Lezioni di giustizia costituzionale

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Lezioni di giustizia costituzionale

LEZIONI DI GIUSTIZIA COSTITUZIONALE, Cicconetti, Giappichelli 2010
Riassunto
Capitolo I:giudizio diffuso e giudizio accentrata di legittimità costituzionale
Il controllo giudiziario di legittimità costituzionale delle leggi puo’ svolgersi secondo due meccanismi: il giudizio diffuso e il giudizio accentrato.

Il giudizio diffuso nasce per la prima volta negli Sati Uniti e comporta l’attribuzione a qualunque giudice  del sindacato sulla costituzionalità della legge. È evidente che ciò possa determinare situazioni d’incertezza del diritto: il rimedio a tale inconveniente risiede, nell’ordinamento nord-americano, nel principio dello stare decisis, secondo il quale le decisioni della Corte Suprema sono formalmene vincolanti nei confronti di tutti i giudici. Esso è incidentale, cioè si tratta di un controllo concreto, che avviene nel momento in cui la legge ha da essere applicata a un caso della vita; è dichiarativo, poiché  poiché la sentenza con la quale viene disapplicata una legge incostituzionale si limita a dichiarare l'invalidità, ab origine, della legge in quanto incompatibile con la Costituzione, senza annullarla, facendo applicazione diretta della Costituzione: gli effetti della pronuncia sono retroattivi, ex tunc (in quanto hanno efficacia “fin dall'inizio”, rimuovendo gli effetti della legge anteriore) e inter partes (cioè validi per le parti in causa).                                                    

Il giudizio accentrato sottrae ai giudici il potere di verificare la costituzionalità delle leggi e degli atti aventi forza di legge, affidandolo invece ad un organo chiamato Corte costituzionale. Esso è esercitato indipendentemente da una concreta applicazione della legge e le pronunce della Corte costituzionale con le quali viene accertata l'incostituzionalità della legge ne determinano l'abrogazione, ex nunc (“da quel momento” in poi, senza efficacia retroattiva) ed erga omnes (nei confronti di tutti e non soltanto    delle parti). I motivi della preferenza accordata in Italia ad un sistema di tipo accentrato sono molteplici: a) innanzitutto, l’inesistenza in Italia del principio dello stare decisis, vale a dire che le sentenze della Corte di cassazione non sono formalmente vincolanti nei confronti degli altri giudici; b)inoltre, va segnalata anche la preoccupazione di non contrapporre al potere positivo del Parlamento un potere negativo alla magistratura, con il rischio di un’eccessiva crescita dell’influenza, anche politica, di quest’ultima. Infine, poiché tra le competenze della Corte costituzionale italiana, oltre al giudizio di legittimità costituzionale, v’è anche la funzione di decidere sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, certamente pericoloso, non soltanto in nome del principio della terzietà del giudice, sarebbe stato affidare l’esercizio di tale funzione ad un organo composto da soggetti appartenenti ad un solo potere dello Stato. Secondo l’art. 135 Cost., la Corte costituzionale è composta da 15 giudici nominati per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinarie ed amministrative (Supreme magistrature ordinaria ed amministrativa: sono il Consiglio di Stato (nomina 3 giudici) , la Corte dei Conti ( 1 giudice) e la Corte di Cassazione (1 giudice) ). I giudici della Corte costituzionale sono scelti fra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria ed amministrativa, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni di esercizio.  I giudici della Corte costituzionale sono nominati per nove anni, decorrenti per ciascuno di essi dal giorno del giuramento, e non possono essere nuovamente nominati.  Alla scadenza del termine il giudice costituzionale cessa dalla carica e dall’esercizio delle funzioni.  La Corte elegge fra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice. L’ufficio di giudice della Corte è incompatibile con quello di membro del Parlamento, di un Consiglio regionale, con l’esercizio della professione di avvocato e con ogni carica ed ufficio indicati dalla legge. Nei giudizi d’accusa contro il Presidente della Repubblica e contro i Ministri – secondo l’art 134. Cost, ult. Cpv. - intervengono, oltre i giudici ordinari della Corte, sedici membri tratti a sorte da un elenco di cittadini aventi i requisiti per l’eleggibilità a senatore, che il Parlamento compila ogni nove anni mediante elezione con le stesse modalità stabilite per la nomina dei giudici ordinari. La nomina da parte del capo dello Stato è un atto presidenziale in senso stretto per il quale è prevista la controfirma del presidente del Consiglio dei ministri, che può essere negata nel caso di mancanza dei requisiti nei candidati o per gravi ragioni di opportunità. L'elezione a opera del Parlamento in seduta comune avviene a scrutinio segreto e con la maggioranza dei due terzi dei componenti dell'assemblea. Per gli scrutini successivi al terzo è sufficiente la maggioranza dei tre quinti. L'elezione da parte della magistratura avviene con una maggioranza assoluta dei componenti del collegio e in mancanza, in seconda votazione a maggioranza relativa con ballottaggio fra i candidati, in numero doppio di quelli da eleggere, più votati. I giudici costituzionali non sono sindacabili, né possono essere perseguiti per le opinioni espresse e per i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni; godono, inoltre, dell’immunità politica e penale. La corte, secondo l’art. 14 della legge 87/1953, ha autonomia regolamentare e finanziaria. Come per il Parlamento, i dipendenti della Corte sono soggetti al principio di autodichia, cioè è la Corte stessa a giudicare sui ricorsi dei suoi dipendenti onde evitare ingerenze esterne. La Corte costituzionale ha subito negli ultimi anni un’importante eccezione in riferimento ad alcune fonti del diritto comunitario: un giudice che si trovi a dover decidere una controversia relativa ad una fattispecie disciplinata da una legge e da un regolamento comunitario tra loro contrastanti, dovrà disapplicare la legge e risolvere la controversia applicando la norma comunitaria. In base all'art. 134 della Costituzione, la Corte costituzionale giudica:                                                                                                                

a)sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni;                                                                

b)sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, su quelli tra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni;                                                                                                                   

c)sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione;                                                                                                                

d)sull'ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo (introdotta con la legge costituzionale n. 1 dell'11 marzo 1953).

 

