Abito popolare in Italia

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Abito popolare in Italia

Labito popolare in Italia

Premessa
Questo saggio era stato scritto, in unaprima stesura, nel 1981, co me presentazione alla progettata edizione italiana del saggio di Petr Bogatyri!v Le funzioni del costume nella Slovacchia Morava (edizione originale in lingua slovacca, Funkcie kroja na Moravskom Slovensku, 1937)1. Il testo che qui viene pubblicato, corrisponde sostanzialmente a quello del 1981, cui sono state aggiunte note di aggiornamento e di chiarimento. Queste ultime tuttavia non hanno scalfito l'impostazione generale del saggio, che continua ad essere, inparte, un tentativo di applicare all'abito popolare italiano le categorie ed i temi introdotti da Bogatyri!v; in parte, una analisi degli scarsi dati di carattere antropologico estratti dalla documentazione bibliografica, che èprevalentemente descrittiva; in parte, laformulazione di alcune ipotesi sul simbolismo croma tico e sulla psicologia dell'abbigliamento.
Così come nel testo di Bogatyri!v, in questo lavoro è stata esclusa una analisi sistematica dell'uso e del significato dell'abito nei rituali di Carnevale, anche se talvolta si è operato qualche confronto tra abiti di Carnevale ed abiti festivi o quotidiani; allo stesso modo, sono state escluse dalla presente indagine le analisi relative all'uso e alla simbologia del corpo, alla cosmesi, agli amuleti e all'oreficeria, molto importantiper integrare qualsiasi discorso sull'abito, ma tali da richiedere - allo stato attuale degli studi - una trattazione separata.

Gli studi sul costume  e le fonti  iconografiche

Le radici degli studi sull'abito popolare italiano sono illustri e profonde, nonostante che la maggior parte degli scritti recenti presenti un panorama deludente, costituito da brevi testi monografici, nei quali sono dati ricorrenti, tra gli altri, lo sterile descrittivismo, l'assenza di una dimensione storica e di riferimenti alle stratificazioni economicosociali, la confusione tra abito e costume propriamente detto.
La storia degli ,studi sull'abito popolare coincide con le vicende generali della storia dell'etnologia in Europa, rappresentandone per così dire il versante più divulgativo e meno intellettuale ed elitario: l'abito è infatti, insieme con il linguaggio a  cui  viene  spesso  assimilato,  una delle prime e più  evidenti  connotazioni  della  «diversità»  oggetto delle


scienze etnologiche; ma proprio per le molteplici suggestioni, in primo luogo di carattere visivo, da esso offerte, l'interesse per i costumi è spesso collegato con più larghe tendenze, non strettamente etnologiche, della cultura europea. Così, nei secoli XVI e XVII, alle origini dell'etnologia moderna, le nuove condizioni economiche e sociali, l'evolversi delle scienze fisiche e matematiche, i viaggi e le scoperte geografiche, aprono nuovi interessi, anche culturali, ad alcune fasce sociali dell'Europa occidentale, nei confronti delle aree appena scoperte e invase; con gli interessi, si manifesta il rimorso, che accompagna ambiguamente le origini e le vicende delle scienze etnologiche. In questo periodo si intensificano i libri di viaggi e le descrizioni di terre lontane, e le raccolte di costumi di tutto il mondo allora cono­
sciuto, costituite di pitture  o più  spesso di  incisioni.
Nel Cinquecento queste raccolte sono particolarmente numerose: le più note tra quelle interessanti l'area italiana sono opera degli incisori Enea Vico, Ferdinando Bertelli, Jost Amman ed Hans Weigel, Abraham de Bruyn, Boissard, Pietro Bertelli, Cesare Vecellio• Le incisioni, che rappresentano personaggi di varie città europee ed extraeuropee, non sono del tutto prive di connotazioni sociali, anche se prevalgono le connotazioni territoriali, e viene ritratto per la maggior parte l'abbigliamento delle classi nobili e del clero. Si discute sulla funzione di queste raccolte, che potevano essere usate come modello di abiti esotici per le classi nobili (e in questo senso sono considerate all'origine delle incisioni di moda) , ma che erano anche acquistate come souvenir dai viaggiatori stranieri; sembrano implicite in questo uso connotazioni  in un  certo  senso etnologiche.
Dal secolo XVI in poi si diffondono le incisioni relative alle arti e mestieri, nelle quali, se l'interesse sembra prevalentemente rivolto nei confronti degli ambienti e della cultura materiale che definiscono ilmestiere, sono descritti anche gli abiti.
Dalla fine del secolo XVIII, negli anni vicini alla Rivoluzione francese, si intensificano le raccolte di incisioni dedicate ai costumi regionali, le quali avranno un lungo seguito, pressoché inalterato, per tutto il secolo successivo. In coincidenza quindi con una nuova fase della scienza etno logica, le incisioni di costumi regionali si saldano certamente agli eventi della Rivoluzione francese e dell'età napoleoni ca, alle teorie romantiche, all'avviarsi della rivoluzione industriale che determinava, come era avvenuto nel secolo XVI nei confronti dei popoli invasi dai conquistatori, l'interesse per ilmondo rurale, che si andava definendo come opposto alla civiltà industriale e da essa destinato ad esse-


re invaso. Alla fine del Settecento e nella prima metà dell'Ottocento, gli abiti popolari rurali sono descritti nelle relazioni dei viaggiatori stranieri in Italia, nelle inchieste napoleoniche, pontificie, borboniche. Il costume popolare, con i suoi colori vivaci, sembra acquistare una particolare diversità rispetto alla scelta che si andava maturando in quel periodo rispetto all'abito maschile, che si trasforma per il gusto neoclassico in un costante monocromatismo da grigio  a nero,  secondo  quella  che  J.C.  Fliigel  definisce la
«Grande Rinuncia» dell'uomo occidentale nei confronti della varietà dei colori, rinuncia per alcuni versi praticata fino ad oggi6• Le stampe sui costumi popolari del secolo XIX costituiscono documenti preziosi, nonostante rappresentino una realtà artificiosamente abbellita e piegata alle scelte estetiche degli incisori; non mancano tuttavia le immagini che raffigurano  l'indigenza  e la mendicità •
Le serie di incisioni sui mestieri continuano ad essere prodotte in edizioni simili a quelle dei costumi, cui talvolta si mescolano. I costumi ed i mestieri di piazza costituiscono infatti alcuni degli aspetti più emergenti della cultura popolare (rurale per i costumi, urbana per i mestieri); l'interesse degli incisori e del pubblico cui queste immagini  erano destinate non poteva, evidentemente, spingersi a fatti più nascosti della cultura popolare, cui si avvicina almeno in parte la scienza etnologica ufficiale, che nel sec. XIX privilegia  nettamente  la  tradizione  orale.
Alla fine del secolo XIX la scienza etnologica italiana, sotto l'influenza delle teorie positivistiche, «scopre» la cul tura materiale e con essa il costume; le ricerche si fanno sistematiche ed attendibili ; si riversa nelle scienze etnologiche l'eredità culturale ottocentesca sul costume popolare, che era caratterizzata dalla prevalente attenzione al costu me festivo rispetto all'abito, e dalla assenza di considerazione delle stratificazioni economico-sociali.
Durante il ventennio fascista il costume popolare, insieme alle «arti femminili», viene utilizzato come l'emblema della  cultura  popolare,  che  viene  dal  fascismo  deformata e mistificata a fini nazionalistici e di un regionalismo dete riore. I balli dopolavoristici, le parate in costume nelle cerimonie ufficiali, le mostre dei costumi e dell'artigianato femminile furono uno dei  mezzi  di  propaganda  utilizzati dal fascismo  per  conquistarsi  il  consenso  nelle  campagne e nella provincia; non a caso infatti i costumi erano indossati da esponenti di quelle classi sociali (ad esempio la piccola borghesia della provincia) che appoggiavano il fascismo. Tra queste parate una delle più importanti è quella del 1929, in cui convennero a Roma,  in occasione  delle nozze di Umberto II di Savoia, gruppi in costume di tutte le zone d'Italia. Si spiega così il rifiuto, da parte dell'antropologia italiana del dopoguerra, di occuparsi di costume e di abito popolare: era necessario distanziarsi e dissociarsi da un fenomeno così degradato dal fascismo, al punto che non sembrava più possibile delimitarne i contorni ed individuare quegli elementi che appartengono alla cultura popolare e quelli che sfumano in altre direzioni (ad esempio l'utilizzazione piccolo-borghese del costume come segno di identità municipale) •


In tempi recenti si riattualizzano i temi del costume e del l'abito popolare, come estensione di un rinnovato interesse per l'abito nella civiltà occidentale, interesse che assume metodologie esplicitamente storiche , a volte sociologiche e semiologicheu, a volte collegate alla storiografia delle arti minori. Così, sul versante della cultura popolare, si riattualizza il discorso sul costume e sull'abito popolare ; si utilizzano materiali di archivio come i dati derivanti dalle inchieste napoleoniche , gli inventari dotali, ed altri vari documenti di archivio ; in secondo piano, per il momento, la metodologia della ricerca sul campo, sempre fondamentale negli studi  antropologici.
Le fonti iconograficlìe sul costume costituiscono, come si è visto, un materiale particolarmente ricco, ma spesso anche deformato e inattendibile, perché costruito sulle norme estetiche colte, o perché tendente a presentare un mondo popolare di maniera, ingentilito e reso accettabile per  il pubblico destinatario delle incisioni. La serie di incisioni, i disegni, gli acquarelli, si saldano e coincidono, in alcuni casi, con le serie dei mestieri, mentre in altri casi le due diverse serie rimangono rigidamente separate. Costumi e mestieri di piazza confluiscono, dalla seconda metà del secolo XIX agli inizi del secolo XX, nella fotografia: tra le altre, le più  note sono le serie Alinari  di  venditori,
«personaggi» e mestieri di piazza; sono interessati al costume in questi anni anche Moscioni, autore di una serie  di fotografie, in studio, di costumi del Lazio 16, e indirettamente tutti quei fotografi (ad esempio Armoni di Orvieto, ma anche Alinari) che ritraevano paesaggi o particolari strutture urbanistiche introducendovi, strumentali all'immagine, persone in costume. Altre utilizzazioni della fotografia degli inizi del secolo sono invece apertamente orientate verso interessi etnografici, come la serie dei costumi per l'Esposizione Industriale di Milano del 188117, o come quella che ne fa l'anonimo fotografo autore della serie dei costumi di Parre 18, che la usa come base per disegni ad acquerello, o come il lavoro effettuato da molti raccoglitorifotografi per  la Mostra di Etnografia  Italiana del  1911.
I;Archivio Fotografico Storico per questa mostra costituito (oggi conservato presso il Museo Nazionale delle Ar ti e Tradizioni Popolari) raccoglie, oltre al materiale di pro venienza eterogenea ed alle fotografie scattate all'inizio del secolo da quei raccoglitori, che erano anche fotografi dilettanti (come Alessandro Roccavilla di Biella, e Athos Mainardi di Livorno), alcune serie di fotografie di gruppi familiari in costume, per le quali è stata formulata l'ipotesi che si tratti, almeno in parte, di fotografie fatte per essere inviate agli emigrati: si tratta, per la maggior parte, di gruppi costituiti da donne con bambini, eventualmente con i genitori o i suoceri anziani mentre mancano gli uomini giovani; spesso i bambini maschi molto piccoli hanno il sesso  in evidenza, o rappresentato simbolicamente dalla camicia che fuoriesce dai pantaloni: si intendeva dimostrare al ma rito lontano l'effettiva virilità del bambino 19• Il costume, indossato in queste immagini in tutta la sua solennità, insieme ai gioielli portati addosso tutti contemporaneamente, costituiva certamente il migliore abbigliamento in rap-

porto alla solennità della fotografia, ma può rappresentare anche un modo di riassumere, da parte della donna rimasta in paese, tutta la realtà (familiare, sociale, territoriale) che l'emigrato è stato costretto ad abbandonare. Anche in alcune fotografie-ricordo di nozze, scattate in studio e riconoscibili come tali per il gesto delle mani che unisce i due sposi, il costume femminile assume particolare rilievo; è an che possibile che per il ritratto fotografico i costumi fossero presi a prestito da altre donne, almeno da quello che si deduce dalla condizione rivelatrice delle  scarpe.
Le studio delle immagini fotografiche per così dire direttamente commesse dalla cultura popolare si rivela estremamente fecondo anche per i tempi più recenti. Si veda ad esempio un ritratto fotografico di sette persone, eseguito nel viterbese nel 1930 circa: il fotografo ambulante, di origine napoletana, in parte ha ritratto i contadini così come si trovavano nei campi, e stampato le immagini montando le teste su abiti da festa; in parte ha utilizzato fotografie, preesistenti, di contadini in divisa militare, per i quali ha effettuato il medesimo procedimento di isolare le teste e ri vestirle di abiti festivi
Le serie sui costumi, a stampa o fotografiche, continuano ad essere prodotte, anche dopo la prima guerra mondiale, assumendo però forme sempre più degradate, fino alle serie delle cartoline regionali,  degli anni  '50 e  '60.
Oggi una ripresa dello studio del costume e dell'abito popolare può avvalersi delle nuove metodologie, sia storiche, sia antropologiche, e può utilmente seguire le linee di ricerca tracciate da Petr  Bogatyrev.

    1. Ieggi suntuarie

Un aspetto poco esplorato del costume popolare è la dipendenza o meno dalle leggi suntuarie, totalmente ignorate da Bogatyrev. Il silenzio dell'autore su questo punto potrebbe essere giustificato, oltre che dall'impostazione metodologica del suo lavoro, dal fatto che le leggi suntuarie non investivano pienamente il mondo popolare, specialmente quello contadino, abitante nelle zone più isolate e distanti dalle città; almeno in Italia e in altri Paesi dell'Europa occidentale, queste leggi avevano la funzione economica di proteggere ed incrementare alcune attività artigianali e com merciali, e la funzione sociale di mantenere i privilegi delle classi aristocratiche e più abbienti, e contenere, anche attraverso la regolamentazione dell'abito e degli ornamenti, l'avanzata delle classi inferiori (ad esempio borghesia mercantile, artigiani, ecc.), che tendevano a vestirsi come i no bili per identificarsi con essi. A questa dinamica il mondo popolare, particolarmente quello contadino, rimase sostanzialmente estraneo, anche perché privo dei mezzi economi ci per partecipare a questo tipo di gara; le classi popolari urbane vengono invece investite dalle leggi suntuarie, particolarmente, si ritiene, per quelle categorie più a contatto con le classi aristocratiche (ad esempio, i domestici, il cui abbigliamento veniva assoggettato a regolamentazione) 20 • Le leggi suntuarie tendevano inoltre ad individuare e ad isolare alcune categorie di emarginati: ai musulmani ed agli ebrei, nel Portogallo del secolo XIV, era prescritto di  por-


tare emblemi particolari, i primi mezzelune in panno colorato, i secondi stelle rosse a sei punte, sul petto, e più tardi cappelli gialli21 ; alle prostitute era prescritto, sempre nel Portogallo del secolo XIV, di portare come segni distintivi veli giallo zafferano • Nel secolo XV agli ebrei siciliani venne imposto di indossare come segno di riconoscimento una rotella di panno rosso,  che gli uomini avrebbero dovu­  to portare cucita sulla parte destra del torace, le donne sul torace e sul mantello; nel secolo XVI in Italia gli ebrei indossavano segni distintivi prevalentemente gialli; a Milano nel 1515 le prostitute indossavano  fuori  casa,  come  segni di riconoscimento, un fazzoletto bianco sul capo ed una cintura rossa in vita, in altre città un mantello  corto  nero,  o, nel secolo XV a Venezia, calze gialle. Le prostitute di Perugia e dell'Umbria del secolo  XVII  erano  invece  obbligate ad indossare, per legge, un velo  turchino •  Una  traccia  della specificità dell'abito di gruppi emarginati,  anche  nella cultura popolare dell'inizio del nostro secolo, si trova in alcuni appunti  di  Raffaele  Corso:  nell'abito  di pacchiana di Cittanova (RC) le maniche  erano  staccate  dal giubbone  e legate ad esso con nastri colorati, di forma differente a seconda della condizione  di  nubile  o di maritata;  le donne di malavita indossavano  come  segni distintivi  nastri  rossi  e gialli •
Il giallo era usato come colore infamante anche nei confronti dei debitori insolventi, indicava il pericolo di peste sulle navi sospette nel XVI secolo a Venezia, era in dossato  dai detenuti a Napoli  nel secolo XIX •

    1. L'origine del costume

Lo studio dell'abito popolare non può prescindere, come ogni altro aspetto della cultura popolare, dalla dimensione storica.
È vero infatti che il «costume» popolare ottocentesco è ormai quasi scomparso in Italia; è vero anche, tuttavia, che l'abbigliamento popolare, anche urbano, conserva una specificità e diversità rispetto alle varie stratificazioni dell'abbigliamento piccolo, medio e alto-borghese. Si può tracciare agevolmente, ad esempio, una storia dell'abito femminile contadino dal primo dopoguerra ad oggi, individuando modelli quasi tutti, probabilmente, di origine urbana, ma inseriti, organicamente o meno, nella cultura contadina. La trasformazione decisiva riguarda invece, piuttosto che la specificità popolare dell'abito, la contrapposizione territoriale, cioè l'opposizione città-campagna che costituisce probabilmente uno dei fattori più significativi nella costituzione del «costume» popolare. Questo infatti sembra essere in maggiore misura espressione della municipalità e del territorio, piuttosto che del «popolare» contrapposto all'egemo ne. La storia dell'abbigliamento in Italia dimostra infatti quanto tardiva sia stata l'unificazione dell'abbigliamento e della moda presso le classi aristocratiche ; fino al secolo XVIII aristocratici e borghesia, nei borghi e nelle città piccole (cioè nella provincia), indossavano abiti specificamente legati al territorio, veri e propri «costumi», e con essi si facevano ritrarre•
Le origini del costume popolare  si fanno risalire,  da  P.



