostanze ambientali, poi mostrare l’uomo mentre vive nell’ambiente sociale che lui stesso ha prodotto, che quotidianamente modifica e in seno al quale subisce a sua volta una continua trasformazione ».
In questo modo ( Zola lo dice assai esplicitamente ) il romanzo sperimentale potrà contribuire a incrementare le conoscenze della scienza e fornire strumenti ai politici per sanare le ingiustizie e le disfunzioni sociali. Ne deriva, come ovvia conseguenza, il criterio dell’ oggettività della rappresentazione:
« ... come è inconcepibile uno scienziato che si arrabbia con l’azoto perché impedisce la vita “, così è inconcepibile che il narratore partecipi emotivamente agli esperimenti umani e sociali che produce nel suo laboratorio, deplorando o lodando, giudicando, sulla base di qualsivoglia sistema di valori, fatti e comportamenti dei suoi personaggi. Se l’indagine sarà condotta con il rigore e la perspicacia necessari, se l’esperimento sarà correttamente eseguito, i risultati parleranno da soli ».


La poesia come intuizione: Baudelaire e la poetica del Simbolismo

Il Naturalismo francese avrà larghissimo influsso in tutta Europa e determinerà, nelle diverse nazioni, in presenza di tradizioni culturali e di situazioni storiche differenti, scuole e movimenti anche assai vari, ma unificati da alcuni presupposti essenziali: l’impersonalità, il concetto di romanzo-documento, la dignità estetica di tutto ciò che è reale, messo a fuoco “sperimentalmente”.
L’istanza realistica è però accompagnata, non seguita come si potrebbe erroneamente credere, da una tendenza molto diversa, addirittura opposta, anche se alcune radici storiche e psicologiche sono certamente comuni: nell’estetica naturalista occupano un posto importante il “brutto”, il “patologico”, che diventano oggetto di analisi scientifica.
Le stesse categorie sono invece oggetto di un’intuizione poetica nelle Fleurs du Mal di Charles Baudelaire (1857): se per i naturalisti il male è anzitutto un prodotto sociale, suscettibile di osservazione scientifica, per Baudelaire esso è innanzitutto una condizione esistenziale estremamente feconda e positiva, che non si può e non si deve curare, giacché a essa è legata la possibilità per l’uomo di sottrarsi, dolorosamente e contraddittoriamente, all’angosciosa realtà quotidiana.
Con Baudelaire giunge alle estreme conseguenze il concetto romantico di “poeta” (equivalente di malato, visionario, maledetto) e la malattia diventa capacità visionaria, la degradazione si mescola con l’aspirazione inesausta alla più limpida purezza, l’eccentricità e la marginalità sociale si trasformano in lucidità di giudizio sulla realtà.
Prima di Baudelaire c’era in Francia una produzione poetica di accentuate modalità romantiche, di compiaciuto lirismo, di facili effusioni. A questo orientamento attorno agli anni Sessanta reagiscono alcuni poeti - tra cui sono da ricordare Théophile Gautier (1811-72), Théodore de Banville (1823-91), Charles Marie Leconte de Lisle (1818-94) e José Maria de la Hérédia (1803-39) - che si autodefiniscono Parnassiani con preciso intento polemico.
Riprendendo e ribaltando una famosa dichiarazione di Alphonse de Lamartine, che si era vantato di aver fatto scendere la poesia dal monte Parnaso, mitologica sede delle Muse (vale a dire di aver liberato la poesia dalla tradizionale codificazione, di averla resa “moderna” nelle tematiche e nel linguaggio ), questi poeti mirano invece a riportarla nell’antica sede, cioè a ridare all’opera poetica la tradizionale dignità mediante la ricerca di una rigorosa perfezione espressiva che escluda qualsiasi slancio effusivo e sentimentalistico, destinato poi a tradursi in soluzioni formali approssimative.
Essi identificano quindi il fine della propria arte con la rappresentazione il più possibile oggettiva ed accurata, in perfetti versi impassibili, di avvenimenti storici e di fenomeni naturali. Il componimento parnassiano si distingue cioè per la razionale chiarezza della sua impostazione e la calcolata distribuzione delle sue parti, per la ricercatezza delle soluzioni metriche, per la sapienza retorica con cui viene utilizzato il materiale verbale.
Il poeta parnassiano non lascia mai qualcosa di indefinito e di sommariamente accennato e va scrupolosamente alla ricerca della formulazione precisa ed unica.
Alla luce di quanto detto, non è difficile comprendere come la produzione parnassiana si ricolleghi, in definitiva, ad una costante della cultura francese, nella quale già a partire dal ‘600, con Racine e Boileau, classicismo e razionalismo si erano fusi in quello che comunemente viene definito esprit de clarté, “esigenza di chiarezza e razionalità”.
Attorno agli anni Sessanta nel panorama della poesia francese non c’erano però solo i parnassiani con il loro “richiamo all’ordine” : c’era anche, come si è detto, Baudelaire con le sue Fleurs du Mal, un testo col quale veniva avviata una sorta di rifondazione della poesia. Baudelaire è per molti il “poeta della modernità”: egli ha usato programmaticamente questa parola, scusandosi per la sua novità, nel 1859: Baudelaire la riteneva l’espressione più adatta a esprimere la particolarità dell’artista nel suo tempo. Il poeta ha la capacità di vedere nel deserto della metropoli non solo la decadenza dell’uomo, ma anche una misteriosa bellezza fino ad allora non scoperta.
La modernità in Baudelaire è un concetto molto complesso: sotto l’aspetto negativo esso significa il mondo delle metropoli senza verde, con la loro bruttezza, il loro asfalto, la loro illuminazione artificiale, le loro gole di pietra, le loro solitudini pur nel brulicare della folla. Ma d’altro canto vi è quella che i critici hanno chiamato dissonanza: Baudelaire fa del negativo qualcosa di fascinoso. Il misero, il decadente, cattivo, notturno, artificiale, offrono materie stimolanti che possono guidare la poesia su nuove vie.
Dunque, in Baudelaire vi è una fondamentale opposizione (“dissonanza”) tra satanismo e idealità: le Fleurs du Mal la rivelano fin dal titolo, che è un ossimoro, la figura retorica maggiormente usata dal poeta. Da un lato infatti si può distinguere un gruppo di parole-chiave “sataniche” (oscurità, abisso, angoscia, prigionia, freddo, nero, putrido), dall’altro un gruppo di immagini “ideali” (azzurro, cielo, luce, purezza), spesso legate insieme proprio in maniera ossimorica. Il male è allora un polo di tensione intellettuale, da raggiungere e concepire in maniera iperbolica al fine di ottenere lo slancio verso l’assoluto, l’ideale.Come nota H. Friedrich (1971),
« ... demoniaco e angelico, degradato e puro, peccato e salvezza sono opposti inscindibili nella poesia baudelairiana, secondo una struttura concettuale che richiama quelle del cristianesimo medievale, con la differenza - decisiva - che l’oggetto dell’anel»to è assente, che l’idealità cui il poeta tende con tutte le sue forze è vuota, non coincide con una persona o con un’entità reale, ma col nulla, tanto che l’aspirazione all’ideale si presenta come una forma vuota, una ricerca senza meta e perennemente rinnovantesi su se stessa».
La dissonanza investe anche i rapporti tra forma e contenuto: Baudelaire afferma il valore assoluto della forma, anche se si applica a un contenuto putrido e disorganico.
Questo non significa soltanto che la bellezza poetica riscatta e rende accettabile qualsiasi contenuto, anche ripugnante, ma anche e soprattutto che la poesia è salvezza e ordine per il solo fatto di essere poesia, rigore formale assoluto: quello che conta non è più, come per i romantici, l’espressione libera del sentimento, la proiezione anche informe dell’esperienza autobiografica nella pagina letteraria, nel frammento poetico, ma al contrario la capacità di trasferire l’ispirazione in strutture spersonalizzate e architettoniche, caratterizzate dalla lucida precisione, dal rigore e dall’astrattezza delle forme.
Le Fleurs du Mal non sono una semplice raccolta di liriche, ma un libro organico che, attraverso la rappresentazione del conflitto tra lo spleen e l’idéal e le successive evasioni nel mondo urbano, nell’arte  e nel male giunge fino alla raffigurazione della morte:
« O Mort, vieux capitaine, il est temps! levons l’ancre!
Ce pays nous ennuie, ô Mort! Appareillons!
Si le ciel et la mer sont noir comme de l’encre,
nos coeurs que tu connais sont remplis de rayons!

Verse-nous ton poison pour qu’il nous réconforte!
Nous voulons, tant ce feu nous brûle le cerveau,
plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe?
au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau! »

E’ il germe del Simbolismo, la grande stagione poetica francese che da Baudelaire passerà attraverso le esperienze di Rimbaud, Verlaine e Mallarmé, che ne darà la base teorica. La poesia simbolista vuole celebrare quel mondo di misteriose presenze che si trovano attorno e dentro gli oggetti e l’uomo: essa invita ad andare oltre i sensi e le apparenze, per cogliere, per mezzo dell’intuizione, quelle zone indefinite e inesprimibili che la parola nella sua corposità denotata e logica non riesce ad afferrare. Del Simbolismo si riparlerà a proposito delle premesse della poetica decadente.


La produzione letteraria in Italia : la  Scapigliatura

Con il termine di Scapigliatura, titolo di un libro di Cletto Arrighi (La scapigliatura e il 6 febbraio, 1862) si è soliti indicare un gruppo di scrittori, per lo più lombardi, ma anche piemontesi e liguri, che operano tra il 1860 e il 1870. Arrighi nel suo romanzo definiva “scapigliati”
« una certa quantità di individui di entrambi i sessi, fra i venti e i trentacinque anni, non più, pieni di ingegno quasi sempre, più avanzati del loro tempo, indipendenti come l’aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; irrequieti, travagliati, olenti; i quali o per certe contraddizioni terribili tra la loro condizione e il loro stato - vale a dire tra ciò che hanno in testa e ciò che hanno in tasca - o per certe influenze sociali da cui sono trascinati, e anche solo per una certa maniera eccentrica e disordinata di vivere, o infine per mille altre cause e mille altri effetti ... meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia sociale ».
Arrighi sottolineava che questo gruppo di giovani poteva essere definito un movimento sorretto «dallo spirito di rivolta e di opposizione a tutti gli ordini stabiliti ».
L’avvenimento storico cruciale degli anni centrali del secolo è l’unificazione italiana con gli entusiasmi e poi le delusioni ad esso legati. Da questo contesto problematico bisogna muovere per comprendere il fenomeno della Scapigliatura, che domina il panorama letterario dei primi anni dell’unità ( protendendosi poi, parallelamente ad altri più notevoli fenomeni, fin quasi a fine secolo), e, in parte, anche per comprendere la specificità (pessimismo, regionalismo) del Verismo italiano rispetto al Naturalismo francese.
Il termine creato da Arrighi successivamente si diffonde nell’ambiente del liberalismo lombardo, assumendo una connotazione politico-rivoluzionaria, quindi viene ad indicare una schiera di giovani anticonformisti, avversi ad ogni forma di vita borghese, ribelli e insofferenti, e di qui, per assimilazione ai termini bohème e bohémien, passa ad identificare direttamente il gruppo di letterati milanesi che si riunisce attorno a Cletto Arrighi (Rovani, Arrigo e Camillo Boito (1842-1918 ; 1836-1914 ), Emilio Praga (1839-1875), Carlo Dossi (1849-1910)), poi quello piemontese che annovera Giovanni Camerana (1845-1905), Giuseppe Giacosa (1847-1906), Roberto Sacchetti (1847-1881).
La Scapigliatura non elabora una poetica originale e si presenta come un fenomeno interessante, ma anche limitato e in certa misura velleitario, specie se confrontato con quanto si veniva elaborando negli altri paesi : in Francia c’erano Baudelaire, Rimbaud, il Simbolismo, narratori come Flaubert e Zola. Alla Scapigliatura tuttavia va riconosciuta la funzione - non di poco conto in un contesto quale quello italiano ottocentesco - di recupero di modelli stranieri e di alcune voci dell’attualità più scandalosa ( i “poeti maledetti”).
Alle radici del fenomeno e del movimento stanno la delusione per gli esiti del risorgimento, un contraddittorio rapporto con l’industrializzazione incipiente ( tra il fascino e il rifiuto ), una volontà di opposizione ai modelli di vita e alla mentalità borghese, che si concretizzano in un rapporto ambiguo tra vita e letteratura, vale a dire nei miti della vita dissoluta, negli atteggiamenti umani e letterari del ribellismo e del maledettismo, in un programma di svecchiamento e di contestazione politico-sociale.
Sul piano strettamente letterario, la Scapigliatura si caratterizza per il rifiuto dei modelli letterari romantici e tardo-romantici nostrani ( anche qui non senza ambiguità e contraddizioni : il Manzoni, ad esempio, è il principale obiettivo polemico degli scapigliati, ma anche un modello fortemente influente sul piano del linguaggio e dello stile ) e per i contatti con zone poco frequentate del romanticismo straniero: Baudelaire e i poeti maledetti francesi, i narratori umoristici e realistici inglesi, i parnassiani e i simbolisti.
Soprattutto da Baudelaire gli Scapigliati cercano di derivare un’arte che sia in grado di sondare zone ignote della realtà ed esprimere rapporti più complessi tra le cose, tra i sensi. Dal  realismo essi invece derivano gli aspetti più eccentrici e paradossali, usati come arma di polemica contro l’ipocrisia borghese. Nell’opera narrativa di alcuni, però, soprattutto di Praga, l’apporto del realismo si concretizza nel gusto per il bozzetto, per le piccole e accurate descrizioni di ambiente, con un linguaggio volutamente semplice, quasi un calco del linguaggio parlato.
Il “manifesto” dellia lirica degli Scapigliati è Preludio di Emilio Praga, in cui lo scrittore sottolinea l’opposizione personale e generazionale ai valori e alla poesia del recente passato, indica come tema privilegiato della sua poesia la conflittualità dell’uomo contemporaneo, e polemizza aspramente con Manzoni, glorificato e “adorato” poeta di un passato ormai inattuale.
Di Preludio vanno innanzitutto notate la vistosità dei toni polemici e l’ostentazione di satanismo ( vv. 15-16; 23-24 ). Si tratta di elementi che, al di là della specifica vicenda biografica e della personalità del Praga, oltre che delle indiscutibili suggestioni di Baudelaire, vanno storicizzati e visti come testimonianza di un disagio e di “ una coesistenza ambigua e drammatica di impegno volontaristico e di frustrazione “.
Praga, si vuol dire, urla la propria protesta contro l’emblema del passato ( Manzoni ) ed è tanto più violento quanto più difficile egli ne sente il superamento. Per il quale superamento, come afferma il Granatella, è indicata sì una strada ( il “dualismo”, la contrapposizione tra “cielo e loto” (v. 20), tra “martire ed empio” (v.21), tra ideale e fango (v.26) ), ma con una dichiarata consapevolezza ( “canto una misera canzone” - v. 31 ) nella quale è già prefigurata la sconfitta finale.
In questa prospettiva, di notevole interesse appare anche l’osservazione di Elio Gioanola secondo la quale Manzoni è stato, per Praga e per gli scapigliati in genere, un punto di riferimento inelusibile, oggetto di un rapporto di odio-amore che investiva tanto la figura dello scrittore quanto quella dell’uomo.
Praga, come gli altri, riconosceva al Manzoni una grandezza poetica al cui paragone la nuova letteratura metteva in evidenza tutte le proprie carenze morali e stilistiche: da qui un senso di frustrazione, di astiosità, di ammirazione reticente. Manzoni incombeva « come un convitato di pietra alla squallida mensa dei “ribelli” e il suo silenzio era come quello di Dio, disperante ».
Praga e i suoi compagni sentivano bene di essere di un’altra epoca, ma la loro statura non era sufficiente a darle un autonomo profilo artistico ed essi rimanevano in una sofferenza nevrotica in cui “il modello del padre”, incarnando grandezza e perfezione, diminuiva la possibilità di un’autentica maturazione del nuovo.
La voluta e insistita ricerca di realismo da parte degli Scapigliati perviene poi a esiti estremi: l’attenzione al “caso clinico”, infatti, l’interesse a tratti morboso e provocatorio per l’abnorme e l’eccezionale, per la malattia psicologica e morale, rivelano più la volontà di turbare e stupire o addirittura di proporre modelli negativi in cui identificarsi, che non la volontà di una indagine condotta secondo una metodologia che si pretenda scientifica e con il distacco dell’analista.
In questi atteggiamenti si concretizza la volontà di protesta nei confronti della normalità borghese post-risorgimentale, volontà che gli scapigliati esprimono anche con l’esaltazione delle vite bruciate dal vizio, del patetico, dell’onirico, del fantastico, oppure facendo ricorso all’ironia, all’umorismo acre, al paradosso e al sarcasmo.
Il Binni ha sostenuto che “la mancanza di una vera poetica organata ( sic ), coerente, è la condanna degli scapigliati”, cui attribuisce peraltro un valore di significativa testimonianza storica. Altri hanno sottolineato l’estrema eterogeneità delle enunciazioni di poetica e soprattutto dei concreti indirizzi letterari dei vari protagonisti: secondo il Mariani la Scapigliatura, più che un movimento organico, è un momento di trapasso nella storia letteraria ottocentesca. Più volte, infine, si è sottolineato che il vero limite della Scapigliatura sta nel divario che c’è tra intenzioni e realizzazioni, tra poetica e poesia.
Molto spesso, soprattutto nella letteratura in versi, questo divario è clamoroso : lo spirito ribellistico, le tematiche provocatorie ed inclini all’anormale non si traducono in un linguaggio adeguato, in una forma che risulti veramente innovativa e rivoluzionaria.

Gli autori

UGO FOSCOLO (1778-1827)

Nasce a Zante nel 1778, da padre veneziano e madre greca. Dopo la morte del padre, nel 1792, si trasferisce a Venezia con la famiglia. In questi anni, oltre a numerose rime di carattere arcadico, scrive la prima delle sue tragedie, il Tieste (1797) e l’ode A Bonaparte liberatore.  Dopo il trattato di Campoformio è costretto ad abbandonare Venezia: la cessione della città all’Austria è l’avvenimento politico che risuona nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802). Nel frattempo, aveva preso parte a vari fatti d’arme, distinguendosi, tra l’altro, nella difesa di Genova, assediata dagli Austriaci. In questi anni compone le Odi e i Sonetti.
Tra il 1804 e il 1806 il Foscolo è in Francia con l’Armata dell’Oceano per la progettata invasione napoleonica dell’Inghilterra; tornato in Italia, compone quasi di getto I Sepolcri (1806), che gli procurano grande fama. Nel 1808 è nominato professore di eloquenza all’Università di Pavia e ai primi del 1809 legge la prolusione Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, del tutto priva di lodi a Napoleone, sicché la cattedra è presto soppressa dal governo. Dopo l’insuccesso decretato dai suoi avversari politici alla tragedia Aiace (1811), si trasferisce a Firenze ove attende soprattutto alla composizione delle Grazie.
Tornato a Milano nel 1813, vi resta per due anni: il governo austriaco gli offre la direzione di un giornale letterario (Biblioteca italiana), ma egli, per non vendere la propria arte, sceglie l’esilio e si rifugia prima in Svizzera, poi in Inghilterra. Muore in povertà e malato, assistito solo dalla figlia Floriana, a Turnham Green nel 1827. dal 1871 è sepolto in Santa Croce, con i grandi italiani da lui esaltati nei Sepolcri.