CAPITOLO II: giudizio di legittimità costituzionale delle leggi
E’ necessario, prima di esaminare sotto il profilo sostanziale e sotto quello processuale il giudizio di legittimità costituzionale, chiarire alcuni concetti generale. Innanzitutto, il principio fondamentale secondo il quale la Corte costituzionale è esclusivamente giudice di legittimità, essendole precluso ogni sindacato di merito in ordine al contenuto delle leggi e degli atti aventi forza di legge. In secondo luogo, è necessario operare la distinzione tra illegittimità originaria e illegittimità sopravvenuta: si ha illegittimità originaria quando il contrasto si verifica nei confronti di norme di grado superiore già esistenti, per cui si puo’ affermare che l’atto o la disposizione o la norma sono illegittimi fin dal momento della loro immissione nell’ordinamento; si ha i. sopravvenuta quando il contrasto si verifica nei confronti di norme di grado superiore create in un momento successivo rispetto all’atto, disposizione o norma di grado inferiore, per cui si puo’ affermare che questi (o queste) nascono illegittimi e diventano illegittimi in un momento successivo. In terzo luogo, v’è da operare la distinzione tra vizi sostanziali, che attengono al contenuto di un atto normativo, e vizi formali, che attengono al mancato rispetto delle norme di grado superiore sul procedimento di formazione dell’atto normativo nel suo complesso. Infine, assai dibattuta è la possibilità di ammettere, tra i vizi sostanziali degli atti normativi, un sindacato sull’eccesso di potere legislativo. Tale problematica s’inquadra nel tentativo di applicare alla validità delle leggi uno dei vizi di legittimità degli atti amministrativi venutosi ad elaborare attorno alla figura dello “sviamento del potere”, cioè della deviazione del singolo atto dallo scopo in vista del quale è riconosciuto il potere di adottarlo. Le perplessità ad utilizzare questo vizio nel sindacato sugli atti normativi nascono soprattutto dal timore che, per tale via, si finisca con l’effettuare un controllo sulle scelte proprie del legislatore, travalicandosi il limite posto dall’art. 28 della l. n. 87/1953, secondo cui il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento.
IN MERITO AL GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DOBBIAMO DISTINGUERE TRA: GLI ASPETTI SOSTANZIALI E GLI ASPETTI PROCESSUALI. 
ASPETTI SOSTANZIALI.  Sono sottoponibili al giudizio di Legittimità della corte gli atti, le disposizioni o le norme che li compongono. Gli atti oggetto del giudizio di legittimità sono individuati dall'art.134, cpv. 1, Cost., che limita il giudizio alle leggi dello stato e delle regioni e agli atti aventi forza di legge. L'esclusione delle fonti fatto (cioè casi in cui l’ordinamento giuridico sia prodotto non da un atto ma da un fatto, specialmente dalla consuetudine; sono fonti fatto i regolamenti comunitari e le consuetudini)  non comporta l'esclusione di qualsiasi norma non scritta dovendosi infatti ammettere il giudizio nei confronti di norme non scritte create da una fonte-atto, come ad esempio l'ordine di esecuzione delle clausole di un trattato internazionale ratificato dallo stato italiano (fonti-atto  sono atti normativi posti in funzione da un determinato organo con una determinata procedura; sono fonti-atto la Costituzione, le leggi costituzionali, leggi statali, leggi regionali, decreti leggi, decreti legislativi, statuti regionali, referendum abrogativi, regolamenti parlamentari e governativi).  L'eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale deve avere per oggetto la disposizione legislativa connettente l'ordine di esecuzione per la parte in cui si riferisce a norme ricavate da determinate clausole del trattato. Sottoponibili al controllo di Legittimità sono anche le leggi costituzionali, in opposizione a un criterio sostanziale che riterrebbe applicabile il principio cronologico (tra due norme contrastanti prevale quella più recente, l’altra è abrogata). Un’ipotesi particolare di sindacato sulle leggi costituzionali ricorre a proposito delle leggi costituzionali previste dall’art. 116 Cost. che hanno adottato gli statuti delle 5 regioni ad autonomia speciale. E’ da ritenere, infatti, che il contenuto di tali leggi costituzionali limiti la loro capacità derogatoria alle sole disposizioni, contenute nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione, che disciplinano in generale l’autonomia delle regioni a statuto ordinario. Pertanto, le suddette leggi costituzionali potranno essere sindacate dalla Corte non soltanto per vizi formali e per violazione di limiti alla revisione costituzionale ma anche per violazione di qualsiasi disposizioni della Costituzione diversa da quelle contenute nel titolo V della parte seconda. Ricorre inoltre il problema dell'individuazione degli atti aventi forza di legge, che dipende appunto dal criterio definitorio di forza di legge. Secondo una prima tesi le caratteristiche della forza di legge sarebbero la primarietà e la raffrontabilità in termini di equipollenza alla legge. In sintesi un atto sarebbe proprio della forza di legge qualora sia capace di abrogare quest'ultima. Tale capacità viene ulteriormente specificata da altra parte della dottrina che articola la forza di legge in senso attivo e passivo, come capacità di abrogare la legge e di resistere all'abrogazione da parte di atti inferiori alla legge. Entrambe le tesi escludono tutti gli atti i cui rapporti con la legge siano determinati in base al principio della competenza. La forza di legge definita in senso attivo e passivo presuppone il principio della gerarchia come principio regolatore dei rapporti tra atti normativi. Sulla base del criterio di competenza è stata elaborata un'ulteriore tesi per la quale atti con forza di legge sarebbero quelli autorizzati da una norma costituzionale a disciplinare determinate materie ad essi riservate e sulle quali deve ritenersi escluso l'intervento della legge. Secondo un’ulteriore tesi, atti con forza di legge sarebbero quelli sindacabili dalla corte costituzionale, ossia tutti gli atti per cui l'ordinamento italiano non prevede un sindacato diverso.Secondo ulteriore tesi, che integra le tesi precedenti, atti con forza di legge sarebbero tutti gli atti normativi primari sotto il profilo della gerarchia e della competenza, che siano insindacabili da parte di qualsiasi autorità all'infuori della corte. Nessun problema si è mai posto in ordine ai decreti legislativi – cioè quegli atti che il governo adotta sulla base di una legge di delegazione alle camere - , mentre la precarietà dei decreti legge – dal momento che essi, se non vengono convertiti in legge entro 60 giorni dalla pubblicazione, decadono sin dall’inizio - ha posto dei problemi in ordine alla sindacabilità di tali atti. Se il decreto non viene convertito, l’atto decade retroattivamente e viene ritenuto come mai esistito quale fonte del diritto a livello legislativo, per cui la questione di costituzionalità diviene inammissibile.  La corte ha ammesso comunque la possibilità di trasferire la questione di costituzionalità del decreto-legge impugnato e non convertito alla identica norma contenuta nel decreto-legge reiterato. La corte ha espresso con la sent.n. 360 del 1996 l'illegittimità costituzionale della reiterazione in quanto altera la natura provvisoria della decretazione d'urgenza, attenua la sanzione di perdita retroattiva di efficacia del decreto non convertito, incide sugli equilibri istituzionali e intacca la certezza del diritto nei rapporti tra i diversi soggetti. Il governo può intervenire successivamente solo qualora il nuovo decreto risulti caratterizzato da contenuti sostanzialmente diversi o, pur avendo in contenuto identico al precedente, risulti fondato su nuovi autonomi e sopravvenuti motivi di straordinaria necessità ed urgenza. Inizialmente la corte ha ritenuto che la conversione in legge assorbisse e sanasse ogni possibile vizio formale del decreto, data la sua natura di novazione dell'atto. Tuttavia la corte ha mutato di recente la propria posizione escludendo la Legittimità di decreti-legge convertiti che mancassero originalmente in modo evidente del presupposto della necessità ed urgenza. Dunque la corte afferma che la legge di conversione non può sanare l'evidente mancanza dei presupposti della straordinaria necessità ed urgenza. Diversamente per il caso dei decreti-legge reiterati la corte da un lato ha confermato il riconoscimento della capacità sanante della legge di conversione e dall'altro ha riaffermato la propria competenza a sindacare la legge di conversione in tutti i casi di carenza chiara e manifesta dei presupposti giustificativi del decreto-legge. La corte ha ritenuto che possono formare oggetto del giudizio di Legittimità anche i decreti legislativi di attuazione degli statuti delle cinque regioni ad autonomi speciale che hanno essenzialmente ad oggetto l'attuazione della disciplina statutaria e al trasferimenti di uffici e personale dallo stato alle regioni. I casi di eventuale illegittimità per tali decreti possono verificarsi per vizi formali, quando sia data applicazione ad una norma statutaria illegittima o quando travalicano i limiti delle competenze assegnategli. In linea teorica dovrebbe essere sindacabile dalla corte anche il decreto con il quale il P.d.R. proclama l'avvenuta abrogazione di una legge o di alcune sue disposizioni a seguito di referendum abrogativo.
Per quanto concerne le fonti comunitarie, la corte costituzionale ha sempre escluso che esse possano essere oggetto diretto del giudizio di Legittimità, è ammesso invece il controllo di tipo indiretto qualora essi contrastino con i principi fondamentali dell'ordinamento o con i diritti inviolabili dell'uomo. Le norme comunitarie si pongono come oggetto indiretto del controllo in quanto il giudizio di Legittimità verterebbe sulla legge nazionale di esecuzione dei trattati comunitari. La corte ha inoltre sottoposto sporadicamente al controllo di Legittimità costituzionale atti eccezionali con forza di legge, legati a peculiari contingenze storiche. Essa ha invece escluso la sindacabilità dei regolamenti amministrativi, dei regolamenti da essa adottati e dei regolamenti parlamentari. I regolamenti amministrativi non sono atti dotati della forza di legge, secondo la disposizione dell'art.4 delle disposizioni sulla legge in generale premesse al codice civile. Altrettanto vale per i regolamenti adottati dalla stessa corte. Per quanto riguarda invece i regolamenti parlamentari il ragionamento della corte ha prescisso dalla questione della forza di legge basandosi invece sulla indipendenza guarentigiata che sarebbe da riconoscere al parlamento in quanto centro del sistema ed espressione immediata della sovranità popolare. La corte nega dunque che dalla qualificazione della forza di legge ne discenda automaticamente il valore di legge e viceversa. 
Il giudizio di legittimità costituzionale implica un raffronto tra le norme oggetto del giudizio e le norme alla stregua delle quali viene verificata la legittimità: le norme di raffronto vengono comunemente definite come norme “parametro” del giudice di legittimità costituzionale. Norme parametro sono tutte le norme formalmente costituzionali e oltre ad esse anche altre norme. La violazione della norma costituzionale può infatti avvenire sia in modo diretto che indiretto. Il concetto della violazione indiretta della costituzione è stato elaborato dalla dottrina che è arrivata alla definizione del concetto di norma interposta, che ricorre quando una norma formalmente costituzionale affida ad una norma non formalmente costituzionale il compito di fissare i criteri di validità di successive leggi ed atti con forza di legge. Quanto all'eccesso di delega legislativa, devono considerarsi norme interposte tutte le norme contenute nella legge di delega, comprese quelle tendenti a stabilire limiti ulteriori rispetto ai tre (termine, oggetto definito, principi e criteri direttivi) espressamente previsti dall'art.76. Secondo il nuovo disposto dell'art.117,1comma il diritto internazionale pattizio sembrerebbe acquistare rilievo come possibile norma interposta. I decreti di attuazione degli statuti e delle regioni ad autonomia speciale prevalgono sulle leggi ordinarie dello stato e costituiscono pertanto il parametro del giudizio di Legittimità dello stato.
La corte riconosce infatti alle disposizioni contenute nei decreti di attuazione il carattere di norme interposte, dilatando il concetto di norma interposta elaborato dalla dottrina. Sorge invece il problema della parametricità delle disposizioni contenute negli statuti delle regioni ad autonomia ordinaria essendo dubbia la competenza della corte circa le disposizioni statutarie espressione del contenuto eventuale. Un ultimo caso certo di norme parametro é rinvenibile nell'art.10,1comma cost. che prevede la creazione indiretta di norme interne sulla base di un meccanismo automatico di adattamento dell'ordinamento giuridico italiano alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute. Scontrandosi con il principio della rigidità della costituzione fissato dell'art.138, all'attribuzione del valore di norme costituzionali è preferibile la qualificazione di tali norme come interposte. La corte ha inserito tra le norme parametro anche le norme desumibili da consuetudini costituzionali, solo però qualora una norma costituzionale sia incompleta, generica o poco chiara e in quanto riconducibili in positivo a norme o principi costituzionali. Nella giurisprudenza costituzionale più recente sono stati inseriti dei parametri eventuali la cui idoneità sussiste solo in presenza di determinate condizioni. Nel caso della reiterazione dei decreti-legge la corte deve necessariamente integrare il parametro costituzionale con il decreto-legge non convertito. L'esito del referendum abrogativo può essere utilizzato quale elemento di integrazione del parametro nella valutazione della legge che tenda a ripristinare le norme abrogate per volontà popolare. Il controllo sulle leggi di interpretazione autentica comporta la valutazione della norma di interpretazione rispetto alla disposizione interpretata. Per quanto concerne invece il sindacato delle leggi condotto alla stregua dell'art.3,1comma cost. il parametro costituzionale viene ad essere integrato da altre norme usate come termine di raffronto.Rispetto alle fonti comunitarie la giurisprudenza della corte è stata altalenante, dovendo alla fine adeguarsi ai rilievi della corte di giustizia europea che ha imposto un caso di sindacato diffuso in Italia, attribuendo al giudice ordinario il compito di disapplicare la norma in contrasto. La corte costituzionale si è comunque ritenuta competente ad accertare la violazione di norme comunitarie sia quando il il governo impugni leggi regionali contrastanti con il diritto comunitario, sia quando le regioni impugnino in via di azione leggi dello stato che contravvengono al diritto comunitario. In tal caso l'intervento della corte è legittimo in quanto non ritarda l'immediata applicabilità della norma comunitaria. Nella stessa logica la corte si è ritenuta competente a sindacare il contrasto tra una direttiva non auto applicativa e la legge che ad essa di attuazione o integrazione in modo errato od incompleto. La corte costituzionale ha inoltre escluso che le norme dei regolamenti parlamentari siano norme parametro ai fini della valutazione della Legittimità costituzionale delle leggi approvate dal parlamento. A sostegno di tale decisione la corte ha addotto tre argomenti: in primo luogo perché la corte ha competenza limitata al controllo delle sole norme formalmente costituzionali per quanto concerne il procedimento di formazione delle leggi; in secondo luogo in quanto l'art.72 non può considerarsi norma in bianco che attribuisca rango costituzionale alle disposizioni inserite da ciascuna camera nel regolamento; in terzo luogo in quanto essendo l'interpretazione del regolamento attribuita alla camera, anche l'osservanza dello stesso è rimessa alla camera stessa. Vero motivo risiede nella loro potenziale cedevolezza, valendo come principio fondamentale della prassi costituzionale la possibilità di derogare ad una norma del regolamento qualora non vi sia opposizione da parte di alcuno.                                                                                                                                                                  
ASPETTI  PROCESSUALI. Al fine di evitare la paralisi della giustizia costituzionale il costituente ha sentito la necessità di istituire meccanismi processuali di accesso alla corte che ponessero un limite qualitativo e quantitativo agli atti sottoponibili per questioni di Legittimità costituzionale. Sotto il profilo quantitativo la scelta fondamentale è stata quella di consentire solo allo stato e alle regioni di ricorrere in via diretta alla corte, pur consentendo a tutti un accesso al cosiddetto giudizio in via incidentale. Sotto il profilo qualitativo troviamo il limite posto nei confronti delle regioni che possono ricorrere alla corte contro una legge dello stato o di un'altra regione per il solo vizio di incompetenza. Un secondo limite, nell’ambito del giudizio in via incidentale, riguarda la non l'automatica operatività della eccezione di Legittimità costituzionale sollevata dalla parte nel giudizio in via incidentale: il giudice, cioè, non è una mera cinghia di trasmissione passiva ma, al contrario, deve esercitare 2 importanti controlli sulla eccezione sollevata per decidere se respingere o trasmettere la relativa questione di legittimità costituzionale alla corte.
Le due vie processuali per adire la Corte costituzionale sono: il giudizio in via incidentale ( o in via d’eccezione) e il giudizio in via principale ( o in via d’azione).
Il giudizio in via incidentale o in via d’eccezione ha come presupposto l'esistenza di un giudizio che si svolga dinanzi ad una autorità giurisdizionale, detto comunemente giudizio a quo. Al fine di riconoscere la legittimazione ad instaurare il giudizio costituzionale si ammette che, non è necessario far riferimento ai soli giudici appartenenti all’autorità giudiziaria ordinaria o speciale (civile, penale e amministrativa), ma possa trattarsi di organi rispetto ai quali ricorrano congiuntamente i requisiti oggettivi e soggettivi della giurisdizione; l’esercizio della deve essere inoltre attuale, non potendo essere sollevata questione in ordine a norme che dovranno essere applicate in fasi successive del giudizio o che sono già state applicate in fasi precedenti. I concetti di giudice e di giurisdizione utilizzati al fine di promuovere eccezioni di Legittimità costituzionale assumono una valenza eminentemente relativa. Nel corso del giudizio ciascuna delle parti può sollevare un'eccezione, cioè una questione di legittimità costituzionale indicando le disposizione della legge o dell'atto con forza di legge che si assumono viziate e le disposizioni della costituzione o delle leggi costituzionali che si assumono violate. La questione può comunque essere sollevata d'ufficio dallo stesso giudice a quo. Il giudice a quo deve compiere in relazione all'eccezione sollevata dalla parte il giudizio sulla rilevanza ed il giudizio sulla non manifesta infondatezza della questione. Il giudizio sulla rilevanza consiste nella verifica della applicabilità della norma; il concetto di applicabilità va inteso ne significato più ampio possibile, ossia anche quando essa possa essere utile a risolvere anche sole questioni accessorie o questioni attinenti ad aspetti processuali del giudizio. Il giudizio sulla non manifesta infondatezza della questione nasce sulla base della necessità che il giudice a quo eserciti una funzione di filtro e non conferisce comunque al giudice ordinario il compito di effettuare un controllo sulla costituzionalità della norma. Il punto importante riguarda dunque il grado di convinzione che il giudice a quo deve acquisire per poter rimettere la questione alla corte costituzionale. La corte costituzionale richiede inoltre con sempre maggior insistenza che il giudice eserciti anche un ulteriore controllo al fine di ricostruire le disposizioni alla stregua dei principi della costituzione. Qualora il giudice non tenti di interpretare la disposizione come conforme alla costituzione la questione è ritenuta manifestamente inammissibile dalla corte. Qualora il giudice a quo dubiti della conformità della norma rispetto a una disposizione comunitaria di diretta applicazione egli è tenuto a sollevare la questione pregiudiziale interpretativa alla corte di giustizia dell'unione europea. Nel caso in cui la disposizione comunitaria non sia di diretta applicazione la corte costituzionale mantiene la sua competenza. Nel caso in cui la corte accolga la questione di Legittimità costituzionale, emette un'ordinanza con cui dispone l'immediata trasmissione degli atti alla corte costituzionale e sospende il giudizio in corso.
Il giudizio in via principale o in via d’azione costituisce l'unica strada attraverso cui si può ricorrere direttamente alla corte come giudice della Legittimità costituzionale delle leggi.I soggetti legittimati sono solo lo stato e le regioni nei loro rapporti reciproci. Precedentemente alla riforma il ricorso dello stato e delle regioni erano differenti dal punto di vista sostanziale e sul piano processuale. La gamma dei motivi di ricorso disponibile per lo stato era più ampia per lo stato che poteva ricorrere a fronte della violazione di una qualsiasi norma parametro. Mentre le regioni potevano ricorrere solo a fronte di violazione di norme parametro che individuano la ripartizione delle competenze tra stato e regione. La giurisprudenza della corte tuttavia ha successivamente modificato tale impostazione dando possibilità alla regione di ricorrere ogniqualvolta una legge statale incida negativamente sull'autonomia delle regioni. Sotto l'aspetto processuale le regioni potevano fare solo un ricorso di tipo successivo mentre allo stato era data possibilità di compiere un ricorso preventivo. A seguito dell'entrata in vigore della L.cost. n.3 del 2001 il testo dell'art.127 cost. è stato interamente sostituito con una nuova disposizione che porta: alla parificazione sul piano processuale del ricorso dello stato e del ricorso della regione, entrambi di tipo successivo entro il termine di 60 giorni; l'eliminazione del controllo sulle leggi regionali da parte del commissario di governo; l'eliminazione del vizio di merito delle leggi regionali per contrasto con gli interessi nazionali o di altre regioni. Rimane comunque a seguito della riforma la possibilità dello stato di ricorrere, a differenza delle regioni, per la violazione di qualsiasi norma parametro in quanto gli è riconosciuto un ruolo di generale controllo di Legittimità costituzionale secondo la proclamazione dell'art.5 cost. A seguito dell'introduzione del nuovo art.123cost. Che modifica il procedimento di formazione degli statuti, che diviene una fonte a totale competenza regionale, si pone il dubbio dell'individuazione del dies a quo dal quale decorrono i trenta giorni per l'impugnazione governativa. Secondo la corte è necessario considerare il controllo di costituzionalità sugli statuti come preventivo, ovvero alla data della pubblicazione notiziale dello statuto. La distinzione tra il giudizio in via incidentale e in via di azione si basa, oltre che sul diverso modo di accesso, anche per il fatto che il giudizio in via incidentale non è un giudizio tra parti, dal momento che la questione di Legittimità giunge alla corte sulla base dell'ordinanza di remissione del giudice a quo. Il giudizio in via principale è invece per definizione un giudizio tra parti, da cui deriva la possibilità che il giudizio si estingua per rinuncia al ricorso della parte e che necessita un interesse a ricorrere concreto ed attuale. La cosiddetta legge La Loggia del 2003 ha introdotto importanti novità in riferimento ai giudizi in via principali, prevedendo che la corte fissi l'udienza di discussione del ricorso entro 90 giorni dal deposito dello stesso. Inoltre, secondo un'ulteriore introduzione, qualora l'applicazione dell'atto o di parti esso comportino il rischio di un irreparabile pregiudizio all'interesse pubblico o all'ordinamento giuridico della ripubblica la corte può sospendere d'ufficio l'esecuzione della legge. In tal caso l'udienza pubblica è fissata entro i successivi 30 giorni.                                                            