Bogatyrev, alle differenziazioni dei poderi e delle parrocchie, cui i proprietari terrieri avrebbero fatto corrispondere uno  specifico abbigliamento  per  i propri contadini:

re:

 
«Studiando i costumi locali dal punto di vista storico, ci si può rendere conto che, nella distinzione fra un costume e l'altro un ruolo importante toccava all'appartenenza alle vecchie parrochie dei secoli XVII e XVIII. Nel costume di tutti i giorni, che, come si è già detto, è molto semplice, le differenze dell'abbigliamento soprattutto maschile, non balzano agli occhi. Ma nei giorni di  sta le differenze e le pecurialità risultano tanto più evidenti. E poi ché la diversità di abbigliamento di persone riunite nella stessa chiesa avrebbe potuto fornire alla nostra focosa popolazione ilpretesto per burle tali da suscitare offesa, si spiega benissimo perché in passato in ogni parrocchia si indossasse lo stesso costume; tanto più che ogni parrocchia era legata ad un potere laico che, al meno nella parte orientale della Slovacchia, mirava a differenziare i propri uomini, ad esempio, per mezzo dei risvolti delle giacce, i cui colri corrispondevano alle regioni (così si possono di stmguere le giacche, che fanno parte del costume di Nivnia, e anche quelle di Borsik, Hrozenkov, Vel'ka, Lhot, Brezova e di altre località)» 30 •                                                               '

I..:ipotesi di Bogatyrev, che instaura apertamente un legame tra costume e feudalità, è tutta da verificare per quello che riguarda l'area italiana. Conferme indirette possono es sere fornite, ad esempio, dall'uso del simbolismo araldico cioè dei colori del feudatario o del suo casato, da parte dei cavalieri e dei vassalli nei combattimenti cortesi ed anche in guerra, uso esteso ai soldati dell'uno o dell'altro condottiero o capo di stato, che faceva confezionare i loro abiti con i suoi colori araldici; da questo uso derivano, secondo
R. Levi-Pisetzky, le differenze di colori nelle divise militari. Usi analoghi riguardano l'abitudine di donare abiti con i propri colori ai membri delfa propria famiglia, i colori fissi delle livree dei servitori presso le famiglie aristocratiche, l'abitudine di alcune famiglie borghesi di adottare colori  fissi per  il proprio  abbigliamento abituale•
I..:adozione di colori araldici si manifestava anche come omaggio nei confronti di un conquistatore vittorioso o che entrava solennemente nella città; usi analoghi sono considerati l'abitudine di vestirsi in speciali occasioni dei colori del proprio comune (ad esempio a Milano nel XVII secolo), e l'adozione dei colori della donna amata nell'amore cortese e nei tornei.
Usi più recenti del cromatismo araldico possono riscontrarsi negli abiti·dei partecipanti ai palii e quintane delle città dell'Italia centrosettentrionale; questi abiti recano ciascuno i colori araldici della contrada, o del quartiere che gareggia nella manifestazione; anche i colori degli abiti dei calciatori, corrispondenti a quelli delle squadre di calcio, srebbero espressione di una identità, municipale o di quartiere.
Nella cultura popolare le tracce della feudalità si ritrovano, oltre che negli scambi economici che risalgono ad effettivi obblighi feudali (come ad esempio le parti della renita agr!co!a dovute dal colono al proprietario, o le «regahe»_ penod1che dovute dal mezzadro al padrone), anche in fatti che non appartengono strettamente all'ambito  econo-


mico, ma piuttosto a quello ideologico, o della «cultura contadina:» intesa in senso antropologico34• Testimonianze di ideologia feudale possono trovarsi in alcuni repertori di in tagli su legno o materie affini, nei quali gli artisti contadini o pastori hanno inciso non le proprie iniziali, ma quelle del padrone, eventualmente insieme allo stemma del casato; potrebbero interpretarsi allo stesso modo le iscrizioni gli stemmi, i simboli raffiguranti la nazionalità, le immai ni dell'Italia e dei reali, come espressioni di una «appartenenza» più larga, cioè nazionale • Alla stessa origine si può atfribuire la consuetudine, propria di l:ilcuni contadini e pastori calabresi, di 9ffrire oggetti intagliati in dono alla moglie del padrone •
Se è vero che su alcuni versanti della cultura contadina (in questo caso l'arte popolare) si possono rintracciare legami sia pur labili con la feudalità, nulla vieta di muoversi nella stessa direzione per quello che riguarda il costume; questo tuttavia sembra contenere piuttosto due tendenze diverse e opposte, l'una feudale, e l'altra comunale, costituita dal già  nominato  rapporto  con  la municipalità.

Abito  e identità

Uno degli aspetti più importanti nello studio dell'abito  è la questione dell'identità: l'abito conferisce a chi lo indossa una identità, consueta o nuova a seconda dei casi, e rappresenta l'espressione, visibile a tutti, di una realtà altrimenti non così evidente; l'abito quindi rivela, o nasconde, senti menti, ruoli sociali o professionali, una identità etnica o confessionale, l'affermarsi e l'esercizio di un potere e l'accettazione, o ilrifiuto, di esso. I..:abito costituisce una espres sione del «codice di abbigliamento» in uso in una data società, secondo l'espressione di Jacques Le Goff nell'analisi dei codici di abbigliamento e alimentari nel poema.Erec et Enide di Chrétien de Troyes; nell'opera letteraria analizzata emergono con molta chiarezza elementi che investono la sfera del sociale e del magico: la differenza tra la povertà e la ricchezza, l'abito come segno della regalità, i doni di abiti che compaiono nei riti di passaggio, e le valenze magiche dell'abito regale, espressione di una investitura di magia che precede o accompagna l'investitura cristiana del sovrano •

Ne / popolo dell'abisso, di Jack London, ilprotagonista, agiato ed elegante americano in viaggio a Londra   ac-
qmsta presso una bottega di abiti usati un abbigliamento completo da esponente della classe lavoratrice, e immediatamente si trasforma; l'atteggiamento della gente, in strada,  nei  suoi confronti  muta radicalmente:

«Ave':o fatto appena qualche passo per Ja strada, quando fui impressionato dal completo cambiamento prodotto dai miei nuovi vestiti sulla mia situazione sociale. Ogni vano servilismo scompari".a, dvant\ a me, nell'atteggiamento della gente del popolo, con cui vemvo duettamente a contatto. In un lampo ero diventato uno i lro. La mia   iacca logora, strappata ai gomiti, proclamava che 11 mio stato sociale era anche illoro. Eravamo ormai della stessa speci, e l'a1!lione di cui, fino allora, ero stato oggetto, si mutava m  fam1hantà  da compagni.



uomo poveramente vestito di fustagno, dal fazzoletto unto al collo, non mi prodigava più del sir o del governor. Mi dava, passando, del compagno. Parola dolce e piena d1 cordialità, il cui suono ha un  calore,  una intimità  senza pari. (...)
Il cambiamento sopraggiunto nel mio stato sociale, per il fatto di avere mutato abito, aveva altre ripercussioni, di cui fu necessario tener conto. Così imparai che era necessario quando attraversavo la via nei punti più ingombri di vetture, decuplicare la mia agilità per non essere travolto. Rimasi colpito di quanto, in proporzione diretta dell'aspetto dei miei vestiti, la mia vita era diminuita di valore. (...)
Ma per tutto ciò c'era un compenso. Per la prima volta, entravo in contatto con le classi popolari inglesi e imparavo a conoscerle dal vero. Quando, agli angoli della strada o nei pub, discorrevo con dei vagabondi o con degli operai, mi parlavano da uomo a uomo,  con naturalezza  e senza secondi fini.
E quando, finalmente, penetrai nell'East End, fui ben felice di con statare che quella paura della folla, già da me provata, non mi preoccupava  più. Ero diventato  parte di essa.
Il vasto e maleodorante oceano, in cui ero entrato, si era richiuso sopra di me. E la sola sensazione sgradevole che provavo, era la maglia da fochista che continuava  a rasparmi  la pelle» •

Nella storia universale dell'abbigliamento una delle più importanti linee di demarcazione è, infatti, tra ricchi e poveri, tra benestanti e miserabili. Questa primaria suddivi sione si riproduce anche nel costume popolare; ad esempio nella cultura tradizionale della Sardegna esisteva una netta distinzione tra ilcostume dei benestanti e quello dei poveri:

«Il costume del ricco aveva più nastri, aveva la roba più buona, il broccato, il grazia a pelo, come si diceva. C'era chi lo poteva comprare, mentre i poveri ne facevano a meno. Allora si mettevano le gonne di seta, e i poveri si mettevano il panno. C'era molta distinzione da ricco a povero, e guai, veniva criticato chi faceva questo sforzo di farsi a pari del ricco e domani doveva andare a comprarsi pane, pasta o zucchero in un negozio e lo lasciava senza pagare. Veniva criticato e molte volte veniva anche negata la spesa a chi faceva queste cose» •

Particolarmente significativa è l'identità di potere che può essere fornita dall'abito, la quale spesso si oppone o si sovrappone all'identità etnica o nazionale. In Costume and Jdentity, studio dell'abito presso le popolazioni Swazi dell'Africa sudorientale, Hilda Kuper  propone  una  distinzio­  ne dei termini che indicano l'abbigliamento, nel modo seguente: c/othing, come termine più generale, che indica l'abbigliamento; dress, per l'abito indossato nelle occasioni quotidiane; uniform, per l'abbigliamento prescritto per i cerimoniali laici; costume, per l'abbigliamento rituale, cioè necessario  all'efficacia  dei  rituali  di  carattere  religioso 40 •
Nel testo di Kuper sono anche individuate  alcune  delle più importanti tipologie di abbigliamento della cultura Swazi, tra le quali si citano gli abiti da caccia o da ricerca dell'avorio, gli abiti per  gli interventi  terapeutici,  gli abiti per la caccia reale, gli abiti del fabbro, e particolarmente gli abiti da divinazione, che esprimono un gusto molto individualistico, con  inserti  di elementi  di abbigliamento  appartenenti ad altri ambiti d'uso. Interessante rispetto al nostro discorso  è però  soprattutto  l'analisi  dell'uso  degli  abiti tradì-


zionali nelle cerimonie e nelle riunioni dei movimenti politici per l'indipendenza dal dominio coloniale, e successivamente, da parte dei membri della famiglia reale e dei dignitari, nelle cerimonie che accompagnavano le varie fasi del la conquista dell'indipendenza, e nelle odierne cerimonie anche internazionali; si può analizzare agevolmente, in questo caso, ilpassaggio del costume dall'uso tradizionale ad una  funzione di identità nazionale •
Nella storia della cultura europea, come in molte altre culture, l'abito dei popoli conquistatori o invasori viene imposto ai popoli dominati ; così è attraverso l'abito stesso che si può manifestare una reazione alla cultura dominante: nel secolo XVI alcuni nobili fiamminghi indossarono abiti di colore berrettino (celeste-grigio) per protesta contro il nero prevalente negli abiti dei conquistatori spagnoli:

«Chi seguita il berrettino, per significar d'esser gabbati, il qual colore è da Greci Dorici chiamato Cilone, perché i Dori, come scrive Giulio Poluce, così chiamano l'Asino: e fu presso a gli Egittij tenuto questo colore infausto, onde l'Asino fu odiato, e dispregia to da loro sopra ogni animale, trattandolo da animale demoniaco, e impuro. Per questo i Signori Fiammenghi nel principio delle moderne divisioni di Fiandra, come il Prencipe d'Orange, e il conte d'Agamonte con molti altri presero il vestito berrettino, significando occultamente d'esser gabbati, e dispregiati dal governo de' Spagnuoli» •

Non soltanto l'abito nel suo insieme, ma anche solo alcuni elementi di esso, come ilcolore, o un copricapo, possono essere assunti come segni di una identità, di una na zione, o più semplicemente di un gruppo all'interno di una comunità, come testimonia questa nota, che descrive l'uso
-segnico, simbolico, magico-rituale -di un berretto rosso posto in cima ad un albero gigantesco, a Biassa di La Spezia:

«A proposito del matrimonio, è molto radicata in Biassa una leg genda secondo la quale, in epoca molto remota, nel piazzale, dove poi doveva sorgere la chiesa, era allevato con molta cura un albero gigantesco. Sul ramo più alto di questo albero era stato posto un berretto rosso (il berretto stesso indossato dai biassèi). Questo berretto aveva caratteri sacri avvenendo alla sua ombra le sanzioni matrimoniali ed i passanti dovevano inchinarlo -pena in caso contrario la morte. albero aveva, naturalmente, la sua guardia d'onore permanente e bene armata. Un membro oggi rappresentante forse la famiglia più cospicua del paese, mi raccontava che un suo parente d'allora avendo un giorno tirata una fucilata al berretto rosso (probabilmente  per odio di parte)  fu arrestato e condannato a morte. Si salvò solo perché il sommo sacerdote di quello strano rito testimoniò all'ultim'ora di aver ricevuto in confessione dal Rossi che la pallottola perforatrice del berretto sacro gli era sfuggita inavvertitamente dal fucile e solo per una strana combinazione aveva seguita quella direzione. Ma per la cro nistoria dell'albero vi ha di più. epoca doveva essere satura di discordie intestine, perché la leggenda dice che ai piedi dell'albero si agitava una fazione. Questa fazione affrontava i passanti al gri do di "Chi viva?". Se il passante rispondeva "Viva Gesù Cristo  e la Madonna" era subito fucilato - se invece gridava "Viva la libertà" (le parole dovevano essere sacramentali) lo si trattava da amico ed all'occasione lo si festeggiava» •



Il testo è troppo breve e totalmente separato dal suo con testo sociale e rituale perché si possa tentare una plausibile interpretazione, anche considerando che a detta dell'autore gli eventi vengono desunti dal repertorio leggendario della comunità; il berretto rosso sembra avere assolto molteplici funzioni, come segno della sacralità dell'albero, come oggetto divenuto sacro esso stesso, e come simbolo di uno o più gruppi («fazioni» come dice l'autore) all'interno della comunità.