Ultime lettere di Jacopo Ortis

Un primo abbozzo di romanzo dal titolo Laura, lettere compare in un piano di studi stilato dal Foscolo nel 1796, ma l’opera come la conosciamo è il frutto di una lunga gestazione: una prima edi­zione, conclusa non dal Foscolo ma da un tal Sassoli, appare nel 1799 col titolo Vera storia di due amanti infelici. Il Foscolo pro­testa pubblicamente contro tale scorrettezza e riprende, nel 1801, la stesura dell’Ortis, pubblicandone un primo volume e inviandone una co­pia in omaggio a Goethe.
La prima edizione completa delle Ultime lettere di Jacopo Ortis è del 1802. Seguiranno altre due edizioni, nel 1816 e nel 1817, quest’ultima definitiva, con il romanzo di­viso in due parti. Come romanzo epistolare e come storia di un suicidio per amore, l’Ortis ha riscontri con la Nouvelle Héloise di Rousseau (1761) e con I dolori del giovane Werther di Goethe (1774). Il rap­porto col Werther è discusso dal Foscolo in una Lettera al Bartholdy (Milano, 1808):
« ... Divulgato appena il libro, i giornalisti ne fecero me­rito al Werther, senza considerare che l’animo e l’ingegno dei due protagonisti, benchè somiglianti nelle sembianze, erano per natura e per circostanze differentissimi; ... Non videro che il giovane Werther esce in iscena vagheggiando la felicità che il bel mattino della sua vita gli promettea, e che dall’altra parte Ortis, dispe­rando dell’onore e della indipendenza della sua pa­tria, si mostra sin dalle prime parole come uomo che crede di aver vissuto ormai troppo. Werther finalmente, condotto dal suo desiderio infelice a non sentire la vita se non nel dolore, si precipita negli abissi dell’eternità, e in ora in cui la natura gli fremeva intorno terri­bile e burrascosa: ma Jacopo, quanto più vede l’inutilità della sua passione e la vanità delle umane speranze, tanto più si ostina nella sua prima volontà di morire; medita il sui­cidio da più di un anno, ne ragiona con se medesimo, se ne persuade, considera la sua amante non come stimo­lo, ma come ostacolo al suo proponimento, e vedendosi rapita per sempre l’unica persona che gli rendeva cara la vita, preordina il tempo, il luogo della sua morte; e quando la na­tura, riconducendo la primavera, parea che volesse allettarlo con la sua bellezza alla vita, egli si ferisce, e per più ore parla con la morte che va lentamente addensando sovr’esso le sue tenebre eterne ».
Il nome del protagonista, Jacopo Ortis, è ripreso da quello di un personaggio reale:

« Jacopo Ortis, friulano, studente nell’università di Padova, si uccise di due pugnalate nel fiore della gioventù; non si seppe il perché: scese sotterra senza lasciare né una sola parola scritta a’ suoi parenti, né una congettura ai curiosi».

Nell’edizione definitiva il romanzo risulta costituito da ol­tre cinquanta lettere indirizza­te a Lorenzo Alderani. Lorenzo in­terviene talvolta per integrare la storia di Jacopo e alla fine per descriverne la tragica morte, avvenuta con una coltellata al cuore nella notte del 26 marzo 1799. La lettera iniziale, subito dopo il trattato di Campoformio, è dell’ottobre 1797. E’ il romanzo di una duplice delusione, la storia di un giovane generoso che prima vede crollare le sue illusioni sulla libertà e l’indipendenza della patria, poi quello sull’amore per Teresa, che sposa, per volere del padre, un altro uomo.
Per sfuggire all’amore e alle persecuzioni (col trattato di Campoformio Venezia era stata lasciata agli Austriaci), Jacopo va peregrino per varie regioni d’Italia, visita Firenze e le tombe dei grandi italiani in Santa Croce, poi va a Milano, dove incontra Parini ed ha con lui un celebre colloquio. Va ancora a Ravenna, dove s’inginocchia sulla tomba di Dante, quindi torna per l’ultima volta a vedere Teresa e la madre, poi si uccide.
Foscolo rappresenta nell’Ortis il dramma suo e di un’intera generazione che, caduto il mito dei Francesi liberatori, ha perso ogni speranza nella libertà e nell’uguaglianza. L’opera ha valore esemplare, in quanto indica come avrebbe dovuto comportarsi un intellettuale in una situazione di quel tipo: il Foscolo stesso sottolinea il significato politico dell’isolamento e del suicidio di Jacopo, quando parla del suicidio come “rimedio di certi tempi”. La morte è dunque cercata da Jacopo come rifiuto di un presente inaccettabile (il modello è l’Alfieri). Anche l’amore per Teresa rientra nel rifiuto della realtà meschina e deludente: è una di quelle grandi passioni che si oppongono alla ragione. la divisione tra chi, seguendo la ragione, si adegua alla realtà ed è meschino ed egoista e chi, invece, a essa si contrappone in nome di nobili ideali e alti sentimenti, è sempre presente nel romanzo.
Proprio il motivo politico ( Il sacrificio della patria nostra è consumato...) apre il romanzo e porta in sé anche il tema della morte, a unire inizio e fine in un nodo indissolubile: la morte appare immediatamente l’unica alternativa possibile per l’eroe che si trova di fronte a una situazione politica senza via d’uscita. La morte è vista però anche in positivo, come una forma di sopravvivenza, sia pur illusoria, nel compianto degli “uomini buoni”:
« Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta  a chi mi ha tradito?  Consola mia madre: vinto dalle sue lacrime le ho ubbidito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica , dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare in qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo; quanti sono dunque gli sventurati? E noi, purtroppo, noi stessi Italiani ci laviamo le mani nel sangue degli Italiani. Per me segua che può. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà tra braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da’ pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri».

I sonetti

Nel periodo anteriore e contemporaneo all’Ortis, il Foscolo aveva composto otto dignitosi sonetti. Dopo l’Ortis, ecco altri quattro sonetti: Alla Musa, A Zacinto, In morte del fratello Giovanni, .
La materia dei primi sonetti è sostanzialmente etico-amorosa e politica: il primo, in ordine cronologico, è un impetuoso sfogo contro l’abolizione dell’insegnamento della lingua latina; nei successivi, fino al 1802, canta ora la passione, il delirio del suo cuore innamorato (Perché taccia il rumor ...), ora lo sconforto (Non so chi fui), ora la morte come dispensatrice di giusta fama (Solcata ho la fronte), ora la sua passione di poeta civile evocatore di eroi (Che stai?).
Nei sonetti composti tra il 1802 e il 1803 l’ispirazione appare più complessa e ricorrono, contemplati, i motivi della grande poesia foscoliana: l’esilio, l’avverso fato, la tomba illacrimata lontana e solitaria, dopo un faticoso errare di gente in gente voluto da un invincibile destino; il vano desiderio e l’accorato rimpianto delle natie sponde e del tetto materno; il sepolcro come mezzo di corrispondenza tra i vivi e i morti; il suicidio come gesto virile che libera dalle sventure della vita; la contemplazione del fatale scorrere del tempo che nel suo moto tutto travolge, della morte come estremo porto di quiete ed eterna pace.
Così, il sonetto Alla sera appare nettamente diviso in due parti, che corrispondono alle due quartine e alle due terzine: la prima parte è nettamente descrittiva (l’io del poeta di fronte alla sera, colta al termine di una giornata estiva o nel pieno di un cupo inverno), la seconda contiene il nucleo centrale del componimento, il “nulla eterno”. La sera è cara al poeta, in quanto immagine della morte, la quale rappresenta l’annullamento totale, in cui scompaiono conflitti e sofferenze.
In morte del fratello Giovanni si basa sull’opposizione di due motivi fondamentali: da un lato l’esilio, dall’altro la tomba intesa come centro intorno al quale si raccoglie il nucleo familiare. Foscolo si rappresenta come l’eroe infelice e sventurato a cui il momento storico negativo non consente di avere una patria, ma neppure un nucleo familiare in cui trovare conforto. La situazione storica viene spostata in una dimensione mitica (gli “avversi numi”) e diventa quasi un potere misterioso contro cui è vana ogni lotta e dinanzi al quale l’eroe, nonostante i suoi slanci generosi, è irrimediabilmente sconfitto. In opposizione a tale dimensione mitica sta quella della tomba e del nucleo familiare (anche se la madre ha la statica drammaticità di tante eroine della tragedia greca). Nella condizione dell’esule e del senza patria, il ricongiungimento con la madre e la terra natale è l’unica conforto che è possibile sperare. Ma è un approdo che risulta impossibile.
In A Zacinto ciò che sembra il nucleo centrale è la diversità di due concezioni dell’eroe, una propria dell’antichità classica, l’altra propria dell’età moderna.  E’ tipicamente romantico il tema dell’errare senza approdo, con la morte in terre lontane, nella solitudine, nell’infelicità, nella sconfitta. Dalla consapevolezza della sconfitta nasce il tema della regressione, dell’isola, la Terra Madre (si chiarisce in questo senso il rapporto con Venere)  alla quale il poeta vuole tornare per chiudere un cerchio : il “giacque” iniziale del fanciullo tocca l’estremo del giacere della sepoltura. Il tutto nella dimensione mitica dell’identificazione della propria isola e del proprio mare con la terra e il mare in cui ebbero la culla il mito e la poesia.

Le Odi

Nelle due odi, A Luigia Pallavicini caduta da cavallo (1799-1800) e All’amica risanata (1802-1803), il Foscolo celebra radiose immagini femminili, sottolineando il potere consolatorio che la bellezza esercita sugli uomini. In particolare nell’ode All’amica risanata, oltre al tema della bellezza ricorre quello della poesia che rende eterni: le dee della mitologia greca erano donne famose che il canto dei poeti trasformò in divinità immortali; così avverrà alla Fagnani Arese cantata dal Foscolo. In modo assai più profondo questo tema verrà elaborato nei Sepolcri, anzi ne sarà il cardine.
Da un punto di vista formale, con la scelta di versi brevi e agili, oltre che nella tematica dell’omaggio galante, l’ode rimanda a motivi settecenteschi. Prettamente neoclassico è il desiderio di nobilitare ogni aspetto della realtà in immagini di grande armonia, per mezzo di un linguaggio sostenuto ed elegante, con largo impiego di figure retoriche e riferimenti mitologici. In realtà l’ode è una riflessione sul tema della bellezza e sulla sua funzione eternatrice. Ciò che consente alla bellezza l’eternità nella fama è il canto dei poeti: compito del poeta è assicurare l’eternità alla bellezza, in modo che essa possa esercitare la sua facoltà di rendere eterne le cose contingenti.
Proponendo sé stesso come esempio di tale funzione del poeta, Foscolo mostra di considerare la grecità non come un paradiso perduto, ma come un’armonia che può essere fatta rivivere in forme attuali.
Alla radice dell’ode c’è la consapevolezza da parte del poeta della precarietà delle cose umane, del tempo che le trasforma incessantemente, della distruzione che sempre incombe su di esse. Ma resta il bisogno di individuare valori assoluti, che diano saldi fondamenti all’esistenza. Ecco dunque la bellezza: il reale viene fissato in una dimensione assoluta.

I Sepolcri

La prima parte del carme ha le sue basi nel pensiero materialistico : le tombe sono inutili perché l’uomo non vive dopo la morte del suo corpo e la materia, da cui il corpo è composto, si ricongiunge alla materia universale per riprendere l’eterno processo della vita e della morte, della creazione e della dissoluzione.
Ma a questo punto sorge l’esigenza dell’illusione. Perché voler cancellare anche la pia illusione per la quale l’uomo sente meno definitiva la sua morte se pensa che qualcuno veglierà sulla sua tomba, e chi rimane sente meno ineluttabile la scomparsa del defunto se può continuare ad onorarne la memoria ? E’ appunto sull’illusione che si è fondata la vita civile, è sulla base dell’illusione che l’umanità si è dato un suo ordinamento ed ha creato i propri valori essenziali (nozze, tribunali ed are....).
E’ appunto dall’illusione, dalla suggestione che promana dalle tombe dei grandi uomini del passato che siamo portati a superare ogni pessimismo ed ogni rinuncia, ad accettare la vita, ad operare in essa da forti, come testimoni di quegli ideali che la fanno “bella e santa”. Ma anche le tombe sarebbero travolte dal tempo e le illusioni sarebbero inaridite dal “vero” se a custodire quelle e ad alimentare queste non ci fosse la poesia :
l’armonia / vince di mille secoli il silenzio.

Così Troia, dopo la sua distruzione, continua a vivere nelle tombe e nella poesia di Omero che a quelle tombe si è ispirato.

Il carme si apre con una negazione (vv. 1-22): l’istanza di sopravvivenza dell’uomo, che nel sepolcro sembra trovare garanzia e assicurazione, viene vanificata in una visione di distruzione cosmica, che è la legge dell’universo. La tragedia contemplata è assoluta: la vita è l’unico valore e la morte è fine totale. È come il primo tema di un testo sinfonico, con un motivo che nella sua brevità contiene in sé tutto il tema.
Lo stesso motivo subito dopo si ripete e sviluppa più ampiamente in un lungo blocco ritmico‑sintattico: l’uso della forma interrogativa è funzionale alla forma allocutoria dell’epistola, evidente nel “pianissimo” “Vero è ben, Pindemonte!”, denso di desolazione. Il “pianissimo” ha anche la funzione di inserirsi tra due figurazioni “cosmiche” contribuendo così al loro indipendente rilievo.
Al tema di apertura si oppone, nei diciotto versi seguenti, un altro tema, una diversa visione dei sepolcri: le verità prima asserite non vengono negate o dimostrate erronee, poiché il presupposto materialistico rimane confermato; si ha invece un’opposizione di punti di vista relativamente alle conseguenze psicologiche e pratiche che derivano da tale premessa materialistica. È segretamente però operante nel cuore del poeta la consolazione proveniente dal possesso di una nuova dimensione del pensiero che sta per esplicitarsi, per cui sarà sanata, almeno in parte, la perdita di sicurezza conseguente allo smarrimento del rapporto tra finito e infinito, alla irrimediabile consapevolezza dell’unica realtà della trasformazione della materia.
Se il primo tema si conclude con il riconoscimento della supremazia del tempo sull’esistente, quindi con la fine di ogni orgogliosa fiducia dell’uomo nella propria vittoria trascendente sul tempo, il secondo tema annuncia come sia possibile per l’individuo costruire una propria sopravvivenza “nel tempo”: l’incontro‑scontro tra questi temi è evidente nei due versi in cui, attraverso l’artificio metrico dell’incatenamento, si succedono due universi di pensiero:
... della terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perché pria del tempo...

Quello che viene negato dal secondo tema non è dunque la verità espressa nel primo, ma ciò che in essa resta implicito: poiché tutto è destinato alla distruzione e la stessa esistenza soggettiva  non travalica la morte del corpo, allora non deve importare il modo del seppellire e non si deve sperare in alcun tipo di sopravvivenza. Invece, se la tomba è una “illusione” dal punto di vista tradizionale, poiché non sussiste alcuna forma di esistenza in ciò che si è “spento”, pure quell’illusione è una realtà rispetto ai sopravvissuti, che non smarriscono così totalmente il contatto col morto. Ciò è vero per tutti i mortali, perché il possesso della memoria è proprio dell’uomo, che da essa deriva la sua parte di trascendenza (“celeste dote...”).
Perché  si instauri però la “corrispondenza d’amorosi sensi” non basta una tomba, è necessaria una patria, bisogna cioè che l’uomo possa compiere tutta la sua parabola vitale, dalla nascita alla morte, tra la propria gente, nella propria terra natale. La consolazione subentra alla disperazione e il tono dominante dei versi è concentrato nell’ultima parola della sequenza, “ ... consoli”.
Per un significativo parallelismo, oltre a essere quasi pari di numero, i versi di contrapposizione hanno la stessa struttura ritmico‑sintattica dei versi 1-22: due interrogazioni retoriche che si acquietano in un lungo periodo asseverativo.
I versi 41-50 seguono apparentemente come un corollario: non si cura del sepolcro chi non è vissuto in modo da essere compianto e affettuosamente ricordato dopo la morte, in realtà aggiungono rilievo al concetto che perché la vita possa avere una durata è necessario che essa esprima dei valori:

Sol chi non lascia eredità d’affetti
poca gioia ha dell’urna.

I versi 51-90 contengono il momento più ampiamente ed esplicitamente polemico contro chi non attribuisce valore al sepolcro. L’esempio di incuria più significativo per il Foscolo è la sepoltura del Parini in una fossa comune. La polemica investe la “nuova legge” e i milanesi, che non si sono curati di onorare debitamente il loro grande poeta. Sembra una parte poco consona al tono che l’opera aveva assunto nei versi precedenti, ma si tratta di una premessa alla successiva più generale condanna del tono morale della vita politica italiana. La polemica non ha però la forma dell’aggressione: il positivo viene evocato, attraverso il negativo, come dolorosa assenza: la poesia non può operare dove si vuole cancellare il ricordo dei suoi sacerdoti.
Con i versi 91-150 si definisce ulteriormente la natura deittica del carme, che abbandona il tono meditativo dei primi 40 versi: il nucleo è la convinzione che proprio il culto dei morti ha segnato l’inizio dell’incivilimento umano, costituendo un tessuto connettivo tra defunti e superstiti, passato e presente. Foscolo vede negli usi funebri dei greci e dei non cattolici, come gli inglesi, un modo per salvare sia la laicità che la religiosità della concezione della morte, in contrasto con il cupo oltretomba disegnato dai cattolici. Il discorso si fa così sociale e politico, sviluppando quanto era implicito nella polemica intorno al caso Parini, così non è solo una coincidenza che la parte si concluda con la polemica contro il “bello italo regno”, dominato unicamente dall’interesse economico e dalla sudditanza politica.
A una classe dirigente così duramente colpita, Foscolo contrappone se stesso e tutti gli spiriti a lui simili, per i quali augura una sepoltura che consenta di vivere ancora attraverso la propria opera terrena.
L’argomentazione si sviluppa in una parte di uguale misura rispetto a quella immediatamente precedente (vv. 151-212). I primi versi sviluppano il motivo introdotto nei versi 137-141, cioè il collegamento tra sepoltura e impulso all’azione eroica (“furor d’inclite gesta”). Si forma così il nuovo tema, articolato in due punti:  l’effetto di animazione a nobili imprese e la “bellezza e santità” che derivano ai luoghi che ospitano le sepolture dei grandi uomini del passato. Il secondo punto è sviluppato nei vv. 154-185, dedicati a Firenze e alle tombe di Santa Croce.
La conclusione di questa sezione, con l’immissione del motivo del valore patriottico‑nazionale dei sepolcri, chiarisce il significato attribuito nel carme alle “egregie cose” e inserisce il nome tanto a lungo sottinteso, Italia (v.187), che segue quasi immediatamente il nome che la definisce (“patria”, v. 185). Le tombe dei grandi di Firenze saranno dunque il luogo augurale e tutelare del risorgimento nazionale:
che ove speme di gloria agli animosi
intelletti rifulga e all’Italia
quindi trarrem gli auspici.