IL GIUDIZIO DI FRONTE ALLA CORTE. Una volta che la questione di legittimità costituzionale sia giunta ,in via incidentale o in via principale, di fronte alla Corte, il giudizio di quest’ultima si puo’ svolgere, dopo la eventuale costituzione delle parti e la nomina di un giudice relatore, in camera di consiglio o in udienza pubblica. Il primo caso si verifica soltanto qualora nessuna delle pari si sia costituita oppure qualora la core ritenga di poter decidere adottando una ordinanza di manifesta infondatezza o di manifesta inammissibilità. La prima ipotesi si puo’ verificare soltanto nel giudizio in via incidentale, dal momento che nel giudizio in via principale la possibilità di non costituirsi spetta al convenuto ma non al ricorrente. Tuttavia, qualora nella camera di consiglio la corte si renda conto che la questione non può essere decisa con le suddette ordinanze, la causa viene rinviata alla pubblica udienza , vengono ascoltate le parti che si sono costituite e successivamente la corte si ritira in camera di consiglio per deliberare, nominando, dopo la votazione, un giudice per la redazione della sentenza. Le decisioni della Corte possono assumere la forma della sentenza o dell’ordinanza; in ambedue i casi non è ammessa impugnazione. Le ordinanze possono essere dei seguenti tipi:                                                                                                                             