    1. Il  «nostro costume»

Per tentare di comprendere e definire una ideologia del costume, è necessario riprendere il testo di Bogatyrev e citare la sua definizione di «nostro costume» come insieme delle singole funzioni  del costume  e funzione essa     stessa:

«La struttura generale  delle  funzioni  si  presenta  come  qualcosa di unitario, dotato di una particolare funzione, diversa  da quelle  che, come elementi singoli,  compongono  l'insieme  della  struttura. Questa funzione viene talora designata dal popolo come "il nostro costume"; ciò non indica solo la funzione, dell'appartenenza regionale, ma rinvia a  una  particolare  funzione,  non  deducibile da tutte le altre che compongono tutta la struttura nel suo complesso. Vediamone l'analogia con la lingua: la lingua materna, come il "nostro costume", possiede la funzione di struttura delle  funzioni. Noi la preferiamo a tutte le altre lingue non solo perché dal punto di vista pratico la consideriamo la più comoda  per  esprimere i nostri pensieri, non solo perché ci sembra la più bella (benché la nostra lingua materna, come il nostro abbigliamento, non siano sempre per noi i più belli, anzi: una lingua e un abito a noi estranei, in quanto più esotici, possono essere considerati più bel­   li; né la lingua materna, né il costume nazionale possono essere sempre considerati i più pratici:  la lingua può  risultare  inadeguata ad esprimere i pensieri in questo o quel paese, il costume nazionale può risultare scomodo per lavorare). La lingua materna, come anche il  "nostro costume", sono preferiti  perché  più  vicini  a noi, e proprio in questo si percepisce e si manifesta la funzione della  struttura  di  funzioni.   (...)
Analizzando il concetto di "nostro costume", possiamo vedere come vi si mescoli un'evidente sfumatura emotiva. Cerchiamo di ca pire di che cosa si tratti. l;osservazione della vita nei cosiddetti "popoli primitivi" dimostra che per costoro il costume è stretta mente e intimamente collegato con chi lo indossa. Qualcosa di simile si osserva presso i popoli europei in tutta una serie di atti magici. Per impadronirsi di qualcuno, si compiono atti magici sui capelli della persona, sulle impronte dei suoi piedi e sui suoi abiti. Così presso i popoli emiopei ci si imbatte nella credenza che l'abito sia quasi organicamente legato con chi lo indossa. E, in base a questa convinzione della vicinanza fra la persona e il suo abito, si determina anche l'atteggiamento di tutta la collettività verso il "nostro costume": esso è vicino ad ogni singolo membro della collettività, così come gli è vicina la collettività stessa. E il rapporto reciproco fra il singolo membro e la collettività intera del villaggio si manifesta in alcune località in modo molto netto. Quando vi sono scontri e contese fra rappresentanti di diverse collettività, se è necessario mettere in ridicolo od offendere un gruppo estraneo, può essere sufficiente mostrare un atteggiamento di scherno verso i suoi segni; l'abito, la lingua, ecc., della propria collettività» •

Queste definizioni possono costituire ovviamente un  sem-


plice punto di partenza, specialmente se si considera la par ticolare vicenda italiana, in cui la tardiva unificazione nazionale non può non avere avuto i suoi riflessi anche nella morfologia del costume popolare e nella sua eventuale ideologia. È possibile tentare di analizzare, in situazioni ben de limitate nello spazio e nel tempo, se esiste una vera ideologia popolare del costume, o se piuttosto questa non appartenga almeno in parte alla cultura urbana. Il costume ha nella cultura popolare il segno di identità etnica: elementi di abito potevano essere assunti a segno di una comunità, come il éaregon dei contadini sloveni di Trieste, ferocemente deriso dai contadini diJingua italiana ; oggi le comunità alloglotte indossano in certe occasioni comunitarie il costume, come gli esponenti della comunità Walser di Rima (VC), che emigrati in varie città italiane indossano nel paese natale, per la festa del 15 agosto, alcuni elementi, rifatti, dell'antico costume popolare. Rima è infatti un paese in gran parte disabitato d'inverno. D'estate, per la festa del 15 agosto, i gruppi Walser ritornano nel paese, e indossano per questa occasione un costume per così dire parziale; durante la festa alcune parti del costume vengono vendute all'incanto • C'è da chiedersi tuttavia se questi significati così ampi non siano un fenomeno recente, derivante in par ticolare dalla scomparsa del costume, mentre in precedenza, quando il costume era ancora in uso, prevalevano nella cultura popolare altri significati come il rituale ed il quotidiano, le funzioni magico-protettiva, votiva, devozionale, la comunicazione della propria condizione nella comunità (nubile o scapolo,  o coniugati).
I..:ideologia del costume è stata invece abbondantemente praticata nella cultura borghese, come si è accennato in precedenza. In primo luogo il costume è stato erroneamente identificato con le classi popolari; per le quali invece il costume festivo, almeno nelle sue versioni più sfarzose, era spesso inaccessibile perché molto costoso.
Il costume popolare è stato inoltre  usato  come souvenir: ai primi del Novecento a Miazzina, sul lago Ma&giore, le turiste si facevano confezionare costumi del luogo48 ; lo  stesso accadeva in Valsesia, negli stessi anni, dove le signore italiane e inglesi in villeggiatura acquistavano il costume locale, per riportarselo indietro nei paesi d'origine • A Milano, sempre nei primi anni del secolo, era diffusa l'abitudine di vestire le balie e  le  domestiche  in  costume brianzolo ; in provincia di Caserta, è segnalato l'uso dei borghesi del luogo di scambiarsi visite, durante  il carnevale,  in  costume popolare •

    1. Comunità alloglotte o praticanti altre confessioni reli giose, comparazioni areali

Sull'origine feudale e territoriale del costume si incrociano orizzontalmente eventi storici come le immigrazioni, nell'area italiana, di comunità alloglotte o praticanti confessioni  religiose  non cattoliche.
In una linea di indagine storica, possono analizzarsi le lente trasformazioni e gli elementi più stabili nell'abbigliamento di queste comunità, trasformazioni avvenute attraverso la lunga consuetudine con le comunità italiane. In que-



 

sto senso, esemplare il caso delle comunità albanesi, che hanno conservato una specificità di abbigliamento, rispetto a quello dei gruppi italiani, ma certamente molto trasformato e «occidentalizzato» rispetto all'abito del paese originario. Ma anche i gruppi Walser di Rima e Rimella (VC), o di Macugnaga (NO), gli sloveni di Trieste, già citati, le comunità greche di Calabria, gli stessi albanesi di San Paolo Albanese (PZ), di Castrovillari (CS), di Piana degli Albanesi (PA), di Villabadessa di Rosciano (PE).i valdesi della Valle Pellice, indossavano abiti abbastanza differenziati dà quelli delle comunità di lingua italiana o di confessione cattolica; così Caterina Pigorini Beri, parlando delle donne greche della costa catanzarese, descrive con effetti teatrali il loro suggestivo  abbigliamento:

«Mancavano le greche le quali sono le ultime ad arrivare ai bagni: le greche dall'ampia e doppia gonna sulla lunga camicia bianca e dalla berretta quadrata ricamata d'oro, una specia di chesa sulle chiome nascoste e avviluppate; il giubbino trapunto a trine di colote coi lunghi maniconi ricadenti fin sulle ginocchia e il grembiule rialzato; aggiungete ora la scimitarra turca e avrete una specie di  sultana armata» •

Altra linea di indagine potrebbe essere quella delle comparazioni areali, linea in  realtà  pochissimo  praticata  fino  ad ora per quello che riguarda il costume • Per quanto questo tipo di analisi non sia dei più aggiornati, può essere utile anche in queste indagini tenere presenti le aree di diffusione di alcuni elementi del costume, come, ad esempio, l'area meridionale del fazzoletto «tovaglia»  e del grembiu­  le quadrato, o l'area settentrionale del fazzoletto bianco usato  per  il lutto.

3. L'abito  professionale  e l'abito urbano
Nelle multiformi stratificazioni di cui è costituita la cultura popolare è possibile individuare alcuni gruppi che, almeno fino all'inizio del nostro secolo, indossavano abiti specifici e correlati alla propria attività lavorativa. Più che della sottile indagine di Bogatyrev (sull'uso del costume antico, o di determinati colori, da parte di alcuni gruppi professionali, come ad esempio i mugnai), si intende qui fare uso di distinzioni più grossolane, data la scarsità di studi sull'argomento per quel che riguarda l'area italiana. Il collegamento tra abito e mestiere è infatti duplice:  da un  lato si parla di elementi di abito direttamente funzionali allo svolgimento dell'attività lavorativa, ed eventualmente indossati solo o prevalentemente durante il lavoro; dall'altro possono costituirsi complessi di abbigliamento non direttamente funzionali, o non più tali, ma volti a costruire anche attraverso l'abito una identità specificamente collegata al mestiere. Tra l'uno e l'altro fatto esistono ovviamente situazioni intermedie, soprattutto per quello che riguarda quegli elementi di abito in origine funzionali al mestiere ed in seguito indossati esclusivamente come segno di identità professionale. Particolarmente interessante quindi, in questa linea di indagine, può essere l'abbigliamento di quei gruppi che si trovano in una condizione strutturalmente diversa da quella contadina, come ad esempio gli artigiani, o dei gruppi


mobili, che, pur appartenendo alla cultura popolare di etnia italiana, si collocano in una condizione di opposizione rispetto ai gruppi stanziali agricoli, secondo l'antica oppo- sizione tra mobilità  e stanzialità 54 •
Alcune indicazioni nella letteratura sull'abbigliamento popolare italiano forniscono notizie sull'abito degli artigiani, segno  della  relativa  agiatezza  degli  artigiani  professionali e della particolare posizione da essi occupata all'interno della cultura popolare. Già nelle classi agiate coloro che rappresentavano cariche pubbliche o esercitavano alcune pro fessioni" liberali indossavano abiti di particolari colori, come i medici dei secoli XIV-XV-XVI, a Firenze, vestiti prevalentemente di nero  o di  rosso,  o i  lettori  dell'università di Bologna nel Rinascimento, che si distinguevano per facoltà attraverso i colori dei loro abiti, nero, viola  o porpora; nel secolo XVII, in Umbria, i medici erano vestiti con mantelli di colore paonazzo (un colore intermedio tra il viola e il blu);  nel  XVIII  secolo  professori  d'università,  medici e avvocati cominciarono ad usare  questi colori  solo durante l'esercizio della loro attività • Così nella cultura popolare, sin dal secolo XII, possono individuarsi alcune carat teristiche dell'abbigliamento degli artigiani, come quello degli arrotini nel secolo XII; dei falegnami e muratori nel secolo  XIII;  dei mugnai  nel  secolo XV 56 •
Diversa indagine richiedono gli abiti o gli elementi dell'abito direttamente funzionali al lavoro artigiano e solo per esso indossati: i bianchi vestiti di mugnai e panettieri; i camiciotti dei fabbri; i grembiuli di cuoio dei calzolai, le uni formi azzurre dei ferrovieri, i grembiuli di alona dei barilai messinesi, i camiciotti bianchi degli imbianchini genovesi57 • Accanto alla funzionalità pratica di questi abiti, ovviamente primaria, si possono leggere elementi simbolici di identifi cazione con il proprio lavoro e con la materia lavorata e trasformata attraverso di esso (il colore bianco in rapporto alla farina ed alla pasta, il cuoio in rapporto con il cuoio da lavorare, eccetera), come se al mimetismo utilitario si aggiungesse un mimetismo simbolico; estremo esempio di mi metismo con la materia è il caso dei rematori veneziani del secolo XVIII, che nelle battute di pesca per i signori veneziani indossavano abiti verdeazzurri allo scopo di non spaventare la preda 58 • Nell'area settentrionale il blu e l'azzurro erano usati in abiti di lavoro: i pantaloni di velluto blu, usati largamente oltre confine, erano stati importati dalla Savoia nel Piemonte dagli operai frontalieri 59; i facchini genovesi della dogana e porto franco usavano un corto gonnellino di cotone blu60 ; il grembiule blu è ancora usato dai contadini nell'area atesina; azzurre erano le antiche divise dei ferrovieri, ecc.61 •
Anche i contadini sardi avevano, insieme all'abito usato quotidianamente per il lavoro, abiti direttamente funzionali ad alcuni tipi di lavori agricoli: i peddis o pannus de anànti, grembiuli di cuoio o di panno, venivano usati in numerose occasioni di lavoro, mentre mezze maniche (mangittus) venivano usate particolarmente per la mietitura, insieme a ditali di cuoio o canna, per proteggere le mani e le braccia  dal logorio e da eventuali colpi di  falce62 •
Tra i più conosciuti abiti professionali è da  considerarsi






 


l'abbigliamento dei pastori, che nella versione usata per il lavoro era molto simile in tutta l'area continentale italiana, con le eccezioni significative della Sardegna e dell'arco alpino. Questo abbigliamento era caratterizzato dalla effettiva e persistente funzionalità dei suoi elementi, e da una stret ta correlazione con l'attività esercitata. I pastori,  di ovini  o di bovini, facevano uso di abiti di pelle di animale (giacche, guardamacchia, fasce per gambe) o di stoffa (mantelli) per proteggersi rispettivamente dal freddo o dal vento durante la transumanza e le ore passate all'aperto; si usava il materiale più immediatamente disponibile, cioè la pelle degli animali allevati. l;abito costituito per la maggior parte di pelle animale rappresenta una scelta che investe la sfe ra tecnologica ed economica, e insieme un elemento simbolico di identificazione con quegli animali che sono la prin cipale cura e fonte di sussistenza63 • I pastori coperti di pelli si vestivano , per così dire, da bestie, e non in funzione au todenigratoria, ma con la fierezza della propria condizione che è tipica delle società pastorali. A Capracotta (IS) il pastore Giacomo Venditti ha descritto l'abito che indossava da pastore, nella sua giovinezza,  come un abito decorato  e portato con orgoglio: la giacca di pelle di pecora (pellicciòné) era tutta ornata di bottoni di vari colori e di pezzi  di pelle marocchino, policroma 64 •

{;abbigliamento in cuoio conserva infatti ancora oggi un suo carattere di aggressività, legato com'era, in origine, alle culture degli allevatori e soprattutto dei cacciatori; l'abbigliamento in cuoio ha contraddistinto  alcune categorie  di
«duri» o presunti tali, tassisti, camionisti, motociclisti, punk, blousons noir degli anni '50, figure legate in qualche modo alla strada e ad un reale o preteso nomadismo. Nelle sue versioni più «nere», l'abbigliamento in cuoio diviene l'emblema, dei bracci armati delle dittature (nazisti, fascisti), o dei riti e comportamenti sessuali della componente sadomasochista.
Altri gruppi professionali legati alla cura e allevamento di animali, come i massari, o i guardiani delle grandi aziende agricole in Calabria, vestivano abiti di foggia brigantesca, e indossavano cappelli decorati con spilli dalle capocchie lucenti65 ; questo modo di apporre abbondantemente spil­  li, o bottoni policromi, o spille con segni vari, documentato presso gli antichi guardiani delle aziende calabresi, presso i pastori del Molise descritti più sopra, e oggi negli abiti dei giovani mafiosi calabresi, in occasioni cerimoniali come pellegrinaggi a santuari, si ricollega almeno in apparenza alla distribuzione dei gradi e delle medaglie nelle divise militari, ed è certamente segno di una fierezza e di una
«valentia», pacifica  o no, individuale  o di  gruppo.
La specificità dell'abito pastorale sembra mantenersi anche nell'evolversi di alcuni elementi dell'abito; sempre a Ca pracotta, nel corso dei primi decenni del secolo XX era usato dai pastori un particolare tipo di pantaloni, con la cinta alta, tutti foderati di lana, non assimilati agli altri abiti. I.;abito dei pastori di Capracotta nel secolo XX era indossato dai carbonai; questi costituiscono infatti un altro gruppo mobile  rispetto  alla comunità contadina stanziale 66 •
Per gli abiti dei pastori  di altre regioni possono   citarsi