L’ipotiposi di Alfieri (vv. 188-197) è esempio di un «animoso intelletto» che saputo trarre ispirazione da “quei marmi”: figura di Foscolo, egli rifiuta il presente e guarda al passato e al futuro, assumendo infine la stessa funzione dei grandi sepolti in Santa Croce:
e l’ossa
fremono amor di patria.

A conferma di tale funzione, il carme rievoca un altro luogo emblematico della religione dei sepolcri degli eroi, la pianura di Maratona dove, secondo Pausania (Viaggio in Attica, cap. 32), «è la sepoltura degli Ateniesi morti nella battaglia e tutte le notti veggonsi fantasmi di combattenti». Forti somiglianze di stile e di struttura assimilano questa parte alla precedente: siamo ancora di fronte a una forma di discorso lirico, accentuata dal ricorso alla perifrasi, che è lo strumento stilistico dominante all’interno dell’apostrofe a Firenze. C’è un senso esaltato della grandezza del genio e delle virtù, un’esaltazione che travolge la forma dell’epistola e la fa diventare inno. Solo alla fine la coscienza della mortalità dell’uomo torna a echeggiare nell’inquietante “canto delle parche” che domina sulla scena di Maratona.
L’ultima parte del carme (vv. 213-295) è dedicata alla funzione eternatrice della poesia: un gruppo di versi (213-225) preannuncia il tema dell’ultima parte. Altro luogo sacro per le tombe che vi furono erette - dice il poeta - è il litorale dell’Ellesponto, dove ebbero sepoltura gli eroi greci dell’epos omerico. Sono ricordati Achille e Aiace, mentre dal canone dei veri eroi (“i generosi”) è escluso Ulisse. La morte infatti è vista - evidente l’influenza alfieriana - come supremo e infallibile tribunale di giustizia:
a’ generosi
giusta di gloria dispensiera è morte.
Da quel luogo emana una suggestione di memeorie di “antichi fatti”, come un universo di canti sempre evocabili da chi percorra le acque “oltre l’isole egee”. Ecco, breve, l’indicazione del tema (vv. 226-234), introdotto insolitamente dall’autore che si presenta in primo piano, come soggetto esistenzialmente legato agli elementi del tema: Foscolo prefigura per sé, anche se in forma di auspicio, un compito di poeta eternatore:
e me a evocar gli eroi chiamin le Muse
del mortale pensiero animatrici.

Nel momento in cui l’argomentazione del carme attinge la più consolatrice ed esaltante delle sue verità, il poeta stesso ritrova un proprio mandato in quanto intellettuale: “evocare” gli eroi vuol dire tramandare un patrimonio di valori, tener desto lo spirito di un popolo e porsi come voce “auspice” del riscatto nazionale. Le Muse infatti custodiscono la memoria dei trapassati e la tramandano anche dopo la distruzione delle sepolture stesse a opera del “tempo”.
Sono ancora i luoghi omerici a fornire la materia dei vv. 235-295: se nei versi del primo svolgimento erano i luoghi delle sepolture degli eroi greci a essere ricordati, ora tutta l’ultima parte è dedicata ai vinti, ai Troiani. La loro terra è ormai senza vita, “inanimata”, ma “eterno” rimane per i pellegrini il luogo in cui sorsero le tombe della progenitrice e dei suoi successori. A lei, Elettra, sono dedicati i primi 18 versi, è lei a divenire simbolo del destino degli uomini. Anche se cari agli dei, non è concessa loro la sopravvivenza esistenziale, ma può restarne eterna la “fama”: per queso dono degli dei, alla donna da cui nacquero i capostipiti troiani fu concessa la sacralità del corpo e della tomba. Lì appunto venne Cassandra a profetare.
Con la profezia si conclude il carme: la città sarà distrutta nei suoi edifici e nelle sue mura, e i “nepoti giovinetti” andranno schiavi dei vincitori, ma lo spirito della città, i “Penati” di Troia, rimarrà tra le tombe degli antichi, come memoria. Un giorno, “interrogate”  le tombe trasmetteranno il loro contenuto di storia a un poeta “cieco e mendico”, Omero, che col canto eternerà presso tutti gli uomini, sino alla fine del genere umano e dei suoi dolori, il dolore dei vincitori e, più toccante, quello dei vinti, impersonati dal puro eroe dell’amor di patria, Ettore.

Le Grazie

L’opera è incompiuta, nonostante che Foscolo vi si sia dedicato per numerosi anni, fin dal 1803, quando aveva pubblicato alcuni frammenti del poema, che fingeva di aver tradotto da un inno alle Grazie di un antico poeta greco. Il progetto originario di un inno viene infine a svolgersi in tre inni, il cui fine è quello di esaltare la funzione che le arti e la poesia hanno nell’ingentilire il cuore degli uomini, allontanandoli dalla barbarie.
Ciò è evidente soprattutto nel primo inno, dedicato a Venere, dea della bellezza e simbolo dell’armonia universale nascosta dalla violenza degli uomini. Particolarmente interessante è il Proemio, che presenta subito alcuni motivi fondamentali, in primo luogo proprio quello della purificazione dalla barbarie: la bellezza, l’armonia cosmica di cui le Grazie sono il simbolo, è rivelata dalla poesia.
Il poeta si sforza di far rivivere nei suoi versi nel presente il mitico mondo antico, visto come perfezione e armonia, ma non come un irraggiungibile paradiso perduto.
Nel secondo inno, dedicato a Vesta, dea dell’ingegno, il Foscolo invita tre bellissime donne da lui amate (Eleonora Nencini, Cornelia Martinetti, Maddalena Bignami) a celebrare un rito alle Grazie, rispettivamente con la musica, la poesia e la danza.
Nel terzo inno, Pallade, dea della virtù, sottrae le Grazie alle passioni umane e le conduce nella favolosa Atlantide; quell’isola remota, che sorge in mezzo all’Oceano, un tempo  c’erano uomini e campi coltivati. Pallade, adirata contro gli uomini, pigri e ingrati verso Giove, aveva espulso gli abitanti, trasferendoli in Asia, cingendo poi Atlantide di un cielo accessibile solo agli dei. In quest’isola sarà tessuto un velo che raffiguri le virtù che possono vincere la violenza delle passioni e dare equilibrio all’uomo. Protette dal velo, le Grazie potranno tornare tra gli uomini e compiere la loro missione civilizzatrice.
Il velo rappresenta dunque l’armonia, il sereno distacco dall’eccesso delle passioni, ma anche quell’equilibrio superiore che sa temperare l’eccessiva gioia e l’eccessivo dolore che si agitano nel cuore dell’uomo. Così nel velo si succedono zone in cui prevalgono temi lieti (le due tortorelle, il convito festante) a zone in cui appaiono temi cupi e dolorosi (il sogno del guerriero, la madre che veglia il figlio malato). Questa alternanza è presente anche all’interno delle scene stesse. Valga per tutte l’esempio della giovinezza che avanza col suo carico di speranza e discende poi la rapida china del suo sfiorire.
Quello del Foscolo è dunque un ideale di supremo equilibrio, in contrapposizione alla ferocia emergente nel mondo ( le stragi del Terrore, l’asservimento a Napoleone di vari stati europei, la guerra aggressiva contro la Russia), alla quale si oppone polemicamente la raffigurazione dell’isola beata di Atlantide.

 

Il Foscolo “critico”

La produzione foscoliana nell’ambito della critica letteraria è molto vasta, particolarmente negli anni dell’esilio. In primo luogo, egli è sensibilissimo al valore della parola: per questo motivo, traducendo Omero, non cerca una traduzione letterale, ma sviluppa anche le “idee accessorie”, cioè tutti i significati e suggerimenti che la parola poetica contiene.
Ciò non vuol dire che il Foscolo si limiti a una ricerca di tipo formale, in quanto egli ritiene che la poesia debba esprimere sempre alti insegnamenti di libertà, verità, giustizia; essa inoltre consola l’uomo delle sue sofferenze ed è anche specchio della società e del momento storico in cui il poeta vive.
Tra i saggi più importanti spiccano il Saggio sullo stato della letteratura italiana del primo ventennio del secolo XIX (1818), i quattro Saggi sul Petrarca (1821-1823), il Discorso storico sul testo del Decamerone (1825) e, nello stesso anno, il Discorso sul testo della Commedia.
Nel Saggio ... il Foscolo esalta la figura del letterato al quale compete la consacrazione e la trasmissione dei valori civili fondamentali per la comunità. L’impegno letterario è sentito come una missione: attraverso l’esercizio della parola, l’intellettuale stimola gli uomini al progresso e adempie così a una funzione utile alla comunità.
Il concetto preromantico del valore della personalità umana che si manifesta nell’opera d’arte, proponendo l’impronta di una particolare visione del mondo cui corrispondono una psicologia e uno stile originale caratterizzano i quattro saggi sul Petrarca. Nell’ultimo di essi, il Foscolo opera un parallelo tra Dante e Petrarca, dando di quest’ultimo un ritratto di tipo ortisiano.
Nel Discorso sul testo della Commedia, la condizione di esule del poeta fiorentino, analoga alla propria, fa sì che il Foscolo intuisca lo straordinario potenziale simbolico che la figura di Dante ha per quanto riguarda il concetto di nazione. Dante è sentito come espressione del genio che dà voce alla visione del mondo di un intero popolo.
Il Discorso storico sul testo del Decamerone viene concepito come contributo alla ricostruzione della storia del testo del capolavoro di Boccaccio, ma, per il suo taglio storicistico, ripercorre i momenti centrali della storia italiana, caricandosi dei risentimenti e delle istanze dell’uomo-Foscolo. A Boccaccio, che Foscolo fondamentalmente non amava, è attribuita la responsabilità della perduta spontaneità della lingua italiana, del suo volgersi all’accademismo. Nel 1813 il Foscolo pubblica la Notizia intorno a Didimo Chierico, personaggio immaginario al quale il poeta attribuisce la paternità della sua traduzione del Viaggio sentimentale di Yorick, di Lawrence Sterne.
Il Foscolo dà in quest’opera un’immagine di sé ben diversa da quella dell’Ortis, tanto che il Fubini ha potuto parlare di “anti-Ortis”: con Ortis il Foscolo parlava in prima persona, si confessava direttamente; con Didimo parla invece in terza persona, come se si riferisse a un estraneo, nel tentativo di acquisire un distacco, una lontananza dagli avvenimenti.
Alla passionalità di Jacopo è subentrato un più sicuro dominio di sé. A dire il vero, Didimo ha gli stessi ideali di Jacopo, primo tra tutti l’amore per la patria, ma anche il senso vivo della propria libertà, il disdegno per la viltà e la bassezza d’animo.
Ma egli tende a dominare le passioni: il distacco non deriva da un superiore equilibrio, ma dal disinganno e dallo scetticismo, dalla perdita di fiducia nella possibilità di operare fattivamente per il trionfo di quegli ideali. Ne nasce una sorta di pacata ironia, un dedicarsi a sentimenti miti e gentili, dimenticando il furore dello “spirto guerrier”, ben evidente in alcuni luoghi del XIII e del XIV capitolo:
« ... teneva chiuse le sue passioni; e quel poco che ne traspariva, pareva calore di fiamma lontana. ... Inoltre sembravami che egli sentisse non so qual dissonanza nell’armonia delle cose del mondo ... pareva, quando lo vidi, più disingannato che rinsavito; e che senza dar noia agli altri se ne andasse quietissimo e sicuro di sé medesimo per la sua strada, e sostandosi spesso, quasi avesse più a cuore di non deviare che di toccare la meta».

 


Alessandro MANZONI

 

Nasce a Milano nel 1785 da una relazione di Giulia Beccaria (figlia del famoso Cesare) con Giovanni Verri. Il padre legale, il conte Pietro Manzoni, riconosce comunque il figlio. Il matrimonio viene sciolto nel 1792 e il piccolo Alessandro viene posto in collegio, prima presso i padri Somaschi di Merate e Lugano, poi presso i padri Barnabiti a Milano, ricevendo un’educazione severa e coercitiva.
Nel 1801, uscito dal collegio, accoglie con entusiasmo gli avvenimenti connessi alla discesa di napoleone in Italia. Nel contempo, legge e traduce classici quali Orazio e Virgilio e moderni quali Alfieri, Parini e Monti. Proprio quest’ultimo gli è prodigo di consigli e lo esorta a dedicarsi alla carriera letteraria.
L’influsso montiano è evidente nelle prime opere, tra le quali ricordiamo il poemetto Del trionfo della libertà (1801). La conoscenza con il Cuoco spinge il giovane alla consapevolezza del valore formativo della riflessione storica, tanto che scrive quattro Sermoni nei quali definisce il ruolo pedagogico e moralista della poesia. L’esperienza culturale decisiva per la sua formazione è comunque, dal 1805, il soggiorno a Parigi, insieme con la madre che aveva appena perduto il suo compagno, Carlo Imbonati. In onore dell’Imbonati, Manzoni scrive (1806) il carme In morte di Carlo Imbonati, nel quale appaiono già alcuni elementi che saranno poi tipici della sua poetica più matura.
A Parigi il Manzoni frequenta gli Idéologues, intellettuali francesi (il più noto dei quali è il Fauriel) fautori di un Illuminismo maturo, di tono morale e civile. Nel 1808 sposa con rito calvinista Enrichetta Blondel e, dopo un processo durato diversi anni, nel quale giungono a maturazione i vari elementi della sua formazione culturale, tra cui anche la conoscenza delle idee gianseniste, il Manzoni si converte al cattolicesimo.
Tornato a Milano, tra il 1812 e il 1815 scrive i primi quattro Inni Sacri,  parte di un progetto che doveva comprenderne dodici. Attento agli avvenimenti politici contemporanei, colpito dalla Restaurazione, intorno al 1815 scrive due canzoni patriottiche, Aprile 1814 e Il proclama di Rimini. Seguono un saggio, Osservazioni sulla morale cattolica (1817), due tragedie, Il conte di Carmagnola (1816-19) e l’ Adelchi (1820-22), poi un saggio, anch’esso del 1820-22, Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia.
In quegli stessi anni aderisce alle tesi del Conciliatore, anche se non vi pubblicherà alcuno scritto. L’anno seguente, 1823, ci lascia testimonianza della sua riflessione storica e letteraria con la Lettre à M. Chauvet sull’unità di tempo e luogo nella tragedia e con la Lettera sul Romanticismo al Marchese D’Azeglio. Intanto aveva portato a termine La Pentecoste, il quinto degli Inni Sacri e aveva scritto due odi, entrambe del 1821, Marzo 1821 e Il cinque maggio.
Nell’autunno del 1821 Manzoni era ancora indeciso se continuare il Fermo e Lucia, il romanzo appena incominciato, o lavorare a una nuova tragedia, lo Spartaco. Solo l’anno successivo decide per il romanzo, la cui prima stesura viene terminata nel 1823.
Successivamente, dopo una revisione, nel 1827 appare la prima edizione dei Promessi Sposi. Insoddisfatto della forma linguistica del romanzo, Manzoni lo riscrive sulla base dell’uso linguistico fiorentino, finché, nel 1840-42, esce, a dispense, l’edizione definitiva. Come appendice al romanzo, nel 1842, pubblica Storia della colonna infame.
Intanto, per la sua storia personale, gli anni Trenta erano stati terribili: nel 1833 era morta infatti la moglie Enrichetta e l’anno successivo era morta anche la figlia Giulia. Dopo un periodo di silenzio, si risposa, ma perde altre due figlie, poi la madre, infine anche la seconda moglie, mentre il figlio Filippo viene arrestato per i moti del 1848. Dopo l’unità viene nominato senatore. Muore nel 1873.

In morte di Carlo Imbonati (1806)

Il Manzoni immagina che gli appaia, secondo la tradizione settecentesca e preromantica dell’apparizione notturna, Carlo Imbonati, che Alessandro non aveva potuto conoscere, anche se l’Imbonati gli aveva scritto un’affettuosa lettera augurandosi un incontro. Nella seconda parte del carme, il poeta immagina che l’Imbonati gli rivolga un nobile discorso. E’ il primo vigoroso documento di una poesia che tende a ricercare formule originali, tanto che il v. 207, “Sentir e meditar...” può essere considerato come una prima dichiarazione di poetica: il compito della poesia è quello di essere insieme sentimento e riflessione.
Il presupposto “storico” dell’opera, si è detto, è la morte di Carlo Imbonati, l’uomo al quale la madre Giulia si era legata fin dal 1792. Il giovane Manzoni vuole riscattare i sentimenti “giusti e puri” che avevano animato la scelta di vita della madre, ma anche l’immagine di una civiltà settecentesca libera e spregiudicata, in cui le scelte personali si legavano strettamente con le istanze culturali e i dibattiti filosofici, dando luogo a un nuovo senso della moralità e della convivenza civile.
Proprio in casa del Fauriel, a Parigi, Manzoni aveva incontrato molti idéologues, raffinati intellettuali che si richiamavano in particolare al sensismo di Condillac, per il quale ogni tipo di conoscenza, anche la più astratta, deriva dalle sensazioni e non da principi “superiori”. Gli idéologues tuttavia anteponevano a ogni materialismo il principio della forza morale dell’uomo, che tende naturalmente al bene:
«  ...Sentir, riprese, e meditar: di poco 
esser contento: a la meta mai
non torcer gli occhi: conservar la mano 
pura e la mente: de le umane cose
tanto sperimentar, quanto ti basti  
per non curarle: non ti far mai servo:
non far tregua coi vili: il santo Vero
mai non tradir: né proferir mai verbo,
che plauda al vizio, o la virtù derida.»