a) Ordinanze di manifesta infondatezza, vengono adottate quando la corte non ravvisa alcun argomento a favore della incostituzionalità della norma.                                       

b) Ordinanze d'inammissibilità, sono quelle che individuano l'esistenza di una causa che impedisce la decisione nel merito della questione. Ad esempio: norma oggetto contenuta in atto privo di forza di legge, insufficiente motivazione del giudice a quo in ordine all’accertamento della rilevanza o della manifesta infondatezza, mancata indicazione dell’esperimento del tentativo d’interpretazione conforme, mancata indicazione delle norme parametro che si assumono violate ecc.  I motivi di preclusione sono insanabili ( come ad esempio, per i casi di mancanza forza di legge, di carenza di legittimazione, di manifesta irrilevanza) o sanabili ( il giudice a quo potrà successivamente riproporre la questione integrando la motivazione in ordine all’accertamento della rilevanza o della non manifesta infondatezza oppure provvedendo all’indicazione, a suo tempo omessa, delle norme parametro. Dopo aver sanato i precedenti motivi di preclusione, la questione riproposta dal giudice a quo va considerata come questione del tutto nuova e non come una continuazione o una ripresa della precedente).                                           

C) Ordinanze di restituzione degli atti al giudice a quo, attualmente la corte vi ricorre solo in caso di ius superveniens, cioè quando la fattispecie che ha dato origine alla causa pendente di fronte al giudice a quo viene disciplinata da un nuova norma rispetto a quella originaria che ha costituito l’oggetto dell’ordinanza di rimessione del giudice a quo. La restituzione ha lo scopo di consentirgli di stabilire se la norma originaria è ancora applicabile al giudizio in corso, ad esempio in caso di abrogazione non retroattiva o in caso di abrogazione retroattiva. Quando tuttavia i dubbi circa l'applicabilità della norma originaria non sussistono la corte procede autonomamente; D) Ordinanze istruttorie, servono ad acquisire notizie documenti o quant'altro necessario per consentire la decisione della corte sulla questione.                                                                

