Storia della moda

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Storia della moda

Il XIX secolo
La storia della moda ottocentesca è compresa fra due estremi: la rinuncia, che si manifesta all’inizio del secolo nell’abbigliamento maschile, all’ostentazione della ricchezza attraverso i simboli convenzionali del lusso, e la nascita dell’haute couture, che consegna a Parigi lo scettro di capitale internazionale della moda.

  • NEL MONDO

All’inizio del XIX secolo, una nuova classe ascese ai vertici delle gerarchie sociali. Si trattava della “aristocrazia delle fabbriche”, una classe formata dagli imprenditori che avevano accumulato fortune con le attività manifatturiere e commerciali sviluppatesi durante quella che gli storici dell’economia e dell’industria chiamano «prima rivoluzione industriale»: un processo lungo e complesso, frutto della combinazione di innovazioni tecnologiche e organizzative, che dall'Inghilterra si estese all’Europa continentale, travolgendo gli equilibri economici, sociali e politici preesistenti. I nuovi ricchi che appartenevano a questa classe sociale adottarono un modo di vestire che li differenziava fortemente dalla aristocrazia nobiliare delle corti, il più autorevole laboratorio di nuove mode e di nuovi modelli di eleganza dell’età preindustriale. Mentre l’abbigliamento del cortigiano era un tripudio di colori, quello dell’imprenditore della prima rivoluzione industriale inglese presentava una gamma cromatica limitata in cui erano ammesse esclusivamente le tinte scure. La giacca sostituì la livrea. I pantaloni si allungarono decretando la scomparsa di un accessorio immancabile nell’abbigliamento del cortigiano: le calze di seta cangiante. Dettagli e accessori divennero i segni distintivi dell’eleganza del nuovo aristocratico: il taglio perfetto dell’abito, il colletto della camicia immacolato e inamidato che si intravedeva sotto la giacca, le scarpe perfettamente lucidate, cappello e bastone a completare un abbigliamento che esprimeva la rinuncia a ostentare la ricchezza attraverso i simboli convenzionali del lusso, ma anche la necessità di elaborarne di nuovi. Mentre l’abito maschile sobrio – “classico” diremmo oggi – conservò la funzione di denotare l’identificazione con una nuova classe sociale , l’abbigliamento femminile assunse la funzione di manifestare la ricchezza che derivava dall’appartenervi. Un guardaroba completo di abiti per ogni occasione della vita quotidiana, regolata dai codici di etichetta, insieme a corsetto e crinolina che, indossati, disegnavano una silhouette a clessidra, diventarono gli strumenti attraverso i quali le donne della nuova borghesia industriale esprimevano il proprio status sociale. Per confezionare una crinolina erano necessari molti metri di tessuto. Per renderla unica, si ricorreva alla sovrapposizione di strati di tessuto abbellito con guarnizioni. Quanto più la crinolina era ampia ed elaborata, tanto più i movimenti erano impacciati. Indossarla indicava quindi l’appartenenza a una classe sociale elevata: per allacciare il corsetto e per infilare la gabbia che sosteneva la gonna occorreva l’aiuto del personale domestico. Inoltre, alla donna che li indossava era evidentemente precluso lo svolgimento di qualsiasi attività. Negli ultimi decenni del secolo, la nascita dei grandi magazzini, la moltiplicazione dei giornali di moda, insieme alla diffusione della macchina per cucire e dei cartamodelli, resero più semplici l’imitazione e la riproduzione delle ultime novità della moda. Nel contempo, l’incremento dei redditi nei Paesi che stavano attraversando un periodo di intensa crescita economica rese le ultime novità della moda accessibili a un pubblico sempre più vasto. Si assistette così a un processo di democratizzazione della moda, che portò i simboli di cui l’abbigliamento femminile si era servito per ostentare la ricchezza a non essere più appannaggio di pochi. Nel corso degli anni Settanta del XIX secolo, Charles Frederick Worth (1825-1895) interpretò il bisogno di differenziazione delle classi sociali più ricche riducendo, fino a dimezzarlo, il volume della crinolina, che aveva raggiunto dimensioni enormi: la parte anteriore dell’abito si appiattì, il tessuto si riunì interamente sulla parte posteriore sostenuto dalla tournure, una sottostruttura inglese di nascita ma parigina di adozione, che teneva alzati i lembi della gonna mediante una mezza gabbia o una sottogonna coperta da volant. Worth fu il primo a introdurre innovazioni – l’uso delle modelle, il concetto di collezione, l’etichetta firmata, la standardizzazione di alcune parti dell’abito –, che gli consentirono di affermarsi come trend setter in Europa e negli Stati Uniti, e di passare alla storia della moda come il padre dell’haute couture. A differenza del sarto, Worth non confezionava i vestiti assecondando i gusti delle clienti. Al contrario, era egli stesso arbitro del gusto. Alle sue clienti lasciava soltanto la libertà di scelta, all’interno di una gamma limitata di proposte, del tessuto con cui realizzare l’abito. Le sue creazioni dettavano lo stile a cui il gusto delle donne dell’alta società doveva conformarsi per essere certe di vestire alla moda. Con la nascita dell’Alta Moda, nell’ultimo quarto del secolo Parigi diventò la capitale indiscussa del gusto e dell’eleganza. Per tutta la prima metà del Novecento, e anche oltre, gli altri Paesi, Italia compresa, furono relegati a svolgere il ruolo di importatori, imitatori e propagatori delle mode parigine.
L'Ottocento può essere diviso in diversi periodi stilistici:
1800 - 1821 circa, Neoclassicismo
1822 - 1865 circa, Romanticismo
1866 - 1888 circa, Eclettico
1889 - 1910 circa, Liberty 

Periodo neoclassico (1800-1821)

1799 La moda all’antica del Direttorio rinsavisce dagli eccessi; gli abiti conservano il taglio alto con maniche a palloncino scanalate; preferenza per le mussole bianche ricamate a motivi naturali; l'imperatrice Joséphine, vestita da Leroy, è ammirata e copiata per la sua eleganza.
1801 La macchina Jacquard è presentata a Parigi: essa permette una parziale automazione della tessitura delle stoffe operate. Il telaio da tessitore Jacquard si diffonde in Francia a partire dagli anni 1820, non senza resistenze.
1804 Creazione degli abiti di corte napoleonici. L’abito d’apparato maschile, escluse le uniformi militari o civili, resta fedele all’abito francese di Ancien Régime.
1806 Blocco continentale: vietata l’importazione di prodotti inglesi nei domini napoleonici. Napoleone, per proteggere le industrie francesi, vieta l'importazione delle tele indiane e gli abiti tornano poco alla volta ad essere più importanti (sete e rasi lucidi e pesanti, e velluti)
1810 Invenzione della macchina per filare il lino (Ph. de Girard). Nozze di Napoleone con Maria Luisa d’Asburgo e nascita del loro figlio, il re di Roma nel 1811.
1812 La moda preromantica si manifesta con abiti dalle maniche ornate di spacchi e volants per imitare quelli del Rinascimento. Il taglio ritorna alla sua sede anatomica, la gonna si svasa, con in basso rigonfiamenti, volants e spacchetti.
1815 –1830 In Francia con il ritorno dei Borboni al potere si afferma la "Restaurazione": il ritorno della legalità e dell’ordine prerivoluzionari si assesta in una situazione di compromesso fra quanto delle nuove istituzioni non si poteva più mutare e quanto delle vecchie era possibile ripristinare.Lo stile dell’epoca è uno stile essenzialmente borghese che succede agli stili Direttorio e Impero.
1817 Le prime macchine per il tulle sono importate di frodo dall’Inghilterra e installate a Calais. Il tulle industriale fabbricato con una macchina inventata nel 1799 da John Lindley e perfezionata nel 1807 da Heathcoat, incontra grande successo.
1818 Arrivo del “King cotton” americano sul mercato europeo.
L’inizio dell’Ottocento rappresenta, soprattutto nell’Italia settentrionale, un periodo di grande vitalità. Nella sua Vita di Ugo Foscolo il Pecchio afferma: “Milano… tutto a un tratto era diventata il teatro di continui cangiamenti…Tutto era nuovo: uomini, nomi, linguaggio, vestiti, emblemi. Era un cangiamento di scena simile a quei delle mille e una notte.” In effetti l’uniformità imposta da Napoleone a leggi, moneta, pesi e misure dà un’impronta unitaria all'Italia e favorisce il risveglio nazionale.
Il neoclassicismo proprio in Italia ha le sue radici più profonde e consiste in un’assimilazione di modi di vita e di espressione dal mondo classico e dalla mitologia. Per esempio il rifiuto quasi totale del colore nel costume femminile risente l’influsso della statuaria marmorea greco-romana, come la linearità delle fogge deriva dalla severità classica (abiti “a colonna”). Anche gli ambienti di abitazione risultano nudi, spogli, nella lucida freddezza delle pareti stuccate e dei pavimenti di marmo: hanno linee rigorose anche i mobili laccati, in genere in bianco con sobri ornamenti in oro.
Abbigliamento femminile e accessori
La terminologia rispecchia la sobrietà e semplicità della moda dell'epoca.
L’abito è indumento fondamentale, lungo fino alla caviglia, diritto, ma con una certa ampiezza che lo fa fluttuare camminando, alto-cinto da una sciarpa o cintura sotto il petto come all'epoca greca e romana. Scompare il busto e la veste è di stoffa leggera e spesso chiara. La severità è mitigata dalle braccia nude, coperte solo all’attacco da una brevissima manica a palloncino, e dalla vasta scollatura quadrata, più tardi a barchetta; per gli abiti invernali la linearità è ottenuta con una manica tipo guaina aderente, attaccata al palloncino.
Dopo il 1805 (Napoleone re d’Italia), la semplicità dell’abito da sera comincia a complicarsi, con il grembiale della stessa stoffa o di pizzo, con ricami d’oro e d’argento applicati. Può completare l’abito da ballo o da gala la tunica, una veste completa infilata sopra l’altra, ma più corta e chiusa davanti solo in vita, oppure con allacciatura lenta fino in fondo perché l’abito interno resti visibile.
Negli abbigliamenti portati a corte (Milano è capitale) la tunica ha la “coda di prammatica”. Abito e tunica sono termini quasi equivalenti a sottabito o abito come risulta dal “Corriere delle dame”, però l’abito è chiuso e corto per mostrare, solo in basso, un palmo del sottabito riccamente guarnito.
Dopo il 1809, cambiano i termini, ma non la sostanza. Si parla di soprabiti e abiti della stessa stoffa, spesso leggera mussola, portati uno sull’altro, ma con una sfumatura di differenza perché il soprabito è considerato più severo e non si porta per il ballo. L’insieme ha un tono più modesto e le scollature a punta sostituiscono quelle precedenti quadrate e grandissime. Nel 1811, in piena estate, il “Corriere delle dame” intima di mai più far vedere “gole, petti, e spalle scoperte”. Le vesti scollate sono relegate a corte e ai balli.
Il tramonto delle scollature è accompagnato dalla moda di una specie di corta chemisette o camicetta indossata sotto l’abito, che sale fino al collo con balze arricciate (ruches) a formare un triplice o quadruplice collare di mussola o pizzo, il cosiddetto collare alla spagnola, in riferimento alle “lattughe” cinquecentesche. Affine, ma meno diffusa della camicetta è il canezou, corpettino con bavero a tre giri; esso si porta sopra l’abito come un giacchettino, non sotto come la camicetta che, solo parzialmente in vista, si può considerare come capo di biancheria.
Anche il sottanino o sottabito, pur mimetizzato come capo di vestiario, può essere considerato un capo di biancheria di cui si decreta ufficialmente la scomparsa; tuttavia nel 1809 sotto l’orlo dell’abito spunta un paio di prosaiche mutande, benché nobilitate col nome di pantaloni, strette sopra la caviglia e terminanti con balza a ricami e merletti: l’effetto di questa moda, quasi rifiutata in Italia, è goffo, con l’abito dalla vita cortissima e maniche lunghe, mentre alcuni decenni dopo appariranno le graziose mutandine con balze ricamate sotto le ampie e corte sottane delle bambine.
Le maniche tendono a diventar più graziose: 1815, maniche a l’elefante (terminanti a punta come una proboscide), a gonfiotti (larghe, ma chiuse a brevi distanze da anelli di stoffa con sbuffi di tessuto tra l’uno e l’altro), infine nel 1819, maniche à la kalmuke (con tre gonfiotti in fondo) e à la vanité (due gonfiotti in basso, uno in alto, polso arricciato). Queste mode fugaci rinnovano l’abito, ma, in generale, le maniche sono strette dalla spalla al polso con polsino rivoltato e talvolta sostituite da quelle bianche della camicetta, finché nel 1821 tornano di moda le maniche estremamente corte.
Come guarnizioni, oltre i ricami e i gonfiotti (per le maniche, ma anche verso l’orlo della veste, talora col nome di “burloni”), compaiono, soprattutto dopo il 1814, i fiori artificiali, appuntati sul lato della scollatura o verso l’orlo della veste, in ragione anche il loro significato politico. Sul “Corriere delle dame” del maggio 1814, dopo la sconfitta a Lipsia e l’esilio di Napoleone all’isola d’Elba, si annuncia che “il giglio, emblema reale di Francia, è oggi a buon diritto il fiore favorito dal bel sesso; durante i Cento giorni nel Nord Italia sotto gli austro-russi, si afferma l’uso delle violette (emblema napoleonico); infine dopo Waterloo, si afferma che viole e garofani sono da bandire in quanto “segnali di odiati partiti”.
Nei primi anni del secolo, l’influsso neoclassico vieta i soprabiti come noi li intendiamo, pertanto le donne si affidano a scialli o sciarpe (strette e lunghe) o a fazzoletti annodati al collo, per proteggersi dal freddo invernale. Nel 1810 interviene a coprire le scollature lo spencer, giacchetto corto (non oltre la vita) a maniche lunghe, d’inverno in velluto, d’estate in tessuto leggero. Dal 1816 esso assume spesso carattere militaresco con alamari (spencer all’ussera o all’ungherese); poi, tende a diventare un corpetto allacciato dietro e perfino scollato, con una finta abbottonatura sul davanti.
Intanto sotto l’incubo della terribile epidemia di influenza del 1805, nel 1806 appaiono le prime dogliette (dal francese douillettes) o cappotti d’inverno, soprabiti incrociati davanti, leggermente imbottiti e foderati di pelliccia. La versione da inverno adotta due o tre baveri (come nei cappotti maschili) e tessuti pesanti come il cachemire mentre prima si preferivano la leggera florans e la mussola: questo soprabito a baveri è indicato come carrick (1817). Simile ai soprabiti e alle dogliette è il redingotto femminile di panno in principio dai quattro-cinque baveri.
Nel 1815 si nomina la witzchoura, soprabito con cappuccio.
Nelle acconciature femminili il gusto neoclassico è spesso fedele ai modelli antichi: capelli tenuti aderenti al capo con un incrocio di galloni (dall’acconciatura greca dell’ampux), acconciature alla greca con fiori e perle. Si discosta dalla classicità la foggia inglese con copiosi riccioletti ricadenti sulle guance, detti tire-bouchons (cavatappi) e, più tardi, anglaises.
Parigi lancia la moda delle parrucche e cuffiotti, ma le signore italiane preferiscono le pettinature di capelli, più semplici per le passeggiate in carrozza, più ornate per il teatro o il ballo. Dopo il 1814 la linea della pettinatura si rialza nettamente con i capelli intrecciati stretti in un rotolo al sommo del capo: così doveva essere acconciata la contessa Frecavalli che, nel 1821, andando in Piemonte, nascondeva tra le sue trecce una lettera di carbonari lombardi per esortare l’esercito regio a passare il Ticino per portare aiuti contro gli austriaci. Queste rigide acconciature ben si adattavano al colore venuto di moda: il castano scuro. Ma in Italia incontrano di più le pettinature alla vergine con capelli divisi in due bande lisce incornicianti la fronte e raccolti dietro sulla nuca. Un netto richiamo al romanticismo è la pettinatura alla Maria Stuarda.
Al principio del secolo, nel periodo più strettamente neoclassico, l’ornamento preferito per i capelli è la ghirlanda di fiori, poi compariranno mazzolini isolati, piume, penne di airone o fasce di garza. Il cappello più tipico è quello alla Pamela, con larga tesa incurvata a incorniciare il viso e talvolta allacciato sotto il mento alla bebè, in alternativa con il cappello cilindrico di ispirazione militaresca. Sotto ai cappelli o al loro posto si portano cuffie orlate di pizzo e berretti di varia forma.
Osserva la direttrice del “Corriere delle dame” che la moda di “incanestrare” il viso nel cappello alla Pamela è illogica col caldo estivo e andrebbe rifiutata e nei figurini di “Mode d’Italia” che essa cerca di lanciare in autonomia dalla tirannica moda parigina si vedono spesso figure senza cappello e con un gran nodo di nastro di gusto originale. Va detto, in proposito, che in concomitanza con la difficoltà di procurarsi figurini francesi, per esempio nel 1814 (caduta di Napoleone e relativi sconvolgimenti) appaiono saltuariamente figurini di moda italiana e la direttrice del “Corriere delle dame” giustifica questa rivendicazione di autonomia con le differenze di tipo fisico, ma anche di gusto e tradizioni, dell’Italia, meno audace e bizzarra di Parigi. Nonostante la resistenza delle signore italiane a scostarsi dalla moda francese Carolina Lattanzi, nel 1816 insiste con qualche figurino originale e dal 1819 pubblicherà la “Moda di Milano” per rivaleggiare con Vienna e Londra, accanto a Parigi: un’iniziativa di poco successo.
Un’esigenza di naturalezza, come negli abiti, si avverte nel trucco che rifiuta nei e rossetto esagerato e si fa orientare da norme igieniche. Nel 1811 il libretto del dottor Francesco Bruni denuncia come dannosissimo alla salute, benché fonte di meravigliosa bianchezza per la carnagione, l’uso delle composizioni al piombo, della Cerusa, dell’aceto di Saturno, del magistero e fiori di Bismut; i loro componenti avvelenano il sangue e l’abuso rende livida e secca la pelle. Inoltre mette in guardia contro il rossetto di minio (estratto velenoso del piombo) e consiglia semplici prodotti, come vino, uova, bulbi di giglio, burro di cacao per le labbra, risciacqui di “acqua leggermente spiritosa”per i denti, maschere a base di farina e bianchi d’uovo, per chi vuole la bellissima carnagione delle donne veneziane e -curiosa superstizione- applicazioni, per la pelle, di “sangue caldo di lepre ammazzata di fresco”. Da bandire, secondo il dott. Bruni, le tinture chimiche per capelli, da sostituire con quelle vegetali a base di tannino, mallo di noce, carciofo, seme di papavero. Per rinforzare i capelli raccomanda sostanze moderatamente grasse: “midollo di bue unito all’olio di oliva, il sugo di cipolla bianco, lodato dalla scuola di Salerno, il burro fresco, il grasso d’oca”. I prodotti di bellezza sono comunque lasciati all’arbitrio e rapacità di profumieri che, con nomi echeggianti il francese, promettono risultati meravigliosi. Qualcuno ispira fiducia per la sua semplicità: l’acqua di essenza di fraghe, per esempio, odorifera e delicatissima, distillata a Milano da Giuseppe Hagy.
Abbigliamento maschile e accessori
L’abbigliamento maschile della prima metà dell’800 è caratterizzato da due capi fondamentali: il frac e la redingote, indossati su pantaloni lunghi. Il frac è di linea simile alla marsina, ma privo di ricami. È realizzato in stoffa di panno dai colori scuri, nero o blu. Sotto al frac, si indossano il panciotto attillato e, inizialmente, i calzoni aderenti che arrivano sotto al ginocchio. In alternativa al frac, di mattina, si indossa la redingote: una lunga giacca attillata in vita, chiusa da bottoni e caratterizzata da una falda molto ampia. Sotto la redingote si indossano il gilet e la camicia.
Cappello tipico napoleonico è la feluca sopra capelli corti con lunghe basette.
In Inghilterra Lord Brummel (1778-1840), maestro di eleganza e prototipo del “dandy” (termine comparso intorno al 1815), lanciò la moda della giubba blu dai bottoni d'oro abbinata ai pantaloni color crema, assai attillati, con i lucidi stivali neri al ginocchio; e, tra gli alti risvolti della giubba, abbagliava per il suo candore la cravatta, morbida scultura, alla quale il “Beau” dedicava ogni cura, annodandola alla perfezione. Sul capo il cilindro che si dice apparso in Inghilterra nel 1797.