gli abiti di tipo greco di alcuni gruppi di pastori calabresi67; gli abiti dei bergamini, pastori di bovini transumanti dell'area bergamasca, che usavano mantelli funzionali al ri paro dal freddo notturno, e simili a quelli dei pastori dell'Italia centromeridionale, e che indossavano un abito particolare con pantaloni corti al ginocchio, ghette, cappello rotondo scuro68 ; gli abiti dei pastori della campagna romana 69; gli abiti dei pastori siciliani7°.
I gruppi mobili si distinguono all'interno del mondo popolare anche attraverso il vestiario. Così i carrettieri ed i mediatori, nella Val Leogra, portavano come segno distintivo un fazzoletto al collo71 ; i carrettieri canavesani indossavano un berrettone a sacco di maglia rosa e nera72 • Si di stinguevano, anche attraverso l'abito, i Kramari (merciai ambulanti) della Carnia73, e gli spazzacamini valdostani74 • Gli abiti dei venditori e lavoratori ambulanti aprono prospettive alla problematica dell'abito urbano, per via dei numerosi contatti con la cultura popolare urbana, e gli elementi culturali assorbiti  attraverso i continui spostamenti75 •
l;abito popolare urbano presenta, infatti, numerosi e cospicui motivi di interesse, anche se è stato finora poco studiato. Solo alcuni abiti indossati nell'ambito delle classi popolari sono abbastanza conosciuti, in genere a causa di alcune caratteristiche particolari, e in qualche modo assimilati al costume delle campagne: si vedano ad esempio per il secolo XIX l'abito delle donne genovesi, caratterizzato dal noto mezaro, l'abito delle donne veneziane, con scialle triangolare, o l'abito delle minenti romane 76 • Un'altra tipologia di abito urbano è costituita dall'abbigliamento dei vendito ri ambulanti delle città; i loro abiti tuttavia possono essere studiati solo indirettamente, attraverso le immagini fotografiche, gli acquerelli, le tempere, le stampe del secolo XIX. Le descrizioni relative all'attività dei venditori ambulanti non prestano sempre la dovuta attenzione all'abito, ma piuttosto al tipo di commercio esercitato, o alle grida. Tra le classiche descrizioni possono citarsi quelle del Pitré, che in molti casi si dimostra attento all'abito di venditrici di uova, di mestolaie, di venditori di scope, di venditori di terra cotte, di acconcia-tegami, di venditrici di cesti e ventagli; questi abiti non si distinguono da quelli usati comunemen te nelle classi popolari urbane, tranne nel caso dei vendito ri di verdure, e di pesce, che presentano un abbigliamento diversificato perché si tratta, rispettivamente, di contadini e pescatori77 • Alcuni abiti di venditori ambulanti sono direttamente funzionali al tipo di attività esercitata, come i camiciotti o grembiuli dei sorbettieri di Napoli78, o il lungo pastrano dei caffettieri ambulanti di Napoli o siciliani, che ricordano in un certo modo le divise di lavoro usate dagli operai nelle fabbriche79 •
Altri abiti urbani, desunti dal già citato repertorio di stampe e di descrizioni ottocentesche, che indulgono sovente al pittoresco, sembrano costituire una rielaborazione popolare di modelli di abbigliamento propri di altri ambiti o gruppi sociali; oltre al caffettiere ambulante, che come si  è già detto veste un abito di tipo operaio, possono citarsi l'abito delle guide (dette «Ciceroni») alle solfatare di Pozzuoli, che appare simile ad una divisa civile80,  e l'abito  del


I.: abbigliamento popolare italiano


cantastorie, che particolarmente nell'area di Napoli ha avuto importanti ed accurate descrizioni. I contastorie napoletani declamavano ad alta voce, leggendole, storie epicocavalleresche, incentrate soprattutto sul ciclo carolingio; essi erano infatti chiamati Rinaldi dal nome del più famoso ed amato dei paladini cristiani, e lavoravano soprattutto sul molo del porto, dinanzi ad un pubblico costituito prevalen temente di pescatori; dalle descrizioni di Pio Rajna, del 1878, l'abbigliamento dei contastorie appare assimilato ad un abito borghese di tipo elegante ma in disuso, prevalentemente nero, con giacca, panciotto, pantaloni, cappello di
paglia o berretto nero, e in un caso orecchini ad anello alle orecchie81 . Nelle stampe ottocentesche e nel volume di De Bourcard, del 1853, documenti più antichi del testo di Raj na ma come si è detto in maggiore misura volti al pittoresco, l'abbigliamento del contastorie napoletano appare visibilmente di tipo antiquato: cappello, frac a lunghe code, occhiali, due fazzoletti, uno bianco e l'altro colorato, pantaloni, scarpe, panciotto, cravatta fuori moda; da questo abbigliamento viene distinto quello dei cantastorie che narravano cantando (e non leggendo) storie di miracoli o sto
rie lacrimevoli; questi lavoravano in varie piazze della città, o davanti all'edificio della dogana, e indossavano una giacca lunga, talvolta bianca come quella dei cuochi82• eabito del contastorie riflette ed amplifica lo status sociale di questo artista nella cultura popolare urbana, particolarmente di Napoli; nel suo abito nero, e particolarmente nel frac a code, il contastorie ha dell'attore (si pensi all'utilizzazione dello stesso genere di abito un secolo più tardi, da parte di Totò e di Charlot, forse attraverso la mediazione dell'abbigliamento del clown circense Leale) 83 , e dell'intellettuale, magari definito nella cultura popolare il  «profes
sore»; l'unione di teatralità e intellettualità richiama immediatamente un altro protagonista degli spettacoli di piazza, il ciarlatano, il cui abbigliamento nei secoli più recenti sembra presentare alcune analogie con quello qui descritto del contastorie 84
Non possono evitarsi, in questa sede, anche alcuni accenni all'abito degli operai. Nella fine analisi di Aris Accornero, viene individuato un passaggio dalla dicotomia abito da lavoro I abito della festa, nella quale era implicito che non esistevano differenze tra l'abito usato durante lo svolgersi di un lavoro e l'abito per recarsi al lavoro; in seguito, con l'introduzione nelle fabbriche degli abiti da lavoro e poi delle tute blu, cambiano lentamente anche le caratteristiche dell'abito per recarsi al lavoro, e quelle dell'abito da festa, in via di sparizione. In una prima fase quindi l'introduzione dell'abito da lavoro nelle fabbriche sembra essere una prerogativa delle categorie di operai più qualificate, tant'è vero che gli operai meno qualificati, muratori, cavatori, scalpellini, allo stesso modo dei braccianti, scrive  Accornero,
non indossano specifici abiti da lavoro; la divisa di lavoro è un segno positivo di status all'interno della cultura popolare; in seguito, invece, la progressiva attuale tendenza alla sparizione delle divise da lavoro sembra qualificarle negativamente. Nel testo di Accornero vengono analizzate le di verse funzioni degli abiti da lavoro in fabbrica, con le  dif-


ferenze che sottolineano le diverse gerarchie di operai all'interno dell'azienda, e che definiscono la tuta o la divisa di lavoro segno dei lavori più umili, con i quali ci si insozza maggiormente; la tuta diviene poi un emblema della  con
dizione proletaria, e viene indossata con fierezza nelle ma nifestazioni  di piazza dagli anni '60- '70.
Un abito che indicava una condizione professionale, sia nelle città che nelle campagne, è, infine, quello delle nutrici; si è già citato l'esempio delle balie e delle domestiche originarie della Brianza, che lavoravano a Milano e che in dossayano il costume brianzolo (si veda la nota 50); nell'area siéiliana le balie vestivano di nero, o invece, nell'uscire fuori dalle case dove prestavano servizio, indossavano un costume  ben  curato  e  piacevole  a vedersi:

«La nutrice fuori di casa è come un oggetto di lusso per la fami glia che la tiene: e perciò va vestita con un certo costume non ordinario per altre donne della sua condizione, un costume attraente»86.

È possibile, forse riflettere sul duplice significato di questo tipo di abito delle nutrici; da un lato, èè il riconoscimento di una identità e di una origine diverse da quella dei signori di città che le danno lavoro; identità ed origine che vanno rispettate, anche perché sono la garanzia della qualità del servizio prestato (nell'implicita equazione campagna salute-buona qualità del latte); dall'altro, la diversità espressa nel costume viene in qualche modo asservita, attraverso la cura della confezione e l'eleganza, alle esigenze di prestigio delle classi borghesi e aristocratiche urbane; è forse anche
da considerare che le balie avevano una condizione ed un ruolo privilegiati  nei confronti delle comuni  domestiche 87.

4. Quotidiano. Festivo. Rituale
La classificazione di Bogatyrev relativamente all'abito, suddiviso in quotidiano, festivo, solenne, rituale, va probabilmente rivista, soprattutto  perché  scompone  in più  parti la categoria del rituale; si può invece verificare positivamente la sua ipotesi sulla prevalenza di passaggi dell'abito dal quotidiano  al  rituale,  piuttosto  che  il  contrario,  anche  se non
mancano dati in questo senso né nell'analisi di Bogatyrev stesso88, né in alcuni dati relativi  all'area  italiana89.
Resta però prevalente, negli  esempi citati da Bogatyrev,  il  passaggio  quotidiano  --+  festivo  --+  solenne --+ rituale.
Bogatyrev privilegia (giustamente) l'abito quotidiano, come elemento maggiormente dinamico (cioè quello in cui si sono verificate con maggiore consistenza le trasformazioni, ad esempio l'influenza del gusto urbano, degli abiti di eventuali invasori o di altri popoli con i quali si è venuti   a contatto, ecc.). eabito rituale consiste invece in molti casi dell'abito quotidiano in disuso; ciò conferma il valore dell'elemento deln<antico» nell'ideologia del costume. Del resto, ciò avviene anche al di fuori della cultura popolare:  il
tight usato dallo sposo nelle nozze dell'alta e media   bor
ghesia, fino a pochi anni fa e talvolta anche oggi, non è altro che un abito quotidiano ottocentesco, con giacca a due code e cappello  a cilindro.




Per la cultura contadina  dell'area  italiana,  il  passaggio da quotidiano a rituale si riscontra ad esempio  nella  Carnia, relativamente all'uso del quadri,  antico  fazzoletto  di uso quotidiano, usato invece negli anni '60 del nostro seco­  lo come  segno di lutto,  cioè come elemento  rituale9();   ciò
avviene anche per il ve/, elemento del costume femminile dell'area carnica 91 . Altri dati indicano il passaggio dal quotidiano al festivo o al «costume»  propriamente  detto per il collettu sardo92, e per altri elementi parziali dell'abito93 . Tra i Wro.ser di Rimella (VC) il costume femminile tradizio
nale, detto pattu, non viene più  usato da circa cinquant'an­  ni nei giorni feriali, evidentemente sostituito da un abbigliamento più vicino alla moda attuale, ma viene ancora usato  in molti casi nei  giorni  festivi94.
Quanto all'abito quotidiano, è necessario distinguere tra l'abito indossato dai contadini per lavorare, e l'abito indossato per occasioni come la fiera ed il mercato, probabilmente diverso  dal primo  e più  vicino  all'abito  festivo95 .
A proposito del passaggio di capi di abbigliamento da una cultura all'altra, e da una funzione all'altra all'interno di una stessa comunità, è utile forse notare la presenza massiccia di abiti militari, o di stili, desunti da abiti militari, nell'abbigliamento popolare; contadini piemontesi, nel secolo XVIII, usavano divise militari per alcuni lavori agricoli, come l'aratura 96 ; molti costumi, soprattutto festivi, dell'Italia settentrionale presentano numerosi elementi di tipo militare (come giacche, decorazioni alle maniche, asole e bottoni). Generalmente gli influssi militareschi nel costume vengono attribuiti alle numerose guerre, ed alle con tinue invasioni straniere che si sono succedute nei secoli nell'area italiana; in modo più sottile tuttavia può essere con siderato anche, per i secoli XVIII e XIX, l'influsso del progressivo diffondersi, tra i sovrani, i personaggi di corte, gli alti funzionari e gli alti gradi militari, dell'uniforme e della
divisa civile97; elementi culturali arrivati, quindi, alle clas
si popolari non solo attraverso la guerra e le invasioni, ma anche come modelli di prestigio e di agiatezza, da imitare. Altri elementi dell'abbigliamento sembrano invece desunti da altri generi di oggetti: nel Seicento in Umbria le donne portavano sul capo uno sciuccatore (asciugamano), in lino se   erano   contadine,   in   tessuti   pregiati   se  erano molto
abbienti98 ; immediato sembra in questo caso il richiamo alla tovaglia,  copricapo diffuso nell'Italia  centromeridio
nale, che in alcuni casi assume la forma di una pezzuola  di piccole dimensioni, ma in altri, come ad esempio nell'area calabrese, è del tutto simile nella forma ad un classico asciugamano. Probabilmente la tovaglia, al pari di altri elementi interni dell'abito, come le camicie, presenta una ininterrotta continuità con gli elementi che costituiscono la bian cheria della casa, frutto le une e gli altri del lavoro domestico femminile.

Abito festivo e processionale

La distinzione di Bogatyrev tra abito della festa ed abito solenne (abito festivo e abito cerimoniale o processionale) sembra essere inadeguata per quello che riguarda la situazione  italiana.  In  realtà,  se  si  possono  individuare alcune


differenziazioni tra gli abiti usati nelle feste più comuni ed abiti indossati per le feste più importanti, il problema deve essere posto diversamente. Senza scindere l'abito dall'ana lisi  dell'intero  rituale  in  tutte  le  sue implicazioni.
Dalla ricerca fotografica effettuata, alla fine del secolo XIX e nei primi decenni del secolo XX, da Ignazio Cugnoni, Arrigo Ravaioli, Francesco Michetti, Luciano Morpur go99, sembra evidente che l'abito che i contadini indossavano per i pellegrinaggi non si differenziava molto da quello quotidiano, e ne costituiva soltanto una versione più presentabile e decorosa (indumenti più puliti e più nuovi). Gli elementi rituali dell'abifo erano costituiti da elementi ag giunti, di basso costo, ed estranei ad esso: ad esempio   i fio­
ri sui cappelli degli uomini nei pellegrinaggi di Vallepietra (RM)100 e Genazzano (RM)101, fiori tra i capelli per le donne a Vallepietra 102, oggetti portati in mano, ecc. Sono questi elementi rituali, talvolta dichiaratamente  effimeri  (come  i mazzi  di  fiori di carta) a trasformare  un  abito  quoti­
diano in un abito festivo; tale «rivestimento» effimero si estende spesso anche ai mezzi di trasporto usati per recarsi alla festa (carrozze, carri, autobus). È inoltre utile confrontare questi ornamenti con quelli usati per gli abiti di carne vale; anche questi ultimi, costituiti da abiti normali di un tempo, oggi in disuso, presentano numerosi elementi di ri vestimento effimero (nastri, fiocchi, fiori,  ecc.).
Solo presso i contadini agiati era possibile riscontrare l'uso di abiti diversi in diverse occasioni cerimoniali; nella piana di Palmi (RC) le contadine benestanti indossavano diversi tipi di abiti: abito per la messa; abito per le cerimonie speciali o per visite di convenienza; abito di seta nera per le visite  di condoglianza .
Altro è invece l'abito indossato per la parte ufficiale e spettacolare delle processioni, che è un abito speciale; si vedano, come esempio tra i numerosissimi casi, l'abito per la processione  del Venerdì Santo a Varallo  (VC) 104,  gli  abiti
degli esponenti delle confraternite addette alle processioni, gli abiti delle Zitelle nel  pellegrinaggio  di  Vallepietra  (RM) 1 , gli abiti delle Verginelle di Rapino (CH) e delle bambine biancovestite alla Festa del Perdono di Orsogna (CH)I06.
A proposito di questi abiti occorre notare che essi almeno in parte, proprio per il loro carattere di ufficialità e spet tacolarità, sono indossati da persone appartenenti a gruppi sociali più privilegiati (ad esempio artigiani, nel caso delle confraternite), o comunque più legati alla Chiesa o ai gruppi organizzatori delle feste, mentre i contadini rimangono spesso, probabilmente, fuori da questo circuito; si pensi inoltre al costo di simili abiti, anche se è possibile che essi non fos sero sempre di proprietà di coloro che li indossavano. La condizione culturale non contadina è particolarmente evidente nel ricco abito di Varallo, che è simile a quello delle statue della Madonna Addolorata; evidentemente le partecipanti alla processione dovevano, attraverso l'abito, rappre sentare questa immagine e con essa identificarsi. Allo stes so modo, non sono certo contadine alcune delle zitelle di Vallepietra, che sono vestite in abiti di colore bianco ma tagliati alla moda. Èpossibile inoltre che tali abiti siano abiti