 

Conversione e poesia: i primi  Inni Sacri

La conversione del Manzoni è senza dubbio il frutto di una lunga maturazione: essa ha il presupposto negli ideali di rigore morale e di impegno civile appresi a Parigi, nonché nel giansenismo (corrente religiosa del Seicento, con centro nel monastero di Port Royal), di cui gli idéologues riprendevano le meditazioni sul male e sulla grazia, sulla necessità del bene, sul rigore metodologico con cui è necessario saperlo leggere nel passato e praticarlo nel presente.
Molto citato è l’episodio della chiesa di San Rocco a Parigi, dopo che Manzoni aveva smarrito la moglie nella folla: l’averla ritrovata dopo una fervente preghiera sarebbe all’origine della conversione; in realtà non vi è opposizione, ma continuità con le esperienze formative e di ricerca che il giovane aveva affrontato negli anni precedenti. Convinto, come scrive al Fauriel, che la poesia debba derivare “dal profondo del cuore”, Manzoni pubblica nel 1815 quattro Inni sacri: La Resurrezione, Il Nome di Maria, Il Natale, La Passione.
La Pentecoste, composta tra il 1817 e il 1822, si distingue dagli altri inni e se ne parlerà più avanti. Il Manzoni sente la necessità di testimoniare la parabola storico-umana della redenzione e i contenuti evangelici di libertà, fratellanza, carità cristiana. Si è parlato di cristianesimo democratico del Manzoni, alludendo giustamente alla rivalutazione del messaggio evangelico nel suo senso più vero, quello che proclama il riscatto degli umili, la loro dignità.
Dal punto di vista stilistico, la poesia degli Inni ha un andamento prosastico, discorsivo, narrativo, corale, con movenze da sacra rappresentazione. Il lessico è biblico, la sintassi più sciolta rispetto alla ricerca formale della lirica cosiddetta “alta”. Queste sono senza dubbio innovazioni, ma solo a tratti esse riescono a fondersi armoniosamente col contenuto, dando luogo a una poesia non sempre felicemente risolta.

 

Il Romanticismo manzoniano: gli anni dal 1816 al 1823

L’idea di una poesia che nasce dal sentimento spinge il Manzoni alla ricerca di una propria via, senza aderire genericamente alle posizioni del Romanticismo che stava allora imponendosi in Europa. Egli si dedica alla lettura, appassionandosi alle opere di Shakespeare, W. Schlegel, Sismondi, M.me de Stael; conosce e frequenta i primi romantici, senza però legarsi in modo particolare ad alcun gruppo, neanche a quello del Conciliatore, di cui pure condivideva l’azione politico-culturale.
Il Manzoni non concepisce l’immediatezza del sentimento come un modo per semplificare e banalizzare l’ispirazione e l’espressione, al contrario è qualcosa di molto profondo, che richiede una poetica adeguata e soluzioni tecniche specifiche.
Questa convinzione è alla base della scelta della tragedia come mezzo espressivo e della vicenda di Francesco Bussone, conte di Carmagnola come argomento. Così, tra il 1816 e il 1820, nasce la tragedia Il conte di Carmagnola.
Francesco Bussone era stato condottiero di Filippo Maria Visconti, duca di Milano. Deluso per la scarsa riconoscenza del duca, nel 1425 il Carmagnola si offre alla Repubblica di Venezia, del cui esercito viene nominato comandante in capo. Due anni dopo egli riporta, proprio sui milanesi, la sua vittoria più grande, a Maclodio.
La sua clemenza verso i vinti lo rende sospetto alle autorità veneziane, fino a giungere all’accusa di tradimento (il Manzoni, dopo attenta lettura degli atti del processo, afferma l’innocenza del Carmagnola). Attirato a Venezia con l’inganno e messo in carcere (qui hanno un ruolo decisivo due personaggi “ideali”, cioè non storici, quali Marino e Marco), il Carmagnola viene giustiziato nel 1432.
Secondo il Manzoni il teatro, a differenza della lirica sentimentale o civile, offre la possibilità di ricostruire la storia dall’interno, in modo da spingere lo spettatore a riflettere.
Le riflessioni sul teatro, oltre che nella prefazione alla tragedia, sono contenute nella Lettre à M. Chauvet, pubblicata poi nel 1823: il dramma deve proporre fatti reali a un pubblico concreto. Più in generale, il Manzoni rifiuta le regole aristoteliche dell’unità di tempo e di luogo nella tragedia, mantenendo quella di azione. La vera unità di azione non consiste però nell’inventare semplicemente dei fatti unitari, ma nel ricostruire ciò che gli uomini hanno pensato, sofferto, ciò in cui hanno creduto, i loro successi e i loro fallimenti. E’ questa la differenza tra vero storico e vero poetico: il primo analizza gli avvenimenti così come essi si sono realmente svolti; il secondo rivela ciò che la storia non dice: le passioni e i sentimenti che stanno dietro quegli avvenimenti.
Opera particolarmente importante per lo sviluppo della poetica e del pensiero manzoniano è Osservazioni sulla morale cattolica (1819), scritta per confutare le tesi dello storico svizzero Sismondi, il quale aveva sostenuto che la decadenza politica dell’Italia era il  risultato della presenza corruttrice della Chiesa. Manzoni dimostra che bisogna distinguere il valore universale del messaggio evangelico e della Chiesa come istituzione dallo stato di corruzione e di decadenza morale che si produce all’interno delle gerarchie ecclesiastiche per cause puramente umane, vale a dire avidità e passioni.
Nel 1822 il Manzoni termina la Pentecoste. Il titolo allude ai cinquanta giorni trascorsi prima della discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli. L’inno si apre con la storia della Chiesa, a partire dal momento in cui essa è costituita dai soli apostoli e discepoli racchiusi nel cenacolo, tutti impauriti e sgomenti fino al momento in cui discende lo “Spirto rinnovator” che stimola e incoraggia gli apostoli alla predicazione e all’evangelizzazione di tutti gli uomini in tutte le lingue. La predicazione degli apostoli è destinata alla rivelazione della nuova fede ai pagani e alle nuove generazioni che in essa troveranno la possibilità di una nuova società oltre le disuguaglianze sociali.
Agli umili e agli oppressi vengono offerti una consolazione e un conforto di natura spirituale, una libertà ( nova libertà ) intesa come resistenza cosciente alla schiavitù del male e della passione.
La parte finale è un grandioso inno corale affinché la sacralità dell’evento, ossia la discesa dello Spirito Santo, si riproponga continuamente e costantemente alla coscienza dell’uomo, rigenerandolo alla grazia e alla presa di coscienza della propria natura.
Altro documento importante per lo sviluppo della riflessione manzoniana è la Lettera sul Romanticismo al Marchese D’Azeglio, scritta nel settembre 1823, una settimana dopo aver concluso il Fermo e Lucia. La prima parte della lettera è una critica nei confronti del classicismo riguardo all’uso della mitologia, la quale non ha il potere di elevare la mente, ma solo di darle diletto. Manzoni riconosce che il Romanticismo segna un deciso progresso nell’arte, ma non manca, nella seconda parte della lettera, di denunciarne i limiti, soprattutto nell’irrazionalismo e nei toni patetici.
Il Manzoni propone poi la propria visione della poetica romantica: l’arte deve proporsi  « l’utile per iscopo, il vero per oggetto, l’interessante per mezzo». Nell’edizione del 1871, rimarrà solo « il vero per oggetto», ma la formulazione, negli anni in cui fu scritta, riassume efficacemente le posizioni del Manzoni.
« L’utile per iscopo » significa che l’arte deve spingere alla meditazione sui grandi temi morali; « il vero per oggetto »  non fa riferimento a un realismo puramente esteriore, ma si riallaccia, completandolo, al concetto di vero esposto in precedenza nella Lettre: si tratta di una sintesi tra vero storico e vero poetico, non di una semplice giustapposizione; «l’interessante per mezzo » significa che l’opera deve coinvolgere l’attenzione del pubblico attraverso la coerenza della struttura dell’azione: tra i  due limiti della necessità esteriore del vero storico e dell’arbitrarietà dell’invenzione sta il “vero poetico”; in questa instabilità, sempre da reinventare da parte dell’artista, fra necessità e arbitrarietà sta il motivo dell’interesse del pubblico.
L’ode Marzo 1821 viene scritta prima ancora che gli eventi maturino in senso opposto a quello sperato. In questo periodo il Manzoni vive un periodo incerto, da lui stesso definito “terribile” ( tra l’altro vengono arrestati o dispersi gli amici del Conciliatore) in una lettera al Fauriel.
Il Manzoni immagina che i soldati piemontesi, nel marzo 1821, arrivino a portare il moto anti-austriaco al Lombardo-Veneto e che, varcando il Ticino, giurino solennemente fedeltà all’ideale dell’unità italiana, mentre i patrioti lombardi fanno anch’essi lo stesso giuramento. Il poeta esprime la certezza che il popolo italiano, diviso e sottomesso, debba fatalmente liberarsi; si rivolge quindi agli Austriaci, avvertendoli che gli ideali della loro lotta di indipendenza antifrancese (della quale l’autore onora, nella dedica, un poeta-soldato, Teodoro Körner) vengono ora traditi dalla loro tirannica oppressione dell’Italia. L’ode ( che verrà pubblicata solo nel 1848) termina invocando la giusta vendetta divina ed esortando gli italiani a combattere, sicuri della vittoria.
Il cinque maggio nasce in seguito alle sensazioni destate nel poeta dalla notizia della morte di Napoleone a Sant’Elena. Il Manzoni non vuole dare un giudizio politico o storico sull’epoca napoleonica, ma ha grande interesse per l’avventura umana e per il suo grande valore esemplificativo.
Egli vede nelle imprese napoleoniche l’esempio del culmine massimo che la gloria umana possa raggiungere: recluso nell’isola di Sant’Elena, Napoleone viene assalito dall’onda dei ricordi, tanto più inostenibili quanto più gloriose erano state le imprese evocate. Il poeta immagina che, spinto dalla disperazione, Napoleone trovi pace nella morte, dopo aver trovato la Fede, che sola può innalzarlo a un premio eterno, dinanzi al quale diventa « silenzio e tenebra» la gloria terrena.
L’ Adelchi segna un momento cruciale nella produzione manzoniana:  ambientata nel tempo delle lotte tra Longobardi e Franchi ( VIII secolo), la tragedia mette soprattutto in luce il destino dei due protagonisti: Adelchi e la sorella Ermengarda. Adelchi, principe longobardo, combatte, solo per spirito di lealtà verso il padre Desiderio, in una guerra che sente ingiusta: egli è l’eroe che cerca la gloria, ma la vorrebbe immune dalla ragion di stato e dalla violenza. La sconfitta è per lui una “provvida sventura”, perché lo libera da ogni residuo orgoglio e, dopo averlo convinto che nella storia “non resta che far torto o patirlo”, lo rende finalmente libero, purificato dalla sua sofferenza. Le parole di Adelchi morente sono una terribile denuncia contro il male che è nella storia e dal quale c’è salvezza solo nella morte :
«... Una feroce
forza il mondo possiede, e fa nomarsi
dritto: la man degli avi insanguinata
seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno
coltivata col sangue; e la terra ormai
altra messe non dà ».

 

Analoga è la sorte di Ermengarda che, ripudiata dallo sposo Carlo, re dei Franchi, vanamente cerca di dimenticare “l’amor tremendo” che è l’unica ragione della sua vita. Nemmeno tra le suore nel convento di Brescia trova pace nella preghiera, finché, liberata dall’illusione che Carlo l’ami ancora, vede, illuminata dalla sventura, la vacuità della sua felicità trascorsa. Anche lei, proprio come Adelchi, proprio dal suo soffrire è riscattata e, purificata, pur nascendo da stirpe di oppressori, entra a far parte della schiera degli oppressi :
« ...te collocò la provvida
sventura in fra gli oppressi:
muori compianta e placida,
scendi a dormir con essi:
alle incolpate ceneri
nessuno insulterà ».                                 

Uno spazio nella tragedia si apre anche al dramma dei popoli: nel primo coro dell’ atto III, Dagli atri muscosi ... ( il coro nel Manzoni ha una funzione particolare: si tratta di un cantuccio lirico in cui l’autore interviene a commentare gli eventi) in tre momenti successivi sono introdotti idealmente sulla scena gli Italiani, i Longobardi, i Franchi.
Il popolo vinto e asservito ode il rumore crescente della battaglia, lascia per un istante le arse fucine stridenti, i campi bagnati dal suo sudore servile e assiste, pieno di gioia feroce e di ansia, alla sconfitta dei crudeli signori. Testimoni muti e ansiosi della battaglia, gli italiani sognano la fine del duro servir.
A questo punto si leva solenne l’ammonimento del poeta: questi guerrieri che tengono il campo, che precludono ogni via di salvezza ai vostri tiranni, hanno affrontato dei sacrifici, hanno rischiato la morte. E voi, illusi, potete sperare che abbiano fatto ciò per porre fine al dolore di un “volgo” straniero ? La libertà non è un bene che si possa attendere in dono dagli stranieri: è un bene che va conquistato con sacrificio personale.
Nel pessimismo delle tragedie si avverte anche l’eco delle vicende politiche del tempo: l’amarezza per la Santa Alleanza e il dolore per i falliti moti del 1821, ma il significato profondo del testo trascende una particolare situazione storica e si allarga al dramma dell’uomo di ogni epoca, sospeso tra la brama di potere, il dramma della violenza e l’ansia interiore di pace.


I Promessi Sposi

Al termine di un lungo itinerario interiore, Manzoni è ora convinto che nella rappresentazione della realtà occorre porre l’accento non solo sui disvalori del mondo, ma anche sulla forza operosa del bene. Esiste un’azione che può essere valida: quella del cristiano che, illuminato dalla Grazia, non cerca il successo, ma il dono di sé. La vita è vista allora come “impegno”.
Sul piano letterario, la tragedia è genere ormai insufficiente ad esprimere le convinzioni dell’autore, dato che in essa troppo netto è il contrapporsi di reale ed ideale, così la scelta del romanzo appare opportuna e coerente.  Il Manzoni non ha modelli nella letteratura italiana del Settecento e del primo Ottocento: deve riferirsi alla tradizione europea che in quegli anni aveva posto in voga i romanzi storici ( ambientati nel Medio Evo ) di Walter Scott. Manzoni si differenzia comunque fortemente dal modello e il suo romanzo, più di quello dello Scott, è il vero iniziatore della narrativa realistica europea: nei Promessi Sposi si possono rinvenire, sintetizzati e armonizzati, diversi modelli narrativi.
Si va dall’exemplum e dalla sacra rappresentazione ( evocata nelle parole dell’anonimo nell’introduzione, come conflitto tra male e bene ) alla fiaba (matrimonio, ratto, prove e peripezie, presunto “lieto fine”), dal romanzo di formazione ( tale è il “romanzo nel romanzo” di Renzo), al romanzo-saggio ( si pensi ai capitoli storici ), dal romanzo storico a quello avventuroso.
Nello Scott, come più tardi per epigoni manzoniani, la storia entrava nel romanzo soprattutto come sfondo pittoresco in cui ambientare vicende avventurose e sentimentali.
« Il Manzoni appare mosso viceversa da un intento assai più rigoroso di analisi storica, secondo cui la parte di invenzione costituisce lo strumento per spingere l’indagine là dove i documenti non consentono di arrivare .... Scegliendo di rappresentare il Seicento, il Manzoni intende distanziarsi da quel filone romantico di rivalutazione indiscriminata del Medio Evo e da quel pittoresco medievale di maniera che si stava imponendo in molteplici settori della narrativa e della poesia romantica.
Caso mai egli trova motivazioni per occuparsi del Seicento nel fatto che questa gli appare un’età sostanzialmente negativa, l’osservatorio ideale per cogliere il dramma di due antieroi popolari coinvolti negli ingranaggi del potere, nelle fitte trame delle connivenze tra pubblico e privato, delle disfunzioni degli organi che dovrebbero organizzare e tutelare la vita civile» (Guglielmino ).
Dopo aver individuato, con grande probabilità, nella grida che Renzo legge nello studio di Azzeccagarbugli (cap.III) il soggetto del romanzo, il Manzoni giunge alla redazione definitiva (1842)  dopo una prima stesura dal titolo “Fermo e Lucia” e una seconda pubblicata nel 1827.
Le differenze più notevoli sono tra la prima e la seconda stesura: nella prima il testo nasce, ancora, dall’accostamento di vari generi letterari, ai quali si aggiunge una storia immaginaria con spiccati tratti romanzeschi, con una lingua che risente molto del francese e di modelli letterari.  Nella stesura del 1827 varia invece l’intreccio, che diviene più agile e mobile; varia la lingua, che approda alla scelta del toscano; predomina sul romanzesco un tono realistico, ma è presente anche un approfondimento psicologico e morale.
Dopo il 1827 la lingua è ancora rinnovata in direzione del fiorentino parlato dalle persone colte, nella prospettiva di un linguaggio vivo e duttile. Al termine comunque della lunga elaborazione, la struttura del romanzo raggiunge un’organicità che le deriva dal calcolato movimento secondo il quale le peripezie dei due umili protagonisti e quelle dei vari personaggi si alternano alle vicende storiche. Complessivamente, la materia narrativa si dispone in tre unità:
capitoli I-VIII: il matrimonio viene bloccato dal divieto di Don Rodrigo e da una serie di ostacoli che vi si connette;
capitoli IX-XXVII: Renzo e Lucia sono separati e vivono ciascuno una serie di incontri e peripezie che sembrano allontanarli e dividerli per sempre;
capitoli XXVIII-XXXVIII: attraversando le grandi calamità della loro epoca, soprattutto la peste, i due protagonisti si ritrovano e si ricongiungono definitivamente.
Grande importanza hanno anche i luoghi:

« La natura non è un Eden fuori della storia e, se i luoghi del borgo suscitano un’impressione di pace protettiva, è, piuttosto, perché per i protagonisti essi rappresentano l’ambiente familiare. Anche nella pace notturna del lago si profila il palazzotto di Don Rodrigo “come un feroce nelle tenebre”.
Al contrario anche nei luoghi più ignoti che l’uomo sente ostili può emergere un segno di salvezza: vedi la voce dell’Adda per Renzo immerso nelle tenebre del bosco nella sua fuga da Milano. Il Manzoni, quindi, legge anche il “libro della natura” alla luce della legge morale e per questo coglie segni, simboli segreti che riportano a quello che è e a quello che dovrebbe essere il rapporto uomo-natura.” (Sbrilli, 1988)
Riguardo ai personaggi, un particolare rilievo assume la scelta degli umili come protagonisti dell’amore contrastato che è alla base dell’intreccio. Non si tratta di una scelta politica e sociale, ma di una conseguenza della visione evangelica della realtà che guidava il Manzoni. Non è un caso che proprio Don Rodrigo (cap. XI), riferendosi ai poveretti da lui perseguitati, dica:
Chi sa che siano? Son come gente perduta sulla terra: non hanno né anche un padrone: gente di nessuno.”
Cogliere e dilatare l’antitesi tra storia illustre e storia quotidiana è ciò che spinge il Manzoni alla scelta degli umili, perché il guardare la realtà dal loro punto di vista, cioè dal basso, annullando i falsi rapporti di potere, aiuta a collocare in primo piano i valori più autentici.  Parallelamente alla rivoluzione operata sul piano della concezione e funzione della letteratura, il Manzoni affronta con la scrittura del romanzo un radicale rinnovamento linguistico, nell’ambito della nostra tradizione.
Questo scrittore, che il più delle volte parla in francese o in dialetto milanese, si propone di scrivere in una lingua che diventi uno strumento di comunicazione con tutto il “popolo” (nell’accezione dei romantici ) italiano e insieme sia capace di rendere in modo efficace i vari aspetti del reale, usando i vari registri stilistici: dal tragico al comico, dal lirico all’elegiaco.
Questa lingua, in realtà, date le nostre situazioni di particolarismo politico, non esiste: la norma linguistica accettata dagli scrittori di ogni regione è ancora quella conservata dal vocabolario della Crusca. Sul piano del “parlato”, l’uso è quello dei dialetti regionali. Attraverso fasi successive, Manzoni approda alla scelta del fiorentino parlato dalle persone colte; invece della “norma convenzionale” sceglie l’uso, filtrando attraverso il fiorentino anche  espressioni vive del lombardo a lui più consuete, fino a trovare un tono medio, caratterizzato dal felice sovrapporsi ed incrociarsi di voci diverse.
Dunque, il dramma dell’uomo nel mondo è costantemente illuminato da una luce cristiana: dietro la vicenda spesso dolorosa e torbida del vivere, aleggia costante la presenza di Dio, che le dà un significato, l’illumina, la consola, la dischiude alla promessa dell’eternità. E’ un Dio che atterra il potente e aiuta l’oppresso, che, nell’intricata e sanguinosa storia degli uomini, svolge, per vie arcane, un suo piano provvidenziale di bene e di redenzione.
Queste considerazioni conducono a quella che è una delle questioni più dibattute dalla critica: il romanzo manzoniano è o non è il romanzo della Provvidenza ? A lungo la critica ha risposto positivamente, sostenendo che le vicende narrate nel romanzo appaiono guidate dalla volontà divina e dirette a un fine che per chi ha fede è la risoluzione di ogni difficoltà e sofferenza.
Di recente, invece, altri studiosi hanno mostrato qualche perplessità nei confronti di tale interpretazione. In particolare Angelo Marchese sostiene che
« il pessimismo del grande romanziere è il pessimismo di un’intelligenza illuminata da una spiritualità e una cultura che negano ogni armonico disegno della storia, ogni razionalità intrinseca al pulviscolare moto degli eventi e, tanto più, una blasfema provvidenzialità che ne giustificherebbe gli orrori ».
Una posizione interessante è quella di Ezio Raimondi:
« Nel romanzo la fiducia in un piano o in un’intenzione provvidenziale appartiene sempre alla sfera discorsiva dei personaggi, al loro punto di vista. Il Manzoni è convinto che ogni eventuale disegno della Provvidenza trascenda l’umana cognizione».