I due tipi principali di sentenze della Corte costituzionale sono: le sentenze di rigetto e le sentenze di accoglimento. Le sentenze di rigetto rigettano la questione sottoposta alla corte per infondatezza della questione, per inammissibilità o per cessazione della materia del contendere( solo nei giudizi in via principali). L'oggetto delle sentenze di rigetto è sempre negativo e mai positivo. La corte non è vincolata alle proprie sentenze di rigetto, le parti possono ripresentare l'eccezione in un ulteriore grado o giudizio, può sempre sollevare la medesima eccezione un soggetto diverso. Le sentenze di accoglimento dichiarano la illegittimità della disposizione nei limiti dell'impugnazione. La corte comunque dichiara quali sono le altre disposizioni legislative la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata. Il loro effetto consiste nella definitiva eliminazione dall'ordinamento della norma dichiarata incostituzionale. Le sentenze di accoglimento hanno effetti retroattivi in quanto essa opera dal momento in cui si è determinata l'incostituzionalità, fatti salvi i rapporti esauriti (cioè quei rapporti definitivamente chiusi dal punto di vista giuridico). Un'eccezione è costituita dalla materia penale qualora una sentenza della corte determini un trattamento più favorevole per il reo. Alla fine degli anni '80 la corte, per limitare la retroattività ha cominciato ad utilizzare la categoria della incostituzionalità sopravvenuta, accomunandovi anche l'ipotesi del bilanciamento dei valori che comporta un temperamento dell'efficacia retroattiva della pronuncia al fine d'individuare il punto di minore sofferenza per entrambi i valori costituzionali in contrapposizione. Un primo sottotipo di sentenze della corte sono le sentenze monitorie che sono caratterizzate dal fatto che contengono in motivazione un ammonimento al governo o al parlamento a provvedere in ordine alla situazione determinatasi a seguito di una sentenza della corte Un secondo sottotipo è costituito dalle sentenze interpretative, create dalla corte a fronte di disposizione cosiddette polisense. La corte ricorse per la prima volta ad una sentenza interpretativa di rigetto attraverso cui nel dispositivo si rigetta la questione indicando però nella motivazione l'interpretazione che non rende incostituzionale la disposizione. A seguito delle contestazioni della cassazione, soprattutto in riferimento al potere della corte di interpretare le disposizioni, la corte costituzionale replicò attraverso le sentenze interpretative di accoglimento attraverso cui la corte dichiara la illegittimità non della disposizione ma di una delle norme in essa contenute. A partire dagli anni '60 sono comparse nella corte le cosiddette sentenze additive che dichiarano l'incostituzionalità dell'omessa previsione di qualcosa che avrebbe dovuto essere previsto dalla legge. L'annullamento elimina l'ostacolo all'espandersi di una norma già contenuta implicitamente nella disposizione stessa. Forma analoga di decisione manipolativa è la sentenza sostitutiva attraverso la quale l'illegittimità colpisce un frammento testuale sostituendo al tempo stesso quest'ultimo con altro frammento di norma che rende la disposizione conforme a costituzione. Tali sentenze, fortemente criticate per il loro distacco dalla funzione negativo eliminativa che spetta alla corte in forza del dettato costituzionale, sono difese dalla stessa corte in quanto si limiterebbero ad individuare una norma già implicita nel sistema. Un nuovo tipo di decisone manipolativa sussiste con le cosiddette sentenze additive di principio , nate al fine di garantire i diritti costituzionalmente tutelati e di rispettare gli ambiti di discrezionalità del legislatore. Perplessità sono state espresse quando la corte ha esplicitamente specificato che la sentenza si indirizzasse esclusivamente al legislatore, imponendo ai giudici di continuare ad applicare la disciplina dichiarata incostituzionale.
CAPITOLO III: IL GIUDIZIO SUI CONFLITTI DI ATTRIBUZIONE
L’art. 134,cpv.2, Cost., disciplina la seconda competenza della Corte costituzionale, stabilendo che essa giudica sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra l Stato e le Regioni e tra le Regioni. Il conflitto di attribuzioni puo’ essere definirsi come una controversia che attiene ad una lesione della competenza, costituzionalmente garantita, di un soggetto da parte di un altro soggetto. L’invasione di competenza si verifica in presenza di un atto adottato da un soggetto nell’esercizio di una competenza spettante ad un altro soggetto ma rivendicata dal primo: è questo il caso caratterizzato dalla cosiddetta rivendicazione della competenza (vindicatio potestatis), nel quale ambedue i soggetti affermano di essere competenti a adottare un determinato atto. La lesione di competenza puo’ aversi anche in mancanza dell’elemento della vindicatio potestatis, cioè in presenza di atti che, seppure rientranti nella competenza di un determinato soggetto, sono adottati da quest’ultimo in modo illegittimo; oppure, ancora, a seguito di comportamenti omissivi.
Il giudizio della Corte costituzionale sui conflitti tra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni presenta notevoli analogie rispetto ad un’altra competenza della Corte, cioè quella relativa al giudizio di legittimità costituzionale. In ambedue i casi, infatti, si è di fronte ad un giudizio: a) azionato su ricorso b) proposto dagli stessi soggetti (Stato o Regioni) c) per motivi attinenti ad una lesione di competenza. Bisogna, dunque,  procedere ad individuare gli elementi di differenziazione tra queste due competenze. Il primo elemento riguarda la natura giuridica degli atti oggetto del giudizio di legittimità costituzionale e del giudizio sui conflitti di attribuzione tra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni. Mentre l’art. 134 della Cost. specifica che oggetto del giudizio di legittimità costituzionale possono essere soltanto le leggi e gli aventi forza di legge, nulla dice a proposito degli atti suscettibili di dar luogo ad un conflitto di attribuzioni. Il ragionamento per giungere ad una differenziazione nn puo’ che essere un ragionamento di tipo residuale: dal momento che lo Stato e le Regioni devono ricorrere alla Corte costituzionale in sede di giudizio di legittimità costituzionale, qualora la lesione di competenza sia stata determinata da una legge o atto avente forza di legge, residualmente ne deriva che lo Stato e le Regioni possono ricorre alla Corte in sede di conflitti di attribuzioni soltanto qualora la lesione di competenza sia stata determinata da un atto che non sia una legge o un atto avente forza di legge, cioè il ricorso per conflitto di attribuzioni è ammissibile nei confronti di regolamenti amministrativi, atti amministrativi e decisioni giurisprudenziali. Il secondo elemento di differenziazione deriva dalla diversa posizione reciproca dello Stato e delle Regioni, quanto ai motivi del ricorso, a secondo che quest’ultimo tenda ad introdurre un giudizio di legittimità costituzionale oppure un giudizio su un conflitto di attribuzioni tra Stato e Regione. Nel primo caso, lo Stato ha a propria disposizione una gamma di motivi di ricorso ( lesione di competenza o illegittimità costituzionale in senso lato) più ampia rispetto a quella della regione (solo ricorso per lesione di competenza) e dunque ne deriva che la posizione dello Stato e delle regioni, sotto questo profilo, non è paritaria bensì squilibrata a favore dello Stato. Nel secondo caso, invece, lo Stato quanto la regione possono ricorrere alla Corte soltanto per lesioni di competenza, si trovano dunque in una posizione di perfetta parità. Il giudizio sui conflitti di attribuzioni richiede necessariamente l’esistenza di un atto e non puo’ essere virtuale, ossia invocare in via preventiva una lesione delle competenze di attribuzione non concretatasi, bensì concreto. È dunque inammissibile il ricordo per conflitto di attribuzione su atti preparati e atti non definitivi. Tuttavia la Corte ha interpretato in modo estensivo la categoria di atti impugnabili, e si è anche pronunciata su un allargamento del parametro, includendo “leggi ordinarie che concretizzano e specificano le norme costituzionali attributive di competenza, decreti legislativi di attuazione degli Statuti speciali fonti comunitarie e il c.d. principio di leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni, quale forma, vaga e flessibile di ragionevole esercizio della collaborazione fra gli enti.
Il maggior problema relativo ai conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato riguarda i criteri atti ad identificate in concreto quali siano i poteri dello Stato ai quali fa riferimento l’art. 134 Cost. La prima dottrina in tal senso riguarda quella della divisione di dei poteri di Montesquieu e dunque alla loro tripartizione in potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Un secondo tentativo ritenne di individuare le caratteristiche del concetto di potere dello Stato, in tre elementi: a) la presenza di pluralità di organi b) tra loro posti in rapporto di gerarchia c) tutti concorrenti all’esercizio di una medesima funzione, nell’ambito della competenza propria di ciascuno di essi. Un ruolo assai importante lo ebbe l’ar. 37 della legge n. 87/1953 secondo il quale il conflitto tra poteri dello Stato è risolto dalla Corte costituzionale se: a) il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorga tra organi appartenenti a poteri diversi; b) il conflitto di attribuzione sorga tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere al quale appartengono; c) che il conflitto di attribuzione sorga  per la delimitazione della sfera di attribuzione  determinata per i vari poteri da norme costituzionali. Pertanto la Corte Costituzinale nella sua ricca giurisprudenza ha riconosciuto la soggettività nel conflitto: al Presidente della Repubblica; alla Corte costituzionale; ad ogni giudice; alla Corte dei conti;  all'Ufficio centrale per il referendum; ad una singola Camera; alle due Camere nel complesso; alle  commissioni parlamentari d'inchiesta; al Consiglio superiore della Magistratura; al Governo nel suo  complesso; al singolo Ministro; al Comitato promotore del referendum.