da sposa, così come nelle attuali processioni delle Verginelle le bambine indossano gli abiti della prima comunione. Alcuni di questi abiti processionali hanno probabilmen
te funzione votiva, come si può  ipotizzare,  in  particolare, per le bambine vestite  in abito monacale  nella  processione di Francavilla al Mare (CH) 107 , e per la bambina vestita da angelo nella festa delle Verginelle a Rapino  (CH) 108 •  Ma più che la funzione votiva, sembra emergere, insieme ai significati connessi al rituale in generale, un atteggiamento mimetico  nei  confronti  della   divinità.
Legato probabilmente ad una funzione votiva, o espressione di un atteggiamento penitenziale, è l'uso di donare gli abiti alla divinità nei santuari, uso riscontrato in tutta l'area italiana e particolarmente nell'area centro-meridionale; nelle descrizioni di Giuseppe Pitrè compaiono numerosi i bambini che venivano spogliati davanti all'immagine della divinità, e lasciati nudi, o rivestiti di un abito votivo simile a quello del santo al quale la grazia veniva chiesta  o dal quale era stata ottenuta; gli abiti donati venivano poi distribuiti ai poveri. Quest'uso viene descritto dal Pitrè so prattutto per la festa di San Calogero in Agrigento  e per  le feste di San Rocco in Butera (CL) e in Realmonte (AG) e di San Sebastiano in Melilli (SR) 109•
La nudità come atteggiamento penitenziale non era del resto limitata ai bambini; proprio nell'area siciliana è riscon trabile, in vari luoghi, l'uso di partecipare alle processioni o alle feste seminudi, cioè vestiti solo di un panno che copriva la vita ed i fianchi; questi gruppi di penitenti,  detti    i nudi, e che indossavano anche, talvolta, altri indumenti rituali, come vesti da confraternite, fazzoletti, nastri, partecipavano alle feste dell'Ecce Homo in Canicattini Bagni (SR), di San Sebastiano in Melilli (SR), di Sant'Alfio Filadelfo e Cirino in Trecastagni (CT), di Sant'Agata a Catania 110.
La nudità, totale o parziale, ha certamente in questi casi, come si è già detto, un carattere di privazione e di penitenza; il corpo viene scoperto senza difese davanti agli occhi di tutti ed esposto, come nel caso dei battenti di Guardia Sanframondi (BN), agli atti aggressivi rivolti contro sé stessi (autoflagellazioni), le cui conseguenze (ferite e sangue) sono più spettacolari e a tutti visibili se avvengono nella nudità; è necessario tuttavia  notare che i nudi della festa di San Sebastiano a Melilli usavano procedere in alcuni tratti del percorso rituale con un braccio  alzato e l'altro dietro  la schiena, ad imitazione dell'iconografia corrente del santo martirizzato, così come i nudi dell'Ecce Homo di Canicattini Bagni indossavano mantello rosso e corona di spine, e con una canna in mano rappresentavano anch'essi una iconografia corrente, appunto quella dell'Ecce Homo; accanto all'elemento penitenziale si rileva, quindi, che l'abito o la nudità assumono in questi due casi funzione di mime si nei confronti  della divinità.
Un tipo molto particolare di abito festivo, certamente molto vicino al mascheramento, è quello delle madonnare romane alla festa della Madonna del Divino Amore a Roma 111 • Le madonnare costituiscono anche oggi associazioni rionali, esclusivamente femminili; durante l'anno   le


aderenti versano contributi settimanali alla presidentessa dell'associazione (quella che Zanazzo chiamava la cassaròla): i soldi accumulati in cassa servono per organizzare il pellegrinaggio alla Madonna del Divino Amore, le ottobrate (feste nelle domeniche  di ottobre),  ed in tempi  più  recenti le gite di Carnevale ed  estive 112 •  Il pellegrinaggio  al Divino Amore, effettuato il lunedì di Pentecoste, era seguito da un  raduno  sulla piazza  di Albano,  ove avveniva  la gara tra i pullman (in precedenza i carri), sia relativamente agli addobbi di fiori e di nastri del mezzo di trasporto, sia relativamente alle gare di canto e di ballo, sia soprattutto per il costume indossato. Ciaseuna associazione  infatti presentava, insieme al mezzo di trasporto addobbato e decorato, le sue aderenti vestite tutte del medesimo abito:  alla marina­  ra, o a modo della canzone Come pioveva, ecc. in tempi recenti; a modo del  Trovatore,  della  Tosca o della  Traviata e di altre opere, ai primi del secolo. Dopo la gara le madonnare giravano per i paesi dei Castelli romani, frequentando osterie e continuando a bere ed a mangiare; in questi giri alcune donne -quelle che non erano accompagna te da uomini -facevano a gara a provocare scherzosamente i maschi che incontravano, «prendendo di petto gli  uomini», secondo l'espressione della madonnara Ines. In questa festa l'abito costituiva una specie di divisa di lusso dell'as sociazione rionale; dopo la festa tuttavia l'abito veniva usato normalmente. Anche nelle ottobrate si unificavano alcuni elementi dell'abito, ad esempio relativamente al colore; gli abiti indossati per le gite di Carnevale costituivano  invece un  mascheramento   individuale.
Affini in un certo senso alle madonnare romane, e certa mente vicine anch'esse alla tematica del mascheramento, erano probabilmente le 'ntuppate o attuppateddi di Catania, donne appartenenti alle classi medie o medio-alte della società catanese, che nel giorno della festa di Sant'Agata (5 febbraio) giravano per le vie della città con un mantello di seta nera, che copriva interamente ilcapo, la schiena, il volto, ad eccezione di una fessura per l'occhio destro, perché chi indossava il mantello potesse veder fuori e muoversi liberamente in strada. In questo abito-mascheramento, in cui compariva il domino  di seta nera,  che per  molti  versi  richiama la fa/detta,  abito  nazionale  maltese,  e i mantelli  spagnoli, le 'ntuppate potevano, esclusivamente per il periodo della festa, uscire liberamente da sole, o insieme ad altre  'ntuppate vestite allo stesso modo, e violare alcune norme di comportamento normalmente  imposte  alle  donne,  come  entrare nei caffè, prendere sottobraccio amici e conoscenti e con durli presso i banchi dei venditori ambulanti a farsi offrire dolciumi o piccoli doni. Almeno a quello che si deduce dalle descrizioni del Pitrè e di Emilio Del Cerro, le 'ntuppate do vevano rendersi assolutamente irriconoscibili; nella condizione del mascheramento, che d'altro canto avveniva in occasione di una festa invernale assai vicina  al Carnevale,  alle donne  era  quindi  eccezionalmente  consentito  assumere in prima persona un atteggiamento, sia pure scherzoso, di provocazione sessuale 113 •  È possibile  valutare,  nell'ambito di questa eccezionale e annuale licenza di iniziativa e di invito  sessuale,  quanto  fosse  importante  la  mediazione del-



l'abito: si ricordino le già citate madonnare romane, che si divertivano a «prender di petto gli uomini», o, fatte le debite differenze  di status e di rispettivi  ruoli nella  società, i mascheramenti delle cortigiane veneziane, che usavano talvolta girare per la città vestite da uomo, o con abiti vedovi li, o da donna sposata 114• La tematica del mascheramento, o dell'abito-uniforme, direttamente legati alla provocazione sessuale, richiamarebbe qui la tematica del Carnevale, che tuttavia, per la sua ampiezza, non è stata volutamente inserita in questo discorso 115•
Sempre relativamente  alla  festa di Sant'Agata  in Catania, è descritto nel secolo XVII l'uso, da parte delle donne contadine provenienti dalla campagna, di recarsi alla festa portando gli occhiali, cioè un telo bianco ricadente dal capo fino a coprire tutto il volto, tranne due tagli all'altezza  de­  gli occhi per poter vedere e camminare; dalla descrizione dello storico seicentesco Pietro Carrera, citato dal Pitrè, que sto uso sembra avere avuto la funzione di nascondere agli occhi indiscreti e proteggere le donne che si recavano alla festa, soprattutto nei tratti isolati in campagna, e probabilmente anche di esprimere un atteggiamento  penitenziale  116•

6. Abiti votivi

Nel paragrafo precedente si è parlato di abiti votivi indossati nei pellegrinaggi, spesso nella parte spettacolare e pubblica della processione. Una modalità più intensa di abito votivo è invece l'uso di indossare, come ex voto, abiti par ticolari tutti i giorni. euso nel  nostro  secolo è documentato prevalentemente per i bambini, il che farebbe pensare ad un uso tra gli adulti nei secoli precedenti, secondo l'ipotesi del passaggio all'infanzia di  usanze  diffuse  in  precedenza tra  gli  adulti  (ad  esempio  giochi,  giocattoli).
I bambini erano vestiti con l'abito del santo cui si chiede la grazia, non solo nel giorno della festa, ma anche nei giorni feriali. In questo caso il comportamento votivo investe ambiti più larghi, e soprattutto il quotidiano. Quest'uso, e non a caso, esiste relativamente a santi monaci come S. Antonio Abate, S. Antonio di Padova, S. Gabriele 117• Anche tra gli adulti, soprattutto nel secolo XIX, si riscontrano forme di abiti votivi. Tra gli altri possibili, si cita il seguente esempio:

«Giuseppina Cacciola, nata a Sciglio di Roccalumera (ME) e deceduta nel 1963, fece nel 1906-8, quando abitava a Roccalumera, un voto alla Madonna del Carmine, oggetto di culto nel Santuario di Santa Teresa. Oggetto della formulazione del voto era la guarigione del figlio Carmelino, ammalato (in precedenza le era già morto un bambino). Giuseppina fece voto di vestire per tutta la vita di colore marrone (colore collegato alla Madonna del Carmine), e così fece, continuando a vestire di marrone anche dopo la morte del marito. Gli abiti di Giuseppina erano quasi dei costumi ammodernati, costituiti cioè di gonna, grembiule, camicia, fazzoletto, ma sempre interamente di colore marrone» 118 •
«A Bellante (TE) Domenica Leli,  nata nel  1938, ammalata  all'età di due anni per un colpo di sole, fu vestita sette anni dopo, per testimonianza della grazia ricevuta, di un abito simile a quello della Madonna Addolorata, per un anno intero. La sorella Maria  Leli, nata  nel  1931, fece voto a S. Gabriele nel  1959, quando    ilmarito


partì per la Germania, e vestì per  un  anno intero ininterrottamente l'abito di S. Gabriele (abito nero dei Padri  Passionisti);  il voto era stato  formulato  per  chiedere  il  ritorno  del marito»  119 ,

A Vazzano (CZ), durante la festa di San Francesco di Paola (fine agosto) 120, alla processione della domenica mattina erano presenti molti bambini che indossavano l'abito del santo. Da una breve ricerca sono emerse le diverse motivazioni che hanno dato origine alla confezione dell'abito, e all'uso da parte dei bambini: non in tutti i casi le motivazioni avevano un esplicito carattere votivo. In un caso, per una bambina di circa 10-12 anni, si era trattato di un incidente: la bambina aveva invocato il santo; in un altro caso, per una bambina di circa 4-5 anni, si è trattato di un sogno: la madre della bambina stessa ha sognato il santo, che le ha ordinato di vestire la figlia con il suo abito. Altri eventi sono all'origine dell'abito votivo: un incidente ai genitori di due gemelli di circa 4-5 anni; o il desiderio di porre il bambino (di circa 3 anni) sotto la protezione del santo, di votarlo ad esso, e insieme una valutazione estetica, il piacere di vedere il bambino vestito in tal modo. Dalla ricerca è emerso che tutti i bambini che indossavano l'abito votivo lo avrebbero tenuto per due o tre giorni; ma si tratta di un uso recente: in precedenza gli abiti venivano indossati fino alla consunzione. All'interno delle chiese venivano venduti i «cordoni benedetti di San Francesco», cinture di lana nera, _destinate a completare gli abiti votivi dei bambini, confezionati in casa, o per altri probabili usi di carattere magicodevozionale.
Abiti votivi indossati da bambini erano in uso, anche per il secolo scorso, in tutta l'area italiana centromeridionale; per l'area siciliana, è utile ricorrere ancora una volta alle descrizioni del Pitrè, tra le quali si rinvengono dati su abiti votivi di San Francesco di Paola a Palermo, di San Calogero in Agrigento, dei Santi Cosma e Damiano, di San Giovanni Battista, di Santa Rosalia a Palermo,  di San Paolo .  a Palazzolo e a Solarino (SR); gli abiti votivi, particolarmente quelli di tipo fratesco o monacale, avrebbero acquistato un carattere più intensamente penitenziale quando venivano confezionati con lana pesante (questo per le feste estive); tra gli adulti si rilevava ancora, nel secolo scorso, l'uso di indossare abiti votivi verdi di Santa Lucia, turchini e neri per l'Addolorata,  azzurri e bianchi  per l'Immacolata, marroni e bianchi per la Madonna del Carmine, neri e turchini per Santa Rosalia 121 •
Ancora in questi anni, durante il pellegrinaggio  e la  sosta al santuario della Madonna dei Polsi (RC) è possibile incontrare bambini e adulti che indossano abiti votivi. Da alcune notizie relative alla festa  della  Madonna  dei  Polsi del 1 settembre 1981, è confermato l'uso di abiti votivi anche da parte di adulti; nella fotografia n. 37 è ritratta una contadina che si era recata al santuario vestita di un abito marrone di tipo fratesco, abito che indossava permanentemente da quando era rimasta vedova, come ex-voto a San t'Antonio perché tutti i figli potessero sposarsi; la donna indossava per l'ultima volta questo abito, perché l'ultimo figlio  era  ormai  prossimo   al  matrimonio 122•



Anche nell'area italiana centrosettentrionale l'abito votivo era in uso; a Chioggia nel secolo scorso si descrivono abiti votivi di San Domenico o di San Vincenzo, indossati da bambini, o abiti neri con cintura nera detta «dell'Addolorata», indossati da ragazze orfane o donne adulte nella festa della  Madonna Addolorata 123•
A questo stesso ordine di fenomeni si rifanno probabilmente i miti che spiegano l'origine di alcuni costumi popolari.
A Parre (BG) i miti sull'origine votiva del costume sono due, e relativamente simili:

«Nel 1630, per ottenere dalla Madonna la grazia di essere preservati dalla peste imperante nel territorio, le donne promisero di vestirsi alla stregua di una popolana in preghiera davanti alla Vergine,  raffigurata  su  un  antico  stendardo  della  congregazione delle
«Figlie di Maria»; (...) nel 1700 fecero un voto analogo per ottenere la salvezza delle greggi da una moria terribile che le aveva colpite» 124•

Al costume veniva attribuita, nel secolo XIX, origine votiva anche nei paesi delle Tre Pievi superiori del lago di Co mo  (Dongo, Gravedona  e Sorico):

«Verso la metà del secolo decimo quarto mentre la pestilenza nella Sicilia, come in molte altre parti dell'Europa, grandissime stragi faceva, accadde che in una spelonca non molto distante dalla città di Palermo si ritrovasse il corpo della Vergine Santa Rosalia, alla quale avendo con fervidi voti i Siciliani ricorso ottennero che fosse quell'Isola da sì terribile morbo liberata. Avendo molti abitanti delle Tre Pievi superiori del lago di Como, che nella Sicilia per bisogno di traffico portavansi, ai loro cittadini dalla peste travagliati la fama di tale miracolo recata, essi pure le loro preci rivolsero alla miracolosa Rosalia e feste in di lei onore instituendo fecero voto da indi in poi di vestire ad imitazione della Vergine, il che costantemente osservarono ed anche a' dì nostro osservano. Consiste questo vestimento nelle donne in una tunica di panno di color di castagna colle maniche di scarlatto o d'altro colore vistoso, tagliata dinanzi sul seno, orlata nei lembi d'una striscia di scarlatto, ed annodata sui fianchi con un cintolo di pelle. Di dietro sotto al collo esce in cima alla tunica una pezzuola di lino bianco detto ilcollare, ed hanno avanti un piccolo grembiale della così detta indiana ricamato nei lembi a giallo od a rosso. Coprono la testa, entrando nelle chiese, di un pezzo di lino a guisa di velo. Annodano i capelli di dietro, quindi divisi in due treccie li avvolgono intorno al capo a mo' di corona. (...) Nei paesi però di Stazzona e Traversa come i più vicini ai borghi di Dongo e Gravedona alcuni incominciano a cangiare di vesti. Gli altri paesi però osservano tuttora  scrupolosamente  il loro voto» 125 •