Il periodo romantico-aristocratico (1822-1835)
1824 Apertura de “La Belle Jardinière ”, primo magazzino di confezioni in serie. Già in età napoleonica alle “marchandes de mode” si erano sostituiti i “magasins de nouveauté” per abbigliamento e accessori, resi visibili dall’esterno in vetrine illuminate poi anche di notte con lampade a gas.
1827 Creazione della Società industriale di Mulhouse che sostiene e diffonde i progressi dell’industria del cotone.
1827-1829 Apertura del magazzino dei “Trois Quartiers” .
1829 La maison Lefébvre, fabbrica di pizzi di qualità, s'installa a Bayeux.
1830 La moda romantica consacra il taglio con il vitino di vespa stretto nel corsetto che valorizza le maniche voluminose di varia forma (« à gigot », a cosciotto, « en béret » a berretto) e la gonna a campana; gli uomini indossano molti gilet sovrapposti e attillati, con una cravatta annodata sotto il mento; i bambini sono vestiti come adulti.
1829-30 Prima macchina da cucire (B. Thimonnier): i sarti l’avversano perché ne temono la concorrenza. Si affermerà solo più tardi (anni ’50) affiancando il lavoro manuale. Prime macchine per filare il lino e il cotone.
1831 Rivolta dei “canuts ” (operai della seta) lionesi contro l’adozione della macchina (telaio) Jacquard, ritenuta responsabile della disoccupazione.
1832 La “perrotine” permette di imprimere i tessuti su tavola in più colori simultaneamente .
1833-1922 Il "Journal des Demoiselles", pubblicato in varie edizioni, diventa una delle riviste di moda più diffuse del XIX secolo. Il romanticismo spazza via la rigidità longilinea del neoclassicismo e influenza la moda più di quanto possa il clima politico (il ritorno all’ordine dopo il Congresso di Vienna). Lo spirito pratico dei borghesi è immune dai fasti e dagli eccessi coltivati finora, ma non dagli ideali forti del Romanticismo che fanno emergere l’interiorità di uomini e donne il cui aspetto fisico sarà specchio di animi tormentati e inquieti.
Patria, amore e morte sono temi dominanti del Romanticismo, come l’ispirazione funeraria e, voltate le spalle ai classici, l’ispirazione a un Medioevo di maniera interessa la moda come la letteratura: nelle fogge del vestire, per esempio, influiscono i romanzi di Walter Scott.
Dall’Inghilterra giungono gli slanci appassionati delle liriche di Lord Byron, volontario della lotta di liberazione dei greci dai Turchi e promotore della voga filellenica in auge in Europa: i suoi versi ispirati al Bel Paese sono letti avidamente dagli italiani. Un colore di moda per gli uomini è proprio detto “Lord Byron.”. Altre mode del tempo si ispirano ai costumi della Polonia e al sacrificio dell’eroe Kosciuszko.
Le urne funerarie, i salici piangenti, l’edera tenace, simboli di fedeltà o di pianto, sono ornamento dei giardini all’inglese, ispirati ai paesaggi naturali, rompendo gli schemi dei giardini all’italiana.
Un tono appassionato e struggente pervade tutte le manifestazioni di vita: ciò spiega anche la moda del pallore, reso più fatale dal contrasto coi capelli lucidi e neri; pallore non solo femminile e intonato anche alle pettinature virili en coup de vent ("a colpo di vento") che sembrano ombreggiare la fronte, sconvolte dal soffio della tempesta.
I deliqui sono di moda complice il busto che ricomincia a stringere la vita femminile nella sua morsa. Le morti premature sono onorate e la tisi, come il suicidio, è idealizzata: se proprio non si soffre e non si muore, è però conveniente non mangiare troppo e non mostrarsi troppo allegri: a tavola le signore usano deporre i guanti nel bicchiere e assaggiare appena qualche dolce per dimostrare la loro natura eterea*. Le lacrime scorrono facilmente e i grandi fazzoletti di batista sono pronti ad asciugarle. E’ in auge il colore grigio, polvere delle ruine.
In generale è la Francia che detta la moda e i tentativi di figurini “nostrani” su “Moda d’Italia” sono destinati a poco successo.
L’abbigliamento femminile e i suoi accessori
Nella moda femminile dal 1822 al ’35 influisce l’aristocrazia legittimista che circonda i sovrani restaurati. Le due correnti, romantica e legittimista sono accomunate dall’individualismo nella duplice versione del ribelle romantico e dello sprezzante aristocratico superiore alla legge comune.
Tramonta il verticalismo e si affacciano le linee orizzontali che “spezzano” la figura femminile.
La vita torna alla sua posizione naturale. Le sottane si accorciano e allargano col sostegno della tournure (una striscia di ovatta trapuntata tra due strati di seta che prende questo nome dal termine francese indicante “aspetto, figura, garbo”: avere una bella tournure).
A bilanciare questa larghezza le maniche si gonfiano smisuratamente dalle spalle fino al gomito, quasi ali di farfalla. La parte superiore del corpo è chiusa dal corsetto; la linea sottile in vita si ottiene con la stretta del busto che riappare timidamente, ma poi si afferma con decisione, armato di stecche e completo di cordelle per stringerlo. Le larghe scollature da spalla a spalla aggiungono un tocco di piccante eleganza.
L’estroso gusto aristocratico si manifesta negli ampi e ricchi turbanti, ma soprattutto con i cappelli non più arcuati intorno al viso ma a larghe (anche troppo) tese orizzontali, leggermente rialzate da un lato: in proposito, nel 1827 osserva il “Corriere delle dame” che “l’ampiezza dei cappellini supera quella degli ombrellini”. Li completa il ricco ornamento di piume di struzzo alte e arricciate talora ricadenti fuori dell’ala del cappello, verso la spalla. In alternativa i fiori, copiati dal vero, ma ingranditi e vistosi. Si continuano a portare le capotes, ripudiate dalla moda, solo alla fine di tale periodo rimpicciolite. Resterà stabilmente nel linguaggio della moda l’abito en blouse dalla ricca stoffa raccolta alla vita in pieghe sfatte o in increspature, ma le donne non slanciate si accontentano della mezza blouse con sottana liscia.
Già apparso in periodo neoclassico è il redingotto ora detto alla francese redingote (maschile poi femminile) allacciato davanti ma non più incrociato e spesso con cintura e fibbia. Molto simile per semplicità del taglio l’abito pardessus (di sopra). L’abito ad amazzone, per cavalcare, in origine, è maestoso per la larga sottana che copre la gamba piegata sull’arcione, mentre meno ampie sono le maniche.
Per ripararsi dal freddo e completare l’abbigliamento si usano indumenti già del periodo neoclassico: douillettes o dogliette; pelisses foderate di pelliccia e ampi e rotondi mantelli che possono avere ampie maniche. Inalterate anche le camicette o chemisettes, mentre i canezou si evolvono dal 1830 sottolineando la volumetria orizzontale con “doppia rivolta a schall” e nel 1832 con il tipo canezous-pélerines. Gli spencer sono meno numerosi che in precedenza e si tende a confonderli con i corpetti. Per coprire le ampie scollature si usano grandi fazzoletti piegati in due a triangolo di cui una punta ricade dietro e due ai lati del petto. Stesso scopo hanno i fichu (in Italia, detti per la loro funzione “modestina”), con due lunghe bande sul davanti (talora detti fichu pellegrina).
La vera e propria pellegrina (mantellina o largo bavero a coprire spalle, braccia, talvolta fino al gomito o al polso), è caratteristica della tendenza volumetrica di questo periodo. Può essere doppia o triplice, come parte integrante dell’abito o del mantello, ma spesso come indumento a sé stante, leggerissima e usata per eleganza nella stagione calda, ma anche dal 1834 imbottita e foderata di pelliccia. Nel 1835 le pellegrine imbottite saranno distinte col nome di polacche o polonesi, eventualmente con maniche sfilabili. Il nome è sintomatico dell’interesse per la Polonia, invano in lotta per la libertà**. Simili i mantelletti o mantelline. Più piccole ma analoghe le palatine, solitamente di pelliccia, (per es. chinchilla), ma anche di raso per andare agli spettacoli.
Un’evoluzione civettuola e ridotta della palatina è il boa (il cui nome deriva dal terribile boa constrictor dalle spire mortali), lunga sciarpa tubolare, per lo più di pelliccia, ma anche di piume di struzzo o di marabout e, nella stagione estiva, di garza o tulle, appoggiato ad accarezzare la nuca e pendere sul davanti, o posato davanti sul collo e pendente dietro, oppure soltanto da un capo in modo che nella sua lunghezza possa essere incrociato così che le sue “spire” faccian risaltare per contrasto il nudo dell’ampia scollatura. Il boa, però, si porta anche con le redingote chiuse e le dogliette, serrato intorno al colletto e quasi a far parte del soprabito. Affini ai boa sono lunghe e sottili sciarpe che verso il 1835 vengono designate come stole.
Il più caratteristico complemento del vestiario è lo schall o scialle, in crespo di Cina o tessuto “uso cachemire”, per lo più fabbricato a Lione, che avvolge quasi tutta la persona. Dal 1830 si impone però lo schall di cachemire importato dalle Indie e tanto in voga che sul “Corriere delle dame” si parla di “febbre dei cachemires”. Caldo e leggerissimo così da passare in un anello, con i suoi finissimi disegni, può essere panneggiato intorno alla figura fino all’orlo della veste ed è un vero status symbol in quanto il suo prezzo parte dai 30.000 franchi oro e può arrivare ai 10.000. In estate sono usati gli schall veneziani bianchi a disegni gotici, quindi ben diversi dai neri scialli delle popolane di Venezia.
Nel 1830 appaiono anche, ad accompagnare redingotes e pelisses, graziosi manicotti rotondi, dimenticati nel periodo neoclassico.
La voga del pallore più degli allarmi degli igienisti limita il trucco del viso. A Milano l’italianissimo profumiere Salagé vende prodotti innocui a base di giglio, cipolla e miele per il viso, olii profumati per i capelli, polveri e “spazzettini pei denti”, “spazzette” per le unghie che il “Corriere delle dame” consiglia di tenere lunghe e appuntite a “moda da falco”.
All’inizio del periodo romantico lo stile delle pettinature è estroso e spicca come un punto esclamativo sulle figure femminili allargate dalle enormi maniche e gonne scampanate. I capelli divisi sulle fronte con ricci sulle tempie e in sommo al capo si innalzano verticalmente con un intreccio multiplo (nodo d’Apollo). Una sorta d’ossatura di bronzo dorato lo tiene ritto e fermo tanto che si chiama quest’acconciatura alla giraffa. Nel clima immobile, in superficie, della Restaurazione, la prima giraffa esposta al Jardin des Plantes di Parigi solleva clamore e suggerisce il nome anche ad un colore giallino come il suo pelo. Un’altra moda è la résille, rete ispirata al Rinascimento che imprigiona i capelli sulla nuca, come reazione alle pettinature alte.

Con le sottane un po’ accorciate assumono importanza le calze: già nel 1822 si portano, contro il freddo, calze nere trasparenti di seta con sottocalze di lana color carne; poi si passa calze fitte a fori piccolissimi e il “Corriere delle dame” scandalizzato commenta: “calze di tulle, bisogna vederle per crederlo”. Meno fini, ma originali le calze bianche ricamate a fiori neri o a colori vivaci e altre così descritte nel 1829: “in seta color carne con ricamati alcuni uccellini in blue navarino o farfallette a più colori”. Con gli stivaletti si portano calze di filo di Scozia, ma sopra calze di seta rossa per mitigarne la ruvidezza. Per la sera e per il ballo si usano calze di seta bianca e tutte le calze vanno cifrate in alto con le proprie iniziali e fregiate col nome del fabbricante. Nei corredi di lusso sono previste dozzine di calze di seta e di filo di Scozia in eleganti scatole di raso rosa e, eventualmente, “per prova della eccessiva loro finezza, rinchiuse entro a gusci di noce”.
La raffinatezza aristocratica influisce anche sulle scarpe: per quelle in pelle o marocchino - pelli pregiate importate dall’Inghilterra- si usano colori nuovi dai nomi ricercati e bizzarri: puce émue (pulce commossa) per un bruno chiaro, color acqua di mare, grigio di lino, di lavanda, agata rosata. Molto scollate e a punta quadra, le scarpette sono assicurate al piede con un laccio incrociato che sale a circondare la caviglia valorizzandola (come negli scarpini da danza). Permane però la moda della seta e della stoffa, anzi, alla fine del periodo romantico-aristocratico la pelle comune e il marocchino sono confinati al passeggio, mentre per le visite e i teatri si usa la stoffa, soprattutto il gros-de-Naples bianco, divenuta troppo comune la prunelle. Non attecchisce invece la moda di talloni alti mezzo pollice per gli stivaletti. Eleganti sono anche le pantofole, spesso ricamate a mezzo punto o imbottite e trapuntate (douillettes, come i soprabiti).
Dopo il 1830 anche per i guanti sono di moda i colori più vari: scorza di bergamotto (il cedro del periodo neoclassico) mai usato nel vestiario, il blue svedese, il réséda, l’orange e, più tardi, per le grandi toelette tinte più delicate che anticipano il cambiamento del gusto (canino pallido, color di rosa o color di carne). I guanti più raffinati hanno sottili orlature di tulle, di nastri intrecciati, ricami d’oro e d’argento sul dorso della mano talora con lo stemma gentilizio. I guanti di Napoli sono rinomati fino agli Stati Uniti, più di quelli di Grenoble, Parigi e Londra. Verso la fine del periodo romantico-aristocratico compare il réseau de tulle soprattutto per i mezzi guanti o mitaines (in italiano “mitene”), una moda definita dal Corriere delle dame “disgracieuse”.
Tra i capi di biancheria è ormai ritenuta indispensabile la camicia, anzi nei corredi si ambisce a portarne in dote cento di finissima tela d’Olanda o batista ornate spesso di pizzi valenciennes. Se ne aggiungono sei dozzine per la notte, lunghissime fino ai piedi e larghe con maniche arricciate ai polsi e ornate di pizzo come il colletto; quelle di uso comune sono in percalle, altre più eleganti in mussolina o batista ricamate o a piccole pieghe, le più fini con lo sparato sul petto a doppio jabot di pizzo e guarnizioni al collo e alle maniche con nastri rosa o celeste.
Assortite le cuffie da notte in numero di alcune dozzine, che, nelle camere da letto non riscaldate, erano usate anche dalle giovani donne. Proteggevano invece il busto, in posizione seduta sul letto camiciuole o corpettini, talvolta foderati e con nodi di nastro di colore intonato.
Nel periodo romantico-aristocratico, le mutande non sono più in vista come alla fine del neoclassico; il loro uso è ormai corrente, di solito si enumerano a dozzine e, per praticità, sono in tessuti robusti (basin, percallo, coutil***) e si aprono lateralmente ai due lati della cintura. Non rinunciano però totalmente alle guarnizioni: pizzi e ricami al fondo o, nel caso del coutil, un sottopiede che le rende adatte per cavalcare.
Le maggiori novità della moda interessano le sottane e il busto. Appena le sottane si arrotondano con la tournure non ci si accontenta più di una sola sottana: d’inverno ce ne vogliono due o tre e quelle di batista sono inamidate per fare volume.
Alla fine del 1835 compare, anticipatore l’indispensabile, “jupon” (gonnellino, sottogonna) di raso bianco imbottito, una tournure completa da portare sotto altre sottane (nei corredi eleganti parecchie dozzine) di batista orlate di ricami e pizzi e anche di piquet o percallo operato o basin resistente per le cavallerizze.
Quanto ai busti, usati in omaggio all’ambizione del vitino sottile, diplomaticamente si usano termini eufemistici per rimuovere il ricordo infausto dei rigidi busti settecenteschi. Questo modellatore delle forme femminili viene decantato con enfasi, arrivando a dire che i meccanismi atti a renderlo più salutare e comodo “un giorno renderanno celebre il sistema Josselin come si rese celebre il sistema di Copernico”: si tratta dei busti alla Clémençon (l’inventrice parigina), dalle proporzioni variabili a seconda delle circostanze: toelette di gala, négligé di mattina, abito per montare a cavallo.
Hanno infine importanza, tra i capi di biancheria, i fazzoletti, fino a dodici dozzine nei corredi più ricchi, con ricami gentilizi e cifre, orlature a giorno, angoli ricamati e pizzo.
Graziosi complementi sono anche i collaretti di mussolina delle Indie, ricamati e dal modesto tono borghese.
Tipica manifestazione del periodo aristocratico-romantico sono i vari tipi di gioielli fantasiosi e teatrali per le montature spesso ispirate a un gotico di maniera. L’argento finemente cesellato e perfino l’acciaio e il ferro contendono il campo all’oro brunito, smaltato, lavorato a filigrana così che il valore intrinseco delle gemme scompare di fronte al pregio decorativo. Ingegnosi i gioielli vacillanti che, per mezzo di perni e spiraline oscillano ad ogni movimento della persona. Sono squisitamente romantici i monili di capelli intrecciati, ricordo di un caro perduto o pegno d’affetto o d’amore segreto, nel caso di ciocchette di capelli nascoste in nicchie scavate entri i gioielli stessi.
Le persone di buon gusto amano portare gioielli assortiti, la parure. In un documento del 1834 una parure di cammei risulta così formata: collana, orecchini, diadema, braccialetto, fibbia per cintura e -moda effimera- due fibbiagli per tener sollevate le maniche su per le spalle; stranamente è assente l’anello che era di moda portare al mignolo. Altri ornamenti di moda: la croce alla Maria Stuarda, la catena, l’orologio sottile, la spilla (“broche”), la ferronière (in italiano “lenza”) e altri curiosi ninnoli di oreficeria come il mazzolino di fiori cesellato in oro con piccole pietre preziose o in filigrana d’argento.