Per quanto attiene agli atti sindacabili da parte Corte in sede di conflitto tra poteri dello Stato sembrerebbe che qualsiasi atto – ivi comprese le leggi e gli atti con forza di legge – lesivo della sfera di attribuzioni di un potere dello Stato, sia impugnabile di fronte alla Corte. Nella sua prima sentenza in materia (n.406/1989) la Corte affermò che il conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato non puo’ ritenersi dato contro una legge o un atto equiparato. Tale sentenza, la n. 406 del 1989,subisce un notevole ridimensionamento da parte della successiva sent. N. 161 del 1995 dove è stabilito che la sindacabilità delle leggi e degli atti con forza di legge in sede di conflitto tra poteri dello Stato viene esplicitamente affermata ma alla precisa condizione che ricorrano situazioni particolari. La Corte non le indica in modo espresso ma sembra possibile individuarle, sia pure per grandi linee, come segue: l’impossibilità o comunque la difficoltà concreta di ricorrere in tempo utile al giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale a fronte di lesioni di competenza, concrete ed attuabili, che provochino un danno irreversibile oppure l’impossibilità per un potere dello Stato di esercitare una competenza per esso essenziale; una lesione di diritti fondamentali che, anche in mancanza di danno irreversibile, comporti la necessità di una difesa efficace ed immediata. La sentenza n. 457/1999 rappresenta punto di arrivo radicale poiché ammette esplicitamente la sindacabilità in sede di conflitto tra poteri dello Stato anche delle leggi, tutte le volte in cui non sia esperibile nei loro confronti il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale.  Se la Corte costituzionale, da un lato, ha affermato l’insindacabilità dei regolamenti parlamentari nell’ambito del giudizio di legittimità costituzionale, dall’altro, c’è qualche dubbio in ordine alla possibilità che essi siano sindacabili in sede di conflitto tra poteri dello Stato. Tuttavia, l’affermazione dell’insindacabilità di regolamenti parlamentari, se è strumento di tutela della posizione d’indipendenza delle Camere, in tanto vale in quanto garantisce l’esercizio della funzione regolamentare attribuita dall’art. 64 Cost. in via esclusiva a ciascuna della Camera. Non dovrebbe più valere, perciò, quando norme espressione di quella funzione operino al di fuori dei confini ad esse assegnati e dunque non possano più essere considerate strumento di tutela e garanzia della posizione di ciascuna Camera. Poiché, per l’appunto, l’ipotesi del conflitto tra poteri dello Stato ricorre quando un organo costituzionale leda la competenza di un altro organo costituzionale, non sembra potersi escludere la possibilità astratta che le norme dei regolamenti parlamentari costituiscono l’oggetto di un conflitto tra una Camera ed un altro organo costituzionale ai sensi dell’art. 134 Cost. Sarà molto difficile che una norma dei regolamenti parlamentari possa, di per sé, produrre una lesione concreta ed attuale della competenza di un potere dello Stato poichè, in realtà, tale lesione sarà sempre determinata da un atto o da un comportamento adottato o tenuto dalla singola Camera in applicazione di una determinata norma del suo regolamento: l’oggetto diretto del conflitto sarà,quindi, l’atto o il comportamento suddetto e non già la norma regolamentare che li prevede. Nel caso di un atto camerale ritenuto lesivo della competenza di un potere dello Stato, esso verrà annullato dalla Corte, mentre quest’ultima non potrà toccare la norma regolamentare in applicazione della quale era stato adottato l’atto. Spetterà alla singola Camera decidere successivamente se mantenere o abrogare la norma in questione. Infine, è da ritenere che il conflitto tra poteri dello Stato possa sorgere anche in mancanza di un atto,  ad esempio, un semplice comportamento omissivo o anche la concreta minaccia alla sfera di attribuzioni di un potere dello Stato determinata dall’atteggiamento di un altro potere. L’art.37 della legge n. 87/1953, nell’indicare il parametro dei giudizi sui conflitti tra poteri dello Stato, si riferisce testualmente a “norme costituzionali”; con ciò differenziandosi rispettoall’art.39, co.4, della stessa legge che, in ordine al parametro dei giudizi sui conflitti tra Stato e Regioni e tra Regioni, esige l’indicazione nel ricorso delle <<disposizioni della Costituzione e delle leggi costituzionali che si ritengono violate>>. La diversità formale tra le due espressione (norme e disposizioni) non sembra pero’ a dar luogo a diversità sostanziali nell’individuazione del parametro dei due giudizi, poiché il legislatore ha quasi sempre usato come sinonimi i termini “disposizione” e “norma”. Sul piano più strettamente processuale, gli elementi che distinguono il giudizio sui conflitti tra Stato e Regioni e tra Regioni dal giudizio sui conflitti tra potere dello Stato sono i seguenti: 1) la legge non prescrive alcun termine per i ricorsi proposti dai poteri dallo Stato; 2) la Corte decide preliminarmente in Camera di consiglio sull’ammissibilità del ricorso, accertando se esista la materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza: in caso di esito negativo, la Corte adotta un’ordinanza di inammissibilità che chiude definitivamente il giudizio; in caso di esito positivo, invece, il giudizio prosegue restando, tuttavia, impregiudicata la possibilità che la Corte, ribaltando quanto ammesso in sede preliminare, concluda il giudizio stesso con una sentenza di inammissibilità; 3) ultima differenza riguarda l’istituto della sospensione cautelare del provvedimento, previsto solo per i conflitti tra Stato e Regioni e tra Regioni. La dottrina pero’ è divisa e la stessa Corte costituzionale non si è finora pronunciata in modo chiaro al riguardo.                                                    

Per quanto riguarda le sentenze con le quali la corte costituzionale conclude tanto il giudizio sui conflitti tra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni, quanto il giudizio sui conflitti tra i poteri dello Stato, esse hanno tutte gli stessi effetti. Oltre alle sentenze di inammissibilità e di improcedibilità, nonché alle sentenze che dichiarano la cessazione della materia del contendere, la Corte puo’ adottare sentenze che entrano nel merito della lesione di competenza sostenuta dalla parte ricorrente. Quest’ultima possono suddistinguersi in tre tipi: a) qualora la Corte accerti l’esistenza di una lesione di competenza e sia stato impugnato un atto, la sentenza dichiara a quale soggetto spetta la competenza ed annulla l’atto; b) qualora la Corte accerti che l’atto impugnato non determina lesione di competenza o che comunque, in mancanza di  un atto impugnato, non vi sia una lesione di competenza, la sentenza respinge il ricorso; c) qualora la Corte accerti l’esistenza di una lesione di competenza e non sussista un atto impugnato, la sentenza si limita a dichiarare a quale soggetto spetta la competenza.                                   

Il percorso logico che la Corte deve compiere per giungere a ciascuno dei tre tipi di sentenza è sempre lo stesso, dovendo essa decidere anzitutto sulla spettanza della competenza e poi, soltanto eventualmente, sull’annullamento dell’atto. In quest’ultima eventualità – quando cioè la Corte, dopo avere deciso sulla competenza, annulla conseguentemente l’atto – si pose a suo tempo in dottrina il problema il quale fosse l’oggetto principale del giudizio sui conflitti di attribuzione (la competenza o l’atto?). La giurisprudenza della Corte ha stabilito che il problema di quale sia l’oggetto principale del giudizio sui conflitti di attribuzione è ormai un problema del tutto teorico, dal quale si puo’ prescindere. Resta, invece, stabilito che l’unico effetto definitivo e valevole erga omnes è quello rappresentato dall’eventuale annullamento dell’atto; al contrario, la decisione sulla competenza non è vincolante per la Corte, né per le parti del giudizio né per gli altri soggetti legittimati a proporre ricorso per conflitto di attribuzione. Ciò significa che la Corte potrà decidere su una determinata competenza in modo diverso da quanto già deciso in precedenza e che potranno successivamente presentare un nuovo ricorso, in relazione ad una fattispecie identica ad altra già decisa dalla Corte, tanto le stesse parti di quello stesso giudizio, tanto ogni altro soggetto legittimo a ricorrere.        