 


Giacomo LEOPARDI

Nasce nel 1798 a Recanati dal conte Monaldo e dalla marchesa Adelaide Antici. Fin dai primi anni manifesta una eccezionale sensibilità e una vivacissima immaginazione, qualità che renderanno drammatico il rapporto con i genitori e quello con Recanati.
Il padre è una scialba figura di nobile di provincia, uomo debole, ma assillato da ambizioni di grandezza e totalmente legato all’antico regime assolutistico. Egli mantiene nell’ambito familiare rapporti di stretto formalismo, dunque assai aridi. Suo merito è quello di avere speso somme altissime nell’acquisto di libri per la costituzione di una biblioteca vastissima, che sarà il primo strumento della formazione di Giacomo.
La madre, donna di grande volontà e severità, prenderà nelle sue mani l’amministrazione del patrimonio familiare, dissestato dalle spese di Monaldo. Fredda dal punto di vista affettiva, assillata da manie religiose, modello irreprensibile di un’astratta perfezione morale, ella è per i figli una presenza oppressiva. L’ambiente esterno non era meno oppressivo.
In questa esistenza l’inizio degli studi è precocissimo: ciò nasce certamente dalla eccezionale predisposizione di Giacomo, ma assume evidentemente il duplice aspetto di una chiusura difensiva verso il mondo esterno e della ricerca di un’alternativa ideale alla grettezza che lo circondava. Tra le “carte” della biblioteca paterna, il Leopardi può appagare la sua sete di sapere, alimentare la sua fervida immaginazione nel rivivere le epoche gloriose del passato, nutrire speranze di un avvenire luminoso, fare progetti di imprese letterarie sempre più impegnative. Un primo periodo è quello degli anni 1807-1816, contrassegnati da una sempre più esclusiva dedizione agli studi e da un’abbondante produzione in versi e prosa, di carattere inizialmente “scolastico” e poi erudito e filologico.
Nel 1807 Monaldo affida Giacomo e i fratelli Carlo e Paolina a un precettore (il gesuita Sebastiano Sanchini) e a un pedagogo (don Vincenzo Diotallevi), ma ben presto Giacomo si rende autonomo, impara il latino e il greco (a cui si aggiungeranno l’ebraico, il francese, l’inglese e lo spagnolo), legge Omero, traduce l’Arte poetica di Orazio, compone tragedie (La virtù indiana; Pompeo in Egitto).
La sua prima opera di vasto disegno è la Storia dell’astronomia (1813), che dà inizio a un periodo di fervida attività filologica; la seconda è il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (un elenco di superstizioni passate in rassegna nell’intento “illuministico” di divulgare la verità.  Il Saggio... si apre con una premessa in cui sono toccati due temi che manterranno un posto di primo piano nel pensiero dell’autore, anche se il Leopardi giungerà poi a conclusioni opposte rispetto a queste prime formulazioni.
Si tratta del tema della necessità di conoscere il vero (che troverà gli esiti più alti nel Dialogo di Tristano e di un amico e poi nella Ginestra) e del tema dell’educazione (particolarmente presente nei Pensieri elaborati dopo il 1830 da precedenti annotazioni dello Zibaldone), alla quale dovrebbe essere affidata, secondo il Leopardi, la funzione di preservare la mente dei fanciulli dagli errori che inconsciamente e per ignoranza vengono largamente diffusi dagli adulti.
Il secondo momento della storia intellettuale del Leopardi è quello del quadriennio 1816-1819, in cui il processo di arricchimento e di trasformazione delle idee assume maggiore intensità, anche a causa di una grave e deformante scoliosi, causata dai “sette anni di studio matto e disperatissimo”. E’ questo il periodo che Leopardi chiama “delle conversioni “, letteraria, politica e filosofica.
La prima, che matura nel 1816, segna il passaggio dagli studi eruditi alla letteratura, dalla raccolta di nozioni al gusto del bello. Il Leopardi legge tutti i classici che prima aveva tralasciato e si dedica ad alcune impegnative traduzioni ( il I libro dell’Odissea, il II libro dell’Eneide...).
Nello stesso anno Leopardi interviene nella polemica sul Romanticismo mediante una Lettera indirizzata alla “Biblioteca Italiana”, ma non pubblicata: respingendo le idee della De Stael, Leopardi sostiene che « sebbene il poeta debba saper di Storia, di Geografia, di Metafisica, di Morale, di Teologia », la grande opera poetica non nasce dalla lettura degli scrittori: « scintilla celeste, e impulso sovrumano vuolsi a fare un sommo poeta, non studio di autori, e disanimamento di gusti stranieri ».
Il 1817 è anno importante, non solo perché Leopardi amplia la conoscenza degli scrittori moderni (Alfieri, Foscolo, Byron, il Werther di Goethe) e dà inizio allo Zibaldone, ma soprattutto per l’inizio della corrispondenza con Pietro Giordani. Il Giordani comprende ben presto la grandezza del giovane e si reca per alcuni giorni a Recanati: l’incontro accelera l’evoluzione ideologica del Leopardi, come attestano le due canzoni (All’Italia e Sopra il monumento di Dante) scritte in questo periodo.
Si compie la conversione politica, che segna il definitivo distacco dalle posizioni legittimiste e reazionarie di Monaldo. Leopardi sente la necessità di una missione civile intesa a rinnovare il ricordo delle antiche glorie e a liberare le coscienze degli italiani dal torpore in cui sono avvolte per la decadenza dei tempi.
All’inverno del 1818 appartiene il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica in cui, polemizzando con i romantici, sostiene che il fine della poesia è il diletto e che può essere raggiunto soltanto se il poeta saprà stabilire un contatto diretto con la natura, facendone l’unico oggetto di imitazione e cercando di far rivivere la felice immaginazione dei primitivi.
Solo gli antichi sono infatti diretti imitatori della natura: i moderni sono imitatori di imitatori. Proprio però perché quella degli antichi fu l’unica esperienza poeticamente realizzata di poesia, i  moderni non possono fare a meno del loro modello e del loro insegnamento.
I poeti moderni, non potendo ricreare la condizione che fu degli antichi, debbono cercare di valorizzare le esperienze e la visione della realtà che vivono nel periodo più vicino alla natura, più naturalmente incline alle illusioni e all’immaginazione che è loro concesso : l’infanzia. Non dunque un’imitazione passiva della natura devono proporsi i poeti d’oggi, ma, sull’esempio degli antichi, un’imitazione della natura che ciascun uomo porta in sé.
Ancora, Leopardi, questa volta in accordo con i romantici, accetta la polemica contro l’abuso della mitologia perché in essa, ormai irrimediabilmente privata di quella forza di persuasione che aveva un tempo,  troviamo sempre un non so che di arido e falso. Leopardi contesta invece ai romantici che la poesia sia in funzione dell’utile e che debba essere popolare, tendere cioè alla lingua parlata.
Il punto più alto della crisi che travaglia il Leopardi viene toccato nel 1819, l’anno in cui alla solitudine e agli altri motivi di infelicità si aggiunge una malattia agli occhi che, privandolo anche della lettura, lo lascia totalmente in preda ai suoi tormenti interiori. E’ anche l’anno in cui la lunga insofferenza verso l’ambiente familiare e recanatese, più volte espressa nelle lettere al Giordani, determina un tentativo di fuga che avrebbe dovuto portarlo a Roma, ma che viene sventato dal padre e lo lascia in una depressione ancora più grave. Non si tratta di un colpo di testa giovanile: Leopardi scrive nella circostanza una lunga e drammatica lettera al padre, in cui, tra l’altro, c’è una decisa affermazione del suo modo di concepire la vita:
« Io so che la felicità dell’uomo consiste nell’esser contento, e però più facilmente potrò essere felice mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali possa godere in questo luogo. Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci di ogni ande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz’altro pensiero. So che sarò stimato pazzo, come so ancora che tutti gli uomini grandi hanno avuto questo nome. E perché la carriera di quasi ogni uomo di gran genio è incominciata dalla disperazione, perciò non mi sgomenta che la mia cominci così. Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi».
Vi è, in nuce, quel titanismo che si esprimerà in vari modi e che troverà la sua formulazione più netta nei vv. 111-119 della Ginestra.
Intanto, sempre in questo anno così importante, Leopardi scrive L’infinito e Alla luna, seguito l’anno successivo da la sera del dì di festa, Il sogno, la vita solitaria, le sole composizioni che il poeta abbia denominato Idilli, a somiglianza degli idilli del poeta greco Mosco, ma usando il termine in un’accezione diversa: « Idilli esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo ».
Mentre dunque per il poeta greco, un siracusano del II secolo a.Cr., l’idillio era un bozzetto narrativo, di carattere georgico o pastorale, generalmente improntato a serenità e pace, per Leopardi si tratta dell’espressione di uno stato d’animo: il paesaggio, ridotto a pochi elementi, rappresenta lo stimolo per una meditazione che ha come oggetto la realtà interiore.
Si è soliti distinguere, non senza riserve da parte di critici autorevoli  come il Fubini, tra piccoli idilli e grandi idilli:  i primi ( La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La vita solitaria, Odi Melisso...) trattano i temi della solitudine, del dolore, del ricordo, delle illusioni, del disinganno.
Nei secondi (le canzoni  Il risorgimento, A Silvia, Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il passero solitario )  la rappresentazione del paesaggio recanatese acquista maggiore spazio e la riflessione sulla sofferenza esce dall’ambito soggettivo per estendersi a tutti gli uomini: l’esperienza autobiografica si fa simbolo di un’universale condizione umana.
Negli stessi anni (1820-1821), Leopardi scrive le canzoni Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone, Bruto Minore, nelle quali continua l’impegno per una lirica esortativa e di forte ispirazione morale: gli antichi appaiono animati da grande vitalità e capaci di eroismo, i moderni invece sprofondati nell’oblio di qualsiasi virtù.
Nella produzione dell’anno seguente (Alla primavera, Ultimo canto di Saffo, Inno ai Patriarchi) emerge in primo piano il tema della natura, come bene posseduto dagli antichi e ora definitivamente perduto. Contemporaneamente, nello Zibaldone, il poeta va annotando una serie di riflessioni che indicano come il tema della natura sia per lui fondamentale. Gli esiti di tale riflessione saranno evidenti nelle Operette Morali e negli altri Canti.
Altro momento importante è il periodo 1822-24, che comprende il soggiorno romano e la composizione delle Operette Morali. L’esperienza romana, durata sei mesi, delude tutte le aspettative del poeta che, da Recanati, aveva idealizzato uomini e cose della capitale. La vita che si svolgeva a Roma era invece dominata dall’ignoranza e dalla corruzione degli aristocratici e degli ecclesiastici. Anche il mondo dei letterati e degli studiosi, con poche eccezioni, gli appare arretrato, meschino e privo di idealità.
Dopo il ritorno a Recanati, si apre per il Leopardi un periodo di eccezionale creatività, punto d’arrivo di una serie di esperienze che ha già visto, nel fatidico 1819, la conversione filosofica: il travaglio di pensiero testimoniato dalla Zibaldone si appunta soprattutto sulla cosiddetta teoria del piacere e sui concetti di natura e ragione: Leopardi sostiene la necessaria infelicità dell’essere vivente, poiché la sua stessa struttura materiale gli infonde un desiderio illimitato di piacere (cioè di felicità), ma non gli dà, per la sua limitatezza, la capacità di raggiungere tale piacere (felicità).
Per quanto riguarda la natura, essa è concepita in un primo tempo come una madre benigna e viene identificata con il principio stesso della vita, con la fonte delle illusioni e di ogni slancio generoso dell’animo umano, mentre la ragione rappresenta un principio negativo e distruttivo; in un secondo tempo questo rapporto si trasforma: la ragione stessa viene concepita come un prodotto della natura e questa, concepita meccanicamente (nel 1825 Leopardi scrive il Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco, che contiene la formulazione definitiva del suo materialismo), diviene l’unica vera nemica dell’uomo e di ogni creatura.
E’ a questo punto che al pessimismo storico, già espresso nelle canzoni patriottiche e civili, si sostituisce il pessimismo cosmico ( anche se tale distinzione ha un che di artificioso ): l’universo è solo materia, l’uomo è solo uno degli infiniti esseri che lo popolano, tutti sottoposti, in una catena di cause e di effetti, alle leggi meccaniche che governano la materia, a cui è estraneo ogni altro fine tranne la propria conservazione. Liquidato dunque ogni antropocentrismo, respinta ogni concezione provvidenzialista con cui gli uomini hanno cercato nei secoli di nascondersi la reale condizione della loro esistenza, non resta che chiamare virilmente le cose col loro nome e denunciare la verità (torna il “titanismo” di cui si è detto).
A partire dal 1825, il Leopardi si impegna nella ricerca di un qualsiasi impiego stabile che gli consenta di mantenersi lontano da Recanati, senza dipendere dalla famiglia, che solo nel 1832 gli concederà un piccolo sussidio. Il poeta è prima a Milano, poi a Bologna, poi a Recanati, di nuovo a Bologna, poi a Firenze. Qui, per mezzo del Giordani, entra in contatto con gli intellettuali dell’Antologia, vale a dire Vieusseux, Capponi, Colletta, Poerio. Da Firenze Leopardi passa a Pisa: dopo un silenzio di due anni, la creatività poetica torna a farsi sentire e nascono il Risorgimento e la canzone A Silvia. Intanto però, per le gravi ristrettezza, nel novembre del 1828 è costretto a tornare a Recanati.
L’ultimo soggiorno nel paese natio viene vissuto dal poeta come un incubo (“sedici mesi di notte orribile”), in un isolamento assoluto e nella persuasione di aver perduto tutto. E’ da questo fondo di disperazione senza conforto che nascono Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Dopo molte esitazioni, Leopardi accetta l’offerta (anonima, da parte degli “amici” di Toscana) di un assegno mensile per la durata di un anno e, nel maggio 1830, può tornare a Firenze. Nel 1831 appare la prima edizione dei Canti.
A Firenze Leopardi ritrova l’esule napoletano Antonio Ranieri, da lui conosciuto e Pisa, e stringe con il giovane un sodalizio di vita in comune, che durerà fino alla morte. L’amico gli presterà cure affettuosissime e gli sarà di aiuto prezioso nella preparazione delle edizioni dei canti e delle Operette Morali, supplendo alle limitazioni imposte al poeta dai mali fisici, in particolare l’infermità agli occhi.
A Firenze Leopardi conosce anche Fanny Targioni Tozzetti, per la quale concepisce una violenta passione che gli detterà, nel periodo 1831-1835, le poesie del Ciclo di Aspasia: Consalvo, Il pensiero dominante, Amore e morte, A se stesso, Aspasia.
Dopo un viaggio a Roma, nel 1833 Leopardi e Ranieri si stabiliscono a Napoli. Qui il poeta entra in contatto con l’ambiente culturale napoletano, col quale si trovava in disaccordo sul piano ideologico, ma che frequenta comunque. Nel 1834 esce la seconda edizione delle Operette con l’aggiunta del Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere e del Dialogo di Tristano e di un amico, il cui finale suona già come un addio alla vita.
Nel 1835 esce la seconda edizione dei Canti, anche questa ampliata, ma l’anno seguente la censura borbonica ne vieta la diffusione, insieme con le Operette. Dopo il fallimento dei moti del 1831 scrive, tra l’altro, il poemetto in ottave I paralipomeni della Batracomiomachia, che verrà pubblicato dal Ranieri a Parigi nel 1842. Nell’aprile del 1836, per evitare il contagio del colera che si è diffuso a Napoli, il Leopardi si trattiene in una villetta alle falde del Vesuvio e qui detta i due ultimi canti, La Ginestra e Il tramonto della luna, che saranno pubblicati nel 1845 nell’edizione curata dal Ranieri. Leopardi muore l’anno dopo.