Eleganti accessori sono i ventagli di cui notevoli quelli in lamina d’oro traforata e, attualissimi nel 1830 quelli con scene ispirate alla presa di Algeri; nel 1835, a imitazione dell’antico, con scene mitologiche. Molto di moda quelli molto ampi.
Altro accessorio di moda i piccolo ombrellini dai manici con la manopola a forma di animali mostruosi (serpenti, teste di avvoltoio e di leone), poi, in alloro della Cina, palissandro o “bois de rose” con pomello d’oro o, se in bambù, con le iniziali della proprietaria incise su placchetta d’oro. Come per i ventagli un cappietto consente di sospenderli al polso. Una novità del 1835 anticipatrice sono gli ombrellini brisés (“spezzati”)cioè pieghevoli a metà del manico grazie ad una molla, per essere orientati verso il sole. Sono invece grandissimi e hanno un’alta frangia gli ombrelli da pioggia.
Le borsette perdono importanza, data la possibilità di nascondere gli oggetti utili nelle gonne e sottogonne. Gli occhialetti a lenti staccate posti a cavalcioni del naso, in seguito sono a lenti saldate da un ponte pieghevole per inserirle nella montatura quando non si usa l’occhialetto, ma dopo il 1830 questo utile accessorio non viene menzionato.
Più inutile, ma grazioso complemento della eleganza è il mazzolino di fiori freschi sia per andare a un ballo o in visita o a passeggio; un porta-mazzolino a canestrello d’oro traforato con manico d’avorio o madreperla permette di tenerlo in mano e poi lasciarlo pendere con una catenella che parte da un anello infilato a un dito (un sistema a catenella trattiene gli steli dei fiori per evitare che cadano). Alla fine del periodo aristocratico questa moda tramonta sostituita dalla predilezione per i ventagli.
L’abbigliamento maschile e i suoi accessori
Permangono i soliti indumenti maschili, al di fuori del soprabito, l’abito o frack, il redingotto (poi redingote), ritenuto più elegante del frack, i gilets e i calzoni.
Il taglio del frack con vita aderente, petto convesso, maniche gonfie in alto e falde corte ricordano la moda femminile del vitino. I bottoni metallici, di solito dorati, sono più piccoli che nel passato; il taglio del collare e del risvolto del frack all’inglese, a zig-zag come l’emme maiuscola, sostituisce il collare quadrato o a schall. Colore abituale del frack è il nero o il blu scuro; permane la moda neoclassica di due gilets sovrapposti con l’effetto del cosiddetto cosiddetto “petto di anitra”. Per eleganza si portano gilets ricamati o di tessuto imitante l’antico. Nel 1827 la giraffa esposta al Jardin des Plantes di Parigi ispira i gilets a giraffa di color giallino e a pomelli grigi.
I calzoni, in principio sono a taglio tubolare un po’ corto (americano), ma è ritenuto più elegante quello stretto alla caviglia con 4-5 bottoncini. I colori hanno nomi come “sospiro represso” o “colore della pelle di un pastore abbronzato dal sole” (un bruniccio). Alla fine del periodo compaiono i pantaloni alla tirolese con la novità delle tasche sul fianco, poi quelli a gamba d’elefante, o pantalons-là lunghi e allargati al fondo e, per le corse, quelli a carta di musica a gruppi di cinque righe marcate e distanziate come il rigo musicale.
All’inizio del periodo romantico sono importanti i soprabiti, tra i quali quelli del periodo neoclassico come il surtout e il carrick a molte pellegrine. Il diebitsch (nome di un generale russo vincitore dei libertari polacchi) ha guarnizioni di pelliccia (astrakan) e alamari. In linea con lo spirito del tempo sono gli ampi mantelli (si può ricordare il gesto di Silvio Pellico che distende a terra il suo mantello per riguardo a Gegia Marchioni nel momento dell’addio, ne Le mie prigioni).

La pettinatura non cambia: per vezzo si ostenta di scompigliarla con la mano, quasi “a suscitare la scintilla elettrica del pensiero” come si dice con ironia. Nel 1828 le basette si riuniscono sotto il mento a formare una sottile striscia di barba, moda adottata da Cavour e da lui conservata anche quando superata. Talvolta a questa foggia si uniscono piccoli baffi cadenti e una sottile mosca. Barba e baffi assumono un significato politico come emblema di carbonarismo.
Il cappello maschile continua ad essere alto e di forma cilindrica (cilindro o tuba alta), o rastremato verso l’alto o rigidamente diritto, modello, quest’ultimo, che viene detto zero coi conseguenti giochi di parola (“zero in testa”). Il feltro da peloso diviene lucido e rasato e nel 1834 viene lanciato, dall’omonimo cappellaio parigino, il gibus, cilindro che, per mezzo di sottili molle interne, può essere appiattito e portato sotto il braccio. Rara la claque, specie di bicorno. D’estate si usano cappelli di paglia o feltro leggero.

Emblematici della raffinatezza aristocratica alcuni particolari: per la sera le calzette di seta nera e le scarpe “inverniciate”, di giorno calze in refe (filato ritorto di lino o cotone o canapa) e, con i calzoni chiari, intonate ad essi o bianche. Le scarpe da giorno sono di cuoio e, comunque, tutte a punta quadrata. Le camicie sono di finissimo lino, ornate di jabot (l’italiana “portina”) con piegoline o pieghe a carta di musica.
La cravatta di batista, talvolta inamidata, era aggirata molte volte intorno al collo, lasciando sporgere il colletto della camicia e annodata sul davanti in vari modi (in trattatelli dedicati al tema si elencano fino a trentadue modi di annodarla). La si assicura con due spille poi una sola. Da noi stenta ad affermarsi la cravatta nera, fermata da una perla, forse perché più adatta agli occhi azzurri e capelli biondi degli inglesi che ne lanciano la moda (lord Brummel dedicò le sue attenzioni, in particolare, a questo capo di abbigliamento) .
Uno dei più tipici gioielli maschili sono i bottoni dello sparato della camicia, all’inizio cinque diversi, di pietre preziose o semipreziose, tanto più che, scomparendo il jabot, la camicia resta in vista così come i suoi polsini orlati di pizzo leggero. Un solo anello è portato al mignolo della mano sinistra e l’orologio è un poco più grande di quello femminile.
Eleganti accessori l’occhialino, appeso a un sottile nastro nero e poi a una catena d’oro o d’argento, e il bastone o canna, di legno pregiato, dal 1829 in ebano con pomo cesellato talora contenente il necessario per fumare.
Gli ombrelli sono semplici e grandi ed è ingegnosa invenzione italiana il bastone-ombrello.Vezzo arrogante è il fouet, il frustino, da tener in mano anche quando non si cavalca.
L’abbigliamento infantile
Accanto all’usuale “en blouse” appaiono timidamente vestiti e cappelli alla marinaia, poi imperanti a fine secolo; per i maschietti si inizia ad adottare per eleganza il costume regolamentare del collegio aristocratico di Eton in Inghilterra: giacca corta alla vita con punta posteriore nel mezzo e calzoni lunghi.

* V. Mario Praz in La carne, la morte, il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni, 1988.
**Alla patria infelice e a Varsavia caduta nelle mani dei russi nel ’33 il compositore polacco Chopin dedicherà le sue polacche, in particolare la appassionata Grande polacca “Eroica” op. 53.
*** Basino: stoffa di cotone (“basino”); percallo: tessuto di cotone molto leggero (dal persiano “pargalè”, pezzo di tessuto); coutil: tessuto robusto a trama fitta, usato molto per i busti (“traliccio, rigatino”).

Il periodo romantico-borghese (1836-1855)
1839 Verso il 1840 l'applicazione del sistema Jacquard al telaio per il tulle consente la fabbricazione di pizzo meccanico che imita perfettamente quello realizzato a fuso.
1845 La moda che si afferma prevede abiti in due pezzi: un corsetto e una gonna guarnita di balze sovrapposte, sostenuta da una crinolina-sottogonna rotonda in tela intrecciata di crine; un corsetto corto mette in valore le spalle.
Il Quarantotto deflagra in Europa.
1850 La suffragetta americana Amélia Bloomer lancia la moda dei pantaloni a sbuffo sotto una veste accorciata all’altezza del ginocchio. Il "bloomer", di scarso successo, sarà adottato dalle cicliste fin du siècle.
1851, 2 dicembre : colpo di stato di Luigi Napoleone. Prima Esposizione universale di Londra (Crystal Palace).
1852 Apertura del "Bon Marché" , seguita da quella dei Grandi Magazzini del Louvre nel 1855 e del Bazar de l'Hôtel de Ville nel 1856.
1853 “La Traviata”, G. Verdi.
1855 Esposizione universale a Parigi: grande interesse per le macchine da cucire che, dopo le iniziali diffidenze suscitate, con il nuovo modello brevettato da Singer (Stati Uniti, 1850), iniziano a diffondersi.

Il 1836 segna una svolta e, soprattutto verso la metà del secolo è evidente l’influsso del gusto borghese legittimato da salotti autorevoli come quello della contessa Maffei a Milano (A Torino si potrebbe ricordare quello di Olimpia Savio, di cui è conservato un bel ritratto al Museo del Risorgimento di Torino).
Alla spavalderia succede l’austerità, alla passione il sentimento o un sentimentalismo convenzionale, ai colori vivaci una certa modestia e tinte spente.

Da ricordare, in Italia, il lancio, nell’accesa atmosfera che precede i moti del 1848, di un vestito nazionale che, per riannodarsi alla tradizione, dovrebbe utilizzare stoffe italiane. L’idea di adottare un modo di vestire che stimolasse slanci liberali e patriottici, durante il dominio austriaco, inizialmente si era limitato al cappello su iniziativa spontanea di gruppi di giovani che si riunivano nei caffè milanesi (“della Peppina”, vicino al Duomo e “della Cecchina”, quasi di fronte al Teatro della Scala); poi, con un tam-tam, si era diffusa in Piemonte e nel Napoletano. Emblematica la proibizione di questi cappelli con decreto austriaco del 15 febbraio 1848 a firma del barone Torresani Lanzenfeld.
Ma già nel 1848 si parlava di vestito o costume all’italiana come “dimostrazione antipolitica”: una celebre stampa di dama con bandiera, del’48- forse Cristina Belgioioso Trivulzio, accorsa a Milano con un battaglione di volontari napoletani- rappresenta questa foggia. Il costume all’italiana o alla lombarda compare sui giornali di moda ed è oggetto del sarcasmo dell’austriaco conte Hübner che, rimasto a Milano durante le Cinque giornate, ne riconosce tuttavia il fascino.
L’abbigliamento femminile e i suoi accessori
Ancora imperanti sono le mode francesi, con due principali indumenti femminili: il corsetto e la sottana che danno alla figura una linea affusolata, essendo il corpetto aderente e la sottana gonfiata dalla crinolina da non confondere col guardinfante o verdogale del Settecento. La donna assume la forma detta “a copriteiera”: si sviluppa l'ampiezza della gonna sostenuta da una fodera di crine rinforzata da cerchi di vimini.
Il corsetto da sera è scollato, con maniche corte, punta in vita sul davanti (alla Medici o, da noi, alla Maria Stuarda); per il giorno è molto aderente, ma severamente chiuso con maniche lunghe e strette, che si affermano su mode passeggere come gli sgonfiotti.
Ma la vera novità è lo scalfo della manica, ingegnosissima e anonima soluzione al problema della piegatura del braccio e della sporgenza del gomito variamente affrontato fino ad allora con tagli, in apparenza ornamentali, a spalla e gomito, ma finalizzati a dar agio nei movimenti, oppure con maniche allargantisi sopra il gomito verso il polso o, infine, con le maniche corte. Con lo scalfo, l’attacco della manica, anziché essere un arco ugualmente convesso nelle due metà, si presenta convesso nel lato esterno, sfuggente nell’interno; in seguito si perfezionerà con un incavo (échancré) nella parte interna della manica e diverrà tecnica acquisita di tutti i sarti. Alle maniche aderenti o ajustées si alternano quelle alla réligieuse piuttosto corte con una sottomanica in vista dai ricami assortiti con quelli del collettino.
Accanto ai corsetti aderenti, rinforzati da stecche di balena, meno frequenti quelli a leggere pieghe o arricciati (à la vierge, à l’enfant, a gheda, à coulisse o, per la sera, alla greca). Il sarto abruzzese Pasquale di Silvestre, attivo a Napoli, inventa un busto speciale senza cuciture.
Importantissima la sottogonna o crinolina così chiamata per il materiale usato, crine intessuto con fili di lino o di seta in modo da renderla rigida, ma non sgualcibile, neanche sedendosi, un tessuto inventato dal sarto parigino Oudinot e inizialmente usato per cappelli e colletti. La forma era quella di un’ampia sottana fittamente arricciata, per ammorbidire l’effetto della quale si sovrapponeva, prima della gonna dell’abito, un’altra sottogonna di seta.
Accanto al corsetto staccato è in voga la redingote, abito intero con collettino in batista o risvolti in velluto, adattato al busto con stecche e piegoline interne (pinces) e simile all’amazzone.
Morbidi e disinvolti sono invece i peignoirs, senza o con poche stecche leggere, aperti sul davanti, usati per il teatro o le visite o anche in casa; infatti tendono a confondersi con le vesti da camera, da indossare alzate dal letto e il termine stesso indica la mantellina per pettinarsi.
Passeggera la moda del gilet con taschino per orologio munito da catenella che si attacca ad un occhiello.

Svariati i soprabiti, nella linea della continuità: mantellina, pellegrina, palatina, polacca, polonese, pardessus, visite, spencer, tabarro, douillette, witchouras. Nuovo, almeno nel nome, il camail (dall’antico italiano “camaglio”!), mantello lungo e spiovente, e il kazaweika (termine lituano) con maniche, simile allo spencer. Novità è il paletot di tipo maschile.
Grande diffusione hanno le pellicce: martora e, dopo il 1840, l’ermellino usato, oltre che per i soprabiti, per le vesti da camera. Pellegrine e palatine sono interamente di pelliccia; il boa fa una fugace apparizione, mentre è sempre in voga il manicotto. In Italia si porta anche per strada, di giorno l’ermellino, riservato oltralpe alla sera,.
Sempre di moda gli scialli cachemire prestigiosi, passeggero l’uso di altri scialli come il Ruy-Blas (dal dramma di Victor Hugo) e lo scialle arabo burnùs.

Le cure di bellezza sono più discrete che in passato, ma permane la moda del pallore con un leggero tono ocrato che prende nome da una famosa attrice, Rachel. Col 1836 si stabilizza l’acconciatura bassa e raccolta, all’inglese, coi capelli spartiti sulla fronte e arrotolati sulla nuca e grappoli di lunghi ricci sulle guance (le anglaises). Unica variante: nel 1844 i bandeaux vengono ondeggiati o si adornano le tempie con lenti giri di trecce. Pochi gli ornamenti: qualche spillone e qualche fiore. Ancora in uso le résilles (reticelle), di cui un tipo prende il nome da Rachel che pure dà il nome a un genere di turbanti di gusto rétro. Tipicamente borghese è la cuffia, anche per i ricevimenti, piccola e senza fondo, così distinta da quella da casa o per la notte.
Meno importanti sono i cappelli che abbandonano la forma ad ali tese per quella a capote che incornicia il volto e può avere un mezzo velo di blonda* , discreto e misterioso; molto in voga quelli a gheda, ossia arricciati, (in francese à la coulisse). Una moda nuova e di lunga vita è quella del bavolet, piccolo rettangolo di stoffa arricciata che copre la nuca. Le guarnizioni sono in fiori dai delicati colori.

Le lunghe sottane tolgono importanza e conferiscono praticità a calze e calzature; in alcuni corredi appaiono solo calze di filo di Scozia, ma per la sera si usano anche quelle di seta nera o di ogni colore o ricamate.
Le scarpe si distinguono nettamente da quelle del periodo precedente per il tacco moderato. Per la sera sono indicati nero e bianco, per il giorno, dal 1842, l’assortimento col colore dell’abito. Per lunghe passeggiate si adottano stivaletti di morbida pelle di daino, color grigio e, in generale gli stivaletti (brodequins) dopo il 1840 godono di sempre maggior favore. In seta e velluto, d’inverno si foderano e bordano di pelliccia e si usano anche come soprascarpe. Per l’estate Oudinot lancia lo stivaletto di crine o pedicrine, allacciato lateralmente con bottoni. Le pianelle sono di foggia rialzata, alla cinese, e di color rosso (pantoufles à la poulaine, cioè "alla polacca" e poi nonchalantes). Le signore talora le ricamano, ma più tardi le preferiscono lisce.

Molto importanti i guanti, anche di sera corti, chiusi al polso con due e poi un bottoncino; se lunghi, sono ornati in alto con ghirlandette di fiori e pizzi o profilati di ermellino. In casa e in campagna si usano le mitene di reticella di pizzo: quelle di velluto fanno risaltare il biancore della mano.

Il gusto romantico-borghese ama ornare di fini ricami la biancheria: lo scollo delle camicie e l’orlo delle sottane. I volants aumentano il volume e trionfano le vere crinoline. Le mutande, come per le pudiche dame inglesi, non hanno più taglio diritto, ma sono strette alla caviglia. I fazzoletti da portare in mano, costosissimi, sono ricamati con motivi romantici (edera tenace e salici piangenti...) e ornati di pizzo, mentre quelli d’uso sono di semplice lino. Nei corredi variano da dodici a ventiquattro. Di moda anche le camiciole, le cuffie da notte e i collettini di pizzo.
I gioielli sono meno numerosi e più semplici: non collane, ma piuttosto fini catenelle d’oro, orologi piccoli con una catenella girata alla cintura e appuntata sul petto; orecchini piccoli e a pendente. Di moda la châtelaine (catenella) appuntata sui vestiti di velluto, a reggere la chiavetta del clavicembalo e di una scatola per i segreti. Anelli, bracciali, spille si ispirano al mondo animale (spire di serpenti) e vegetale (fiori e frutti). Spesso le résilles per i capelli sono gemmate.
Caratteristica dopo il 1850 la moda di medaglie religiose: le ballerine della Scala, suscitando grande scalpore, ne porteranno una col ritratto di Pio IX, il papa presunto liberale .
Diamanti e perle sono sempre di moda e dal 1844 si afferma l’opale, adatto alle stoffe cangianti e a riflessi. Ricercatissime le turchesi associate anche ai brillanti, di moda anche corallo, ametiste, granate e cammei e il ritratto di persone care in miniatura o mosaici di soggetto romantico. Novità interessante sono i gioielli elastici, bracciali e collane dotati di molle segrete che li allungano o fanno restringere.
Molto diffusi i ventagli di tutti i generi e prezzi: pregiati quelli con miniature di imitazione settecentesca o soggetti romantici e letterari come I Promessi Sposi (a riprova della loro popolarità). Nel 1848 la litografia facilita la diffusione dei ventagli patriottici che poi, tornato Radetzky, si camuffano in modo innocente.
Gli ombrellini da sole, usatissimi per tutelare la bianchezza della pelle, sono à la marquise o brisé e orientabili; elegantissimi quelli di piume o pizzo. Nel 1842 a Parigi ne compare un tipo tra canna e parasole, la douairière.
La praticità borghese adotterà poi il meccanismo di acciaio creato da Cazal per aprire e alleggerire il parapioggia, diversamente da quelli di stecche di legno e balena. A fine secolo ricompaiono le borsette che sostituiscono le tasche e si appendono alla cintura con una piccola molla.
L’abbigliamento maschile e i suoi accessori
Il frac (nuova grafia del tempo) o abito, indumento maschile fondamentale, ha falde tanto larghe da confondersi con il surtout (alla lettera “sopra tutto” quindi “soprabito”), risvolti larghi e abitualmente di velluto e maniche piuttosto aderenti e corte. Prevale il colore nero, con bottoni piccoli di seta nera, alternato con il color navarrino (bronzo scuro) con bottoni di metallo e, infine, blu con bottoni uguali.
Di mattina, in alternanza col frac si porta la redingote, con falda dapprima stretta e poi larghissima e di color verde inglese o tinte cupe dai nomi di opere di moda: Ugonotti, Diavolo zoppo.
I gilets sono diversi a seconda dell’uso: la mattina, prima del 1840, alla Napoleone, aperti in fondo a forma di A o a sciallo all’inglese; diritti e abbottonati fin sotto il mento, dopo il 1840, ma rovesciabili o a rovesci riportati. D’inverno si usano stoffe di lana, d’estate il piquet e il nankin. Da sera e da gala si usa il gilet bianco a sciallo molto aperto, alternato al gilet nero. Verso il 1850 la linea si allunga e si slacciano i due ultimi bottoni. I tessuti possono anche essere operati, perfino a piccoli motivi d’oro e d’argento. I calzoni, detti sempre più spesso pantaloni, sono inizialmente collants (lunghi, stretti con sottopiede per tenderli), poi si allargano; hanno colori analoghi a quelli del frac, oppure sono a quadretti dopo il1850.
Importanti i soprabiti: dopo il pardessus prevale il tabarro piuttosto corto, detto mantello condottiere. Clamoroso, ma di breve corso, il successo del burnus arabo con ampie maniche, cappuccio e fodera, in genere di felpina rossa, allacciato con olivette e alamari. Ma soprattutto compare il paletot, tuttora usato, ma violentemente avversato, all’inizio, rispetto alle redingotes e ai pardessus (“Corriere delle dame”, 1838: “ la moda più orribile, più sgraziata, più ignobile che sia mai stata inventata”). Di origine popolaresca fin dal nome (in antico “paletoc”), questo capo deriva dall’inglese “paltok” (olandese “paltrok”), una rozza giacca popolare portata dai marinai. Si dice che il conte Gabriele d’Orsay, l’uomo più elegante d’Europa, sorpreso dalla pioggia ne avesse comprato uno da un marinaio e l’avesse poi lanciato come il supremo dello chic per i veri dandy. Il “Corriere delle dame”, immemore dei precedenti giudizi, riconoscerà che il paletot femminile ha detronizzato il vecchio mantello con pellegrina e loda quello estivo largo e comodo. Ne compaiono così vari tipi: paletot redingotte, p. pardessus, p. burnus, p. sac, quest’ultimo trionfante, spesso in tweed o twine e in panno “impenetrabile” o in Mac Intosh. Si apre così un capitolo importante per la praticità del gusto borghese: gli impermeabili. I macintosh sono soprabiti di tela gommata impermeabile (da Charles Mac Intosh, il loro inventore) comparsi nel 1837 e subito divenuti indispensabili per un giovane “bon ton”, caldi e leggeri, ma poi criticati per il cattivo odore della gomma. Analoghi il paletot riding-water e la redingotta impenetrabile o couvre tout. Infine vi è il polverino leggero, impermeabilizzato ma non col caoutchouc maleodorante e che irrigidisce. Nel 1855 è citato il janus di taffetà impermeabilizzato da una vernice lucida, con fodera di orléans rivoltabile.
Non tutti però inseguono le nuove mode: il conservatorismo nel vestiario può esser dettato da motivazioni politiche, come ricorda Théophile Gautier a proposito dei giovani patrizi veneziani dalle vesti tradizionali di significato antiaustriaco.
Nel 1836 il gusto borghese influenza le pettinature maschili che abbandonano i ciuffi scompigliati in favore dei capelli lisci e piatti, divisi con scriminatura come per i bandeaux femminili (pettinature dette alla nazarena o alla renaissance).
I baffi, sempre di moda, sono piccoli e si incominciano ad impomatare per tenerli ritti, ma la moda è ristretta ai dandy, mentre Garibaldi e Mazzini, per esempio, hanno baffi spioventi e barba sul (e non sotto il) mento, una moda, questa, che si afferma dopo il 1840.
Il cappello resta a cilindro, non designato con questo nome, ma solo cappello con piccole varianti: i cappelli alla Bolivar hanno cupola allargata impercettibilmente verso l’alto con lati lievemente arcuati (forma echancrée) e un’altezza di circa 17 centimetri (in un celebre autoritratto lo indossa Goya).
Più importanti i cappelli adottati dai patrioti italiani verso il 1848: alla calabrese (troncoconico con penne a sinistra), alla Puritana, alla Ernani (con, a sinistra, la tesa rialzata e una lunga piuma di struzzo).
Il berretto per uscire di casa in Italia è usato solo dagli artisti: M. d’Azeglio in veste di pittore ne portava uno in velluto detto alla raffaella, morbido e drappeggiato su un lato. Lo scarso riscaldamento suggeriva di usare il cappello in casa anche ai giovani: il berretto alla greca (verso il 1844), ricamato spesso da una dama, aveva un fiocco sul fondo rotondo.
Non vi sono novità interessanti per le calze. Di giorno si usano gli stivalini in casimiro o di satin di lana chiusi con bottoncini di jais, mentre le uose li hanno di madreperla. Varia un po’ la forma, con punta rotonda (scarpe non di gala) o ancora quadrata (stivali, detti dal 1855 “alla Souvarov”). Novità sono le scarpe impermeabili in caoutchouc verniciate e con interno di tela. Al 1843 risale la vulcanizzazione della gomma per mezzo dello zolfo per mantenerne l’elasticità, ad opera dell'americano Goodyear.
I guanti sono indispensabili per uscire di casa di sera e di mattina: di mattina sono in filo di Scozia, poi di pelle gialla, ma non sgargiante: l’espressione “ladri in guanti gialli” designerà da allora i ladri-gentiluomini.
Il trionfo anche in Italia della cravatta nera è effimero; tornerà in auge quella bianca e il vero “lion” sarà detto una “cravatta bianca” e non un “guanti gialli” - afferma il “Corriere delle dame”. Il modo di annodare la cravatta a rosetta, in Italia, lascerà il posto a una voluta trascuratezza: gli uomini eleganti preferiscono la cravatta a coda con spilla.
Molto accurata nel periodo la biancheria: camicie a tre bottoni con portino o jabot anche di giorno, poi solo di sera, mentre di giorno si usano a larghe pieghe con un bottone. Nel 1842 si segnala la moda dei colli rinsaldati, ma portati rovesciati per dare meno noia. Si afferma la moda di portare un fazzoletto in vista nel taschino del frac e poi della giacca: la moda della batista bianca non fa scomparire fazzoletti di seta colorata con motivi cinesi di medaglie.