 

CAPITOLO IV
IL GIUDIZIO SULL’AMMISSIBILITA’ DELLE RICHIESTE DI REFERENDUM ABROGATIVO
Competente a giudicare sull’ammissibilità del referendum abrogativo è la Corte costituzionale (art. 2 legge cost. 11 marzo 1953, n. 11), alla quale spetta di verificare se la legge (o l’atto avente forza di legge) oggetto del referendum rientri o meno fra quelle per le quali tale strumento è escluso dalla Costituzione. Tale controllo è insomma preordinato ad impedire la possibilità di “fratture costituzionali” derivanti dall’uso distorto dell’istituto. La Corte è investita del giudizio di ammissibilità senza bisogno che alcuno ne assuma l'iniziativa, dopo che la richiesta direferendum è stata ritenuta regolare dall'Ufficio centrale del referendum presso la Corte di cassazione; e il referendum viene indetto solo se la Corte lo giudica ammissibile. La legge stabilisce che le richieste di referendum, presentate entro il 30 settembre di ogni anno, siano esaminate tutte dall'Ufficio centrale entro il 15 dicembre, e dalla Corte costituzionale entro il 20 gennaio successivo, per arrivare alla consultazione suireferendum ammessi, in una data compresa fra il 15 aprile e il 15 giugno. La Corte aveva in un primo tempo stabilito che il giudizio di ammissibilità si  dovesse limitare unicamente ad accertare se l’atto legislativo oggetto della richiesta rientrasse o meno (“non concerne materia rientrante”) in una delle categorie di leggi per le qualila nostra Costituzione all’art. 75 esclude il ricorso al referendum: le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia ed indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali (cfr. le sentenze n. 10 del 1972, e n. 251 del 1975). Questa configurazione del giudizio di ammissibilità in termini tanto restrittivi, dovuta per alcuni alla semplicità delle richieste fino ad allora esaminate, fu superata con la sentenza n.  16 del 1978, redatta dal professor Livio Paladin, con la quale la Consulta, chiamata ad esaminare ben otto richieste di referendum,  riconobbe  per se stessa: “il potere-dovere di valutare l'ammissibilità dei referendum in via sistematica; per verificare in particolar modo, sulla base dell'art. 75 primo comma, se le richieste medesime siano realmente destinate a concretare un "referendum popolare" e se gli atti che ne formano l'oggetto rientrino fra i tipi di leggi costituzionalmente suscettibili di essere abrogate dal corpo elettorale”, a prescindere dal fatto che il testo dell'art. 75, secondo comma, della Costituzione non le considera specificamente. Con una vera e propria inversione di rotta nel processo interpretativo delle norme relative al giudizio, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha, con il tempo, individuato ulteriori limiti, stabilendo che, oltre alle cause esplicite di inammissibilità, ve ne sono altre, ricavabili implicitamente dai principi costituzionali e dalla natura e dai caratteri dell'istituto referendario. In relazione all’oggetto della richiesta referendaria sono ritenute inammissibili quelle richieste che non riguardino atti legislativi dello Stato aventi la forza delle leggi ordinarie, ma tendano ad abrogare, in tutto o in parte, la Costituzione, le leggi di revisione costituzionale, le altre leggi costituzionali di cui all'articolo 138 della Costituzione, come pure gli atti legislativi dotati di “una forza passiva peculiare”, e, dunque insuscettibili,  di essere validamente abrogati da leggi ordinarie successive.  Queste leggi, non potendo essere abrogate da atti legislativi ordinari in virtù di una speciale “copertura costituzionale”, tantomeno potranno essere caducate per via referendaria (ad es.: la legge di esecuzione dei Patti Lateranensi, stante la copertura dell’art. 7 Cost., o le leggi di regolamentazione mediante intese dei rapporti tra Stato e confessioni diverse dalla cattolica, art. 8 Cost.) In secondo luogo sono da escludere i referendum aventi per oggetto disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato, il cui nucleo normativo non possa venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali). Tale principio è stato richiamato per considerare inammissibile la richiesta diretta ad abrogare l’intera legge sull’aborto, “in quanto renderebbe nullo il livello minimo di tutela necessaria dei diritti costituzionali inviolabili alla vita, alla salute, nonché di tutela necessaria della maternità, dell'infanzia e della gioventù”(sent. n. 35/1997). Questo, tra l’altro, è uno dei precedenti, richiamati dalla dottrina, in cui la costituzionalità della normativa di risulta è stato di fatto il motivo della pronuncia di inammissibilità. Ancora, vanno sottratte al referendum le disposizioni produttive di effetti collegati in modo così stretto all'ambito di operatività delle leggi espressamente indicate dall'art. 75 della Costituzioneche la preclusione debba ritenersi sottintesa. Questo significa che l'interpretazione letterale deve essere integrata, ove occorra, da un'interpretazione logico-sistematica. Così, ad esempio, la norma che esclude il referendum per le leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali va interpretata nel senso di ricomprendere anche le leggi di esecuzione dei trattati medesimi. In linea con questi principi, la Corte costituzionale ha affermato che non si può svolgere referendum abrogativo sulle leggi a contenuto “comunitariamente” vincolato. Il riferimento è a quegli atti normativi per i quali la discrezionalità del legislatore nazionale è vincolata al rispetto del diritto comunitario. La Corte, con la sentenza n. 31 del 2000, ha ritenuto così inammissibile un referendum sulla disciplina dell’immigrazione dei cittadini extracomunitari, ritenendola imposta dal diritto comunitario, in particolare dalla Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen e quindi dal Trattato di Amsterdam. Ragioni di inammissibilità sono, infine, da ravvisarsi per le richieste aventi ad oggetto le leggi obbligatorie o necessarie, ossia quelle leggi che devono necessariamente esistere nell’ordinamento giuridico o perché indispensabili per il rinnovo o il funzionamento di organi costituzionali, o perché direttamente previste da singole disposizioni costituzionali: questo perché la loro mancanza determinerebbe l’impossibilità di dare applicazione al precetto costituzionale di cui sono necessaria integrazione e completamento. A differenza delle leggi a contenuto costituzionale  vincolato, le leggi necessarie sono quelle per le quali la Costituzione  si limita a stabilire che devono esistere, ma il legislatore è libero per quanto concerne il contenuto della relativa disciplina, come, ad esempio, le leggi di attuazione del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) e del CNEL o la legge 25 maggio 1970, n. 352 sul referendum (sent. nn. 29/1987; 47/1991). In questo contesto si colloca la discussione in materia di referendum su leggi elettorali, ritenute “leggi costituzionalmente necessarie” per il funzionamento degli organi costituzionali, che non possono essere esposti alla eventualità, anche soltanto teorica, di paralisi di funzionamento, ma a contenuto libero, potendo il legislatore scegliere data “l’ampia gamma di sistemi elettorali, la loro modulazione e ibridazione”. La Consulta ha così ritenuto inammissibili richieste di abrogazione totale, dato che l’eliminazione delle leggi elettorali contrasta con il principio della costante operatività degli organi costituzionali (di cui si impedirebbe il rinnovo, con conseguente illegittima paralisi del sistema). Le leggi elettorali, tuttavia, ha affermato la Corte, possono essere sottoposte a referendum quando la richiesta colpisca solo alcune disposizioni (abrogazione parziale) e a condizione che la disciplina che residua dopo l’abrogazione (c.d.normativa di risulta) permetta comunque agli organi costituzionali di poter funzionare. Con queste motivazioni la Corte ha ritenuto inammissibile il referendum sulla legge del CSM proprio perché la richiesta aveva ad oggetto l’intera legge, ma ha ritenuto ammissibile ilreferendum sulla legge elettorale proporzionale della Camera dei deputati che abrogava le sole disposizioni in base alle quali l’elettore poteva indicare più candidati, in quanto effetto dell’abrogazione sarebbe stato ridurre la scelta ad una sola preferenza, senza impedire il regolare rinnovo dell’organo costituzionale (sent. n. 47/1991).   Principi analoghi sono stati espressi nel caso di richieste direferendum elettorali del 1993 (sent. n. 32/1993), del  1999 (sent. n. 13/1999) e del 2000 (sent. n. 33/2000). Vincoli altrettanti importanti riguardano oltre all’oggetto il contenuto della richiesta, la formulazione del quesito referendario. Al fine di garantire la libera e consapevole espressione del voto da parte dell’elettore, la richiesta, per essere ammissibile, deve essere omogenea, chiara e univoca. L’omogeneità della richiesta diventa il presupposto affinché un referendum sia chiaro: ciò si ha quando l’elettore è in grado di capire qual è l’oggetto dell’abrogazione quali ne sono le conseguenze e qual è il fine che i promotori delreferendum intendono perseguire. Così, sono considerate inammissibili le richieste formulate in modo che ciascuno dei quesiti da sottoporre al corpo elettorale contenga una pluralità di domande eterogenee, carenti di matrice razionalmente unitaria, questo perché la possibilità di scelta del corpo elettorale risulterebbe coartata dalla obbligata unicità della risposta. (sent nn. 16/1978,24,25,26,28 e 31/1981; 27/1982; 28/1987; 32/1993).
In conclusione, sono pertanto assoggettabili a referendum popolare anche le leggi elettorali, alla duplice condizione che i quesiti siano omogenei e riconducibili a una matrice razionalmente unitaria, e ne risulti, come abbiamo visto,  una coerente normativa residua, immediatamente applicabile, in guisa da garantire, pur nell'eventualità di inerzia legislativa, la costante operatività dell'organo.