Nel 1845 P. Monti scrive, a proposito dello stesso costume:

«Tonaca di panno bigio  stretta ai lombi con correggia  e fibbia. È per voto fatto più secoli sono a S. Rosalia pel ritorno in patria degli uomini di quei Comuni che erano in Sicilia a negoziare, dove infieriva la peste. Diconsi Moncecche dal loro monte Francesca, Mondonghe perché abitano i monti di Dongo, e Frate per ché la loro tonica  somiglia quella dei frati di S.  Francesco» 126•

Il costume  di Gallo  (CE):


«È uno dei costumi più caratteristici dell'Italia. La ragione per cui la stoffa predominante di questo costume è una specie di panno da frati sta, secondo la leggenda, nel fatto seguente: In tempi passati si sarebbe aperta in mezzo al paese una voragine che minacciava di inghiottirlo; e donne e uomini avrebbero fatto voto di vestirsi con lo stesso panno dei frati. Avendo  poi trasgredito a tal voto, la voragine si sarebbe aperta di nuovo, richiudendosi solo quando gli abitanti tornarono  all'antica  consuetudine» 127 •

Come si vede, gli abiti indossati a scopo votivo e i costu mi sopra çitati hanno prevalentemente in comune il colore marrone e la severità del taglio. Questo colore è collegato probabilmente all'abito dei monaci, e dei pellegrini, di carattere penitenziale, e di «chiusura al mondo». Non è casuale, infatti, che l'abito fratesco sia strettamente collegato alla morte, come testimonia il suo uso presso le classi aristocratiche: nel secolo XVI le vedove nobili indossavano abiti da lutto di foggia strettamente monacale 128; nei testamenti dei nobili napoletani dei secoli XVI e XVII compare spesso la richiesta di essere sepolti in abito fratesco. Ciò testimonia certamente della diffusione del culto di San Francesco e del ruolo assunto dall'ordine francescano nelle pratiche di pietà nella società meridionale.129, ma anche della circolarità di funzioni e di ambiti assunta simbolicamente dall'abito fratesco, voto e mimesi del santo, ma anche privazione e penitenza, «chiusura al mondo», morte (si veda anche il § 7).
Simili all'abito fratesco, o comunque di tipo monacale, sono gli abiti dei pellegrini, documentati ampiamente nelle stampe ottocentesche, e gli abiti dei devoti, che assumevano lo status di religiosi laici, spesso conosciuto anche nella cultura popolare: si citano, tra questi, la monaca di casa  e gli eremiti o romiti.
Le monache di casa erano donne laiche che si  votavano
ad un santo, e che assumevano abiti e comportamenti di tipo monacale, dai quali traevano una certa posizione privilegiata in famiglia e probabilmente anche nella comunità. Si trascrive qui la descrizione, molto critica, di Caterina Pigorini Beri a proposito di una monaca di casa di Tiriolo (CZ):

«E fu un'altra specialità per me entrare in una casipola dove potei vedere e conoscere da vicino il tipo monaca di casa di cui la bassa Italia e anche Napoli abbonda, e che è un misto di sacro e di profano, il ceppo da cui dirama la pinzocheria spigolistra gretta e pettegola che in altre parti d'Italia è personificata  dalla donna che  si chiama la beata. La monaca di casa è una donna che si vota  ad una santa e si affiglia a un ordine monastico di cui esegue, dice, tutte le discipline. Si veste da monaca con molte licenze su quello dell'ordine a cui è platonicamente ascritta, ma in un modo che comunque non lascia alcun dubbio sul suo carattere semisacro. Vive in famiglia conservando una specie di posizione privilegiata, e ciancia, passeggia, mormora, e va in chiesa a picchiarsi il petto, coperta da un lungo vancale nero che le dà l'aspetto d'un fantasma.
Di queste monache di casa ne ho tròvate dappertutto in Calabria; e sono oggetto d'un cerimoniale che si confonde tra il compatimento e la venerazione; a parlare colle plebi più semplici e incolte di queste monache, non si sa bene cosa ne pensino: infine si direbbe che l'esteriorità del loro culto, quell'uniforme nero   e tetro


in quel folgorio di colori dei loro abiti, nel caldo immaginare di quelle menti svegliate, nelle armonie dei loro canti soavissimi, sia per essi una cosa ripugnante,, ma che la ripugnanza sia temperata da quel carattere reso sacro dalla  chiesa.
Non so peraltro quanto ci guadagni il culto in queste forme anfibie di monachismo: e difatti non si sa comprendere cosa possa aggiungere alla santità e illibatezza del costume una celletta pie na di santini e di crocifissi, con un inginocchiatoio da una parte, dove entrano tutte le vicine a malignare sul prossimo e a fare un mercato di pettegolezzi, qualche volta di ingiurie e di percosse» 130.
Analogo, ma caratterizzato da una condizione di estrema povertà e privazione, è lo status degli eremiti. In Molise, fino ai primi decenni del nostro secolo, laici coniugati, e senza figli, nullatenenti, venivano impiegati dalla amministrazione di alcune chiese come custodi di alcune chiesette rurali, e che si cibavano di erbe, e vivevano di elemo sine; talvolta gli eremiti si proponevano come i custodi del culto, oltre che i custodi materiali della chiesa, e fungeva
no da narratori per così dire «ufficiali» dei miracoli effettuati dal santo preposto alla chiesa 131 .
A questo particolare status nella comunità, caratterizzato soprattutto da emarginazione ma anche da un certo alone sacro dovuto alla vicinanza con la divinità, si aggiungeva in alcuni casi la facoltà di conoscere il futuro o, più semplicemente, i numeri del lotto, come nel caso dei rimiti siciliani, detti polacchi, cioè cabalisti 132 •
La figura dell'eremita aveva, presumibilmente,  una  certa
risonanza nella comunità, se a Tagliacozzo (AQ) nel secolo XIX si effettuava, nel giorno del giovedì grasso, la mascherata dei romiti, giovani e adulti vestiti in abito fratesco, con barbe, bastoni forcuti, gobbe 133• Una possibile interpretazione del significato di questo mascheramento richiederebbe certamente una ricerca sul luogo ed il confronto con analoghi rituali di Carnevale; ad una prima e superficiale analisi, sembra di poter individuare, ancora una volta, nell'abito fratesco gli elementi della privazione e della rinuncia, da inserire probabilmente nell'ambito delle consuete contrapposizioni tra Carnevale e Quaresima, cioè tra spreco e rinuncia, abbondanza e astinenza, chiasso e silenzio, e così via. Nel carnevale di Satriano di Lucania (PZ) è presente il personaggio questuante del romita, adolescente (un tempo uomo adulto) interamente ricoperto di edera, del tutto irriconoscibile e muoventesi nel più totale silenzio. Il romita, probabile raffigurazione dell'uomo selvatico secondo l'interpretazione di Enzo Spera, conserva tuttavia, soltanto nel nome, un legame con la figura dell'eremita in abito fratesco, e ne rappresenta  forse la dimensione estrema,  la
vita «selvatica» condotta separatamente dal mondo degli uomini 134 .

7.  Nozze,  abiti dei  morti, lutto
Altre problematiche connesse al costume riguardano le trasformazioni dell'abbigliamento durante il corso della vita. Per quello che riguarda gli abiti indossati durante l'infanzia nelle classi popolari, non possono dirsi molto numerosi  gli  studi al riguardo;  è infatti  piuttosto  recente l'in-


teresse degli specialisti di storia del costume relativamente all'abito infantile nelle classi aristocratiche 135, interesse che sembra appunto costituire il versante specialistico di una più generale attenzione degli storici nei confronti dell'infanzia. Dalle immagini, fotografiche o a stampa, e dalle rare testimonianze scritte si può dedurre che, in generale, i bambini,  superato il periodo  in cui venivano  strettamente fa
sciati, indossavano abiti lunghi o camiciole uguali per i bambini come per le bambine, così come presso i nobili italiani, nel secolo XVIII, i bambini indossavano indipendentemente dal sesso, nella prima infanzia, una veste lunga detta ungherina 136 A Galliano (CZ), alla fine del secolo scorso, la camicia veniva indossata dai bambini fino al compimento dei sei anni 137•
Particolarmente importanti sono inoltre le fasi di passaggio relative alla sessualità: alcuni cambiamenti nell'abito avvenivano nell'età puberale (inizio della fecondità) e soprattutto nel periodo del fidanzamento, e nel periodo matrimoniale e post-matrimoniale. Nella cultura popolare italiana si individuano  situazioni di questo tipo:  a Parre (BG) verso i 18-20 anni venivano sostituite alcune parti dell'abbigliamento138; a Casteldelfino (CU) alcuni accessori facevano la loro comparsa durante il fidanzamento 139; a Casalvieri (FR) le  ragazze  cominciavano  ad  usare  dal  giorno  del fi
danzamento  un  panno  rosso 140; a Castrovillari  (CS) l'abi­
to segnava il passaggio dallo stato virginale a quello maritale, con gli stadi intermedi, e si effettuava ilrito dell'acquisizione del nuovo abito 141; a Tiriolo (CZ) il passaggio dall'abito infantile a quello di pacchiana era segnato da una cerimonia, eseguita in occasione della festa di San Giuseppe 142; nel Trentino erano in uso le calze rosse di lana, prima portate dalla novizza, in seguito distintivo  della
donna maritata, il panciotto rosso, prima del novizzo e poi dell'uomo ammogliato, la pettorina rossa per la donna sposata divenuta madre e per la ragazza richiesta in sposa, e infine differenti acconciature per nubili e    maritate 143.
Significativo è anche lo scambio dei doni che avveniva nelle  varie  fasi  dei  riti  di  fidanzamento  e di  matrimonio; i doni erano, in molti  casi,  costituiti  da indumenti;  l'abito  e parti di esso entravano in misura massiccia  nel  complesso dei rituali di nozze, e venivano caricati di una serie di valori, economici, sociali e cerimoniali.  In Sicilia nel secolo scorso le spose palermitane ricambiavano i doni  ricevu­  ti,  costituiti  da gioielli,  con  indumenti  (camicie  bianche o
colorate, fazzoletti), le spose di Modica (RG) con mutande, calze, panciotto 144 . Anche in Sardegna lo scambio dei doni avveniva per il tramite dei gioielli e degli indumenti, costituiti da fazzoletti da testa, scialli, camicia ricamata per l'uomo, da indossare per le nozze 145 .
Alcune fasi salienti del rituale delle nozze sembrano im perniate su elementi di abbigliamento. Antonio De Nino, ad esempio, riporta, per l'area abruzzese, l'uso di accogliere, da parte di un uomo e una donna, mascherati, rispettivamente, da donna e da uomo, il gruppo dei suonatori del
le serenate notturne che seguono il matrimonio 146; sembra possibile inserire questo episodio nell'ambito degli scherzi e dei mascheramenti delle serenate successive al matrimo-



nio, e che accompagnavano, e, forse, magicamente favorivano, la vita sessuale dei novelli sposi, serenate che avevano il loro opposto ecomplementare nel rito dello charivari.A questo complesso di atteggiamenti scherzosi e propiziatori della sessualità può riferirsi anche un uso, che si può attualmente riscontrare in molti matrimoni dell'Italia centromeridionale: alla fine del pranzo di nozze, due uomini, amici o parenti degli sposi, girano per i tavoli facendo una questua con una cravatta da cerimonia, che dicono essere la cravatta dello sposo; in cambio di una piccola offerta (qualche migliaio di lire) offrono una striscetta della cravatta, tagliata con una grossa forbice; la richiesta di denaro, rivolta quasi esclusivamente ad altri uomini, o a coppie sposate, viene motivata come dono per gli sposi perché passino qualche notte in più in albergo durante il viaggio di nozze. Anche in questo caso non è possibile addentrarsi nel singolo rituale e coglierne più profondamente gli aspetti, che attingono alla cultura tradizionale, ma che sono anche espressione della società contemporanea; sembra tuttavia che da questo uso emerga piuttosto chiaramente un simbolismo fallico della cravatta, concordemente con le   ipotesi
. di Fliigel47 : il rito avviene quasi esclusivamente tra uomi ni; il compenso per il denaro versato è un pezzo della cravatta dello sposo, cioè probabilmente un acquisto di potenza sessuale; lo sposo a sua volta, nella logica positiva e accrescitiva dello scambio e del dono, cede e distribuisce la sua cravatta, ma acquista in cambio del denaro che servirà ad esercitare e rinnovare la sua potenza sessuale simbolicamente donata.
Per quanto riguarda l'abito nuziale femminile, nella cultura popolare dei primi del Novecento il costume cade in disuso, e viene adottato l'abito bianco, mutuato dalle classi egemoni.
Il costume maschile per le nozze sembra essere stato abbandonato in precedenza, almeno da quello che si desume dalle fotografie antiche e dalle notizie, abbastanza rare, relative agli abiti nuziali popolari. Ciò contraddice, almeno in questa fase, la teoria di Bogatyrev sul passaggio quotidiano -+ festivo -+ rituale: in questo caso gli abiti quotidiani restano quelli tradizionali, mentre l'abito rituale è mutuato dalle classi egemoni, rispetto alle quali potrebbe però  costituire  un ritardo.
I.:abito nuziale bianco, diffuso nelle classi egemoni a partire dal secolo XIX 48, costituisce probabilmente un riferimento al passaggio di status (da ragazza a donna sposata) e al periodo iniziatico che accompagna questo passaggio; il bianco è colore della morte e dell'invisibilità; il viaggio di nozze, diffuso nel nostro secolo, rappresenta la fase di isolamento iniziatico; un altro elemento iniziatico è costituito dal divieto fatto alla sposa di far vedere l'abito bianco nuziale  al fidanzato  prima  del giorno delle  nozze 49•
Nella cultura contadina invece, almeno fino alle trasformazioni dell'inizio del secolo XX, l'abito da sposa era un costume. I.:abito da sposa, così come rilevato anche da Bogatyrev, costituisce un momento culminante dei passaggi dall'abito dell'età puberale, fino al fidanzamento e matrimonio.  Per  quanto riguarda  l'abito  nuziale il riferimento


principale è al colore rosso, segno dell'eros e quindi della sessualità e vitalità. Così possiamo rintracciare una serie innumerevole di esempi: il panno rosso usato per ilfidanzamento e le nozze a Casalattico (FR) 50; la gonna di panno rosso scarlatto della sposa di Loreto (AN)5; la gonna rossa della sposa di Scanno (AQ)52; il rosso sangue come colore simbolico matrimoniale nel Trentino 53; l'abito nuziale rosso e bianco in Sicilia 54; calze rosse di lana e pettorina femminili, panciotto rosso maschile, relativamente alla condizio_ne di coniugati, o di genitori • Gli elementi preposti a segnalare lo stato coniugale sembrano essere stati quasi tutti particolari o.accessori dell'abbigliamento, come nastri, elementi di copricapi, balze della gonna, eccetera; da alcuni dati bibliografici prevale l'uso del rosso per la donna nubile e verde per la maritata nell'area settentrionale, e la tendenza opposta nell'area meridionale 56 (si veda più avanti il  § 9).
Anche gli abiti dei partecipanti alle nozze potevano assumere un carattere di abiti nuziali; le donne sposate, nell'area siciliana secondo  le descrizioni  del  Pitrè,  ma  anche in area piemontese, si recavano ai matrimoni con il proprio abito di nozze 57. Presso i Walser di Rimella (VC) la madre della sposa indossava per le nozze un abito da lutto 58, il che coincide curiosamente con l'uso, tradizionale in Abruzzo presso le classi elevate, secondo il quale la madre della sposa doveva indossare durante la cerimonia  nuziale  un abito di pizzo viola a nero; è possibile forse riferire questo lutto alla condizione di «morte temporanea» vissuta dalla sposa,.o, più semplicemente, al dolore per il suo distacco dalla famiglia di origine (così come,  nella  cultura popola­  re, questo dolore veniva canalizzato nella esecuzione dei canti della spartenza).
Gli abiti nuziali venivano e vengono tuttora lungamente conservati (sia nella cultura contadina, sia nelle classi borghesi), e talvolta non indossati mai più per il resto della vita;  e così accadeva  anche per  altri  abiti,  oggetto  di dono   o di scambio (questo nella cultura contadina) al momento delle nozze, e successivamente conservati e lasciati in eredità ai figli 59• I.:abito nuziale si collega inoltre all'abito indossato dopo la morte; spesso si tratta dello stesso abito nuziale, mai più indossato e conservato per  i propri  funerali. Così in Sardegna le vedove indossavano il costume da sposa nella bara ; in Calabria la camicia da sposa era conservata per l'ora della morte 6; in Sicilia l'abito nuziale veniva usato allo stesso modo 62 • In  Calabria,  ai primi del Novecento, Giovanni De Giacomo descrive l'attaccamen to  nei  confronti  del  costume:
«A Guardia Piemontese non volli far cucire ilcostume; feci tanto per averlo da persona che l'aveva usato nel giorno delle sue nozze e in feste nuziali,  e doveva, poi,  seguirla nel sepolcro» 63.
«Ieri, a Sant'Agata d'Esero, un paese disperso tra i monti lussu· reggianti di castagni, feci acquisto di un costume bello assai; pe· rò, a sera, la donna che me lo aveva ceduto, venne a pregarmi, piangendo, perché glielo ridessi: non poteva vivere senza quel caro ricordo nella sua cassa» •
«Non poteva vivere senza quell'abito col quale, cinquant'anni fa, sposò il suo primo marito. Quella veste doveva scendere con lei nel sepolcro!» 65 •