Sobri, nel prevalere del gusto borghese, i gioielli maschili: orologio piuttosto piccolo, sostenuto da catena, sottile nel Nord Italia, più spessa al Sud; comune l’anello. Indispensabili le spille per le cravatte a capi lunghi: dapprima due collegate con catenella, poi una sola, decorate con emblemi di caccia, animali, cineserie, motivi cesellati in oro, qualche volta con smalti e diamanti, mentre si afferma la moda delle pietre opache come opale e perle bianche o nere. Altro gioiello in voga il bottone da camicia, di solito una perla contornata da diamantini, ma già nel 1841 si consigliano “per mezza toletta” semplici bottoni di filo.
I giovani per vezzo più che per utilità si incastrano una lente nell’occhio o portano l’occhialino appeso a una catenella. Per necessità si usano invece gli occhiali con lenti ovali piccole cerchiate da un filo metallico d’oro o di acciaio che poggia dietro le orecchie come nel celeberrimo ritratto di Cavour, opera di Hayez (a Brera).
Elegante e nel contempo pratico accessorio è il borsellino, piccola borsa lavorata a mano all’uncinetto donato dalle dame a parenti o amici. Più tardi subentra il borsellino in pelle, kabyle (dal nome della tribù algerina divenuto attuale in Francia nel 1830, anno della conquista di queste terre).
Sempre di moda, per uscir di casa, il bastone o giannetta con pietre preziose sul pomo, roteato agilmente dai giovani per attirare l’attenzione mentre passeggiano oziosi. Scompare invece lo scudiscio. L’ombrello, di ampiezza patriarcale, come fa notare Gautier nel suo Voyage en Italie, è adatto a riparare un’intera famiglia.
L’abbigliamento infantile
Mancano importanti variazioni. I bambini di entrambi i sessi fino ai quattro anni usano il sottanino che lascia in vista all’orlo i volants dei calzoncini. Per le bambine più grandicelle i vestiti imitano quelli delle madri, ornati “in orizzontale”: falbalas (balze), liste di velluto o pieghe, con calzoncini in vista ricamati. E vige la distinzione tra abitini da grande toilette (piume sul cappello, calzette a giorno e uose di seta) e per il mattino (vestiti di coutil d’estate e cappelli di paglia a fiori; anche d’inverno vestiti di stoffa leggera). I maschi sui dieci anni hanno blouses di cotone per l’estate e di cachemire per l’inverno e, per cerimonia, i vestiti tipo Eton. Compaiono calzoni alla marinaresca e giubbetto alla marinaia con tasche, paramani e bottoni in metallo dorato, ma mai usati insieme.
Una patetica moda inflitta nel ’48 è quella del berretto frigio rosso per i maschi.
Si profilano intanto principi igienici per l’abbigliamento infantile: per esempio su una rivista si sentenzia che i bambini sono meglio vestiti quando lo sono il meno possibile. Tuttavia si infligge il busto a bambine di neanche otto anni.
Il costume popolare
Una curiosità: nelle litografie del Gonin per l’edizione del 1840 de I promessi sposi Lucia ha la tipica raggiera che nel 1630 non era ancora in uso; al principio dell’Ottocento solo le dame portavano qualche spillone fermacapelli.
Appendice. Il costume da bagno e le attività balneari
Maria Carolina di Berry, figlia di Francesco I, moglie di Carlo Ferdinando di Borbone, in una afosa giornata d'agosto del 1824, a Dieppe, in Francia, decise di cercare refrigerio nelle acque del mare, accompagnata dal medico, munita di cappello, ombrello, guanti, abito di panno pesante, calze di lana e scarpe di vernice. L'evento ebbe molti testimoni scandalizzati.Ma già nel 1812 la regina d'Olanda, Ortensia di Beauharnais, aveva sfidato le onde a Dieppe, dove da tempo si praticava la talassoterapia ma la differenza è che la madre del futuro Napoleone III era entrata in mare vestita di tutto punto con un completo di lana color cioccolato composto di una tunica e di pantaloni che cadevano sino ai piedi. Una sorta di saio penitenziale, allusivo ai rischi morali di una pratica esclusivamente salutare-terapeutica. Il bagno marino della duchessa di Berry s'inseriva invece già in una logica diversa. Il suo costume infatti identificava un indumento pensato per una pratica specifica: quelle attività balneari che stavano prendendo forma. Nel 1822 a Dieppe era stato infatti inaugurato uno splendido stabilimento: le teorie sull’idroterapia s'intrecciavano ormai con le esigenze mondane e di divertimento che ispiravano le villeggiature marine dell'aristocrazia francese e continentale.
Con il bagno di Maria Carolina di Berry si apre la stagione non ancora conclusa della riconciliazione della società occidentale con il mare e quella della "scoperta", della reinvenzione del corpo, specialmente femminile.
La moda dei bagni di mare cominciò a profilarsi in modo organizzato tra il 1820 e il 1830, a partire dall’Inghilterra dove tale moda era stata tenuta a battesimo. Da Brighton all'isola di Wight - dove nel 1846 cominciò a soggiornare regolarmente, a ogni stagione, la regina Vittoria nella confortevole e riservata House Osborne - sorgevano sempre nuove stazioni balneari, ognuna dotata di passeggiata lungomare con alberghi e ville, chiosco per la musica, caffè e teatro per il varietà.
Solo la spiaggia continuava a essere un luogo poco “addomesticato”. “L'ora per il bagno - scriveva un giornale di Eastbourne agli inizi dell’era vittoriana - è abitualmente quella dell'alta marea. Una campana suonando invita le donne a raggiungere le cabine”. Robuste “bagnine” del luogo spingevano le occasionali bagnanti, per niente attraenti, a subire la doccia delle onde, infagottate in costumi fatti apposta per nascondere le forme. La bagnante di metà ‘800 - a differenza degli uomini che si immergevano naturalmente del tutto nudi - entravano in mare innaturalmente del tutto vestite: ampi camicioni, lunghi pantaloni di lana, cuffie, scarpe e calze.
Questa goffaggine mal si accordava con l'eleganza dell’ora della promenade: larghi cappelli di paglia, corsetti aderenti, le gonne a balze e ombrellini per proteggere la carnagione pallida…


Il periodo romantico-aulico (1856-1867)
1856 Trionfo della crinolina-gabbia a cerchi metallici, ovoidale e gettata indietro, che raggiunge la sua massima ampiezza verso il 1865. Nel contempo, l’abito corto si afferma per le tenute da esterno lanciate dall’imperatrice Eugenia dopo la sua escursione alla mer de Glace (Mo nte Bianco) nel 1860.
1856 Scoperta dei coloranti all’anilina che inaugura l’era delle tinture chimiche.
“Madame Bovary”, G. Flaubert.
1858 Charles- Frédéric Worth, considerato il fondatore dell’alta moda apre la sua “Maison” in rue de la Paix 7 a Parigi e diventa “fornitore brevettato di S.M. l’Imperatrice” nel 1864. Egli inventa la firma del sarto e fa sfilare davanti alle clienti delle “sosia”, ragazze scelte cioè per la loro somiglianza con le compratrici : si tratta delle prime indossatrici.
“Les Petites Filles modèles”, contessa di Ségur.
Verso il 1860 Diffusione della macchina da cucire che accelera il processo della confezione.
1860-1937 La “Mode illustrée, Journal de la famille”.
Trattato di libero-scambio con l’Inghilterra.
1861 Apertura dei magazzini “du Printemps”.
1861-1875 : Costruzione dell’Opéra di Parigi a d opera di Charles Garnier.
1862 Penuria di cotone in Europa legata alla guerra di Secessione.
Verso il 1865 Caroline Reboux diventa la modista accreditata della corte imperiale.
1866 Apertura dei “Magazzini Riuniti” a Parigi.
1867 Primo tomo del “Capitale” di K. Marx. Seguire la moda non è preoccupazione di tutti: ben altre questioni affrontano i proletari : “questione sociale” . Marx che aveva già pubblicato nel 1848 il “Manifesto dei Comunisti” denuncia le contraddizioni del capitalismo industriale, l’alienazione degli operai e lo sfruttamento a cui sono soggetti.

Dalla seconda metà dell’Ottocento il costume si razionalizza e si afferma la distinzione tra i lindi e semplici abiti da casa, quelli un po’ più ricercati da passeggio, più ricchi per il pomeriggio, e da sera. Sebbene sia un uso criticato, gli abiti da casa spesso comprendono il matinée corto in vita, la sciolta veste da camera per girare in casa di mattina, il più discinto saut-de-lit per alzarsi da letto e da indossare solo in camera.
La contessa spagnola Eugenia de Montijo (1826-1920), divenuta nel 1853 consorte di Napoleone III e come tale imperatrice, lanciò la moda delle balze o volants applicate sulle gonne, complice il suo sarto personale, Charles Frederick Worth. Le gentildonne gareggiavano a chi ne aveva di più, difficile però superare il numero di 109 raggiunto dalla bella spagnola con l'abito indossato per un ballo nel 1859. Pù pieghe, più status!
Si afferma la ripresa del rococò (neorococò o "stile Pompadour") nell'arredamento e non solo.
La moda italiana risente ancora di quella francese e della corte sfarzosa dominata dall’elegantissima Eugenia con cui, a Parigi, rivaleggerà la bella contessa di Castiglione. Ma non è ovunque così: durante la seconda guerra d’indipendenza (1859) le donne italiane partecipano appassionatamente al clima politico con una modestia del vestire (nei colori e nelle fogge) che contrasta col lusso parigino. E’, infatti, questa in Italia l’età dell’unificazione, di Vittorio Emanuele II e di Cavour.
L’abbigliamento femminile e i suoi accessori
Il carattere aulico del periodo si esprime nell’espansione della gonna grazie alla crinolina, che però si trasforma in crinoline-cage: l’ampiezza della gonna (fino a 10 metri alla base dell’orlo) è ottenuta infatti con cerchi o con la gabbia, aggeggio di fili metallici, parola che fa rima facilmente con “rabbia” . In uso dal 1856, essa culmina nel 1862 con l’adozione della crinolina Thompson che dà alla gonna una mole “architettonica” disponendo sulla superficie gonfia gli ornamenti con estro e nella totale dimenticanza della persona che ne è coperta.
La vita è corta per lasciare alle sottane un’altezza proporzionata alla loro larghezza. Anche se passare attraverso una porta, sedere sul divano o scendere dalla carrozza poteva diventare un problema, la moda della crinolina non dissuase le donne dal farne uso. Camminare era un’arte, nell’età delle crinoline, con sottoveste a cerchi d'acciaio di due metri di diametro: la donna elegante oscillava, impeccabile status symbol di grazia e levità per il marito.
In contrasto con l’ampiezza della gonna è il corpetto aderente al busto e armato da ben tredici stecche (otto davanti e cinque dietro). Le maniche a pagoda sono strette all’attaccatura e solo al gomito si allargano, lasciando in vista la sottomanica di batista ricamata o di pizzo. Simili alle sottomaniche i graziosi collaretti.
Si distinguono vari tipi di vestiti a seconda delle occasioni.
Il vestito da giorno è guarnito di abbondante passamaneria, secondo l’uso dell’imperatrice Eugenia che lo giustifica con il suo obbligo di favorire i produttori lionesi di guarnizioni.
Compare in questo periodo una foggia che avrà lunga fortuna: la princesse o principessa o abito all’imperatrice, veste intera che compare prima del 1865 e non subentra ma si allea alla crinolina.
Già nel 1858 il “Corriere delle dame” segnala vesti senza cuciture in vita, con profonde pieghe che generano all’orlo inferiore una larghezza anche di dodici metri. A Parigi sono già molto in voga nel 1864, mentre in Italia hanno poca fortuna. Lo strascico è già in auge e per strada non conviene sollevarlo.
Le feste da ballo sono il principale divertimento e perciò nel guardaroba di una signora non possono mancare le vesti da ballo: la scollatura è amplissima a cuore, poi scende dalla spalla, ma davanti è diritta. Le maniche sono cortissime e orlate di pizzo; il corpetto in vita dapprima è a punta con la sottana leggermente accorciata sul davanti per agevolare le danze, motivo per cui si abolisce la coda, ma per arricchire l’effetto si sovrappongono tre-quattro gonne di tulle. Le guarnizioni preferite sono fiori sparsi o a mazzolini e balze di trine a sottolineare l’ampiezza della gonna, ma dal 1860 si verticalizza l’effetto con ghirlande di fiori che scendono dalla vita fino all’orlo e spesso l’apertura è sul davanti come su una tunica. Il colore preferito, il bianco, lascia ampio spazio alle trine nere, spesso laminate d’oro che brilla qua e là, e i fiori riccamente “indiamantati”.
I vestiti da sera sono simili a quelli da ballo, ma più pudichi, anche se più ricchi, con maniche a pagoda o mezza pagoda e piccola scollatura a punta. Il riserbo romantico continua ad esprimersi nei fichu, nei canezou e nelle camicette che coprono la scollatura; con l’ampio taglio della camicia blusa ci si avvia alla semplicità riservando lo sfoggio all’ampiezza della crinolina.
Il 1865 segna un ritorno agli scialli, un po’ trascurati dopo il 1860, anche perché l’ampiezza delle gonne renderebbe goffa la linea dei soprabiti. E’ sempre amato il cachemire, ma in Francia sono apprezzati anche gli scialli di taffettà con spicchi di velluto e lustrini o scialli di Thibet guarniti di pizzi e sfilati.
Sempre per accordarsi con le ampie gonne sono di moda giacchette corte o un po’ più lunghe come (baschina o casacca). Dopo il 1860, per influsso della guerra combattuta contro l’Austria e dell’alleanza con i Francesi, compaiono i giubbetti alla zuava, corti come la giacchetta dei militari di quel corpo, detti poi anche zuavi postiglioni per la somiglianza anche con l’uniforme dei cocchieri delle diligenze.
Sul “ Corriere delle dame” appaiono vari tipi di giubbetti tra cui quello spagnolo detto bolero, cortissimo e arrotondato sul davanti. Modelli fuggevoli il saltimbanca (1862), lunghetto, grigio e foderato di colore, e la vareuse (1865), giacca lunga e sciolta dell’uso marinaio.
Anche se non indicato alla crinolina il paletot non scompare e nemmeno la pelisse e il soprabito primaverili, mentre di autunno si preferiscono i surtout; la differenza sta nel maggiore o minore spessore delle stoffe. Dopo in 1860 entra in voga il rotondo mantello talma, dal nome di un attore tragico da cui Napoleone si era fatto insegnare un incedere regale. Continua ad essere di moda il mantello a burnus con cappuccio, più o meno elegante.