 

CAPITOLO V: IL GIUDIZIO SULLE ACCUSE PROMOSSE CONTRO IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
La quarta ed ultima competenza della Corte costituzionale è disciplinata dall’art. 134, ultimo cpv., Cost., secondo il quale la Corte giudica <<sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento ed attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri>>. A seguito dell’approvazione della legge cost. n.1/1989, il Presidente del Consiglio ed i ministri non vengono più giudicati dalla Corte costituzionale per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni. Infatti, è stabilito che il Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisprudenza ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. I rapporti e le denunzie concernenti i reati di cui all’art. 90 Cost., presentati al Presidente della Camera, sono trasmessi ad un Comitato parlamentare, formato dai componenti della Giunta del Senato e della Camera competenti per le autorizzazioni a procedere in base ai rispettivi regolamenti. Il Comitato espleta le proprie indagini, anche nei confronti di soggetti che abbiano concorso nei reati di cui all’art 90 Cost, con i poteri spettanti al Pubblico ministero e al giudice per le indagini preliminari entro il termine di 5 mesi, prorogabile per una sola volta per un periodo non superiore a 3 mesi. A conclusione dei propri lavori, il Comitato: a) dichiara la propria incompetenza, ove ritenga che il reato sia diverso da quelli previsti dall’art. 90 della Cost.; b) dispone con ordinanza motivata l’archiviazione degli atti del procedimento, ove ravvisi la manifesta infondatezza della notizia di reato; c) in ogni altra ipotesi presenta una relazione al Parlamento in seduta comune. Nei primi due casi, tuttavia, almeno un quarto dei componenti del Parlamento puo’ chiedere che il Comitato presenti comunque una relazione  di cui al terzo caso. La fase successiva si svolge di fronte al Parlamento in seduta comune dove, dopo la discussione, si procede alla votazione a scrutinio segreto della messa in stato di accusa che risulta approvata se viene raggiunta la maggioranza assoluta dei componenti; l’atto di accusa deve contenere l’indicazione degli addebiti e delle prove su cui l’accusa si fonda. Il Parlamento in seduta comune, nel porre in stato di accusa il Presidente della Repubblica, elegge, anche tra i suoi componenti, uno o più commissari per sostenere l’accusa; quest’ultimi esercitano dinanzi la Corte Costituzionale le funzioni di pm e hanno facoltà di assistere a tutti gli atti istruttori.  Il giudizio sulle accuse nei confronti del Pres.della Rep. e di ogni altro eventuale coimputato viene  compiuto dalla Corte costituzionale in una particolare composizione allargata: ai 15 giudici ordinari si aggiungono altri 16 membri – i giudici aggregati – tratti a sorte da un elenco di cittadini aventi i requisiti di eleggibilità a senatore, che il Parlamento compila ogni 9 anno mediante elezione con le stesse modalità stabilite per la nomina dei giudici ordinari. I giudici aggregati non devono necessariamente possedere gli stessi requisiti di professionalità giuridica che sono invece richiesti per i giudici ordinari; inoltre, essi sono in maggioranza rispetto ai giudici ordinari e tale maggioranza deve comunque sussistere per tutta la durata del giudizio.  La Corte puo’, anche d’ufficio, adottare i provvedimenti cautelari e coercitivi, personali o reali,che ritenga opportuni; tra questi, particolare rilevanza assume l’eventuale sospensione della carica del Pres. Della Rep. In caso di condanna del Pres. Della Rep., la Corte determina le sanzione penali nei limiti del massimo di pena previsto dalle leggi vigenti al momento del fatto – attualmente la pena di ergastolo – nonché le sanzioni costituzionali, civili ed amministrative adeguate al fatto (ad.es. rimozione della carica di Capo dello Stato, decadenza dalla carica di senatore a vita o la perdita del relativo diritto, la confisca dei beni, il risarcimento del danno,ecc.). La sentenza della Corte non è soggetta ad impugnazione ma puo’ essere soltanto sottoposta a revisione con ordinanza della stessa Corte se, dopo la condanna,  sopravvengono o si scoprono nuovi fatti o elementi di prova i quali, da soli o uniti a quelli già esaminati nel procedimento, rendono evidente che il fatto non sussiste oppure che il condannato non lo ha commesso.                                                                                  La definizione delle fattispecie che integrano i reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione è problema che non ha ancora una soluzione sicura, a causa della diversità di opinioni che al riguardo sono state avanza in dottrina e, soprattutto, dalla totale mancanza di una giurisprudenza della Corte costituzionale che finora mai si è trovata a giudicare su accuse mosse dal Parlamento in seduta comune nei confronti di un Presidente della Repubblica. Il dato, dal quale nascondono tutti i problemi, è costituito dal fatto che l’art.90, riferendosi ai reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione, non fornisce alcun elemento in ordine ai comportamenti concreti in presenza dei quali si possano ritenere commessi i reati suddetti da parte del Presidente della Repubblica: in termini giuridici, di tratterebbero di reati a fattispecie indeterminata. Un primo tentativo per risolvere il problema posto dall’art 90 è stato compiuto dalla dottrina prevalentemente penalista, affermandosi che la suddetta disposizione costituzionale contiene in realtà una tacita norma di rinvio a disposizioni penali vigenti, che prevedono il reato di attentato alla Costituzione e il reato di alto tradimento, sebbene solo nella sua intitolazione. Preferibili rispetto a queste tesi sono quelle d’ispirazione costituzionalista, che cercano di individuare i contenuti dei due reati di cui all’art. 90. Si è pertanto ritenuto che il reato di alto tradimento sussista anche in tutte le ipotesi nelle quali il Capo dello Stato violi il dovere di fedeltà nei confronti della Repubblica in positivo o addirittura in negativo per omessa vigilanza nella difesa delle istituzioni; per quanto riguarda il reato di attentato alla Costituzione vanno considerati tutti quei comportamenti del Presidente della Repubblica che determinano violazioni norme costituzionali tali da produrre conseguenze più gravi della semplice illegittimità costituzionale: è il caso di violazioni ripetute di una stessa norma costituzionale, così come di violazioni, anche soltanto singole, di norme costituzionali fondamentali per la ricostruzione della figura, dei poteri e dei limiti del Capo dello Stato nel nostro ordinamento. Alcuni elementi concorrono i modo determinante ad escludere che la funzione della Corte possa inquadrarsi nella funzione di giurisdizione penale, al di là del fatto  secondo cui il procedimento di fronte alla Corte si svolge seconde norme dei codici penali e di procedura penale. Essi sono i seguenti:i conflitti estremamente ampi ed incerti dei reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione che contrastano con il principio di determinazione tipico del diritto penale; la mancanza d’indicazione specifica in ordine alle pene irrogabili, ad eccezione del limite generico del non superamento della pena massima prevista dalle leggi vigenti; la possibilità d’irrogare sanzioni amministrative e costituzionali di ogni genere non soltanto in modo accessorio ad eventuali pene ma, in mancanza di norme limitative al riguardo, anche in modo autonomo, fino al provvedimento estremo di rimozione dalla carica del Presidente;  la stessa composizione integrata della Corte; l’inoppugnabilità delle sentenze di condanna e degli eventuali coimputati giudicati per connessione, che contrasta con il principio generale della impugnabilità delle decisione giurisdizionali.

 

 

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