Pensiero e poesia

Non bisogna sopravvalutare la condizione fisica del Leopardi, traendone la conclusione che essa sia causa unica del pessimismo del poeta. In realtà, partito dalle domande che nascono dalla sua personale esperienza infelice, il Leopardi allarga la sua ricerca a problemi sempre più ampi: la natura dell’uomo, il concetto di egoismo e quello di virtù, la nascita e la struttura della società, il concetto di natura e quello di ragione, le formazioni politiche, il senso della storia umana, l’origine e la struttura dell’universo.
Questi temi sono affrontati nelle annotazioni quotidiane dello Zibaldone (pubblicato solo nel 1898-1900, col titolo Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, da una commissione governativa presieduta dal Carducci), che si susseguono con intensità crescente soprattutto negli anni 1821-1827, con frequenti rimandi interni che testimoniano la volontà di costruire un discorso organico e unitario. La “filosofia” del Leopardi non è sistematica, ma ciò non vuol dire che essa abbia valore solo come substrato della poesia: di recente Emanuele Severino (Il nulla e la poesia, Milano, 1990) ha rivendicato anzi un grande valore autonomo al pensiero filosofico leopardiano, riaprendo un dibattito che sembrava concluso sulle posizioni del Luporini, il quale nel 1947 parlava di Leopardi come di “un grande moralista” nel senso della tradizione europea di Erasmo, Montaigne, Pascal.
Soffermiamoci su un punto cardine del pensiero leopardiano, quello della dialettica tra natura e ragione: Leopardi, anche dietro le sollecitazioni del pensiero di J.J. Rousseau, vede un sostanziale contrasto tra natura e ragione. La “natura” è sentita come madre benigna, capace di stabilire un rapporto innocente e primitivo con l’uomo:
“ La ragione è nemica d’ogni grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola.”
E’ la ragione che ha dato origine alla società e, quindi, alle lotte, ai conflitti, all’egoismo; è la ragione che ha isterilito l’uomo nell’attuale mondo della produzione, degli affari, delle città corruttrici, mentre l’uomo primitivo era cullato dalla natura nelle magnanime illusione e dava libero sfogo alla fantasia, all’immaginazione, alla poesia, ai sentimenti generosi:
“ Il più solido piacere di questa vita è il piacere vano delle illusioni. Io considero le illusioni come cosa in certo modo reale stante ch’elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti quanti gli uomini... e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa.”
In questa prospettiva, la storia dell’uomo è la storia del suo progressivo imbarbarimento, della sua progressiva scoperta del male. Il pessimismo storico non è più un fatto puramente individuale, ma è legato al travaglio della società contemporanea, sentita come male e come corruttrice. Tra il 1819 e il 1823 Leopardi passa dal pessimismo storico al pessimismo cosmico, rovesciando la concezione di una natura benigna in quella di “natura matrigna”, causa dell’infelicità dell’uomo.
L’acquisizione di tale concetto è lenta e progressiva, e se ne hanno tracce in numerosi pensieri dello Zibaldone, prima che trovi una più organica definizione in alcune Operette morali, soprattutto nel Dialogo della Natura e di un islandese: non esiste uno stato felice di natura da cui l’uomo si sarebbe allontanato.
L’uomo, come gli altri esseri viventi, nasce al solo scopo di morire; l’esistenza universale è un ciclo continuo di produzione e distruzione della materia, il cui solo scopo è il mantenimento del sistema stesso. La ragione, precedentemente considerata come una delle cause dell’infelicità umana, ora tende ad apparire al poeta come un efficace strumento conoscitivo, capace di svelare le contraddizioni del reale: non che essa conduca alla felicità, che è “naturalmente” negata all’uomo, anzi può contribuire a fargli sentire più intensamente la propria infelicità, ma lo rende anche consapevole della propria condizione e lo libera dalle false credenze, dalla risibile superbia di chi si crede misura e fine dell’universo, e dall’umiliazione di chi implora una pietà che gli è necessariamente negata, dandogli la dignità della consapevolezza.
A testimonianza comunque della gradualità del passaggio stanno vari luoghi dello Zibaldone, relativi al 1823.  A ridosso dell’esito definito nel pessimismo cosmico sta il Dialogo di un folletto e di uno gnomo, scritto nel marzo del 1824.
Il dialogo affronta un tema caro al Leopardi, quello del “mondo senza gente”: un indefinito accidente (che solo un uomo definirebbe “catastrofe” ) ha portato a compimento il processo di autodistruzione avviato dall’uomo stesso, cancellandolo completamente dalla Terra; un Folletto ed uno Gnomo, rappresentanti di due specie non ancora estinte, prendono in considerazione la sorte toccata alla specie umana e la sua passata superbia intellettuale.
Il motivo conduttore dell’intera operetta è che l’universo, gli astri, il tempo, le specie viventi non mostrano di aver subito nessuna ripercussione dalla scomparsa dell’uomo; tutto procede normalmente come sempre. Se ancora qualcuno parla dell’uomo, è per deriderne la passata, fallace presunzione di essere misura, centro e fine dell’universo.
Assai nota é l’operetta Dialogo della Natura e di un islandese: narra la tragica avventura di un Islandese che, nell’interno dell’Africa, incontra la Natura, e appassionatamente le chiede conto del dolore dell’uomo, della sua infinita miseria, del suo destino di pianto e di morte.
A queste accuse la Natura risponde serena che il mondo lei non lo ha creato per l’uomo, che lei non si accorge nemmeno di beneficarlo o di tormentarlo, che la vita dell’universo è un ciclo perpetuo di generazione e distruzione, collegate tra loro.
E quando l’Islandese grida la domanda che tante volte poi il Leopardi doveva ripetere nella sua opera (“ A chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono ?” ), la Natura non risponde più, e l’Islandese perisce, non si sa nemmeno esattamente come.
Ne consegue un rifiuto dell’antropocentrismo che, già chiaro nel Dialogo del folletto e di uno gnomo, poi ancora più evidente nella Ginestra, investe anche il piano morale, chiamando in causa la dignità e la responsabilità dell’uomo: la tensione morale, l’ideale di virtù fatto proprio dal Leopardi, il suo stesso titanismo gli impongono di non indietreggiare di fronte alle verità conquistate dalla ragione, per quanto dolorose esse possano essere.
La prima conseguenza da trarre è una vera e propria rivoluzione culturale: gli uomini, abituati a lottare gli uni contro gli altri, scoprendo di non essere i re dell’universo, bensì una delle tante forme di vita disseminate negli spazi infiniti, possono fare il passo decisivo e scoprire di affratellati dal medesimo destino.  Ne dovrebbe conseguire l’accettazione di una cultura che ponga al centro la pace e la solidarietà, abbandonando tra i detriti della storia il millenario uccidersi degli uomini tra loro.
Altro scritto importante è ancora un’operetta, il Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, che consente di analizzare la teoria leopardiana del “piacere”, che qui riceve una sistemazione chiara e suggestiva. Nell’uomo vi è una contraddizione insanabile: egli aspira con tutte le sue forze alla felicità, ma questa gli sfugge sempre, non si realizza mai, anzi la felicità non esiste sulla terra. A sostegno di queste affermazioni stanno alcune pagine dello Zibaldone ( luglio 1820 ):
“ Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana ... desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità che, considerandola bene, è tutt’uno con il piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita con l’esistenza ...”
Come logico corollario, la teoria del piacere ha le osservazioni leopardiana sulla noia. Esse sono numerose, in vari momenti della vita e dell’opera del poeta recanatese, ma basterà citarne due, risalenti rispettivamente al 1821 e al 1829 :
“ Vero è purtroppo che astrattamente parlando, l’amica della verità, la luce per discoprirla, la meno soggetta ad errare è la malinconia: e soprattutto la noia; ed il vero filosofo nello stato di allegria non può far altro che persuadersi, non che il vero sia bello o buono, ma che il male cioè il vero si debba dimenticare, e consolarsene, o che sia conveniente di dar qualche sostanza alle cose, che veramente non l’hanno.”
“Quando l’uomo non ha sentimento di alcun bene o male particolare, sente in generale l’infelicità nativa dell’uomo, e questo è quel sentimento che si chiama noia”.
Altro momento fondamentale del pensiero leopardiano è la cosiddetta poetica dell’indefinito, del vago, che si ricollega alla teoria del piacere: l’uomo ha in sé, si è già detto, un desiderio infinito di piacere (Zibaldone, luglio 1820 ); ogni limitazione di questo piacere produce in lui una sensazione dolorosa: ne deriva che anche in poesia tutto ciò che è limitato, definito, ritratto nei suoi precisi contorni, produce una sensazione tendenzialmente dolorosa e quindi essenzialmente impoetica.
Poetico è viceversa tutto ciò che in vario modo consente all’uomo di attingere un’idea, una sensazione infinita. Ancora nello Zibaldone ( 25 ottobre 1821) leggiamo:
« Per la copia e la vivezza delle rimembranze sono piacevolissime e poeticissime tutte le immagini che tengono del fanciullesco e tutto ciò che ce le desta (parole, frasi, poesie, pitture, imitazioni o realtà ecc.). E sono piacevoli per la loro vivezza anche le ricordanze d’immagini e di cose che nella fanciullezza ci erano dolorose, o spaventose, etc.. E per la stessa ragione ci è piacevole nella vita anche la ricordanza dolorosa, e quando bene la cagion del dolore non sia passata ».
“Poeticissime e piacevolissime” sono, per Leopardi, le rimembranze, specialmente quelle legate alla fanciullezza: la memoria del passato, infatti, produce sempre sensazioni serene e confortanti, anche se i fatti che rievoca sono stati tristi e dolorosi, e niente è più gratificante che ricordare gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, anni pieni di slanci e ricchi di sogni o, per lo meno, anni che ritornano tali alla memoria di chi li recupera a distanza di tempo. Il tema è assai presente in tutta la poesia leopardiana, ma troverà la sua espressione più compiuta nelle Ricordanze.

I CANTI

 

All’inizio dei Canti appare una serie di canzoni (All’Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai) in cui è evidente la volontà del poeta di superare la propria infelicità, cercando una “missione” che non lo faccia sentire escluso dalla vita. Il tema si manifesta in una serie di vocativi, di drammatiche asserzioni o di incalzanti domande che, ponendo in primo piano l’io del poeta, di fatto lo rendono protagonista di una angosciata commiserazione dei mali che affliggono l’Italia e della decadenza dei tempi.
Accanto al tema principale affiora comunque quella volontà di esprimere “il segreto sentire” che si fa evidente nei due idilli del 1819, L’infinito e Alla luna: nel primo c’è la meditazione sull’infinità dello spazio e del tempo, nel secondo la durata interiore, la memoria, quel particolare piacere che si prova nel ricordare ciò che è intimamente nostro, anche se doloroso:
« ... Oh come grato occorre»          ...
il rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l’affanno duri ».

 

L’infinito è stato oggetto di numerosissime analisi : il poeta è seduto davanti ad una siepe che gli impedisce di vedere il profilo dell’orizzonte e gli oggetti reali che entro quello si collocano; dalla percezione di questo limite e dal bisogno di superarlo, l’immaginazione è stimolata a fingersi ( crearsi nell’immaginazione ) spazi interminati.
Ma stormiscono le fronde degli alberi, appena smosse dal vento, e l’immaginazione, per contrasto, estende il suo fantasticare fino al silenzio totale del nulla e al succedersi infinito delle generazioni e delle epoche sulla terra. Tali riflessioni lasciano smarrito il pensiero per l’avvertimento della sua inadeguatezza di fronte all’inconoscibile, ma pure riempiono i cuore di una dolcezza inebriante.
La situazione del “naufragio” nell’infinito e nell’eterno non è una pura e semplice fuga nell’irrazionale e nel sogno, bensì un processo immaginativo e consolatorio sottoposto a un preciso controllo razionale: il poeta costruisce consapevolmente la situazione di contrasto tra limitato ed illimitato e poi paragona il presente al passato e all’eterno. Egli, nell’atto dello scrivere, è consapevole della vanità del suo tendere all’infinito, sa che quella che compie è un’esperienza dell’immaginazione e nulla più, per quanto dolce e consolatoria (Decisiva, in tal senso, la presenza di mi fingo). Un apporto in tal senso è anche dato dalla genesi del componimento, niente affatto immediato o incontrollato: il cammino del testo verso la sua stesura definitiva passa infatti attraverso tre abbozzi, due in prosa ed uno in versi.
Il dramma della solitudine viene apertamente cantato nel Passero solitario, che, sebbene composto nel 1831, viene collocato dal Leopardi dopo le canzoni e prima dell’Infinito, segnando non un momento cronologico, ma un momento ideale della storia della sua anima.
L’espressione chiave è nell’aggettivo pensoso del verso 12: per il passero, come per il poeta, il canto è il modo stesso di esistere, l’unica possibilità di esteriorizzare il proprio io. La lirica si articola in tre parti: la descrizione dell’uccello in primavera e il suo differenziarsi dagli altri animali si pone come parallela all’esistenza del poeta, che trascorre in solitudine la propria gioventù, differenziandosi e isolandosi dagli altri uomini. L’ultima stanza è una amara riflessione sull’esistenza:
« quando muti questi occhi all’altrui core,
e lor fia voto il mondo, e il dì futuro
del dì presente più noioso e tetro,
che parrà di tal voglia ?
Che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro ».

Dopo l’apparizione dei primi idilli, tra il 1820 e il 1822, Leopardi scrive un’altra serie di canzoni e altri tre idilli. Tra le canzoni, notevole è L’ultimo canto di Saffo:  scopo dichiarato della canzone è “ rappresentare l’infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane”. Un anno prima, nello Zibaldone (settembre 1821), Leopardi aveva scritto :
“ La virtù, il sentimento, i più grandi pregi morali, le qualità dell’uomo le più sublimi, infinite ... non si amano, non fanno effetto veruno se non come materia e in quanto materiali. Divideteli dalla bellezza ... non si sente più nulla in essi. “
La poetessa greca Saffo confida al cielo la propria disperazione, accusa la natura di averle fatto scontare un peccato non suo, ribadisce l’inesplicabilità del destino umano, conclude che unico scampo alla vita è la morte. La lirica è, in un certo senso, autobiografica: la poetessa brutta e infelice diventa simbolo della inutilità della virtù in un mondo incapace di ammirarla e della grandezza poetica non accompagnata da belle apparenze:

« virtù non luce in disadorno ammanto ».

I cosiddetti Grandi idilli hanno il loro primo grande esito in A Silvia : Silvia è il simbolo della giovinezza, l’età breve dei sogni e delle speranze, ma il canto della giovinezza e della speranza è anche lamento sul loro morire, esaltazione di un passato che sembra così bello proprio perché è morto per sempre.
Silvia non è una presenza reale, corposa: quando compare, ella è già solo un canto ininterrotto che si dispiega per la via, che percorre stanze vuote, in una situazione che evoca un senso di infinito, con una tecnica ben nota al Leopardi. Non vi è dunque una vicenda d’amore, un rapporto sentimentale, e la situazione è lasciata nel vago e nell’indeterminato: ciò che unisce i due giovani, a distanza, è solo il parallelismo tra due condizioni.
La fanciulla del popolo e il giovane poeta aristocratico sono associati, al di là della distanza tra i loro due mondi, dalla condizione giovanile, dalle sue speranze e dai suoi sogni, dall’inevitabile delusione.
Tutta la lirica è caratterizzata da un senso di “vaghezza”: la figura femminile è poverissima di indicazioni concrete, anzi, all’inizio, vive solo di due particolari, uno fisico (gli occhi ridenti e fuggitivi) e uno psicologico (l’atteggiamento lieto e pensoso). Ancor più vaga è la raffigurazione del mondo esterno, affidata all’aggettivazione (per altro assai sobria) e privo di “materialità”. Tutto ciò non è causale, e rimanda alla poetica leopardiana del vago e dell’indefinito, in cui, secondo il poeta, consiste il bello e il piacevole delle cose. Il finale,

« All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano »

ci ricorda che Leopardi è il poeta del negativo e del nulla, ma anche della vita: la poesia si chiude con l’immagine della fredda morte, ma per l’intero componimento il poeta evoca, nonostante tutto, dallo sfondo dell’ombra e del nulla, le immagini della vita e della gioia, come protesta contro la forza maligna che le ha negate all’uomo.
La tematica del vago e dell’indefinito si precisa e meglio viene ora detta “del ricordo”. Il poeta è  costretto a tornare a Recanati, dove trascorre “ sedici mesi di notte orribile “ ed invoca, in una lettera del 1829, “ il riposo del sepolcro “. La poesia però non si interrompe, anzi, nota il Sapegno, sboccia “come un fiore miracoloso” proprio da quel “fondo di cupa disperazione”: ecco Le ricordanze.
Il ritorno a Recanati e la vista dei luoghi dove aveva trascorso l’infanzia e la prima giovinezza suscitano nel Leopardi una folla di ricordi. Dei grandi idilli questa è la lirica che meglio esprime lo stato d’animo del poeta e riflette più coerentemente la sua poetica di quegli anni:
“ Un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima , ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in sé, sarà poeticissimo a rimembrarlo.”
La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual che egli sia, non può essere poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago ». (Zibaldone, 14 dicembre 1828 )
La lirica Le ricordanze - nota il Petronio - “ è come un andirivieni irrequieto della memoria che ripercorre le “immagini” e le “fole” dell’infanzia e della prima giovinezza, gli slanci appassionati e le trepide attese di quell’età felice”.
Per contrasto, il poeta passa poi al solitario dolore dell’età verde, sciupata nel “natio borgo selvaggio”, alla coscienza amara del vivere presente, sì vile e sì dolente, al quale non resta, di tante speranze, che la speranza della morte. Il canto si chiude sull’immagine di Nerina, una giovinetta che - come Silvia - è sorpresa nella breve stagione in cui si abbandona, trepida e fiduciosa, al vagheggiamento della felicità promessa, per sparire però subito dopo, oggetto per il poeta di acerbo rimpianto.
Segue il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, un momento chiave nello sviluppo del pensiero e della poesia leopardiana: il poeta, tramite la figura esemplare del pastore, considera l’infelicità dell’intero genere umano e di tutti gli esseri viventi: di fronte ad un universo arido e al silenzio indifferente, non più consolatorio, della luna, il pastore leva il suo lamentoso canto e scopre che non esiste un punto o un momento da cui o in cui si possa attingere il senso ultimo delle cose :
« O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna
è funesto a chi nasce il dì natale ».

Precedenti come composizione, ma successivi nella stesura curata dal poeta, sono i due canti La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio.
Nel primo il piacere determinato dal placarsi della tempesta si collega all’angoscia precedente per giungere all’amara conclusione che quella che agli uomini sembra momentaneamente gioia altro non è se non una pausa momentanea del dolore: la vita appare bella e gradevole solo dopo che si è corso il rischio di perderla e le immagini finali sono nude immagini di morte. Sbagliano quanti ( ricordiamo tra gli altri il Flora ) hanno separato i due momenti, lasciandosi ingannare dalla serenità e dalla festosità della scena iniziale: in essa è invece implicito il senso della labilità, della sostanziale vanità del piacere, come ha ben notato il Fubini.
Il secondo canto è posteriore di pochi giorni al primo e tende anch’esso a scoprire dietro le dolci illusioni della giovinezza la vanità dolorosa della vita: di qui l’esortazione finale all’adolescente perché freni la sua impazienza e goda la sua breve lieta stagione: c’è la malinconica tenerezza di chi sa quella creatura fiduciosa è destinata, inevitabilmente, ad incontrare un amaro disinganno:
« Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave ».