La moda dei viaggi alimentata dallo sviluppo delle ferrovie fa chiamare vestiti da viaggio abiti diversi da quelli del mattino solo per la mantellina a cappuccio o per un velo.Tra i colori preferiti gli scozzesi.
Nascono specifici abiti da mare, favoriti dall’entusiasmo delle bagnature, goffi ai nostri occhi per le loro intenzioni pudiche, con i calzoni che scendono alle caviglie e i corpetti con le maniche.
Lentamente ma in maniera sensibile, le villeggianti cominciarono ad adottare, prima e dopo il bagno, abiti più disinvolti, in parte ricalcati su quelli maschili, con grande scandalo dei giornali più conservatori timorosi di questa mascolinizzazione. Con loro buona pace, la vita da spiaggia divenne più promiscua. Le donne accorciavano o addirittura perdevano qualche sottoveste e corsetto di troppo, mentre gli uomini dovettero adattarsi a indossare, anche loro, un “vestito da bagno”.
Attorno al 1860, anche procedeva anche la colonizzazione dei litorali italiani, sull'esempio di quelli mediterranei francesi (poi ribattezzati Costa Azzurra) soddisfacendo i desideri anglofili dell'aristocrazia italiana di villeggiature balneari. Ma dovranno passare alcuni decenni – dopo l'unità - prima che "L'Illustrazione Italiana" segnali una presenza al mare pari di stranieri e di italiani; questi ultimi erano restii al richiamo dei bagni sia per la mentalità ancora poco incline a valorizzare l'esercizio fisico e sportivo sia per il forte senso del pudore sia per il persistere di una diffusa paura deegli effetti nocivi dei raggi del sole. L'abbronzatura restava infatti una caratteristica delle classi inferiori, di chi lavorava all’aria aperta, contadini, muratori, marinai il che spiega anche, da parte di signori e signore, la strenua difesa di pallore e decenza con cappelli e cuffie, camicie e camicioni, accappatoi, quando non veri e propri vestiti con strascichi, falpalà, guanti, calze, scarpette, parasole e in certi casi anche caschi muniti di veli, simili a quelli coloniali in uso presso le truppe distaccate in Africa.
Anche se la moda di cavalcare è in declino, continuano ad essere elegantissime le amazzoni con corpetto aderente, larghissima sottana che scende quasi fino a terra e il piccolo cilindro circondato da un velo.
La tendenza allo sfoggio incoraggia di nuovo il trucco, seppure biasimato nei primi anni dopo la metà dell’Ottocento: a Parigi “le donne si tingono e si impiastrano senza mistero. Tinture d’ogni colore per carnagione, capelli, ciglia e labbra” denuncia nel 1865 il “Corriere delle dame”. La moderazione italiana si limita alle tinture a capelli e alla cipria.
Le acconciature seguono la tendenza a diminuire il volume della parte superiore della persona. Dominano i capelli neri con pettinature basse e lisce: la scriminatura divide i capelli in mezzo alla fronte in due bandeaux, raccolti dietro sempre più bassi sulla nuca e un po’ rigonfi sulle orecchie ; talora si usano posticci e ripieni o montature interne che fan parlare di “crinolina per la testa”.
La tendenza all’artificio introduce anche in Italia la moda parigina delle ondulazioni. Dopo il 1860, sull’esempio dell’imperatrice Eugenia, bionda, si comincia a parlare di capelli biondi, ma si affaccia anche la novità dei capelli rossi, adottati subito dalle cocottes [1] parigine e poi anche dalle signore e c’è chi ricorda che san Gerolamo aveva deprecato in quel colore il riflesso delle fiamme infernali.
Intanto la pettinatura tende a rialzarsi dalla nuca verso la parte alta del capo con ornamenti al sommo della testa: nel 1865 “il pettine si colloca in alto: il chignon non tocca il collo”. Il termine chignon, già in uso nel Settecento, indica questa nuova posizione; precedentemente la massa dei capelli raccolti sulla nuca era detta catogan, termine usato nel Settecento per le pettinature maschili.
Dopo il 1856 le capotes intorno al volto sono usate solo in campagna dove usano anche le pastorelle in paglia di Firenze a larghe tese, usate in città solo dalle ragazze. In città le signore imitano l’imperatrice Eugenia nei cappelli a tese piane che poi diventano tanto piccoli da esser detti cappelli piattelli (“un pezzetto di paglia sulla sommità del capo trattenuto da due briglie di nastro annodate sotto il mento”). Si usano anche i tocchetti, piccole toques spesso guarnite con uccelletti interi come gli uccelli mosca. Prova della popolarità del personaggio sono i cappelli alla Garibaldi con “grosso chou nel mezzo davanti, una piuma laterale, e anelli di nastri ondeggianti dietro”. In Italia, l’entusiasmo per la liberazione del regno delle Due Sicilie fa riesumare i cappelli alla Calabrese lanciati nel ’48, ignorati dalle riviste di moda di influsso parigino, ma attestati in documenti privati.
Nascoste dalla crinolina calze e scarpe sono, all’inizio, prive di importanza. Nel 1860, sia con l’artificio del reggigonna (nastri attaccati alla vita per sollevare l’orlo della sottana) sia perché la gonna riaccorcia un po’, restano scoperti gli stivaletti alti, ma anche tre dita di calze che vengon messi in risalto.
Importanti restano i guanti soprattutto quelli costosi di pelle italiani, richiesti anche all’estero. Quelli corti erano di vari colori con tre cuciture ornamentali sul dorso e a due bottoni. Per sera sono lunghi di color bianco o giallo pallido, con fenditura abbottonata al polso da aprire per sfilare la mano.
Per la biancheria, a parte i camicini in vita, elegantissimi, si segnalano le camicie moderatamente decorate con ricami “valenciennes” e pieghino nella parte superiore tagliata e riportata (il carrè), la moda della crinolina rende semplici le mutande o calzoni; infine si portano simultaneamente varie sottane di mussola o di voile inamidate, di flanella, di maglia, o di rigido crine per dare ampiezza alla gonna. Nel guardaroba di Madame Bovary (il romanzo di Flaubert esce in volume nel 1857) figurano “mutande lunghe con i nastri passanti, larghe sui fianchi e strette in fondo”. Quando la gabbia metallica (cage) sostituisce la vera e propria crinolina (il cui nome sopravvive) per ammorbidirne la linea si portano sopra di essa una o due sottane di mussola.
Dopo il 1860, rialzandosi sul davanti la gonna per non inciampare, si impone la moda di una sottoveste in vista, elegantissima e spesso colorata guarnita con galloncini, velluti, nastri o piccole balze e pieghe.

Va affermandosi l’idea di un valore intrinseco dei gioielli, visibile, per esempio, nelle grandi broches (spille) con massiccia montatura in oro e gemme, spesso a cabochon, lisce e tondeggianti, senza sfaccettatura. Restano in voga il vellutino nero che cinge il collo con un piccolo gioiello appeso, o, romantica, ma non congeniale alle italiane, quella degli ornamenti (anelli e braccialetti) di capelli,così come è romantica la moda di usare gemme che con l’iniziale del proprio nome compongono quello di una persona amata.
Nazionale italiana è la moda del corallo, notevole apporto all’economia napoletana: i globetti di corallo, sferici,ovoidi, sfaccettati sono esportati fin nelle Indie o in Cina e le signore napoletane, per gratitudine a Garibaldi offrono alla sua figlia prediletta un prezioso finimento di coralli rossi. In auge il corallo rosa; la moda degli orecchini cede a quella delle collane. Per la sera, trionfano sulle con le ampie scollature i vezzi di perle a molteplici giri. Una collana della bellissima contessa di Castiglione, composta da tre file di perle nere e tre di perle bianche fermate da medaglione laterale, è valutata, dopo la sua morte, 422.000 franchi oro.
Sull’esempio parigino sono in voga le parures a cui si aggiunge talora l’orologio a catena. Nel 1860 si rilanciano i gioielli d’arte creandone di estrosi in argento niellato [2] ossidato, arricchiti con gemme e pietre semipreziose, come gli azzurri lapislazzuli. Nel 1865 tornano di moda gli orecchini. Emblematici dell’inclinazione aulica alla vistosità sono i gioielli falsi in similoro e gemme di vetro comprendenti, insieme agli orecchini, spilloni e fermagli “nascondi-pettine”.
Mentre declina la moda degli occhialetti, trionfano i ventagli tra cui apprezzatissimi quelli dipinti alla maniera francese rococò (imitazione di Watteau), talora fatti passare per originali del pittore. La pagina del ventaglio è ampia con le guardie riccamente ornate di pietre dure o diamanti e montature di avorio, madreperla o ebano. Di sera, muovendo il ventaglio, stellette e lustrini d’oro, d’argento e acciaio brillano alla luce del gas che si sta diffondendo anche nelle case.
L’imperativo della carnagione candida come fiore di magnolia, ma anche il precetto igienico della vita all’aria aperta, rendono irrinunciabile l’ombrellino di cui si moltiplicano i modelli con manici preziosi, di avorio, legni rari, spesso incrostati con metalli preziosi e gemme. Per uscire dalla carrozza notevole l’ombrellino marchesa o marquis, piccolo, a cupola tondeggiante, foderato all’interno così da nascondere le stecche. Molto fine la moda, nel 1858, dell’ombrellino di pizzo nero su fondo di seta bianca. Per la campagna si prediligono pratici ombrellini di foulard delle Indie, color cuoio, foderati di taffetà rosa e si diffonde la moda dell’en-tou-cas (per ogni caso), per sole e per pioggia.
Diversa era la moda delle signore da quella delle signorine: queste dovevano mostrare maggiore modestia, minore sfoggio di gioielli, colori tenui, ornamenti freschi e semplici.
L’abbigliamento maschile e i suoi accessori
La linea, in generale, si fa più sciolta e comoda. Nel periodo di realizzazione dell’indipendenza nazionale, l’abbigliamento maschile è abbastanza stazionario, ma nel 1857 compare un indumento per négligé (da casa, da camera) la giacchetta a sacco, senza falde. Queste due novità –linea corta e diritta- sono quasi ragione di scandalo: “Eccoli con una giacchetta che appena copre le natiche, che ha la forma di un sacco” (1858, “Corriere delle dame”). La rilassatezza in vita è accentuata dall’uso di allacciare solo i primi due bottoni dell’unica abbottonatura (gli altri tipi di giacche avevano, come la redingote, due ranghi di bottoni). Il tipo di giacca alla Dorsay è ancora attillata, con un fianchetto riportato leggermente incavato. La moda della giacchette arriva anche da noi, da Parigi e Londra e la alimenta Vittorio Emanuele II che, senza badare alle mode (come a tutte le prescrizioni dell’etichetta), odiando le falde, predilige le giacche alla cacciatora, da altri usate solo a quello scopo.
La giacchetta è però di uso confidenziale, mentre di sera è di rigore il frac un po’ meno attillato nel taglio, in armonia con la tendenza alla comodità. Uguali caratteristiche assume la redingote, ancora confusa col surtout (soprabito), sempre a doppia abbottonatura, con falde meno abbondanti.
Il gilet continua ad essere incrociato, ma si diffonde l’uso della stessa stoffa della giacca , così come per i pantaloni, prevalendo dunque il colore unico per i tre pezzi forti dell’abbigliamento maschile. I pantaloni sono stretti per la sera, eventualmente resi più aderenti da bottoni presso la caviglia, diritti per il giorno e abbastanza larghi.
Quanto ai soprabiti, oltre ai già visti surtouts e paletot, si affaccia, ma non si afferma, l’abitudine di uno scialle scozzese sulle spalle. Da un uso simile, dettato da una necessità (il mancato arrivo, durante la campagna di Crimea, di una nave con i cappotti regolamentari per i soldati, costretti a ripararsi dal freddo praticando un buco in una coperta per infilarsela ) pare abbia origine il raglan, dapprima a mantellina poi con maniche tagliate (nome comune usato dal 1853, del generale del corpo combattente in Crimea, lord James Henry Somerset Fitzroy Raglan).
Il pipistrello, solo italiano, è un soprabito largo bavero a coprire spalle e parte delle braccia, sostituendo le maniche.

I cappelli maschili continuano ad essere alti e di forma cilindrica oppure a foggia di campana con ali rivoltate a gondola. Per la sera permane il gibus, che si appiattisce per portarlo in mano.
Le cravatte più usate sono a farfalla, di seta nera, piuttosto piccole. Ma per la sera talvolta si preferisce il bianco.
Il gusto della praticità suggerisce, soprattutto in villeggiatura, le camicie di flanella, ma in città si preferisce la camicia di lino con colletto diritto a punte divaricate sotto la gola. Più eleganti le camicie ricamate e i fazzoletti ricamati in vista al taschino, da usarsi per bella vista o per forbirsi i baffi.
Nessuna novità per scarpe e stivali, prediletti anche in città da Vittorio Emanuele II.
I guanti si portano per abitudine, ma non hanno più un carattere di distinzione.
Anche i gioielli maschili non registrano novità: nei ritratti dei tempi sono rari gli anelli, l’orologio, d’oro per i ricchi, d’argento per le persone più modeste, si porta nel taschino del gilet assicurato alla catena infilata nel primo occhiello del gilet, lasciandone pendere la metà. Gli occhiali non sono più oggetto di eleganza; scomparsi i lorgnons [3] , si continuano ad usare per necessità quelli piccoli e ovali. Fuori moda anche la pipa, mentre trionfano i sigari, che però per educazione non si fumano in presenza di signore.
Diffuso l’ombrello di color nero che, quando non piove, si porta sotto il braccio col puntale all’indietro.
Meno imperativo l’uso del bastone. I giovani preferiscono la giannetta, più sottile.
[1] Donne di facili costumi.
[2] Il niello è un lavoro di oreficeria realizzato su oggetti o superfici in oro e argento, che consiste nel riempire i solchi su lamina di incisioni a bulino con un composto di polvere d'argento, rame rosso, piombo, zolfo e borace. In senso lato: oggetto decorato con tale tecnica o il composto di colore nero (il nome nigellum deriva da niger) impiegato per tale lavorazione
[3] Erano gli occhialini con molla stringinaso (fr. lorgner: guardare di sottecchi)


 

Il periodo di umbertino (1879-1900)

1880-1967 “L'Art et la Mode”, rivista di eleganza mondana, riproduce la prime fotografie di moda nel 1880.
1880 Viene inaugurato l’emporio Aux Villes d’Italie dei fratelli Bocconi a Milano. Gabriele D'Annunzio, quando l’emporio viene ricostruito dopo l'incendio del 1917, lo ribattezza Rinascente.
1881 Il re Umberto I inaugura l'Esposizione Industriale a Milano, con sede ai Giardini Pubblici,che riscuote un enorme successo. Alla Scala si svolge la prima del Gran Ballo Excelsior, che mette in scena le tappe principali del progresso
1881 Il sarto inglese John Redfern, creatore del tailleur femminile, apre una succursale a Parigi.
1890 Abbandono della tournure per il corsetto completato da una sottogonna morbida; la moda, come l’architettura, è eclettica. Tra il 1893 e il 1897, s'ispira allo stile rinascimentale degli anni 1830: la sottana a campana molto svasata equilibra le larghe maniche a sbuffo (“à gigot”: cosciotto d’agnello). Appaiono con successo le tenute sportive, come quelle da ciclisti,.
Verso il 1890 Invenzione della seta artificiale a base di nitro-cellulosa.
Il progresso industriale consente il nascere delle prime industrie cosmetiche e nel 1890, a Parigi, Madame Lucas fonda la prima Maison de Beauté.
1891-1938 “La Mode pratique”, prima rivista che utilizza la riproduzione di foto di moda.
1891 Jeanne Paquin fonda la sua casa di moda in rue de la Paix.
1893 Esposizione universale di Chicago.
1895 Apertura delle “Galeries Lafayette”. Le sorelle Callot fondano la loro casa di moda in rue Taitbout. Morte del sarto Charles-Frédéric Worth. La maison Worth, diretta dai due figli del fondatore, avrà il suo apogeo verso il 1900. Invenzione del primo apparecchio cinematografico ad oppera dei fratelli Lumière.
1898 Linea ad S, affine alle sinuosità dell'Art Nouveau. Il vestito nero maschile composto da tre pezzi dello stesso tessuto diviene d’uso corrente. Il vestito alla marinara per i bambini è il più diffuso.
1898 Primo salone dell’Automobile.
1899-1903 Paul Poiret, il cui nome si lega al rivoluzionario abbandono del corsetto, inizia a lavorare presso Jacques Doucet e poi qualche mese presso Worth.
1899-1900 : “Interpretazione dei sogni” di S. Freud.
1900 Esposizione Universale a Parigi (Palazzo dell’elettricità). Venti case di alta moda occupano un intero padiglione. Inaugurazione della metropolitana parigina decorata da Hector Guimard.
1901-1956 “Fémina”, prima rivista francese di moda “moderna”. Il premio letterario dello stesso nome è creato nel 1905.
1903 Paul Poiret fonda la sua prima casa di moda in rue Auber. Prime fabbriche di viscosa, fibra cellulosica artificiali, in concorrenza con la seta naturale dal 1910. Nel 1905 lancia la sua proposta rivoluzionaria di abito tipo chemisier, senza busto (“Rèvolution Poiret”).
1904 Importante esposizione di pizzi antichi a Palazzo Galliéra, Parigi: il merletto diventa un artigianato artistico.
Il periodo 1875 –1890 è quello della seconda rivoluzione industriale nei principali paesi europei.
L'Inghilterra, sotto il lungo regno della regina Vittoria, ha esteso l'espansione coloniale e aumentato la propria influenza nell’ambito continentale, trasmettendo una febbre di rinnovamento nel progresso tecnico e scientifico.
L'espressione artistica è dominata dall’eclettismo degli stili che si riflette anche nella moda.
A partire dalla fine dell'800 molte voci si levano a esprimere la necessità di una profonda riforma dell'abbigliamento, in special modo femminile. Da un lato i medici denunciano i danni causati alla salute da crinoline, busti e corsetti, che comprimono il corpo in modo innaturale. Dall'altro vi sono i movimenti per l'emancipazione femminile che rivendicano anche per le donne la possibilità di svolgere attività lavorative, cosa che richiederebbe un abbigliamento più pratico e funzionale. Infine vi sono gli artisti, che si impegnano in vari modi per la creazione di una nuova “estetica del vestiario”, diffondendo anche nel campo della moda quelle istanze di rinnovamento che già investono le arti visive. La riforma dell'abbigliamento è un aspetto importante della vasta trasformazione dei costumi e della vita quotidiana in corso allo scadere del secolo. È parte del processo di modernizzazione della società che caratterizza questo periodo: si affermano ritmi di vita più veloci, che rendono inadeguato l'abbigliamento ottocentesco; si crea una nuova cultura del corpo e del tempo libero, accordando maggiore attenzione alle norme igieniche e alle attività sportive; infine, si modificano i parametri della bellezza.
Gli artisti sono tra i più fervidi assertori della riforma dell'abbigliamento. Propongono di abolire la crinolina, il busto, il corsetto e tutto il rigido armamentario di ingabbiature che appesantisce la figura femminile. Intendono creare abiti morbidi, che accarezzino le forme del corpo senza comprimerlo, che permettano grazia e leggerezza nei movimenti e si accordino con i canoni della bellezza moderna. Alcuni si limitano a una riforma di tipo estetico e si occupano soprattutto dei tessuti, rinnovando gli ornamenti e le decorazioni; altri si impegnano a fondo per modificare anche i tagli degli abiti e per creare una nuova tipologia femminile, più libera di scegliere, di muoversi e di agire. Il 1905 è una data importante, perché iniziano le pubblicazioni della rivista viennese “Hohe Warte”, che dedica ampio spazio all'argomento: Otto Wagner, Josef Hoffmann, Kolo Moser e Josef Maria Olbrich intervengono a più riprese nel dibattito. Già nel 1898 Adolf Loos scrive un trattato in cui pone l'esigenza di abiti sani e funzionali, in armonia con le condizioni di vita. In seguito, la “Secessione” viennese e le “Wiener Werkstätte” [1]inseriscono la moda in un più ampio progetto di riforma dell’estetica del quotidiano (il loro motto: “Non la vita deve essere arte, ma l'arte deve entrare nella viva di tutti i giorni”, 1903).
In Italia, nel periodo umbertino le mode variano frequentemente e vanificano ulteriori distinzioni.
Nell’abbigliamento femminile ha un certo seguito la moda adottata dalla Regina Margherita, ma anche Umberto viene imitato.
L’abbigliamento femminile e i suoi accessori
All’inizio, quasi improvvisamente, la figura femminile si assottiglia, in uno slanciato schema tubolare che permette però un piccolo strascico. Subito dopo, la linea assume sinuosità serpentine accentuando le curve del seno e del dorso che “sbocciano” dalla vita sottile L’ultimo decennio vede un orientamento verso la verticalità, con le inevitabili diete dimagranti. Non si rinuncia ai drappeggi portati sul davanti (1881-1890), ma la tendenza è verso la semplicità: ne è emblema il vestito tailleur o alla mascolina vivacizzato dallo sbuffo sull’alto delle maniche e dalla sottana corta alla caviglia e allargata in basso.
Dopo il 1890 lo svolazzo di piccole mantelline e dell’orlo in basso della veste risente dello stile, esteso a oggetti artistici e costruzioni.
Nel costume di età umbertina costante è la posizione naturale della vita, assottigliata artificialmente dal busto per ottenere il “vitino di vespa”. In generale, dagli abiti alle acconciature, le linee si verticalizzano e lo sfarzo si sposta dall’ampiezza dei volumi in orizzontale ai ricchi e minuti ornamenti e alla preziosità di stoffe e guarnizioni, magari non esposte, come nel caso della biancheria intima. Aristocrazia e alta borghesia sfoggiano la loro ricchezza in stoffe sontuose (velluto, broccato, raso) e nell’ornamento (trine, ricami e lustrini) variabile a seconda delle occasioni.
Gli abiti da sposa, per esempio, sono di tre tipi: a) per la sera, dopo la firma del contratto dotale (importantissimo, essendo i matrimoni per lo più ancora alleanze sociali calcolate sulle rendite, anziché scelte unicamente sentimentali), durante il ricevimento, la fidanzata appare vestita di rosa, da mezza sera, con rose tra i capelli; b) per il matrimonio civile che precede quello religioso, si usa un elegante vestito da visita e la sposa sarà salutata col “grazie, signora” dallo sposo, quando, firmato l’atto, gli passerà la penna d’oro, in forma di antica penna d’oca, ricevuta dal sindaco (di solito celebrante le nozze di famiglie importanti), diventando la “moglie” – non ha ancora valore legale il matrimonio religioso; c) per la cerimonia in chiesa che riassume la poesia e il simbolismo nuziale l’abito di seta bianca, meglio se opaca, accollato e a maniche lunghe, è il primo a strascico (negato alle ragazze) ed è avvolto, da un amplissimo velo di tulle o trina, che negli ultimi anni del secolo copre il viso “all’israelita”. Proibiti i gioielli, sostituiti dai fiori d’arancio, veri o in cera, a formare mazzolino e corona. Le vedove che si risposano celebrano le nozze più sobriamente, in color grigio perla o viola eliotropio.
Per gran sera, cioè per teatro d’opera, ricevimenti al Quirinale a Roma (sede dalla corte dal 1871), in case patrizie, e per il ballo, i vestiti sono generosamente scollati e le braccia nude hanno lunghi guanti. A maestra di eleganza si atteggia la Regina Margherita che ama i colori chiari: le altre dame si attengono al nero o a tinte cupe, spesso con lustrini esaltati dalla chiara luce del gas o dell’elettricità ormai entrata nelle case. Altre lussuose guarnizioni per la sera sono: trine, ricami, piume, fiori freschi o artificiali di velluto o seta spesso uguali a quelli dell’acconciatura..
Il taglio à princesse dà slancio alla figura o stacca il corpo, talora con la punta sul davanti (alla Maria Stuarda), dalla sottana a strascico completata spesso da tablier (nome più aulico del prosaico “grembiale”).
Indispensabili per la vita mondana gli abiti da pomeriggio, di seta pesante o di panno, di solito a giacca per le corse, le visite, i concerti, le conferenze, i ricevimenti nei giardini (i garden parties) che richiedono guanti e cappello. Per la passeggiata, valorizzata anche in città dal nuovo culto dell’igiene, si usa il panno o il “velluto venatorio”, come lo chiama D’Annunzio nelle sue cronache mondane. Meno ricche, ma varie, le vesti per la villeggiatura in tessuti di cotone a pallini o a fiori. Verso la fine del secolo volentieri si abbina una camicetta bianca o di colore chiaro a una sottana scura cerchiata in vita da una cintura con fibbia; sul capo la paglietta mascolina.
Per gli abiti da viaggio si usa molto il velluto scuro: così vestite sono descritte la regina e la duchessao Torlonia dall’aggiornatissimo “Margherita” (in omaggio alla sovrana).
Il nuovo culto di salute e igiene diffonde la moda di sports e dei relativi abiti. Per il mare si distinguono i vestiti da spiaggia, poco pratici a causa dei complessi ornamenti e pieghe, dai vestiti da bagno, accorciati e non più in nero ma in blu marino, rosso, con colletto alla marinaia, ornato in bianco da ancore e bordi in a cordoncini (soutache). La cuffia per contenere le abbondanti capigliature è sgraziata. Raro lo yachting che esige abiti con corpetto dal collare alla marinaia e gonnella piuttosto corta. Tra i signori si diffonde il tennis per il quale si adottano abiti a righe, semplici, ma con sottana lunga. Il costume per il ciclismo (o da “velocipedista”) adotta, audacemente, larghi calzoni stretti da un elastico alla caviglia e talora coperti da un corto sottanino. Il corpetto terminante alla cintura talvolta ha corte falde. Il cappello più adatto è alla canottiera, e può avere una piccola penna o aletta. L’amazzone segue invece la tradizione, ma è reso più “sportivo” dall’aderenza del corpetto, pur non rinunciando, intorno al 1895, alle maniche gonfie in alto à gigot (cosciotto di agnello o più prosaicamente per la forma potremmo dire "a prosciutto"). La gonna è attillata in vita e non oltrepassa il piede.