Ad una interpretazione molto generale e generica, si può riferire questo collegamento tra nozze e funerale ad una concezione che vede, come si è già detto, le nozze come rituale iniziatico e come «morte» provvisoria che anticipa la morte definitiva.
Gli abiti fatti indossare ai morti, per l'esposizione e per la sepoltura, hanno subìto nel corso dei secoli numerose trasformazioni. All'uso, documentato per molti secoli, di seppellire i morti coperti di un semplice lenzuolo, o di abiti lunghi bianchi, si sono sostituiti successivamente vari altri tipi di abbigliamento. Nei già citati testamenti della nobiltà napoletana dal XVI al XVIII secolo, compare, per il Cin quecento o il Seicento, la richiesta di venire sepolti con l'a
bito dei frati francescani, o con un semplice abito bianco 66.
Nella cultura popolare, allo stesso modo che nelle classi medie e in quelle elevate, era in uso, come si è già detto, seppellire i morti nell'abito delle nozze, o in un abito che in qualche modo le nozze richiamava. Nel 977 veniva sepolto a Mosciano Sant'Angelo (TE) un giovane poliziotto, ucciso durante gli scontri studenteschi all'Università di Ro
ma nell'aprile dello  stesso anno67. Il giovane,  che era pros­
simo alle nozze, venne sepolto con indosso un impermeabile bianco, dono della fidanzata; questo particolare ha pro babilmente dato luogo alla diceria, corsa nel paese e nelle zone circostanti, che nella bara fosse stato chiuso anche l'abito bianco da sposa, che era pronto per il matrimonio imminente, e che fossero stati lanciati confetti al passaggio del funerale. La diceria, pur priva di riscontro con la realtà, rivela una ideologia magica che collega nozze e funerali; l'abito bianco della sposa sepolto insieme al corpo dell'uomo rappresenta la rinuncia alle nozze, e forse anche un matrimonio simbolico con il morto, con l'abito (sostituzione della sposa vivente) che segue lo sposo nella tomba. Analogie con questo episodio possono trovarsi in alcuni riti diffusi fino ad alcuni decenni fa nella cultura popolare romena. Mentre i morti vecchi venivano sepolti con abiti nuovi, che venivano preparati durante la vita, i morti giovani non sposati venivano sepolti con abiti delle nozze, le ragazze con l'abito da sposa, i ragazzi con gli abiti e il fiore dello sposo; il rito funebre poteva assumere alcuni elementi del rito nu ziale: il fidanzato/a della defunta/o, o una persona  scelta tra gli amici se non c'erano fidanzati, seguiva il corteo  ve
stito da sposo/a; durante i funerali poteva effettuarsi anche il rito dell'abete, rito tipicamente nuziale, con danze 68. A Napoli, nel secolo XIX, era in uso lanciare confetti durante il  rito  funebre di una  ragazza  morta 69.
In Sicilia, a Modica (RG) i morti venivano inumati con abiti chiari, e calze bianche senza scarpe 70; in Sardegna a Mores (SS), nella prima metà del secolo XIX,  i morti   veni
vano coperti da una veste bianca, guarnita di tulle e di nastri azzurri, e calzati di calze bianche e lunghe di cotone dette ca/zas de mortu; le ragazze nubili venivano sepolte con
fiori sul capo e tra le mani, e con lunghi nastri di seta fissati agli abiti7 .
Particolare cura era dedicata agli abiti dei bambini, se polti in Sicilia con abiti bianchi  e cinture e nastri a   croce


rossi 72, nell'area bolognese con abiti bianchi, fiori sul capo, e una sottile croce di cera73• A Carpi (MO)  l'abito bianco per i neonati o i bambini  di pochi  mesi,  ornato  di  un grembiulino coperto di fiori, veniva tagliato e confezionato senza cuciture, né lacci, né nodi; nell'analisi  di Luciana Nora questo abito, oltre che richiamare  usi  cerimoniali dei sommi sacerdoti, o la veste del Cristo prima della crocifissione, viene considerato una rappresentazione della placenta; così l'abito senza nodi e cuciture avrebbe favorito, secondo una ideologia magico-religiosa, il passaggio nell'altro mondo, ma avrebbe rappresentato anche, nel suo simbolismo   di   sacco   fetale,   lo   strumento   di   una    nuova
rinascita 74.
Altro indumento collegato all'abito dei morti è la camicia, particolarmente studiata da Bogatyrev per le sue utilizzazioni magiche 75; la camicia riveste infatti, per la cultura occidentale europea, un vasto e profondo significato76.  Così a Bertinoro  (FO),  nel  secolo XIX,  i bambini
morti erano vestiti  con la camicia 77•
Gli abiti da lutto possono essere considerati opposti e quindi complementari agli abiti dei morti. Nel lutto sono usati il nero, ed altri colori scuri, come in opposizione al bianco degli abiti dei morti, anche se non mancano elementi
di abito di colore bianco, anch'esso usato  per  il lutto 78. Il lutto nelle classi nobili  e medie era contrassegnato,   ol
tre che dal nero, anche dal verde, dal blu scuro, dal morello (misto rosso e nero), che era soprattutto un colore di vedovanza 79.
I..:abito da lutto si manifesta sempre con i caratteri della
chiusura, tanto che gli indumenti coprono e chiudono il più possibile il corpo, anche quelle parti che in tempi normali restano scoperte; nelle classi nobili e medie il lutto si mani
festa, dal secolo XII al XVI e oltre, con il taglio dei capelli 80, o con abiti simili a quelli dei religiosi, che sot tolineano  ancora  di  più  il  carattere  di  mortificazione e
penitenza 8 . Dai repertori di abbigliamento forniti dalle
incisioni cinquecentesche risulta molto chiaramente che nel secolo XVI le vedove in Italia  indossavano  abiti monacali, in forme più o meno attenuate a seconda delle zone, ma sostanzialmente simili 82. Alla luce del rapporto tra abito monacale e lutto possono essere riconsiderati anche i costumi di tipo monacale esaminati nel precedente § 6, quelli delle Tre Pievi del lago di Como, o ilcostume di color morello di Premana (C0)83; la foggia dell'abito o il colore sembrano indicare una vedovanza (dovuta  all'emigrazione dei  mariti)  e insieme  una  chiusura  a nuovi  incontri (impo
sta  dai  mariti lontani).
Nella cultura popolare l'elemento di identificazione (ma anche il deterrente per nuove unioni) è dato ad esempio dal divieto di cambiare la camicia: documentato ad esempio in
Sardegna, nei secoli XVIII e XIX 84, e a Venafro (IS), per la vedova 85. A Parre (BG) le vedove si tagliavano i capelli e toglievano  i merletti dalla camicia 86. Il lutto come   ele­
mento di chiusura viene espresso, per l'abito maschile, soprattutto dal mantello, che avvolge e rinserra la persona: così nell'inchiesta napoleonica del 8, a Jesi (AN), l'uomo  in lutto è raffigurato  tutto avvolto  in un  mantello 87;



 


così a Parre (BG) gli uomini indossavano un ampio palandrana color castagnola, detto capa 88 ; così a San Damiano Macra (CN) ai primi del Novecento i parenti di un  de
funto che partecipavano al corteo funebre indossavano un mantello anche in piena estate 89; l'uso del mantello per il lutto o per le cerimonie  funebri,  accompagnato,  nel  caso del lutto, dal farsi crescere la barba incolta, è documentato anche in Abruzzo  e in Sardegna 90.
Le donne in lutto, nell'area settentrionale e ai primi del Novecento, indossavano un fazzoletto bianco che tendeva a coprire il capo e il volto il più possibile: in Carnia, l'uso del quadri (fazzoletto bianco) si manteneva negli anni  '60
in alcuni paesi di montagna come segno di lutto 9 ; nel Friuli un rettangolo  di seta bianca  era buttato  sul capo  a
nascondere il volto chinato 92; nel bellunese, a Cortina d'Ampezzo, durante il lutto le donne usavano coprirsi il ca­  po  con un  pezzo  di tela  di lino,  bianca,  quadrata,  e  posta
sulla testa senza piegature 93; a Grosio (SO) il fazzoletto bianco da lutto era il panét di ruséti, ricamato a rosette 94. Nell'area friulana le vedove erano vestite interamente di nero e con il capo coperto da un fazzoletto legato sotto il mento e calato sugli occhi; in chiesa, per un anno, veniva indossato un fazzoletto quadrato bianco 95 . A Parre (BG), secon do la testimonianza di Alessandro Roccavilla, le donne in lutto indossavano la polaca (mentre in tempi normali le braccia erano coperte dalla sola camicia), la tre-ersa di co
lore nero, calze di color rosso e bianco ed ampio pannolino (panét) %. Nel Canton Ticino donne parenti o vicine di casa del defunto usavano coprirsi il capo con un grande fazzoletto scuro; l'uso sembra una riduzione della più antica usanza di coprirsi completamente, per qualche tempo, il  vol­
to e la nuca, come segno di totale «chiusura» al mondo 97. In Umbria, nel secolo XVII, le vedove benestanti indossavano un turbante bianco 98; le vedove di Scanno (AQ)   an­
cora all'inizio del nostro secolo indossavano, per tre anni, un fazzoletto nero intorno al viso 99. Presso alcune comunità greche in Calabria è documentato l'uso secondo il quale le vedove indossavano, fino alla completa consunzione, la giacca del marito 200 . In Sardegna, infine, il lutto assumeva, nelle sue forme tradizionali, modalità piuttosto articolate, a seconda dei paesi, del grado di parentela rispetto al defunto,  del  tempo  trascorso  dalla  morte:  le vedove vesti­
vano di nero, ma in alcuni paesi si indossava in segno di lutto un elemento -fazzoletto, o benda per l'area nuorese
- di colore giallo; la benda nera, o gialla, o color caffè  a seconda degli usi, avvolgeva il capo in una foggia monacale e veniva talvolta accompagnata da un velo nero, che copriva la testa e il volto; segno di lutto era anche l'uso di indossare corsetto e giubbetto rovesciati, dalla parte del co lore scarlatto, o posti sopra la camicia in successione scambiata (cioè il corsetto indossato sopra il giubbetto, in una modalità detta a pala a supra) 20
Tutti gli abiti e i segni di lutto citati, e tutti gli altri numerosi esempi che potrebbero  citarsi,  riconfermano,  ancora una volta, che l'abbigliamento del lutto esprime una chiusura ed un distacco dalla vita normale e quotidiana, funzionali  ad  un  periodo,  più  o  meno  lungo,  successivo alla


perdita della persona cara. Utilizzando il metodo interpretativo di Van Gennep, gli abiti da lutto, che chiudono, coprono il volto ed il corpo, rappresentano una fase di tem poranea aggregazione al mondo dei morti e separazione dal mondo dei vivi; la giacca del marito indossata dalle vedove delle comunità greche della Calabria sembra anche rappresentare una forma di completa identificazione con il defunto202. Anche nei tabù relativi al lavarsi, al cambiarsi la camicia (indumento indossato a contatto con la pelle, quindi considerato tutt'uno con la persona o una estensione di essa), al radersi la barba e tagliarsi i capelli, può individuarsi una separazione dal mondo dei vivi ed una adesione al disordine ed alla realtà per così dire «sospesa» prodotti dalla morte  di un  membro  della  comunità;  la barba,  i capelli, la
camicia, la pelle, parti integranti o estensioni della persona 203,  forniscono, se temporaneamente  inalterati, una
protezione psicologica per il superamento della crisi esistenziale 204 .
Alcuni accenni possono essere forniti, infine, sull'abbigliamento processionale usato durante i cortei funebri. Presso le classi popolari di Napoli nell'Ottocento i funerali dei bambini potevano essere accompagnati da un corteo di bambini vestiti da angeli, con cimieri ed ali posticce 205 ; sembra in questo caso chiaramente individuabile una funzione di mimesi con il piccolo defunto, dopo la morte  trasformato
in angelo, secondo le opinioni diffuse presso le classi popolari di tutta l'area italiana; ma l'uso di far accompagnare i cortei funebri da gruppi di orfani,. diseredati, o emarginati, ha radici molto antiche. Già dal secolo XIII, infatti,   i cortei funebri dei defunti nobili erano costituiti da orfani e trovatelli che indossavano vesti di lutto con cappuccio sul viso, o vesti monacali; le vesti erano donate per disposizio ne testamentaria del defunto; l'uso continua nei secoli successivi, fino al secolo XVII, ma nel Settecento gradualmente al dono delle vesti da lutto si sostituisce quello di vesti sem plici, distribuite ai poveri; alla funzione di apparato spettacolare del rito funebre e di espressione «estesa» del duo
lo si sovrappone una forma di elemosina 206 .

  1. Usi  magici dell'abito

Come si è visto nei paragrafi precedenti, in diversi ambiti e occasioni d'uso dell'abbigliamento può affiorare una funzionalità magica dell'abito o di parti di esso; del resto anche Bogatyrev ha dedicato ampio spazio al rapporto tra abito e magia, individuando, ad esempio, il valore magico della camicia, e le sue virtù terapeutiche nei confronti degli animali allevati2°7 • Per l'area italiana, l'assenza di dati sistematici a questo riguardo, soprattutto nei testi in cui si parla di abito popolare e di costume, avrebbe comportato una ricerca lunga e sistematica in repertori dei rituali magico-protettivi italiani; si è ritenuto pertanto esporre, in questa sede, soltanto alcune brevi note di carattere orientativo.
Certamente, anche per l'area italiana, indumenti a diretto contatto del corpo, come la camicia, potevano essere utilizzati per le azioni di carattere magico, allo stesso modo di parti del corpo, come unghie e capelli; camicie e capelli



come estensioni e simboli del corpo nella sua totalità sono stati infatti impiegati, in misura considerevole, anche nella composizione dei doni votivi (trecce, camicie, abiti), e in alcuni usi legati alla morte (si vedano i divieti relativi al cambio della camicia, le camicie come abiti dei morti, i divieti o le prescrizioni sul taglio dei capelli, i medaglioni-ricordo con le ciocche di capelli dei   defunti).
In  alcuni  casi  particolarmente delicato  era  considerato il momento in cui gli abiti venivano appesi all'aperto, per gli influssi positivi o negativi di cui gli abiti stessi -e conseguentemente la persona -sarebbero stati caricati: a Trapani nel secolo scorso si usava stendere all'aperto ed espor­  re gli abiti nella notte precedente all'Ascensione, per  attirare su di essi l'influsso positivo della benedizione divina; a Ferrara gli abiti dell'inverno venivano invece esposti nella notte di San Giovanni 208 ; a Bellante  (TE) era invece in uso il divieto di appendere le fasce e gli abiti dei bambini piccoli a rovescio,  perché gli abiti a rovescio  farebbero rivolta­
re il bambino  contro la madre209 .
Gli abiti a rovescio, nell'antropologia dell'abbigliamento della cultura popolare italiana si ritrovano in ambiti diversi, e non rivestono un significato univoco. Come si è già visto, gli abiti a rovescio o indossati in successione rovesciata erano un segno di lutto in Sardegna; abiti vecchi o in disuso rovesciati sono ancora oggi parte integrante dei mascheramenti di Carnevale; gli abiti indossati a rovescio liberano inoltre anche una potenza magica: oltre al divieto di stendere al sole abiti rovesciati dei bambini piccoli, si possono ricordare gli usi magici dei minatori, che per favorire una protezione magica su di un lavoro ad altissimo rischio, usavano lavorare nelle miniere con abiti a rovescio; in tempi recenti l'uso è stato riscontrato presso i minatori di galleria di Roviano (RM): secondo alcune testimonianze, nei mo menti del lavoro più rischiosi si indossavano a rovescio al
cuni elementi di biancheria, come le mutande e le calze20 . Anche nell'area italiana è possibile  rintracciare,  infine, un
potere magico attribuito ad elementi di vestiario, potere magico simile a quello descritto da Bogatyrev: a Bellante (TE)  si usa legare una ciabatta molto vecchia al collo delle pecore malate di raffreddore; si ritiene che la ciabatta della patrona abbia il potere di guarire il raffreddore delle  pe­  core2 .