L’ultima stagione della poesia leopardiana, successiva ai Grandi Idilli e al definitivo abbandono di Recanati, presenta consistenti elementi di novità: il Binni ha parlato di una “poetica eroica”, in cui la personalità del poeta si manifesta “con energia aggressiva” e si esprime in “forme risolute e impetuose”.
Più recentemente il Bigi (La genesi del ‘Canto Notturno’ e altri studi sul Leopardi, Palermo,1967) ha rilevato che rispetto al passato
« prevale ora la volontà di comunicare e proclamare le verità del proprio pensiero ...  con una persuasione ... delle proprie idee così ferma da risolversi spesso in dura polemica contro chi ... quelle idee rifiuta, opponendo ad esse, in buona o in mala fede, per superbia o viltà, le insufficienti e false prospettive di un progresso politico e tecnico o di un provvidenzialismo spiritualistico ».
A questa nuova poetica corrispondono un linguaggio e uno stile che non si curano più di evitare le asprezze e le disarmonie foniche, ritmiche, sintattiche, ma sembrano anzi talora cercare proprio l’asprezza e la disarmonia come forma più adatta a rendere le amare verità che la poesia prende come proprio soggetto.
Esemplificativo al riguardo è A se stesso : il canto appartiene al cosiddetto “Ciclo di Aspasia “, un gruppo di cinque componimenti scritti tra il 1831 e il 1835 e ispirati dalla passione, incompresa, per Fanny Targioni Tozzetti.
La nuova delusione amorosa ha fatto morire ogni speranza illusoria, ogni desiderio di cari inganni. Il poeta, però, non si ripiega, come nei grandi idilli, nella rimembranza nostalgica del passato e nel rifiuto sofferto e amaro del presente: egli, invece, protesta contro la malvagità della natura, la bruttezza della vita, l’ineliminabile infelicità, la stoltezza degli uomini che si illudono. Egli condanna anche quella parte di sé che ha creduto agli inganni ed invita il suo cuore a cessare, ormai, di sperare ancora, prima di conquistare nel disprezzo assoluto uno spazio di eroica rivolta e di energico rifiuto del potere malvagio della natura:
« .... Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto ».

L’ultimo grande canto leopardiano è La ginestra o il fiore del deserto. Fu composto nel 1836 e pubblicato postumo ad opera di Antonio Ranieri, che lo pose come ultimo a chiudere i Canti, secondo la volontà espressa dal poeta.
Lo scabro paesaggio della campagna vesuviana che parla solo di morte e di rovine, con i campi ricoperti di cenere e lava, provoca nel poeta la meditazione intorno alla potenza e all’ostilità della natura, alla misera e desolata condizione umana.
L’uomo non è che un piccolo, fragile e insignificante aspetto dell’immensa vita dell’universo; su di esso incombe una Natura (simboleggiata dal Vesuvio ) che perennemente minaccia e uccide, una onnipotente Natura matrigna intesa solo alla perenne metamorfosi dell’assurda e meccanica vita dell’universo. Al grido di dolore dell’uomo nessuna voce risponde dagli spazi sterminati di un tutto incomprensibile.
Da questa amara verità scaturisce l’appello del poeta all’umiltà e alla fraterna unione tra gli uomini. Al secolo superbo e sciocco, intento a celebrare dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive, Leopardi oppone il suo convincimento materialistico, la fiducia nella ragione, il rifiuto di ogni mito in nome del “vero”, la sua fede in un atteggiamento intellettuale che pone nella lucida e spietata conoscenza razionale della realtà la vera grandezza e dignità dell’uomo,  al sua nobiltà spirituale.
Dunque, umiltà nel riconoscere i propri limiti, fraterna solidarietà tra gli uomini : la ginestra è l’unico fiore che cresce sulle falde del Vesuvio e, pur destinato a morire, spande intorno a sé un dolcissimo profumo.
L’umile fiore diviene così il simbolo di una condizione umana disperata, ma accettata virilmente. Da questa consapevolezza del proprio destino infelice e dell’ostilità della natura gli uomini trarranno la forza per unirsi e porgersi scambievolmente un aiuto valido e pronto contro gli assalti del nemico feroce.  Simbolo di dignità, dunque, la ginestra. Ma non è anche simbolo della poesia che illumina e consola la vita ?

 

Le Operette morali

La gestazione delle Operette morali ( misto di prosa e poesia, alla maniera del greco Menippo) si può far risalire a un appunto del 1819, confermato poi in una lettera al Giordani :  (4 settembre 1820). Dopo la negativa esperienza romana, il processo di maturazione del poeta subisce una profonda accelerazione e le Operette vengono stese tra il 1823 e il 1824. La prima edizione esce nel 1827, la seconda vedrà la luce nel 1834.
La suggestione del mondo classico è sempre presente in Leopardi; nel caso delle Operette il riferimento è ai dialoghi di Platone, ma soprattutto ai Dialoghi di Luciano di Samosata, poeta greco del II secolo d.C., caratterizzati da una corrosiva ironia che testimonia la crisi del suo tempo. Leopardi ha però ben presente anche la lezione dei filosofi moderni, particolarmente illuministi, tra cui Voltaire e Holbach. da quest’ultimo Leopardi attinge quel materialismo che sarà poi presente nel Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco (quest’opera sarà pubblicata nel 1845).
Testo centrale del materialismo leopardiano è, si è già detto, il Dialogo della Natura e di un islandese:
« Tu mostri non aver posto mente che la vita di questo universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale, sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento ».
La materia d’altra parte - è detto nel Frammento apocrifo - come non ha mai avuto  ed è sempre esistita  dall’eternità, così è destinata a durare senza fine, mentre al contrario  nascono e periscono. Immensi aggregati di materia danno origine a mondi infiniti, che nel volgere delle grandi epoche dell’universo periscono e si trasformano, come certamente accadrà nel nostro.
Grande è la forza drammatica di un’altra operetta, Il Cantico del gallo silvestre: si racconta di un mitico, mostruoso uccello che si trova tra terra e cielo e ha il compito di ridestare ogni giorno gli uomini alla vita, cioè al dolore e alla morte, in una visione dai toni lucreziani :
«  Ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile ... Tempo verrà che ssso universo, e la natura medesima, sarà spento. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro meravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna, parimenti del mondo intero e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi ».
In questa coscienza della negatività dell’essere è assente ogni senso di morbosità, al contrario è presente quel senso eroico della vita che si manifesterà chiaramente nel Dialogo di Tristano e di un amico:
«Non  mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini ».
Questo sentimento, che troverà espressione nei versi della Ginestra, è già espresso in un passo del Dialogo di Plotino e Porfirio, in cui Plotino rivolge all’amico sentite parole per esortarlo a vivere:
« Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso mbievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. la quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quest’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora ».
Il contrasto tra i due poli dell’illusione e della ragione ha spesso fatto accostare, dal De Sanctis in poi, il pessimismo leopardiano a quello di Schopenhauer. Si tratta di una somiglianza più apparente che reale: se infatti è identico il giudizio negativo che i due danno sulla natura e sulla condizione umana, diverso è l’atteggiamento concettuale. Schopenauer accetta da Kant il dualismo fenomeno-noumeno, vale a dire l’assunto che ciò che noi conosciamo con i sensi non corrisponde alla realtà del mondo. In Leopardi, invece, la ragione ci rivela un vero che corrisponde totalmente e inesorabilmente alla realtà delle cose.
In Schopenhauer l’uomo è diviso tra “vita” e “rappresentazione della vita”; in Leopardi ciò non avviene e l’ironia, che in certe pagine di Schopenhauer è evidente, non è possibile, tanto il mondo e le sue verità sono presenti davanti al soggetto. Di ironia si può semmai parlare nei confronti di quanti vogliono illudersi e rifiutano di vedere il vero.


Opere satiriche e polemiche

Leopardi è fortemente polemico, in particolare negli ultimi anni della sua vita, contro i messaggi di felicità e progresso che in particolare i Romantici rivolgevano al popolo. Tale polemica assume le forme dell’ironia, anzi del sarcasmo, con punte di iroso disprezzo, nella Palinodia al marchese Gino Capponi, nei Nuovi credenti, soprattutto nei Paralipomeni della Batracomiomachia.
Quest’ultimo è un poemetto in ottave che si presenta come continuazione della Batracomiomachia (Battaglia delle rane e dei topi), opera di età ellenistica, erroneamente attribuita a Omero. Sotto l’aspetto della favola, Leopardi discute degli avvenimenti politici del 1820-‘21 e del fallimento dei moti liberali. I topi sono i liberali napoletani, le rane i borbonici, aiutati dai granchi, che sono gli austriaci. La polemica è indirizzata verso la reazione ottusa e brutale, rappresentata dai granchi, ma non risparmia neppure i topi (i liberali), di cui viene colpito il facile ottimismo, il progressismo generico, lo spiritualismo.  La critica non è fatta in nome di posizioni politiche più progressiste, come qualcuno ha ipotizzato, ma proprio in nome dell’assoluto pessimismo del poeta, il quale nega ogni possibilità di miglioramento politico e sociale per un’umanità vittima della natura.

 
 

GIOVANNI VERGA

Nato a Catania nel 1840, si trasferisce a Firenze nel 1865. Molto importanti sono gli anni trascorsi in questa città, capitale d’Italia e centro di grande prestigio. A tale periodo risalgono due romanzi, Una peccatrice (1866) e Storia di una capinera (1871), i quali segnano una svolta nell’itinerario narrativo dello scrittore: con essi infatti il Verga abbandona il romanzo storico di estrazione scottiana ( quali erano stati Amore e patria e I carbonari della montagna ) per tentare il romanzo psicologico.
In Una peccatrice lo scrittore rappresenta il mondo raffinato e complicato della società aristocratica e salottiera, un mondo che riflette in parte le esperienze letterarie del giovane, in parte le sue esperienze autobiografiche nei primi incontri con la società fiorentina: un mondo che lo attrae e respinge insieme.
In Storia di una capinera sono presenti numerose suggestioni letterarie: dalla struttura ( è un romanzo epistolare sul tipo dell’Ortis ) al tema della monacazione per forza, tema tipico della letteratura romantica, al gusto della celebrazione della vita di campagna, all’interesse per gli umili e i poveri. Il romanzo verghiano ha tuttavia una sua originalità ed  un suo intrinseco valore, grazie all’analisi psicologica che si fa più penetrante e allo stile che, per quanto talvolta ancora enfatico, diviene meno eloquente e convenzionale.
Nel 1872 il Verga si trasferisce a Milano. Qui entra in contatto con l’ambiente della Scapigliatura, conosce il romanzo naturalista francese, stringe amicizia con il Capuana. I romanzi scritti nei primi anni del soggiorno milanese ( Tigre reale (1873), Eva (1873), Eros (1875)) rivelano il proposito dello scrittore di presentare, alla luce della lezione del naturalismo francese, “documenti umani” e, insieme, il definirsi di una direzione fondamentale del suo interesse umano e della sua disposizione narrativa: il sentimento del focolare domestico, della sacra e raccolta intimità della casa, approdo e rifugio contro le avventure, le seduzioni e le inevitabili sconfitte del vivere.
Un posto preminente occupa ancora la passione amorosa, spesso intellettualizzata, ma sempre foriera di infelicità; c’è ancora ricerca psicologica, eppure i personaggi verghiani, sin da ora, fanno parte in fondo della categoria dei “vinti”, dei predestinati alla sconfitta ( non però da un disegno superiore, ma dalla condizione sociale, dal momento, dalle circostanze, dalle esperienze vissute nel passato ).
In realtà proprio i questo pessimismo, che per ora il Verga rileva e rappresenta in modo episodico, affiora quella tendenza ad una concezione deterministico-positivistica che è alla base del verismo.
Con la novella Nedda i principi veristici cominciano a prendere forma più definita : Nedda è una fanciulla costretta a lavorare per mantenere la madre ammalata; quando questa muore, la giovane viene sedotta da un contadino, Janu, il quale però muore in seguito di malattia. Nedda, disprezzata e condannata dalla gente, dovrà assistere impotente anche ala morte della sua creatura.
La novella non è estranea al sentimentalismo romantico già presente nei romanzi precedenti, ma esso appare riscattato e risolto sul piano di una rappresentazione oggettiva di cose e di creature: la povertà per la prima volta è vista come un implacabile destino che ha le sue leggi alle quali è inutile cercare di sfuggire.
Anche sul piano stilistico, il Verga comincia ad attuare i principi del Verismo : l’impersonalità della narrazione, il linguaggio asciutto ed immediato del popolo, la descrizione di ambienti e personaggi che non hanno nulla di eroico, lo stile rapido e concreto sia nel discorso indiretto, sia nei dialoghi.
Nell’arco di un decennio si succedono ora, frutto di un’intensa attività creativa, le opere più importanti: Vita dei campi (1880) (con gli splendidi racconti “Cavalleria rusticana”, “La lupa”, “Rosso Malpelo”, “Jeli il pastore”); I Malavoglia (1881), il romanzo Il marito di Elena (1882) ( un ritorno alla rappresentazione di un ambiente piccolo-borghese ), la raccolta di novelle di ambiente milanese Per le vie (1883), il Mastro don Gesualdo (1888).
In una lettera del 1878, il Verga delinea ad un amico il programma del ciclo dei vinti (il titolo era inizialmente La marea), sostenendo di voler dar luogo, attraverso cinque racconti (Padron ‘Ntoni, Mastro don Gesualdo, La duchessa delle Gargantàs, L’on. Scipioni e L’uomo di lusso ) ad una specie di fantasmagoria della lotta per la vita a partire dalle classi più basse, dove la lotta è limitata al pane quotidiano, per arrivare alle aspirazioni e vanità dell’uomo di lusso.
Questo impegno di dar luogo ad una rappresentazione circoscritta e differenziata di una società italiana reale, post-unitaria, osservata nelle differenti classi sociali, trova successiva conferma in Fantasticheria (1879), una prosa critico-espositiva importantissima, in quanto presenta in nuce l’argomento dei Malavoglia (ambiente, personaggi, loro destino) e l’atteggiamento del Verga verso quei personaggi, a proposito dei quali egli afferma :
“... per intendere quelle tenaci affezioni di uomini primitivi, per intendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farsi piccini anche noi, chiudere tutto l’orizzonte tra due zolle”.
Nella novella appare chiara la contrapposizione tra città e villaggio: da una parte il mondo aristocratico e raffinato, con l’immagine dell’amica, una dama dell’alta società, a cui il narratore ricorda il suo viaggio ad Aci Trezza; dall’altra il villaggio con i suoi umili e i suoi diseredati, un mondo di pescatori e derelitti che “ hanno la pelle più dura del pane che mangiano, quando ne mangiano”. Sono poveri diavoli coraggiosamente rassegnati ad una vita di stenti, tenacemente attaccati allo scoglio “ sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua e duchesse di là “.
Essi sono dunque attaccati, come l’ostrica allo scoglio, al loro lavoro, alla loro casa, alla famiglia, al paese, unica difesa in una società dominata dalla violenza e dall’egoismo, in cui i rapporti sociali sono immodificabili e la vita degli uomini è sostanzialmente ripetizione.  Ma, pur nella povertà, il villaggio non può essere un mito positivo, un’alternativa capace di conservare quei valori che la società capitalistica distrugge: anche qui si annida la brama di meglio, una sorta di febbre riconducibile all’ambizione e all’avidità di guadagno:
“ ... allorquando uno di quei piccoli o più debole o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto o per brama di meglio o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. “
E’ il dramma che il Verga narrerà nei Malavoglia, il dramma di chi vuole cambiare stato, mettere in discussione un assetto sociale immutabile.
Nel romanzo I Malavoglia è narrata infatti la storia di una famiglia di pescatori, padron ‘Ntoni (il capofamiglia), Bastianazzo (il figlio), la Longa (la nuora) e ‘Ntoni, Luca, Mena, Alessi e Lia (i nipoti), nel loro faticoso esistere e scontrarsi col mondo-società, rappresentato dalla gente di Aci Trezza, e, fuori del paese, dalla  minaccia anche più lontana ed oscura del “continente”, del “regno”. Una secolare tradizione di servilismo, di oscuro terrore, ha abituato  gli abitanti di Aci Trezza ad odiare il governo e i suoi rappresentanti: dal continente giungono infatti solo provvedimenti disastrosi.
La chiamata del giovane ‘Ntoni per la leva di mare è il primo duro colpo che il mondo-continente avventa sui Malavoglia ed è anche la molla che fa scattare l’azione.  Per guadagnare qualcosa, in assenza di ‘Ntoni, il vecchio capofamiglia, questa volta incauto, combina con l’usuraio zio Crocifisso un commercio di lupini. L’affare è rischioso, esce dalle norme di comportamento e dalla “cautela” dei Malavoglia, fino ad allora solamente pescatori. La barca Provvidenza fa naufragio con tutto il suo carico nella tempesta muore Bastianazzo, padre di ‘Ntoni: comincia la triste ed implacabile fatica dei Malavoglia per pagare il debito.
Il dramma veristico dei Malavoglia è tutto qui, in una “vita di fare e disfare”, nella lotta quotidiana di chi cerca di risollevarsi in cento modi: risparmiano, sembrano vicini a riavere la Provvidenza, prossimi a riscattare la casa del Nespolo che hanno dovuto prima ipotecare e poi vendere, ma ogni volta accadono altre disgrazie, altri imprevisti, altri crudi colpi del mondo.
Contro un mondo-società che si presenta nelle sembianze minacciose e crudeli del pesce vorace, questi “piccoli” Malavoglia non dispongono di altra forza, di altra resistenza all’infuori della rassegnazione, della rinuncia, dell’immobilismo sociale tramandato per generazioni. Uniche virtù difensive sono il lavoro duro e quotidiano (ma un lavoro cieco, senza luce di miglioramento ), la religione della famiglia (ma come isolamento, concentrazione sugli unici valori del focolare e dei fatti propri) : è “l’ideale dell’ostrica” che il Verga aveva già espresso con chiarezza in Fantasticheria.
La “formica” di questo ricominciare sempre daccapo è Padron ‘Ntoni, che attinge le sue poche idee dal passato, da una saggezza vecchia e sperimentata,la quale, però, si rivela povera cosa di fronte alle insidie del mondo. Gli eventi tristi della famiglia passano attraverso il lento coraggio della rassegnazione, del dovere, della cautela e dell’immobilismo a cui Padron ‘Ntoni, specie dopo l’errore dei lupini, cerca di legare tutti gli altri.
Solo con ‘Ntoni la cosa non riesce, anzi nonno e nipote sembrano in certi momenti addirittura antagonisti, appartenenti a due generazioni che concepiscono diversamente la vita : tanto più ostrica e formica il vecchio patriarca, quanto più insofferente e desideroso di evasione il nipote. Eppure, a ben guardare, sono entrambi vittime, giocati entrambi dall’egoismo e dalla malignità del paese.
Il vecchio, per la sua onestà e la sua candida fiducia nel prossimo, resta inguaiato nella faccenda dei lupini avariati e nel conseguente giro dei debiti ; a sua volta il giovane ‘Ntoni, nel tentativo di farla finita con la propria condizione di “povero diavolo” si immischia in loschi traffici ottenendo come unico risultato la prigione. Il “trasgressore” ‘Ntoni, dunque, disprezzando il lavoro e la famiglia, uniche forme di salvezza per i primitivi, soccombe al proprio destino di ribelle e di esule.
Dopo la pubblicazione dei Malavoglia, il Verga ha più stretti contatti col naturalismo francese, spingendosi a guardare e a rappresentare certe realtà, soprattutto meridionali, con maggiore oggettività ed impersonalità, eliminando ogni residuo lirico e nostalgico che ancora qua e là si può intravedere nei Malavoglia. L’ambiente in cui si svolge l’azione del Mastro don Gesualdo non è più un paesino di pescatori, ma un grosso borgo, a contatto con la città: è l’ambiente della nobiltà provinciale, una nobiltà decaduta ed orgogliosa, spesso presente nel gioco della produzione e della concorrenza.
Il protagonista, Mastro don Gesualdo, dopo essere salito da una condizione di sottoproletariato a quella di proprietario terriero e dopo essersi imposto per le sue doti di infaticabile lavoratore, tenta di entrare nel chiuso mondo della nobiltà, sposando Bianca Trao, che, proveniente da una famiglia decaduta, ma chiusa e superba, accetta il matrimonio solo per salvare il proprio onore, macchiato dopo i suoi amori col baronetto Rubiera.
Il matrimonio ( per cui ha sacrificato l’amore di Diodata, la serva fedele da lui amata e resa madre ) si rivela un cattivo affare per Gesualdo : tutti gli sono contro : i familiari, benché da lui aiutati, lo considerano un traditore, i borghesi lo invidiano, i parenti nobili lo disprezzano. Anche Bianca non riuscirà mai a vincere un’istintiva freddezza verso il “villano” Gesualdo e fredda, ostile, diffidente sarà Isabella, la figlia nata dalla relazione di Bianca con Ninì Rubiera.
Come la madre, anche Isabella dovrà ricorrere ad un matrimonio riparatore e dovrà essere sposata in fretta allo squattrinato duca di Leyra con lo sborso di una vistosa dote: un momento tanto atteso diventa per Gesualdo una grande sconfitta. D’ora in poi le pene diventano per lui sempre più acute: il disonore per il parto prematuro della figlia, lo sciupio de patrimonio religiosamente accumulato e passato in dote alla figlia, la malattia incurabile della moglie, il cancro che lo coglie inesorabile: tutti lo abbandonano.
E’ per Gesualdo la chiara rivelazione di un mondo, quello della società borghese-nobiliare di provincia, tutto chiuso in un cerchio di insaziabili egoismi, spinto dalle ferree leggi dell’interesse economico, pieno di solitudine, insensibilità, aridità di affetti. Gesualdo si trova sempre più solo e più odiato, fiaccato nel fisico e nel morale. Muore, tra l’indifferenza e il disprezzo dei domestici, nella foresteria del palazzo ducale del genero a Palermo, lontano dalla sua gente e dalle sue terre.
Il Verga accetta della mentalità positivistica la vocazione per il dato reale ed una visione della società regolata dalla darwiniana lotta per l’esistenza, ma non accetta né l’atteggiamento fiducioso nel divenire sociale (proprio del Positivismo), né quel complesso impasto di fiducia nella scienza, di volontà riformistica, di socialismo umanitario che costituiscono il sostrato di tanta letteratura del tempo.
Il Verga si serve della storia dei Malavoglia e di quella di Mastro don Gesualdo per fornire un paradigma della condizione umana, concepita da lui, tra l’altro, in modo sempre più cupo. Se nei Malavoglia infatti ci sono ancora un riscatto ed una speranza per chi resta fedele al mito della casa e del lavoro, nel Mastro don Gesualdo non c’è speranza: la legge della pura economicità ha portato Gesualdo alla lotta per la ricchezza, ma porta anche gli altri a concepire Gesualdo come strumento di arricchimento.
Per quanto riguarda la lingua, il Verga perviene ad una soluzione di assoluta novità ed originalità:  egli vede gli avvenimenti “con gli occhi dei personaggi”, li esprime “con le loro parole”, ponendo quindi il narratore allo stesso livello dei personaggi. E’ come se a raccontare fosse uno di loro, che però rimane anonimo. Egli non dà informazioni sulla storia dei personaggi (come invece Manzoni), non offre dettagliate descrizioni dei luoghi, anzi ne parla come se si rivolgesse a un pubblico appartenente allo stesso ambiente, un pubblico che ha sempre conosciuto quelle persone e quei luoghi.
Per ottenere questo risultato, il Verga si serve di un particolare tipo di discorso indiretto (il discorso indiretto libero) che assume, per esporre fatti, per caratterizzare stati d’animo e atteggiamenti, per descrivere luoghi, i modi tipici del linguaggio parlato, punteggiato di modi di dire, proverbi, imprecazioni popolari, con una sintassi elementare, in cui traspare la struttura dialettale ( per altro, il Verga non adopera mai il dialetto, usando il corsivo quando ne introduce qualche termine).
Con il Mastro don Gesualdo si chiude la grande stagione del verismo verghiano; nonostante lo scrittore prosegua il suo lavoro di ricerca e di documentazione, il ciclo dei vinti verrà definitivamente abbandonato dopo alcuni capitoli della Duchessa di Leyra, anche se le ragioni non sono del tutto chiare.
Dai primi del Novecento, il Verga si chiude in un silenzio pressoché totale, dedicandosi alle sue proprietà agricole, tra l’altro con alcuni problemi di carattere economico. Le sue posizioni politiche diventano man mano più conservatrici, tanto che allo scoppio della prima guerra mondiale è tra i più accesi interventisti. Muore nel gennaio del 1922.