Nell’ultimo decennio del secolo ecco infine il tailleur tipico della nuova praticità e il cui nome (in Italia dal 1888 in alternanza con abito alla mascolina), si deve al fatto che per la sua confezione dal taglio preciso ci si doveva avvalere di un sarto da uomo (in francese“tailleur”, mentre la sarta da donna era la “couturière”); come in molti altri casi il nome francese dimostra la derivazione della moda, la cui prima origine, peraltro, è inglese (vestito all’inglese era anche detto). Nella sua praticità il tailleur ci dice anche che la donna si sta inserendo, sia pur timidamente nella vita attiva, almeno in Inghilterra.
Il tailleur, secondo i giornali di moda del tempo, è necessario alla signora elegante che lo indossa al mattino: è caratterizzato dal taglio severo della giacca aderente alla linea del busto e dalla semplicità della sottana. Questi due elementi richiedono talora accessori maschili come il gilet bianco, la cravatta da uomo, il cappello alla canottiera.
Pure dall’Inghilterra, per il tramite della Francia, seguendo l’influsso estetizzante del preraffaellitismo [3], appare anche da noi la vestaglia (nel 1877 nel dizionario Fanfani, nel1891 in quello del Petrocchi). Non è solo veste da camera, ma sotto il nome di tea-gown è adottata con entusiasmo anche per i ricevimenti intimi, permettendo alle signore, con la sua linea impero sciolta in vita, di indossarla senza busto e ornarla con i fronzoli vietati dal sobrio tailleur. Sempre del genere di abbigliamento sciolto, da casa, detto déshabillé fa parte il casacchino anche detto matinée che si porta sopra qualsiasi sottana salvo quelle da ballo, all’inizio indossato dalle partorienti, dalle convalescenti o dalle signore indolenti che lo usavano per pettinarsi, o, la mattina, per ricevere stando sedute sul letto, col solo busto in vista. In un secondo tempo esso subentrò alla veste da camera intera. Ne sono caratteristiche le tinte chiare (crema e rosa) e le abbondanti guarnizioni (con “molti fiocchi, molti merletti” i matinées “diverranno eleganti per forza” secondo la mentalità ancora incline al sovraccarico).

Un altro indumento, già in voga in passato e attestante la coesistente tendenza alla semplicità, è la blusa o blouse, necessaria con il tailleur, con l’amazzone, con il vestito da caccia: di taglio mascolino e severo, ha colletto alto ornato dalla cravatta e viene assicurata in vita da una cintura di gallone elastico con fibbia metallica. La blouse mouijck, adatta alle fanciulle perché sciolta, è d’influsso russo. Vi sono altre bluse eleganti e ornatissime (di trina, di “guipure” cioè trina di seta a cordoncini intrecciati, con ricami “a perle d’oro o d’opale”, di giaietto, di nastro di ciniglia), spesso trasparenti su fodera di colore chiaro.
Il bolero già in voga copre il busto o solo la sua parte superiore, ora piccolissimo (poco più che un bavero) ora abbondante (fine secolo), talora oltrepassa la vita ed ha risvolti. Raro intorno al 1890, viene ancora in voga nell’estate del 1896 e poi scompare; è ricco, ornato di ricami e giaietto, può essere di mussola trasparente del colore del vestito, mentre d’inverno è tutto di pelliccia.
Nell’età umbertina sono assai diffusi i soprabiti, svariatissimi, confortevoli per mattino e per viaggio, mentre per il teatro e per le “sorties de bal” più che per tener caldo sono esibiti per eleganza. Nuovi sono soprattutto i nomi. Vi sono ancora le visites attillate in vita e le giacchette lodate per la comodità nelle cronache della Contessa Lara [4]. Tra i mantelli lunghi alcuni si ispirano al taglio delle corte visites, altri alla redingote ad abbottonatura incrociata; si continuano a portare i dollmann coi baveri tanto grandi da sembrare pellegrine, simili ai carrick (originariamente indumento da cocchiere) che ne hanno perfino cinque sovrapposte e scalate in lunghezza. In uso ancora i paletot a sacco, spesso a doppio petto con grandi e piatti bottoni di madreperla, cristallo o tartaruga, collettino maschile rovesciato. Nei mantelli sono nuovi il particolare dell’alto colletto alla Medici, rialzato a incorniciare il viso e gli ampi risvolti.
Con la moda per gli abiti delle maniche gonfie in alto, le giacchette alla mascolina decadono dopo il 1890 e sono sostituite dalle mantelline o dalle pellegrine, mai del tutto scomparse ma di solito unite ai soprabiti: elegantissime quelle tutte in pizzo nero e guarnito di striscioline arricciate (ruches). Simili ma più importanti sono le mantelline che, come osserva “Margherita”, “proseguono la loro via trionfale”: talora formate da tre pellegrine scalate in lunghezza e con largo sprone quadrato a rinnovarle, possono avere l’orlo inferiore tagliato a fantasia con varie punte e allora sono dette (1893) mantelline-ombrello. La più eleganti con ricami di passamaneria, giaietti e piume hanno invece alti colli a diverse punte, che si allargano intorno al viso formando una sorta di stella. D’estate tutte di pizzo, sono chiamate rotonde. Dopo il 1890 per le sorties de bal non vi sono precisi dettami: il modello alla dalmata, in velluto, guarnito di passamani d’oro e strisce di pelo, ha apertura laterale per le braccia. Se la signora che lo indossa è titolata può portare la sortie in semplice panno e ornarla col suo blasone come distinzione personale; anche le carrozze dell’aristocrazia hanno lo sportello blasonato.
Sono semplici gli impermeabili con cappuccio e cordone in vita e i copripolvere estivi in solido e lucido alpagà (talora incongruamente ornato di pizzi e ricami); spesso di panno impermeabile sono i paletot da viaggio. Per questo scopo si usano anche pelliccette, cappe e mantelli spesso della stessa stoffa dell’abito, solitamente toni grigi o nocciola ravvivati da fodere di colori brillanti (rosso).

Molti indumenti sono ornati o interamente foderati di pelliccia (lontra, martora, visone). Si cominciano a vedere pellicce lunghe, ma sono rare, come riscontra D’Annunzio che celebra quella della principessa di Venosa a Roma. Molto di moda per guarnizione la volpe argentata e azzurra. Spesso vari tipi di pelliccia sono mescolati con effetti discutibili: lo skunk o l’astrakan, per esempio, con martora o muflone. Più raffinato l’assortimento della guarnizione di pelliccia con il colore della stoffa: per esempio volpe bianca per una veste da camera di trina avorio.
Riappare la moda delle pellicce a sé stanti, come nel 1887 il boa che pareva scomparso, anche in piume di struzzo o in marabù, e il manicotto. Nel 1895 riappare anche una moda simile al cinquecentesco sghiratto, noto dallo splendido ritratto di Antea di Parmigianino (museo di Capodimonte, 1530), cioè quella di portare al collo piccoli animali montati con la coda e la testa ornata di occhi di vetro che si chiamano cravatte o sans-gêne (una sola pelle di martora). Frattanto si annunciano stole piatte di pelli rasate (lontra o zibellino). Di solito è assortito con il boa o la stola il manicotto rotondo ornato dalla testina dell’animale e, ai lati, dalle zampine che ricadono dondolando. Altra novità sono le pellicce di otaria, un genere di foca; sul manicotto può essere appuntato un mazzolino di fiori freschi. Negli inverni miti è un capriccio di moda il manicotto detto “di fantasia” in velluto o seta imbottita, ornato di ricami.

Gli ultimi anni del secolo sono stati definiti da un giornalista “l’epoca del bagno a dondolo”, un’ingegnosa tinozza arrotondata che, quando vi si giaceva, permetteva, grazie ai bordi e alla curvatura, con piccole spinte delle mani, di ottenere piacevoli onde. Un esempio, fra i tanti, della ferma fiducia nei vantaggi dell’idroterapia, ritenuta, dopo secoli di idrofobia, la base dell’igiene e della bellezza.
La carnagione femminile deve essere delicatissima e bianchissima con leggeri riflessi rosei. Semplice il segreto della cantante Adelina Patti, freschissima anche in tarda età: lavarsi tre volte al giorno la faccia, seguire un vitto ben digeribile, dormire molto. In Francia e Germania si usa il “rouge” per ottenere una sfumatura rosea e il bistro sulle palpebre per far risplendere gli occhi, ma in Italia le signore per bene rifiutano questi artifici riservati alle artiste di teatro  e alle eccentriche. Quasi obbligatoria è invece la cipria di riso, bianchissima e leggermente profumata e tollerati sono la tintura per i capelli che cominciano a imbiancare e il ricorso a profumi violenti come l’opoponak (distillato di erbe ombrellifere) che però i giornali di moda consigliano di abbandonare d’estate in favore dell’acqua di colonia o della lavanda, specialmente per le fanciulle a cui sono riservati profumi discreti come la violetta.
Fondamentale è la cura del viso: le donne versano nell’acqua della catinella (non esistendo ancora l’acqua corrente) qualche goccia di aceto aromatico come tonico della pelle e contro il mal di testa oppure la profumano con acqua di toeletta (stimate le italiane dette “di Genova”, o di “Felsina”). Per imbiancare la carnagione che rischia di abbronzarsi col sole estivo, si consiglia latte con sugo di cedro (o limone) e permane l’antica tradizione di unirvi un po’ di zucchero bianco con allume di rocca. Per il bagno la Contessa Lara raccomanda di addolcire l’acqua con gocce di glicerina, acqua d’arancia e di rose e per i bagni di bellezza si consiglia di immergere nella vasca un sacchetto di garza colmo di crusca ricca di vitamine.

Le pettinature tendono anch’esse al verticalismo, nonostante alcune oscillazioni. Già nel 1883 la massa di capelli è rialzata e attorta in cima alla testa, liberando la nuca, appena velata all’attacco dei capelli da fini riccioletti. Sulla fronte i capelli sono tagliati corti per formare una folta frangetta Il nodo dei capelli si stacca moderatamente dalla linea della testa: lo fissano grosse forcine di tartaruga ornate sulla costa di globetti o dentellature. Verso la fine del secolo la pettinatura rialzata tende a gonfiarsi a gronda sulla fronte; leggerissimi tubi rotondi di fine metallica servono spesso a dare l’impressione di una folta massa di capelli. Negli ultimi anni del secolo i giornali di moda raccomandano le tinture all’henné che danno un colore rosso acceso, peraltro non amato dalla signore italiane per bene.
I cappelli, d’inverno di velluto, felpa o feltro, d’estate di paglia, hanno molta importanza nel periodo umbertino: la cupola tende a rialzarsi, l’ala (scomparsa nella toque) riappare, dapprima rialzata dietro e incurvata assai leggermente sul davanti, poi rotonda e piatta, infine rialzata sul davanti per tornare al primo modello solo nell’ultimo anno del secolo. Le guarnizioni sono lussuose: piume, quasi sempre in verticale, nodi di velluto, “aigrettes” (pennacchi, piume), spesso fissati da fibbie di giaietto luccicanti ai movimenti del capo, uccellini interi, di gusto discutibile, non solo i minuscoli colibrì dalle penne lucenti con riflessi di smeraldo o rubino, ma anche, dicono i giornali di moda, un “gabbiano ad ali aperte”, un gufo... Accanto ai cappelli ricompaiono le capotes, così piccole da essere definite “un niente” su cui però si riescono ad issare uccellini e fiori; per contro fermate da larghi nastri sotto il mento.
Per le signore “distinte” si impone la veletta che, con sottile mistero, sottolinea il pudore femminile e che resisterà fin quasi alla seconda guerra mondiale: uscire senza veletta era ritenuto sconveniente per una vera signora. Essa non ha nulla a che fare con il velo che da tempo immemorabile avvolgeva la capigliatura e ricadeva sulle spalle, più o meno abbassato sul viso per coprire la faccia: posata sull’ala del cappello, scende a coprire completamente il viso fino al collo ed è fissata dietro con un piccolo nodo o una spilla. Lo scultore Medardo Rosso seppe magicamente immortalare in un busto il volto di una signora che traspare da una veletta  e anche D’Annunzio, cronista mondano (col nom de plume “Vere de Vere”), accenna a questa moda, ancora recente nel 1885 se di una sola signora, nel pubblico di un concerto a Palazzo Doria Pamphyli a Roma, egli afferma che aveva “sulla rosea faccia un velo color di perla”.