Simbolismo cromatico e significatività del  particolare

Imprescindibile dall'abito è certamente il colore, e l'uso culturale che ne viene fatto, come si è visto, ad esempio, più sopra per alcuni abiti (l'abito nuziale bianco, il rosso come colore simbolico matrimoniale, il giallo infamante, ecc.). In termini molto generali si può osservare che i colori chiari sono indossati nella giovinezza, e si fanno più scuri progressivamente, nell'età matura e nella vecchiaia. Ciò sem
bra rivelare il diffuso simbolismo della vita umana, che è assimilata al corso del sole in una giornata22 . Il progressivo incupirsi dei colori nel corso della vita umana è rilevato nel Veneto23 , o nel Seicento in Umbria, dove alle artigiane veniva imposto  di indossare il bigio  o il nero  dopo
anni  dal  matrimonio 24 .


Nei secoli passati alcuni colori avevano un uso specificamente cùlturale: ad esempio, nei secoli XVI e XV, in Italia,
il rosso ed il verde erano i colori usati dalla nobiltà  e quin­  di considerati appartenenti ad essa25 . Anche nella cultura popolare, probabilmente, il colore ha ed ha avuto usi specifici.  eargomento  è  tutto  da  studiare:  oltre  al   simbolismo
cromatico di tipo psicologico, o rituale, si può registrare l'uso del colore per quanto riguarda la connotazione sociale. Secondo Giorgio Morelli, i colori delle gonne a Scanno (AQ) segnalavano la condizione socioeconomica della persona che le indossava:  la gonna era verde  per  le grandi  proprietarie,
rossa per le medie proprietarie, gialla per le artigiane, blu e turchina per le mogli o figlie di pastori 26 .
Dalla bibliografia sul costume popolare italiano emerge uniformemente il fatto che il compito di segnalare, attraverso il colore, lo stato civile della persona che indossa l'abito, o come vedremo il riferimento all'anno liturgico per gli abiti festivi, è affidato sempre ad alcuni elementi particolari dell'abbigliamento, come la pettorina, la balza della gonna, il fazzoletto, il grembiule, una cintura, nastri, ecc. Gli elementi particolari dell'abbigliamento, proprio per la loro caratteristica di non essere parti strutturali, possono essere agevolmente sostituiti a seconda delle occasioni, e possono essere posseduti in più esemplari. A proposito della sostituzione di questi elementi, che è di fatto una sostituzione di colori, dato ricorrente sembra essere il riferimento ai colori dell'anno liturgico e dei paramenti ecclesiastici; vie
ne così confermata l'ipotesi di Bogatyrev sul rapporto tra costum'e e chiesa27. Alessandro Roccavilla così documenta il cambio di cuffie in Val di Susa secondo i colori della pianeta  del  prete  celebrante:

«In ognuno dei paeselli della Valle di Susa  si può  dire che vi  è  una cuffia diversa: or è più alta, or più bassa, ed io intendo acquistarne una di ogni specie, in modo che i Valsusini sostino meravigliati nel vedere che nulla abbiamo trascurato. Oltre a ciò si  nota una varietà infinita di colori nelle cuffiette da lavoro, varietà dovuta al fatto che -come scriverò nelle memorie mie o scriverà mia cugina, le donne cambiano il colore della cuffietta e del fazzoletto col mutar di colore della pianeta del prete celebrante. La guardaroba di una contadina di Rochemolles, per citar un  esem­
pio, è curiosissima per questa varietà di cuffiette»28 .
A Scanno (AQ), nel secolo scorso, i lacci che avvolgevano le trecce femminili, legate intorno al capo, avevano colore celeste, azzurro o verde durante la Settimana Santa, rosso per la Pasqua; il medesimo  colore dei lacci si usava  per le fasce dei cappelli, e, se possibile, per le pietre degli orecchini, medaglie, anelli29 .
Questo uso, che sembra fosse operante soprattutto in Ita lia settentrionale, si collega certamente con l'anno liturgico, ma forse - in maniera più larga -anche con l'anno solare, cui l'anno liturgico è almeno in parte legato.
Il collegamento ai colori liturgici è stato rilevato anche per le pettorine di Premana (CO), in una apposita indagine220. Le pettorine, collocate sotto il busto dell'abito tradizionale premanese e seminascoste dal cordone che stringe ilbustino,  erano indossate in occasioni diverse, secondo  il


 

colore richiesto dal rituale specifico o dalla disponibilità psicologica individuale. Così le pettorine a fondo bianco venivano indossate nei giorni delle feste della Madonna; nella Quaresima era usato il colore morello, o il pezza/ del list, costituito di 6 strisce  nere  su  fondo  rosso;  altre  occasioni di feste solenni (Pasqua, Corpus Domini,  la festa di S. Luigi Gonzaga) potevano richiedere  il  fondo  bianco,  o rosso,  o azzurro. Le pettorine da lutto erano invece  interamente nere; quelle dell'abito da sposa non avevano un colore definito, ma variavano secondo il colore dell'intero abito; è infatti da tenere presente che la scelta del colore delle pettorine doveva accordarsi con i colori dell'abito nel suo in sieme. Anche per le pettorine premanesi sembra diffusa la tendenza ad usare i colori chiari nella  giovinezza,  e quelli più scuri per la maturità e la vecchiaia. Gli ornamenti metallici e l'eventuale aumento delle dimensioni del fiore ricamato, rispetto al fondo, non possono  interpretarsi  secondo un codice prefissato: i simboli metallici (stelle, falci di lu na), oltre che simulare ricchezza mediante l'imitazione dei metalli più nobili, potevano probabilmente rappresentare anche elementi simbolici (tutti da interpretare); gli uccelli ricamati, che appartengono  al repertorio  decorativo  popolare dell'intera area italiana, possono collegarsi  agevolmente alla sessualità ed al matrimonio, allo stesso modo del fiore ricamato; tuttavia non avrebbe fondamento l'interpretazione univoca e a tutti i costi di questi elementi, specialmente nello studio di una realtà, come quella del costume, non più attuale  ed  operante.
In generale non sembra quindi che i colori fossero prescritti obbligatoriamente nella comunità; si individuano piuttosto alcune tendenze, rispetto alle quali emerge un largo margine di libertà individuale. Le intervistate insistono infatti sulla scelta della pettorina come scelta individuale volta ad esprimere, talvolta, istanze psicologiche, il che del resto è un fatto comune al modo di indossare l'abito in tutte le civiltà umane.

  1. Femminile e maschile

Particolarmente significativa per un'analisi antropologica è la divisione sessuale a proposito dell'abito e del costu me. Alcune note di Leopold Schmidt definiscono a grandi linee la divisione sessuale nel costume popolare austriaco: gli uomini indossavano abiti di origine animale, le donne abiti di origine vegetale; ciò corrisponde all'antica divisione del lavoro, che vede gli uomini impegnati con gli animali, e le donne impegnate nei lavori agricoli. Le pelli ed il cuoio sono usati prevalentemente per i maschi; le tele derivano da piante coltivate e raccolte dalle donne, che lavoravano e trasformavano a domicilio le fibre (Schmidt sottolinea giustamente l'importanza culturale della lavorazione delle fibre). Un rovesciamento di questa situazione avveniva per la biancheria, fatta dalla donna per l'uomo, e per le sopravvesti  invernali, che l'uomo forniva alla  donna22 •
Nell'area italiana è da notarsi, prima di tutto, la divisione sessuale relativamente all'uso e al disuso dell'abito tradizionale. Gli uomini hanno smesso di indossare il costume già nella seconda metà dell'Ottocento; ai primi del Novecento, Alessandro Roccavilla aveva fotografato un  cor-


 

teo di battesimo a Fobello (VC) nel quale gli uomini non indossavano ilcostume222 ; in una cartolina degli stessi anni, raffigurante un matrimonio a Rochemolles di Bardonecchia (TO), si vede chiaramente che gli uomini non indossano il costume (si veda la fotografia n.    44).

  1. Psicologia dell'abito e sua immagine complessiva Nell'analisi di alcuni dei larghi ambiti culturali collegati

al complesso fenomeno dell'abbigliamento 223, si è finora trascurato quello relativo alla psicologia dell'abito ed alle varianti individuali causate da fattori psicologici; anche se, particolarmente nella cultura popolare, l'abito sembra es sere soggetto alle norme collettive, resta comunque un largo spazio per le interpretazioni individuali di queste norme: ciò si nota chiaramente nelle fotografie ottocentesche del Molise: le donne indossano lo stesso costume nello stesso paese ma con sensibili varianti individuali (si vedano le fotografie n. 5 e  6).
I.:abito, secondo J. Fliigel224 , ha soprattutto tre orientamenti di funzionalità: decorazione, pudore, e protezione. Quest'ultima funzione si esplica, secondo l'autore, soprattutto nei confronti degli elementi naturali (protezione ter mica e idraulica); ma per protezione si intende anche quella magica, contro elementi ostili sia naturali sia culturali, protezione che si esplica attraverso l'uso di alcuni colori e di amuleti; l'abito rappresenta anche una protezione psicologica,  ad esempio  contro l'ostilità  degli altri uomini,   la
mancanza  d'amore, ecc., attraverso gli abiti moltof hiusi e
molto coperti, che difendono il corpo come una corazza.  A proposito del pudore, Fliigel osserva che l'abito serve a nascondere le parti del corpo che di volta in volta si ritiene di dover coprire (e proteggere); d'altra parte, proprio in virtù di questa operazione di copertura, alcuni elementi dell'abito rappresentano simbolicamente le parti del corpo nascoste, in primo luogo gli organi sessuali. Secondo l'autore, l'abito ha anche la funzione di esibire trofei, incutere paura e rispetto agli eventuali nemici, come nel caso delle divi se dei soldati Ussari nel secolo XIX, che attraverso gli alamari applicati alla giacca rappresentavano l'immagine dello scheletro umano, allo scopo di incutere terrore al nemico225; l'abito esibisce simboli di gerarchie, professioni, lo calità e nazionalità, di ricchezza, e rappresenta inoltre una estensione dell'io corporeo 226 • Uscendo dall'ambito strettamente psicologico, Fliigel individua tre tipi fondamentali di abbigliamento: l'abito primitivo, costituito dalla cintura, perizoma e qualsiasi altro indumento che si allaccia attorno alla vita (del quale il grembiule femminile rappresenta una forma più evoluta); l'abito tropicale, che si sviluppa dalle spalle in giù (tutti i tipi di tuniche e vesti, che scendo no dalle spalle); l'abito artico, stretto intorno al corpo e caratterizzato dall'uso dei pantaloni, delle giacche strette, eccetera. Nel testo di Fliigel sono contenute inoltre alcune stimolanti osservazioni di carattere generale, come quella relativa ai nuovi indumenti che entrano nell'uso, indossati sopra i vecchi, in una serie di strati sovrapposti, o quella relativa alla «Grande Rinuncia»: nei primi decenni del secolo XIX l'uomo europeo occidentale rinuncia, per tutto il secolo e fino al tempo in cui scrive Fliigel, alla vivacità   del

colore e si veste esclusivamente di nero, grigio, bianco e colori  affini.
Altre osservazioni che possono essere utilmente adattate allo studio dell'abito popolare riguardano la considerazione del costume nella sua interezza: l'atteggiamento descrittivo ed enumerativo della maggior parte degli studi sull'argomento tende a far perdere di vista l'unità dell'insieme e l'immagine complessiva dell'abito. Questa infatti può essere studiata anche per l'abito popolare, così come tentato efficacemente da Maria Teresa Binaghi per l'abito colto, in uno studio sul rapporto tra pizzi e abbigliamento 227 : ad esempio, l'abito civile maschile del secolo XVI è considerato come una trasposizione in tessuti più morbidi del coevo abito militare; l'abito femminile nello stesso secolo è invece costruito ad immagine di idolo; l'abbigliamento di Luigi XVI di Francia, nel secolo XVII, si pone come l'immagine del potere assoluto, ecc.
Così l'abito popolare nella sua immagine complessiva può essere considerato nella prevalente funzione di strumento di mimesi e di espressione di una identità, che si esplica, come si è visto lungo tutto il presente lavoro, in vari ambiti: identità maschile o femminile, nell'uso di diverse materie per gli abiti e nell'adesione ideologica ad esse (il  cuoio
«maschile» e il tessuto «femminile»); il lavoro, nell'uso di abiti professionali che assolvono a determinate funzioni (riparo, protezione, igiene, ecc.), ma che esprimono anche una mimesi con l'oggetto del proprio lavoro (mimesi con le bestie per i pastori, con la farina per i fornai, con la calce per gli imbianchini, con il cuoio delle scarpe per i calzolai, e così via); il voto ed il comportamento penitenziale, negli abiti votivi, che esprimono una mimesi con la divinità o con gli ordini monastici228 ; gli abiti da lutto esprimono anch'essi una identità, una sorta di mimesi del defunto, una aggregazione al mondo dei morti che ha tuttavia una durata limitata nel tempo e sancita dalle regole non scritte ma egualmente solide di una società. Gli abiti etnici delle comunità alloglotte o praticanti altre confessioni religiose esprimono probabilmente una mimesi di sé stessi, o meglio del proprio gruppo etnico nel paese di origine; le fogge di abito si perpetuano al di fuori di un rapporto reale con la terra di origine, in una continuazione astorica che riproduce sempre sé stessa, mentre si vive da minoranze in una terra non sempre accogliente, e il paese di origine è mitizzato e lontano.

 

Fonte: http://docenti.unimc.it/e1.silvestrini/teaching/2014/13774/files/Silvestrini-%20Labito%20popolare%20in%20Italia%20RF%2014.pdf

Sito web da visitare: http://docenti.unimc.it

Autore del testo: Elisabetta Silvestrini Questo lavoro è dedicato alla memoria di mio padre, Furio Camilio Silvestrini, che mi ha aiutato per alcune notizie relative all'area abruzzese, e sempre incoraggiato nello studio e nella ricerca. Ringrazio Stefania Ciaraldi, Pasquale De Antonis, Carla Gentili, Olga Manieri Sturiate, Novella Nardecchia, Pietro Palumbo, Daniela Romani, Glauco Sanga, Elisabetta Simeoni, Edward R 1ùtt/e, per avermifornito dati e notizie, immagini, indicazioni bibliografiche.

Il testo è di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente i loro testi per finalità illustrative e didattiche. Se siete gli autori del testo e siete interessati a richiedere la rimozione del testo o l'inserimento di altre informazioni inviateci un e-mail dopo le opportune verifiche soddisferemo la vostra richiesta nel più breve tempo possibile.

 

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