LO STRANIAMENTO IN VERGA

Lo straniamento consiste nell’adottare, per narrare un fatto e descrivere una persona, un punto di vista completamente estraneo all’oggetto (famoso è un racconto di Tolstoj in cui i rapporti umani sono riflessi nell’ipotetica psicologia di un cavallo). Il risultato è che le cose più abituali, “normali”, presentate attraverso un punto di vista estraneo, appaiono insolite, strane, incomprensibili. Nei malavoglia, ad esempio, i sentimenti autentici e disinteressati che sono propri dei protagonisti vengono spesso filtrati attraverso il punto di vista della collettività del villaggio, che a questi valori è completamente insensibile e che giudica solo in base al principio dell’interesse economico e del diritto del più forte. Di conseguenza, ciò che è “normale” secondo la scala dei valori universalmente accettata, finisce per diventare “strano”. Ad esempio, l’onestà di padron ‘Ntoni, che pur di non mancare di parola riguardo al debito, lascia che la sua casa venga pignorata, si trasforma in una vera e propria truffa nell’ottica di padron Cipolla, che accettava per nuora Mena Malavoglia solo se portava in dote delle proprietà. Questo tipo di straniamento si verifica quando sono in scena personaggi “ideali”, che sono l’antitesi del punto di vista dominante nella narrazione.
Quando invece sono in scena i loro antagonisti, i personaggi gretti, meschini e insensibili che compongono il coro del villaggio, si verifica una forma di straniamento “rovesciata”: dato che, infatti, il punto di vista di chi racconta è perfettamente in armonia con quello dei personaggi, il loro comportamento ottuso e  crudele, invece di apparire nella sua vera luce, viene presentato come se fosse normale o addirittura degno di approvazione. É questo l’esatto rovescio del procedimento precedente. Esemplificativa al riguardo è la novella “La roba” in cui non viene mai mostrata riprovazione nei confronti di Mazzarò e dei metodi brutali e disumani da lui usati per arricchirsi; anzi, il comportamento del protagonista non solo appare “normale”, ma addirittura eroico e degno di encomio.

 


GIOSUE CARDUCCI

( Valdicastello, 1835 - Bologna, 1907 )

La formazione culturale di Carducci è essenzialmente basata sui classici, letti con l’entusiasmo e la passione di un autodidatta: dalla madre apprende a leggere l’Alfieri, poi, durante l’adolescenza, affronta lo studio degli scrittori del Duecento e del Trecento, dai quali deriva la sua ammirazione per l’età comunale.
Si dedica anche agli autori del Rinascimento e a quei poeti più vicini nel tempo che per i temi e i significati “civili” della loro opera più si accostano al suo gusto: Metastasio, Parini, Alfieri, Foscolo, Monti e Leopardi.  Contemporaneamente, egli avverte come sciatta e priva di senso morale, esteriore e vacua, la libertà espressiva dei poeti dell’ultima generazione romantica.
Dopo essere stato chiamato alla cattedra di letteratura italiana presso l’università di Bologna, amplia l’orizzonte dei suoi interessi e dei suoi studi, interessandosi alla cultura francese e a quella tedesca. Attraverso la lettura del Mazzini e di autori come Michelet ( storico della rivoluzione francese ), Blanc, Proudhon (principale esponente del socialismo utopistico ) il Carducci fa proprie le idee libertarie e repubblicane.
Dal Positivismo, il poeta toscano deriva la fiducia nella ragione che trionfa sulle credenze dogmatiche e superstiziose, nel progresso che deriva dalla scienza. Insieme con questo permane però una non ben determinata credenza in una forza provvidenziale che agisce nella storia, come giustizia o come nemesi.
La vita italiana dei primi anni dopo l’unità appare al Carducci assai deludente : il nuovo stato si era formato grazie ai compromessi raggiunti con la Prussia, con l’Austria, con la Francia, la quale da paladino della rivoluzione era diventata protettrice del potere temporale dei papi, infine con la Chiesa stessa in occasione della conquista di Roma.
Più tardi la forza polemica si placherà e, negli anni più maturi, il Carducci tenderà ad adeguarsi al corso degli avvenimenti politici, fino ad accettare lo Stato monarchico costituzionale, nella speranza di un progresso moderato ed ordinato.
In ogni caso, sotto la varietà dei temi e dei toni è forse riconoscibile in Carducci un tema fondamentale, quello del contrasto, sempre vivo e presente, di un energico e pieno sentimento della vita e di un altrettanto vigoroso sentimento della morte come totale annullamento. Tale contrasto è particolarmente evidente in quelle poesie che nascono da dolorose esperienze personali e che giocano tutte sull’alternarsi di simboli assolutamente inequivocabili : luce e tenebra, sole e ombra, suono e silenzio, caldo e freddo, terra verde della primavera e terra “negra” del sepolcro.
Proprio da tale sentimento fondamentale acquistano maggiore vivezza anche le componenti della poesia carducciana che non possono essere fatte risalire direttamente ad esso.
Si vuole alludere a taluni momenti di freschezza, di slancio vitale, di serenità, particolarmente rilevanti in certi quadri di paesaggio e in certe rievocazioni epico-liriche. Il desiderio di una vita piena di valori morali solidi ed affermati, in contrasto con il presente grigio e corrotto, trova maggiore energia proprio nella sempre sottesa consapevolezza che dietro ogni acquisizione umana sta la morte, il dileguarsi del calore e del sole, degli affetti e delle memorie.
In questo si conferma quanto ha scritto Mario Praz in un saggio del 1940: vi si rifiutava l’immagine del Carducci poeta “sano”, immune dalla cosiddetta “malattia” romantica, difensore strenuo della classicità (“scudiero dei classici”). Il Praz vedeva il sogno carducciano della solarità del mondo classico come una sorta di esorcismo nei confronti delle inquietudini e delle angosce che lo assillavano. Il mondo antico sarebbe il luogo di un’evasione dai problemi della società borghese e industriale.
Anche lo sviluppo dell’atteggiamento politico del poeta, dall’iniziale giacobinismo alla figura del poeta-vate, può essere visto come l’eco di un contrasto: nei tempi moderni, quando l’ideale sembra soggiacere al piccolo interesse particolare, quando all’onestà e ai grandi valori morali subentrano la corruzione e l’inganno, che cosa resta al poeta ?
Il passato, per dirla con Croce, è la sola materia degna del poeta: in immagini di classico splendore, non senza qualche concessione ad eccessi di retorica, rivivono i miti, le leggende e le grandi figure della storia.  Ma troppo spesso le immagini splendide ed eloquenti del passato assumono una veste generica ed astratta e non riescono a porsi adeguatamente come sostegno ideale di fronte all’insorgere di problemi gravi ed urgenti. Quando all’oratoria e all’impeto iniziali si unisce un senso profondo di malinconia, ecco che la poesia del Carducci si fa più schietta ed efficace : si avverte tra le righe il rimpianto sincero e nostalgico per tempi che si avvertono ormai passati per sempre. Il verso si fa più ampio e disteso, le immagini perdono quell’eccesso di retorica che le aveva caratterizzate e la parabola poetica carducciana raggiunge il suo punto più pieno ed efficace.
Anche le liriche più strettamente autobiografiche confermano tale punto di vista: c’è sempre un velo di malinconia fiero e virile, senza compiacimenti ed indugi eccessivi che tradirebbero l’artificiosità. Non siamo, in sintesi, di fronte ad una poesia varia di tono o ricca di spunti, ma ad un’opera che riesce sempre sicura e limpida quando i due momenti dello slancio vitale e della consapevolezza della fugacità delle cose si incontrano e si fondono.
Guardiamo ora più da vicino la produzione poetica del Carducci, la quale si articola in sei raccolte, uscite in tempi diversi e definitivamente ordinate dal poeta stesso, secondo criteri stilistici piuttosto che cronologici.
Le prime due raccolte, Juvenilia (1850-60) e Levia Gravia (1861-1871) sono caratterizzate da un classicismo di tipo eccessivamente letterario e da un patriottismo che il Petronio definisce “angusto”. Emerge già la grande capacità del Carducci di utilizzare schemi e metri assai diversi tra loro e senza dubbio è già evidente la rottura con i modi della lirica romantica, soprattutto nel fatto che la poesia cessa di essere “popolare”, anzi, grazie ad un processo di rivalutazione formale, tende a rivolgersi a persone colte, a specialisti:
“ ... uso ed abuso della mitologia; uso ed abuso di riferimenti storici e culturali; abuso di un fraseggiare letterario, di una lingua desunta dai classici, nella volontà di attingere un tono aristocraticamente alto.” (Petronio)
In Giambi ed epodi ( 1867-1879 ) c’è invece il tentativo di rivolgersi ad un pubblico più largo, attingendo a motivi tratti dall’attualità, nel caso specifico la storia e la cronaca politica italiana di un quindicennio. Sono presenti anche motivi “sociali”, non però nel senso che il poeta si volgesse a considerare le condizioni delle classi subalterne, ma nel senso di una critica a volte feroce ( il titolo stesso ne è testimonianza ) contro l’ipocrisia e l’inettitudine delle classi dirigenti.
In contrapposizione alla pochezza del “secoletto vil che cristianeggia”, egli rievoca i grandi di un recente passato (Mazzini, Garibaldi, l’epopea risorgimentale ) e canta se stesso, i propri sogni di gloria, le proprie malinconie.
Una poesia simile comportava anche un mutamento dal punto di vista linguistico: sotto l’influsso delle letture di Hugo, di Heine e di altri, il Carducci adopera termini della lingua parlata, usa suoni a volte aspri, con espressioni dure, con ritmi vivaci, onde sottolineare la violenza della polemica.
Nel 1871 il Carducci pubblica Rime nuove, una raccolta che comprende liriche scritte negli anni 1861-1887. Il carattere di tali poesie è in parte letterario, in parte “intimo”, cioè nato da momenti della propria biografia interiore.
Nel primo gruppo di liriche, dedicate tra l’altro ad Omero, Virgilio, Dante, Petrarca, l’ispirazione deriva dai libri, dall’arte, dalla cultura, e il poeta cerca di rendere un’impressione di lettura, la commozione di fronte ad un’opera d’arte, il fascino di una poesia o di un momento storico. Nel secondo gruppo ecco il dolore per la morte del figlioletto, poi l’eco interiore di un viaggio in Maremma (si legga Traversando la Maremma toscana ) e ancora ricordi d’infanzia, impressioni di paese.
La “compresenza” del sentimento della vita e di quello della morte, a cui alludeva il Binni, è evidente in un celebre componimento, Pianto antico , tutto giocato sull’alternarsi dei due momenti. Non sfuggirà il senso di dinamismo dato da verbi come tendere, rinverdire, ristorare, in netto contrasto con la fissità suggerita dalla ripetizione del Sei..., sei...; ancora, l’albero è anch’esso duplice simbolo, inizialmente del perdurare della vita nel mutamento delle stagioni, poi del poeta stesso, inaridito.
Ai temi “intimi” si aggiungono rievocazioni storiche in cui il poeta celebra istituzioni e momenti a lui assai cari ( si ricordino i dodici sonetti Ça ira, su altrettanti importanti fatti della rivoluzione francese ).
Un esempio assai noto è Il comune rustico, in cui, come nota il Pazzaglia, la civiltà comunale è vista come la “giovinezza magnanima del popolo italiano”, in cui il poeta vedeva realizzati i suoi ideali di dignità civile e di amor di patria. Lo stesso paesaggio, le Alpi della Carnia, è in perfetta sintonia con la scena semplice e nello stesso tempo solenne che vi si svolge. Non sfuggirà, ai versi 10-11, il riferimento polemico a certa poesia romantica, che popolava i boschi di apparizioni lugubri o diaboliche.
La storia è vista come il sogno, non nostalgico, ma quasi “scritto” nel paesaggio, derivante da esso,  di un patto civile, consacrato dai sacri simboli cristiani, di una concezione della vita come servizio per la patria che va al di là della contingenza e diviene il modello al quale - secondo il poeta - dovrebbe conformarsi l’uomo moderno.
Nel 1877 esce Odi barbare, una raccolta di componimenti che il poeta chiamò così poiché in esse aveva voluto riprodurre la metrica greco-latina, con la consapevolezza però che versi siffatti avrebbero avuto un suono “barbaro” alle orecchie degli antichi. La metrica greco latina si fondava infatti sull’alternarsi di sillabe brevi e lunghe, mentre la nostra si basa sugli accenti ritmici. Il Carducci vuole ritrovare lo spirito della classicità, che consisteva per lui in un’intima armonia tra uomo e natura : è questo spirito che unifica le odi barbare al di là della varietà dei temi, che sono in fondo gli stessi delle Rime nuove.
In una delle più originali poesie della raccolta, Alla stazione in una mattina d’autunno, si ripropone quella “dialettica” dei contrari di cui si è già fatto cenno: qui i due piani sono quello del presente ( la stazione, la fredda mattina d’autunno) e quello del passato (l’aria tepida, il sogno, il ricordo). Ma i due piani restano separati: il passato, con tutta la sua luce, non riesce a illuminare il presente, dai colori foschi, segnato dalla presenza del mostro orribile, della macchina.  Lo slancio pieno di vitalità di tante liriche carducciane cede qui il posto al tedio, con qualche suggestione baudelairiana :
« Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.

Meglio a chi ‘l senso smarrì de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito ».

L’ultima raccolta è Rime e ritmi (1897-98): ai metri “barbari” si intrecciano quelli tradizionali. Vi si ritrova il gusto delle vaste sintesi storiche, insieme con quello delle celebrazioni risorgimentali, ma vi è una pesante enfasi, un senso di artificiosità e di letterarietà. In alcune liriche, però ( Nel chiostro del santo, Presso una certosa ), sembra di avvertire un’inquietudine diffusa, una sorta di smarrimento e di malinconia :
« alla meditazione della morte si alterna un nostalgico protendersi dell’anima verso la vita, e soprattutto verso la poesia, sentita come estremo messaggio di luce, sul limitare della tenebra imminente » ( Pazzaglia ).

 

Fonte: http://www.webalice.it/ggiuliani/Ottocento.doc

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