In generale nel periodo umbertino il lusso diventa più intimo e meno visibile: non è più pensabile esibire per strada ampie scollature come intorno al 1830: ne consegue un’accuratezza nella biancheria intima mai esposta a occhi estranei. Ricchezza e ozio imprimono un aspetto voluttuoso, lontano dalla semplicità delle candide camicie a maniche lunghe e dalle sottane armate di cerchi di un tempo. Ora le camicie da giorno, e più audacemente quelle da notte, sono senza maniche; per le donne giovani, perché le anziane per la notte le hanno con le maniche e perfino col colletto ampio non risvoltato. In montagna o nei giorni freschi le giovani, non essendo ancora in voga i golfini, si adattano ad indossare camicie di flanella bianca. Ma la grande novità è la biancheria di seta: camicie da notte e da giorno. Persistono l’uso della batista e la tipica guarnizione a nastri infilati in apposite strisce forate (“passanastri”) che, insieme ai ricami di San Gallo, ornano scolli e orli di camicie, sottane e mutande. Queste ultime, nel 1892, si accorciano audacemente sopra il ginocchio e sono senza increspature in vita per non ingoffare la snellezza dei fianchi, imposta dal verticalismo trionfante. Obbedisce al verticalismo pure l’abolizione della camicia che, con i rigonfi, potrebbe compromettere la linea. Le signore eleganti portano, sotto il busto, soltanto la maglia e un’unica sottana di seta sgheronata (cioè a triangoli, “gheroni”), in omaggio alla disinvoltura “fin de siècle”. La civetteria, riappare, nell’ultimo decennio del secolo, in un intimo lusso non a tutte concesso: la sottana di seta a falpalà che, sotto la severa gonna del tailleur, con i movimenti produce il fruscio della seta, anzi le sete più apprezzate sono le più rigide per l’intenso fruscio che producono. In precedenza è ritenuta elegantissima la sottana di sotto di flanella, spesso rossa con falpalà.
Altra novità fin de siècle è la biancheria colorata che contraddice l’origine del nome: non solo le sottane, ma camicia, mutande, copribusti sono di tinte pallide (rosa, celeste, paglia) con pizzi di color écru (greggio). Ma già camicia, sottana, copribusto e mutande come capi singoli sono destinati ad essere sostituiti dalla combination (combinaison) che unisce al copribusto la sottana: in Inghilterra la si preferisce di maglia, in Francia, secondo la Contessa Lara, è formata da copribusto e sottana unite e ornate solo da ricche gale per tener larga al basso la sottana del vestito, aderente invece ai fianchi.
Il busto, irrinunciabile, garantisce il vitino di vespa e tende poi ad allungarsi fino alle cosce per snellire i fianchi per assecondare il verticalismo dell’epoca. Per raffinatezza si usano non il solido coutil, ma ricco broccato, leggera “batista glacée” e, per l’estate, la reticella di seta. I colori variano dal signorile bianco, ai colori pallidi, al nero che spicca sul candore della pelle. I pizzi ne guarniscono l’orlo in alto e in basso e lo rendono elegante, così come la stessa disposizione delle stecche di balena arcuate a ventaglio verso i fianchi e il petto che sorreggono a coppa, lasciandolo poi in vista, libero, in alto. Quest’armatura scricchiolava alle strette degli abbracci ed esercitava un certo richiamo erotico come attestano i versi del poeta Olindo Guerrini. Negli ultimissimi anni del secolo i busti sono molto bassi con fianchi d’elastico e senza stecche: non si deve aspettare il Novecento per parlare di soppressione del busto, anche se le stecche rimangono a irrigidire i corsetti dei vestiti.
Tra i capi di biancheria i fazzoletti, seppure nascosti nella borsetta e rimpiccioliti rispetto al passato, continuano ad essere eleganti con fini ricami intorno alla cifra o all’orlo, talora ornati di pizzi o leggermente arricciati. La cifra, ricamata più semplicemente, non manca neanche nelle camicie (sul petto) e nelle mutande (in vita); l’abitudine di cifrare la biancheria intima, da tavola e da letto era già apparsa precedentemente e si estende ai mobili, quasi a sostituire la spocchia degli stemmi nobiliari con con l’ostentazione borghese della proprietà. I poveri certo non hanno il problema di cifrare il poco che hanno.
Le calze, nell’Ottocento ancora di filo per giorno e a colori (spesso azzurro, bianco e nero disposti a riquadri intercalati come negli scozzesi), un decennio dopo diventano eleganti, per le signore, uniformemente nere e di seta, anche coi vestiti chiari: solo con quelli bianchi ne seguono il colore. Il potere di seduzione di quelle calze nere ci riporta alla moda del french can-can di fine secolo, in cui gli occhi degli spettatori, a differenza di oggi, non abituati a quella vista, erano rapiti dall’apparizione delle gambe, rivestite di nero, sollevate tra le trine bianche delle sottane.
Le scarpe erano per lo più di capretto morbido sul piede come un guanto. Tra il 1881 e il 1882 ricompare la scarpina aguzza con tacco alla Luigi XV, rientrante dietro, ma nell’ultimo decennio si tende a preferire forme di scarpe più larghe e pratiche, spesso alte a stivaletto, soprattutto per la villeggiatura in campagna o in montagna, e per il tennis uno scarponcino solido, ma aggraziato, mentre in città si adottano scarpe basse di seta, alla Molière, con linguetta, fibbia, tacco moderato e punta quadra e, per il ballo, scarpette scollate. Per praticità e grazie all’incremento degli scambi commerciali con gli Stati Uniti, si diffondono le scarpe americane leggere e impermeabili di tessuto caoutchout (Halphen) messe in vendita a Milano dall’omonima ditta insieme con i suoi impermeabili.
Alla fine dell’Ottocento i guanti non si portano più in casa, dove il riscaldamento è migliorato con le stufe salute a circolazione d’aria, create a Milano da Gioachino Pisetzsky. Ma le mani inguantate sono ancora un imperativo quando si esce, sia per non esporre la mano -ingioiellata ma nuda- al freddo e a contatti estranei, sia come segno di distinzione sociale. Nel primo decennio dopo il 1878, con gli abiti da sera si portano guanti “di seta colorati adorni di trafori e ricami”, poi di morbida pelle scamosciata bianca, lunghi fino al gomito, sempre con tre righette verticali sul dorso della mano a sottolinearne lo slancio. Soltanto nell’ultimo quinquennio del secolo questo ornamento, divenuto “dominio delle crestaie e delle cameriere” decade. I guanti da sera si infilano con noncuranza in modo “che facciano molte pieghe sul braccio e sul polso”, raccomanda la Contessa Lara, così come nel Seicento le dame portavano calze cascanti. D’estate, sono ammessi “guanti di filo e mitaines di seta o di filo, ma sempre lunghe” .
Tra i gioielli trionfa, tra le dame aristocratiche, la collana di perle a molteplici giri. La regina Margherita ha uno splendido “collier” che nel 1888 raggiunge i 14 fili, ciascuno dei quali ricevuto in dono a Natale dallo sposo, re Umberto. Il pregio di queste collane sta nella sfericità perfetta delle singole perle, di solito di grandezza degradante verso la nuca, e nei riflessi delicati detti “oriente” dal loro color latteo. Ma vi sono pure rarissime perle nere come quelle indossate dalla principessa Brancaccio, al ballo del Quirinale del 1881, come ricorda ammirato il cronista mondano di “Margherita”. Meno prezioso ma elegantissimo è il col de chien (collare da cane), formato da una decina di fili di perline assicurate a asticciole verticali così da formare un colletto.
Seguendo antiche tradizioni, nei grandi balli o ricevimenti si portano elaborati collari di diamanti associati a gemme di vario colore, soprattutto smeraldi, in parure a orecchini, braccialetti, spille, anelli: celebri quelli ereditati dalla principessa Pallavicini che li sfoggia seduta nel palco del Teatro Apollo dietro la regina.
Gli orecchini, nel 1880 ancora a pendente, nel 1890 sono di moda a bottone con un brillante o una perla circondata di brillanti, ossia aderenti al lobo dell’orecchio forato per mezzo di un corto filo d’oro ricurvo che, passando per il foro, si attacca con un gancetto all’orecchino. I braccialetti sono di solito uno per braccio e soltanto due per gala, assortiti agli altri gioielli, ma si porta anche un vellutino con un passante gemmato al centro. Verso al fine del secolo vengono di moda catene piatte d’oro, di gusto inglese, e si affaccia l’uso, più tardi fortunatissimo dell’orologio da polso, criticato come inadeguata sostituzione dell’ornamento con gemme.
Sempre importante la broche (la spilla di brillanti), accompagnata spesso da altre gemme a formare uccelli, insetti, serpentelli, mezzelune, ancora ispirati al gusto romantico. Talvolta si montano a broche monete o medaglie antiche. Nell’ultimo quinquennio il gusto Liberty si afferma sulle spille in mostri fantastici, per esempio teste di drago in argento pietre preziose.
Gli anelli si portano ancora numerosi alle due mani, ma trionfa la semplicità: nel 1892 l’ultima moda esige una sola grossa pietra montata su sottile cerchietto che, se la gemma è preziosa, può essere esibito sul guanto.
Nell’ultimo decennio torna la moda della romantica châtelaine fissata in vita, che riunisce e offre a portata di mano tanti oggettini utili quando la signora si trova fuori di casa: il portacipria, lo specchietto chiuso, la fialetta di essenza, il lapis, il libriccino per gli appunti lavorato in argento a Parigi e anche il ventaglio. Talvolta si porta in vita uno solo di questi oggetti, come la fiala di cristallo a cuore con gancio, catenella e corona nobiliare intorno al tappo, appartenuta a una contessa Baglioni.
L’amore per il passato si coglie nell’uso di gioielli antichi e delle miniature, incorniciate di sfavillanti ma non costosi “strass” oppure di perle e brillanti più preziosi. Passatista anche il gusto di montare le gemme in sequenza in base alle iniziali del loro nome: per esempio la parola “amore” si forma con ametista, malachite, opale, rubino, ematite. Senza dimenticare che, come in passato, a ogni pietra si attribuisce il simbolo di un mese o di una virtù.
Lo sfoggio di gioielli, orgoglio della nobiltà e ambizione della borghesia, deve essere frenato dalla discrezione, come afferma la Contessa Lara, e escludere l’uso di gioie false, a parte la moda degli strass. Alle fanciulle è vietato l’uso dei brillanti da portarsi per la prima volta al ricevimento (non alla cerimonia!) di nozze; raccomandati semplici gioielli con turchesi o fiori di smalto.
Nell’età umbertina un oggetto che sembrerebbe di uso pratico ma che le signore impugnano per darsi un contegno è l’occhialetto, le cui lenti si incastrano ripiegate nel manico di tartaruga, dapprima corto, poi allungato. E’ raro l’arcigno pince-nez, posto con una molla a cavalcioni della radice del naso, con piccole lenti ovali e doppio cordoncino nero per tenerlo appeso.
Nelle mani delle signore appaiono di frequente piccoli cannocchiali con manico da teatro, montati in madreperla cerchiata di vermeil, oppure, più grandi e severi, foderati di pelle, per seguire meglio le competizioni dei purosangue alle corse o esplorare i paesaggi nelle gite in montagna o in campagna.
Utili, ma soprattutto complemento nell’eleganza femminile umbertina sono l’ombrellino e l’ombrello, a riprova dell’ entusiasmo fin de siècle per le norme igieniche e per i soggiorni all’aria aperta. Il manico diritto e il puntale, entrambi lunghi, assecondano il verticalismo dell’epoca, tanto più che è di moda portare gli ombrelli, quando sono chiusi, con la fodera strettamente arrotolata, fissata con l’apposito cinturino. Gli ombrellini diventano più pratici con la loro forma più ampia e arcuata rispetto al passato; sono preferite le delicate tinte chiare come il lilla, il crema, il verde pallido, il color lino, notato da D’Annunzio nelle sue cronache mondane. I più raffinati sono gli ombrellini di trina, dalla fodera assortita al colore dell’abito. Elegantissimi quelli di “onde di garza”, dai falpalà orlati di seta che, come si nota con arguzia, sarebbero più adatti, per la loro trasparenza, a riparare dai raggi di luna che da quelli del sole. Raffinatissimi quelli coperti di fiori o di petali leggeri che rendono l’ombrellino aperto simile a una grande corolla. Un dettaglio elegante è l’anello con cui si stringono le pieghe della copertura, perfino in oro o argento, ornato di gemme o liscio, ma effigiato con motti allusivi alla funzione: “nella luce l’ombra”, “proteggo non celo”, “attendo un raggio”, oppure, se regalato a una bella signora, “tra due soli”. Spesso un nastro con fiocco serve per tenerlo appeso al braccio. Il manico, rispetto alla ricchezza della cupola, può passare inosservato ma è elegantissimo e prezioso, di avorio, tartaruga o legno raro, e termina spesso con un pomo d’oro sul quale può essere inserito un motto (“solo un sole, amore”) o le iniziali della dama. Famosi artigiani creano ombrellini e vi incidono la loro firma, per valorizzarli. Novità dell’ultimo decennio sono gli ombrellini di colori decisi e variati (rossi, verdi, scozzesi o di moerro cangiante alla Loie Fuller, una celebre danzatrice). Ancor più nuovi quelli di gusto inglese apparsi nel 1895 con manico di legno verde e testa di uccello acquatico, un’anatra dal becco largo, ancora in uso. Per praticità, si preferiscono, poi, gli en-tout-cas colorati da usarsi per la pioggia come per il sole.

Nel primo quinquennio dell’età umbertina i ventagli diventano smisurati e asimmetrici: fino a mezzo metro da un lato, mentre dall’altro si accorciano gradualmente. Le stecche sono abitualmente di legno laccato o bambù e la pagina di percalle a fiori o, per eleganza, di foulard con stecche di cedro. Per sera si usano ventagli più piccoli di raso con stecche di madreperla, avorio o tartaruga. Pregiatissimi quelli di pizzo di Venezia, rinato dai modelli antichi. Nell’ultimo quinquennio i ventagli tendono a rimpicciolirsi per poter essere attaccati alla châtelaine e più tardi in cintura sorretti da un nastro.
Fino all’ultimo decennio del secolo le borsette non hanno importanza: sono di stoffa qualsiasi, con cerniera metallica e una catenella per tenerle in mano. Nell’ultimo decennio, però, appaiono sui figurini e sulle fotografie più spesso e sono più eleganti: accanto alle aumonières (alla lettera “elemosiniere”) di velluto, con cerniere di argento cesellato e doppia catena con gancio per reggerle in vita, vediamo semplici e graziose borsette di pelle che anticipano le mode del Novecento e accompagnano la scomparsa delle tasche, soprattutto interne, che deformerebbero la linea aderente dei vestiti. Si rispolverano, però, anche vecchi modelli, carichi di nastri e trine, detti ridicules.
L’abbigliamento maschile e i suoi accessori
L'abbigliamento maschile è investito da trasformazioni di minore portata rispetto a quelle in corso nella moda femminile. Se la questione dell'abbigliamento femminile ha implicazioni di carattere igienico, sanitario, sociale e persino politico, in campo maschile le richieste dei riformisti si limitano a una maggiore varietà di tagli e tessuti e a una maggiore libertà nell'uso dei colori.
Sicuramente il personaggio a cui si ispirano gli uomini nel vestiario è il re Umberto che, con i suoi enormi baffoni, ama vestire in borghese, ma non “sans façon” (alla buona, senza pretese), come suo padre. Di contro alle gallonate uniformi militari degli imperatori tedeschi e austriaci, il suo abbigliamento preferito è costituito da finanziera e cilindro. Medici, funzionari, direttori d’azienda e impiegati, sul lavoro, indossano la finanziera (cosiddetta perché indossata da banchieri e uomini di finanza) chiamata anche stiffelius o prefettizia, adatta alla vita di città e alle professioni: si tratta di giacca lunga fino al ginocchio, a un petto (ma anche a doppio petto), da portare sopra a un gilè con camicia e cravatta. Il frac è riservato a balli, teatro, pranzi eleganti, dove è però tollerata la redingote, che nel 1891 è lunghissima e abbottonata con tre bottoni. Sul finire del secolo si porta più corta, che non oltrepassi il ginocchio, molto attillata e allacciata solo con il primo bottone. D’inverno e di sera è di casimiro o di stoffa ottomana nera, d’estate, per lo più, di cheviot (tessuto di lana inglese) grigio con gilet chiaro o a disegni. Anche le giacche usate di giorno, in situazioni confidenziali, sono attillate e così pure i calzoni, ma si adoperano anche casacche “négligé” di cheviot a quadri, incrociate, a due file di bottoni e grandi risvolti con bottoni di corno.
Negli ultimissimi anni del secolo, nuovo cambiamento: più nulla di attillato. Le giacche dette vestons “ballano sui fianchi e i calzoni sembrano fatti per due”; trionfano i gilet bianchi, non solo col frac, ma anche con la giacca, e a Milano meritano ai grossi borghesi il soprannome di “panscia de gess”. Nell’ultimo anno del secolo il gilet è però assortito alla giacca così come i calzoni al frac e alla redingote; con la giacca si portano, invece, spesso calzoni a rigoline bianche su fondo cilestrino o a quadretti.
Soprabito per eccellenza è ormai il paletot, ma i ricchi hanno l’ambizione della pelliccia, foderata per lo più di castoro, raramente di visone o lontra, con collo assortito o di altro pelo. La cravatta allacciata a farfalla è rigorosamente bianca con il frac, con gli abiti a giacca è invece a piccoli motivi geometrici e scura; però dopo il 1890 appaiono le cravatte tuttora usate con il nodo girato e i due cappi pendenti e sovrapposti.
Prevale per i giovani la pettinatura con scriminatura nel mezzo della fronte, ma da noi, diversamente che in Inghilterra, si adotta la pettinatura con i capelli un po’ più lunghi sulla fronte, spazzolati all’indietro e corti alle tempie e sulla nuca, detta all’Umberto, perché segue l’ esempio del re o anche alla Brutus.
L’esempio del re vale soprattutto per i formidabili baffi fieramente rialzati a cui però i giovani preferiscono baffetti sottili. I giovani evitano pure le barbe, ormai quasi insegna professionale di dottori e professori : tra i letterati Carducci ha una barba nera e riccia non molto lunga che gli risale sulle guance fino alle tempie. Ritratti e messaggi pubblicitari che le decantano dimostrano quanto siano diffuse le pomate per rendere lustri e lisci baffi e capelli. Nella pubblicità di “Chinina-migone” per la conservazione e sviluppo di barba e capelli e della loro bellezza (1898) leggiamo: “La barba e i capelli aggiungono all’uomo aspetto di bellezza, di forza e di senno” e “Una chioma folta e fluente è degna corona della bellezza”.
La finezza della biancheria, nell’eleganza maschile è molto importante. La camicia di lino finissimo, fino al 1894 ha colletto altissimo e polsi inamidati staccati poi uniti, e il colletto si presenta addoppiato. La stiratura deve essere impeccabile tanto che alcuni maestri di eleganza come il conte Greppi a Milano spediscono le loro camicie a Londra per farle stirare là non fidandosi delle nostre stiratrici.
Sotto la camicia si porta la maglia, di lana e con maniche lunghe d’inverno, a maniche corte e di cotone d’estate. Raffinatezza non comune, il re Umberto indossava, anche quando fu ucciso, una maglia di seta a righe orizzontali bianche e celesti.
I guanti sono per lo più bianchi e lucidi per la sera, marroni o grigi da giorno. Solo gli uomini d’affari sono dispensati dal portarli.
Come precedentemente, le calze di seta sono prerogativa degli uomini eleganti, soprattutto di sera. In genere si usano di filo, più di rado di lana d’inverno, con giarrettiere elastiche dotate di fibbie sotto il ginocchio, per reggerle. Quando diventano di moda per le donne, anche gli uomini adottano le calze nere. Mentre per le donne anche la caviglia, come altre parti del corpo lasciate indovinare o poco esposte, è un’attrattiva sessuale, per gli uomini, a parte lo slancio della figura nell’insieme, ci si può fermare alle spalle. In Italia per la sera con il frac o lo smoking [5](in Inghilterra sempre), si usano i pumps, scarpe basse e scollate di vernice nera.
Per i gioielli, la Contessa Lara sentenzia che meno un uomo ne porta meglio è: sono ammessi una spilla da cravatta, un anello, la catena dell’orologio, i bottoni dello sparato. Questi ultimi intorno al 1880 sono d’oro per il giorno (o di doublé, cioè solo oro placcato, come insinua D’Annunzio nel resoconto di un ballo) o di perle piccolissime per la sera. I più raffinati usano bottoni “di pietra dura trasparente” (l’opale, l’ametista, il topazio), con un brillantino incastonato al centro. Mentre sarebbe considerata una cafoneria portare per quell’uso un brillante grosso, è ritenuto elegante al dito mignolo “un grosso solitario” montato in oro giallo. Ai bottoni dello sparato devono essere assortiti quelli per i polsini della camicia detti gemelli, collegati da una catenella nascosta nei polsini. Come spilla da cravatta si impone per la sera una sola grossa perla, ma per giorno imperversano spille di brillanti a ferro di cavallo o, come porte-bonheur (portafortuna)un piccolo quadrifoglio in oro smaltato di verde con brillantino al centro. I più raffinati accordano la spilla da cravatta ai bottoni da polso: rubini, smeraldi, zaffiri circondati di brillantini. La spilla non è più doppia, come quella detta da balia o inglese, ma viene fissata alla cravatta con un semplice, lungo, spillo, assicurato dietro con un fermo. L’orologio, d’oro per i ricchi, sennò d’argento, è spesso a cassa doppia per coprire non solo il meccanismo, ma anche il quadrante, e scatta alle pressioni di una piccola molla applicata di fianco; la cassa ha spesso un vetrino centrale per leggere le ore senza aprirla. La catena dell’orologio, come questo in oro o argento, è massiccia e a grossi anelli: si porta sulla sinistra del gilet, fissata a un’asola con una stanghetta e, talora, guarnita in quella posizione da una medaglia o da una moneta pendente; però si può anche allacciare l’orologio con una châtelaine che pende dal taschino con un piccolo suggello in fondo.
Tipica dell’epoca è la moda del fiore all’occhiello, già apparso in precedenza: di solito un garofano bianco (rosso lo portano con aria di sfida i socialisti), o, la sera, una gardenia, offerta, spesso, a teatro da una fioraia che si aggira in platea. Alla fine del secolo si tenta di lanciare la voga dell’orchidea.
Per gli uomini gli occhiali sono a pince-nez assicurati all’occhiello del risvolto della giacca da un cordoncino nero. Le lenti, ovali e poi rotonde, sono cerchiate d’acciaio, ma anche in oro per i più ricchi. Per i più raffinati e mondani c’è il monocolo, detto caramella, da portare incastrato nell’orbita.
Fumare sigari, pipe, sigarette è ormai vizio diffuso, ma non hanno grande rilievo i portasigarette di legno o cuoio, poi d’argento, mentre le borse per il tabacco sono di stoffa. Le pipe sono a fornello liscio, per lo più in radica, meno spesso in schiuma, con bocchino di ambra o corno. E le più pregiate sono inglesi, particolarmente le Dunhill, distinte da un minuscolo punto bianco di avorio incastonato nella pipa. Per le sigarette si usa bocchino corto e grosso di ambra o di corno, cerchiato d’oro.
Accessori indispensabili sono il cappello, un bel paio di guanti, generalmente chiari, e l'ombrello o il bastone da passeggio. Il cappello più adatto alla finanziera è il cilindro, ma in questi anni si diffonde anche l'uso dell’ amburgo (Homburg), un copricapo a tesa larga fatto di feltro semirigido e introdotto da Edoardo VII d'Inghilterra. Infatti, se la capitale della moda femminile è Parigi, l'eleganza maschile ha il suo centro indiscusso a Londra. Ed è proprio in Inghilterra che nasce il movimento per la riforma dell'abito, che organizza conferenze e dibattiti in tutta Europa.
Il bastone è ancora, come il cappello, un attributo indispensabile del vero signore, ma dal 1890 si semplifica: il manico è ricurvo, spesso di corno, cerchiato d’oro all’attacco con canna di legno, più raramente è ad angolo retto e coperto d’argento, ma vi sono anche manici cesellati in “modern style”. Classico, invece, il manico dello scudiscio o cravache per cavalcare o, più raramente, da portare in mano a passeggio.

Il costume da bagno
Una prima sensibile svolta si registra nell'ultimo decennio del secolo, quando la gonna e i pantaloni sotto la gonna dei costumi da bagno si ritirarono fino al ginocchio. Quasi d'obbligo il colletto alla marinara, sia per le signore che per i signori, i quali però ben presto scoprirono la comodità dei costumi interi, manica tre quarti, così come i pantaloni, in tinta unita oppure a righe trasversali. Costumi molto comodi perché consentivano libertà di movimento e soprattutto di esibizione, ovviamente solo per gli “sportivi” dal fisico robusto e ben scolpito.
Bagnante castigatissima quella di fine secolo, apparentemente, perché in realtà essendo il tessuto principe la maglia di lana, dopo il bagno il costume aderiva e rivelava le forme lasciando scarso margine alla fantasia. Su "L'Illustrazione Italiana" nel 1890 si legge: “I nuotatori in mutandine bianche e quadrettini bleu v'insegnano gratis anatomia alle ragazze curiose, che poi la notte non possono dormire e sognano di non essere sole e si alzano la mattina dopo con gli occhi sbattuti”. Del resto le ragazze ricambiavano la cortesia, tanto più dopo il 1904, data della “révolution Poiret” quando l'omonimo sarto parigino impose l'abolizione di busti e corsetti. Nulla doveva più essere frapposto fra la maglia e la pelle. Ma ormai le spiagge erano diventate il luogo della trasgressione autorizzata, sia pure con estreme differenze locali. Tanto che ad esempio in Germania alle bagnanti era fatto obbligo di portare un accappatoio lungo sino al collo dei piedi prima e dopo il bagno, e in Argentina agli uomini era imposta una canottiera lunga almeno fino sotto le cosce.
L'universo balneare era però ormai legittimato nel costume e le principali riviste dedicavano alla moda da spiaggia apposite rubriche. Il comune senso del pudore stava perdendo molta della sua ottocentesca sensibilità pruriginosa. Incominciava a diventare di moda il nuoto, prima per gli uomini naturalmente, e poi, a debita distanza, per le donne. Arrivavano i primi e più liberi costumi americani che hanno inaugurato i moderni riti solari, lungo le coste della Florida, a Palm Spring e a Cocoa Beach. “Manie americane” dirà la "Domenica del Corriere" con corredo di copertine disegnate da Beltrame. Ma la liberalizzazione era pur sempre lenta. Nel 1906 si guadagna un posto nella storia del costume la nuotatrice australiana Annette Kellerman che durante una esibizione negli Stati Uniti si presentò con un costume intero che lasciava scoperte le cosce. Fu subito arrestata, multata e rimpatriata.
L’abbigliamento infantile.
Trionfa la marinara per i più grandicelli: blusa “bleu marin”, rimborsata in vita con grande collo di piquet bianco quadrato dietro e orlato di galloni diritti e ancore agli angoli, calzoni per i maschi, gonnellina a pieghe per le bambine. Indispensabile il berretto alla marinara con pompon d’inverno, cappello di paglia pure alla marinara a tese larghe e nastro intorno alla cupola d’estate, talora col nome impresso di una nave.
Ai maschi è riservato per cerimonia, ancora lo Eton.
Per i piccoli, maschi o femmine, si usa ancora i vestitino con carrè e sottanella. Verso il 1880 si usano le vestine a vita lunga, all’inglese, con gonnellina ridotta quasi a una striscia, cerchiate intorno ai fianchi da una vivace sciarpa di seta, specialità delle manifatture di seta di Como, annodata dietro con grande fiocco a farfalla. Per cerimonia, però, le bambine usano vestitini da donna con tournure, carichi di nodi di nastro e di grosse pieghe laddove la linea delle signore si arrotonda.
Bianchi i vestiti per comunicande che, dopo il 1890, si allungano fino ai piedi e sono completati da accessori come la cuffietta di tulle arricciato, il grande velo e l’elemosiniera (borsetta) di seta bianca con frangia. Anche i maschi per la prima comunione, celebrata dopo aver compiuto i 12 anni, vestono da uomo, in nero o blu scuro, con solino inamidato, cravatta e cappello duro.
Dal 1895 compaiono i vestiti all’americana; specie di lunghe bluse sciolte increspate sullo sprone quadrato e poi fino ai piedi di colore grigio nikel. Queste sciolte vesti saranno soprattutto in uso per i bambini più piccoli intorno ai quattro anni, mentre per le ragazzine si preferiscono gonnelline tagliate a sghembo con blusa e giacche, spesso di taffetà a vivaci quadretti o a righe o anche di lana “puntigliata”. La tendenza anche per il futuro è di accorciare gli abiti.
Complemento dell’abbigliamento infantile è il grembiale di percalle bianco con entredeux di ricamo di San Gallo, a maniche lunghe oppure per gala a maniche corte e sboffanti, con qualche nastro.

La pettinatura tipica dei ragazzini è all’Umberto, con capelli spazzolati all’indietro, per le bambine la treccia che raccoglie i capelli dalla nuca, salvo quelli tagliati corti a frangetta sulla fronte, quando questa è di moda anche per le mamme, intorno al 1890.
La biancheria è simile a quella dei genitori, ma più semplice, in tessuto robusto come il percalle. Il busto non è risparmiato alle ragazzine, ma è meno steccato, meno stretto in vita e decorato semplicemente.
Il corredino dei neonati è importante. Nel 1892 il giornale “Margherita” ne dà un elenco completo: cuffiette di mussolina e cappettine di seta, bavaglini ricamati o di piquet, scarponcini di casimiro bianco o di seta, fisciù e camicia di tela con pizzo, mutandine o calzoncini d’un solo pezzo di tela abbottonati davanti, corpettini in piquet e flanella, pelliccia cioè paltoncino di seta bianca ricamata con pellegrina e lunghi nastri di nansuk bianco con entredeux e ricami e un’altra di percallo festosa.

[1]“Secessione” viennese : nel 1896-7 alcuni giovani artisti capeggiati dal pittore Gustav Klimt dichiarano la scissione dalla potente associazione ufficiale degli artisti viennesi, che non riconosce il nuovo gruppo. Nasce la Secessione fondata sul principio che “Se l'opera d'arte è valutabile solo nei suoi valori visivi, se ogni linea, ogni colore ha un significato intrinseco, cade naturalmente ogni distinzione fra arte pura o di concetto e arte decorativa o applicata. La ricerca estetica appartiene a tutti gli elementi della produzione.”
Le “Wiener Werkstätte” (officine artigianali viennesi) nascono ad opera degli austriaci Hoffmann e Moser sul modello della “Guild of Handicraft ” inglese, fondata circa un decennio prima: essi ne ricavarono, oltre che l’impostazione artistico-artigianale e gli elementi costruttivi dei mobili, anche la rivalutazione del ruolo dell’artigiano. Quest’ultimo doveva sentirsi protagonista del processo produttivo e trarre fonte di soddisfazione dal proprio lavoro, tanto che firmava i propri prodotti.
[2]Cosiddetto dal cognome del negoziante inglese che aveva lanciato tessuti ispirati al gusto preraffaellita, vendendoli anche in una succursale a Milano. In Italia l’architetto Sommaruga aveva proposto di chiamarlo “floreale”. L’architettura, mentre in un primo periodo si era ispirata ai tronchi d’albero, ora, rimanendo nel campo vegetale, si ispirava ai fiori, non molto razionalmente perché se i tronchi potevano simulare la funzione portante come colonne e trabeazioni, i fiori poco si prestavano a tale scopo; infatti le figurazioni di fiori, sovrapposte, ebbero carattere ornamentale, al principio del Novecento.
[3]Gruppo di pittori e poeti inglesi, metà XIX secolo, che prediligevano per la sua semplicità l’arte rinascimentale, di cui era simbolo Raffaello.
[4]Evelina Cattermole Mancini, in arte Contessa Lara, bionda e bellissima, fu poetessa e autrice di romanzi dalla vita avventurosa e sfortunata (fu uccisa da un amante); collaborò come cronista mondana con vari quotidiani e riviste (il “Fieramosca”, “Fanfulla della domenica” e la “Tribuna Illustrata”).
[5]L’origine del nome della famosa giacca elegante è legata al fumo: in origine era una giacca che veniva “offerta” dal padrone di casa ai suoi invitati quando dopo una cena si ritiravano a fumare nei boudoirs. Siccome l’odore del tabacco poteva dar fastidio alle signore o a chi non fumava, i gentlemen entravano in quelle sale indossando appunto lo “smoking” e quando ne uscivano rimettevano ognuno la propria giacca.


 

1900-1910 La Belle Époque
Il decennio si apre con l’Esposizione internazionale di Parigi in cui l’haute couture si presenta al pubblico internazionale con le creazioni delle più prestigiose case di moda della capitale francese.
Il clima di fiducia che si respira all’Esposizione di Parigi, alimentato dall’idea che il progresso fosse immune da battute d’arresto, si avverte anche in Italia, dove l’attività ferve nelle sartorie d’Alta Moda, ma la ricerca di un gusto originale non va oltre i limiti della personalizzazione per la propria clientela delle fogge delle creazioni parigine.

ALTRI PROTAGONISTI
Madeleine Chéruit, atelier
Jacques Doucet (1853-1929)
Mariano Fortuny (1871-1949)
Jeanne Margaine-Lacroix (1895-1954)
Callot Sœurs, atelier

  • NEL MONDO
  • IN ITALIA

I visitatori del Pavillon de l’Élégance, allestito all’interno dell’Esposizione internazionale del 1900, non videro nulla di nuovo. Persino Jeanne Paquin (1869-1936), la donna che aveva ricevuto l’onore di selezionare gli espositori ammessi al padiglione della moda, ricorse a uno stratagemma – un modello in cera che la riproduceva fedelmente, ornato di sete e pizzi raffinati – per far dimenticare al visitatore la mancanza di novità nell’alta moda. L’abbigliamento femminile continuava a mantenersi rigorosamente fedele allo schema che divideva il corpo in due parti artificiosamente modellate, quella superiore dal corsetto, che comprimeva la vita, e quella inferiore dalla crinolina che dava una volumetria variabile alla gonna. Entrambe, corsetto e crinolina, esprimevano l’appartenenza a una classe sociale nella quale la donna aveva il compito specifico di apparire, di rivelare la posizione del coniuge, per il quale l’eleganza non ammetteva deroghe ai colori scuri e al classico abbinamento della giacca al pantalone lungo. L’Alta Moda che fece mostra di sé all’Esposizione internazionale del 1900 era appannaggio delle donne appartenenti alla classe sociale dei nouveaux riches, uomini d’affari arricchitisi con le attività commerciali, finanziarie e industriali legate alle innovazioni tecnologiche – l’acciaio, l’elettricità, il motore a scoppio, i ritrovati della chimica – che negli ultimi decenni del XIX secolo impressero una nuova accelerazione alla crescita economica europea e statunitense. In mancanza di nuove idee sul taglio e sulle fogge dei vestiti, la ricchezza veniva ostentata attraverso l’abbondanza del tessuto sovrapposto in più strati che modellavano l’abito femminile, la ricercatezza degli accessori, la ridondanza degli effetti decorativi ottenuti con l’applicazione di passamaneria, nastri, cuciture ornamentali, fiocchi, inserti e volant. All’inizio del Novecento, e per tutta la prima metà del secolo, la moda continuò a identificarsi solo ed esclusivamente con Parigi, irresistibile catalizzatrice internazionale di talenti creativi e delle avanguardie artistiche. Di queste ultime facevano parte i Ballets Russes di Sergej Diaghilev (1872-1929), che esordirono a Parigi nel 1906, e nel 1910 misero in scena Schéhérazade. I costumi disegnati da Léon Bakst (1866-1924), dai colori sgargianti accostati in combinazioni inedite secondo il gusto e la tradizione orientale, affascinarono Paul Poiret (1879-1944) che, proprio in quegli anni, si era affermato come il couturier paladino dell’abolizione di ogni costrizione imposta dalla moda al corpo femminile. Traendo ispirazione dai Ballets Russes, Poiret creò abiti di grande effetto, che fecero di lui il protagonista indiscusso dell’haute couture fino allo scoppio della Prima guerra mondiale.
Il clima di fiducia nel progresso e di fermento artistico che si respirava a Parigi giunse anche in Italia. A Roma, che nel 1900 si preparava a ricevere i pellegrini per l’Anno santo, si organizzarono ricevimenti alle corti di Umberto I e di papa Leone XIII. Al Teatro alla Scala di Milano andò in scena il Ballo Excelsior. A Torino, nel 1902, si svolse l’Esposizione internazionale delle arti decorative, che mise a confronto le avanguardie attive in Europa nel campo della riforma delle arti applicate. Nel 1906, Rosa Genoni (1867-1954) presentò all’Esposizione internazionale di Milano alcuni modelli ispirati alla tradizione artistica rinascimentale, con l’intenzione di additare nel rapporto fra arte e costume la via maestra dell’emancipazione della moda italiana dal modello francese.  Senza molto successo: il gusto italiano avrebbe continuato a uniformarsi ai dettami della moda francese per molti decenni ancora.

Le gonne, fascianti sui fianchi, si allargano sul fondo, talvolta culminando in un corto strascico. I corpini, aderenti sulla schiena, si gonfiano sul petto. Per aumentare ulteriormente quest’effetto a curve, le cinture assecondano la forma dei corpini abbassandosi sul davanti. Di giorno gli abiti hanno alti colletti di merletto irrigiditi da stecche, che salgono quasi fino al mento. Di sera, al contrario, profonde scollature. In questo periodo anche la biancheria conosce un nuovo splendore. Sottogonne e copribusti, in mussola o seta, sono sempre piu’ curati. Vengono infatti arricchiti con applicazioni in valenciennes, ricami e nastrini di raso. E sempre piu' spesso abbandonano il classico bianco per colorarsi leggermente di azzurro o rosa cipria. In testa grandi e vaporose pettinature,spesso ottenute con l’aiuto di posticci, e cappelli ornati di piume e fiori. I nuovi abiti femminili sono caratterizzati da una linea dritta e slanciata, a vita leggermente alta. Le gonne sono lunghe e aderenti, a volte tanto strette attorno alle caviglie da costringere la donne ad avanzare a piccoli passi; i corpini apparentemente morbidi, erano pero' ancora spesso irrigiditi internamente da stecche. La sera si sfoggiano ampie scollature, strascichi e corte maniche aderenti. I colori, abbandonati i toni pastello del decennio precedente, tendono sempre piu’a tinte sgargianti.


1911-1920 Moda  e Guerra
La Prima guerra mondiale spiana la strada a un nuovo modello di femminilità e di eleganza.
In Italia il decennio si apre con l’Esposizione universale di Torino dedicata al tema “le industrie e il lavoro”. Nel commentare l’evento, il quotidiano «La Stampa» battezzò la città «capitale della moda».
ALTRI PROTAGONISTI
Giovanni Fercioni (1886-1961)
Madaleine Vionnet (1876-1975)

  • NEL MONDO
  • IN ITALIA

Nei primi anni del decennio, la scena dell’haute couture era dominata da Paul Poiret. Le sue creazioni imposero un modello di eleganza che faceva perno sull’abbandono delle forme curvilinee a favore di abiti dalla linea verticale, sull’introduzione di colori sgargianti nell’abbigliamento femminile fino ad allora realizzato con tessuti dalle tinte tenui, sulla rinuncia alla cura dei dettagli sacrificata all’effetto complessivo dell’abito. Il modello di eleganza di Poiret diventò moda grazie a una serie di innovazioni negli strumenti di comunicazione, di commercializzazione e di diffusione della moda stessa. Poiret fu il primo a esporre le proprie creazioni in ampie vetrine che si affacciavano direttamente sulla strada. Si avvalse della collaborazione degli illustratori Paul Iribe (1883-1935) e Georges Lepape (1887-1971), che disegnarono per lui i primi album di bozzetti.  Organizzò défilé e ricevimenti fra cui la celebre Fête de la Mille et Deuxième Nuit seguita da un tour americano con le sue modelle. Creò la linea di profumi e cosmetici Rosine, caratterizzata da essenze raffinatissime racchiuse in bottiglie d’argento e cristallo, alcune delle quali disegnate da Lalique. Con il suo marchio commercializzò sul mercato americano borse, guanti e calze. Lo scoppio della Prima guerra mondiale segnò l’inizio del declino del modello di femminilità e di eleganza proposto da Paul Poiret. Il conflitto offrì nuove opportunità di lavoro alle donne e diede ai lavori agricoli, domestici e a domicilio, tradizionalmente femminili, una visibilità di cui mai prima d’allora essi avevano goduto. L’abbigliamento femminile si adeguò prontamente al nuovo ruolo attribuito alla donna che, col proprio lavoro, assolveva il patriottico compito di nutrire, vestire e armare i figli, i mariti, i fratelli. La guerra impose la semplificazione delle linee, del taglio, delle guarnizioni, imprimendo un’accelerazione a una tendenza che si era manifestata prima del conflitto: nel 1913, Gabrielle Chanel (1883-1971) aveva presentato a Deauville – una nota località di villeggiatura meta dell’alta società parigina – i suoi primi modelli sportivi in jersey, che anticipavano l’uniformità, la mascolinizzazione e la praticità dell’abbigliamento femminile divenuto di moda durante il periodo bellico. Il jersey era considerato un materiale povero, tradizionalmente usato nell’abbigliamento sportivo o per l’intimo maschile. Il suo impiego nella confezione di abbigliamento femminile esterno, per di più di Alta Moda, fu solo la prima di una serie di innovazioni che contribuirono a fare di Chanel l’interprete per antonomasia del nuovo corso intrapreso dall’haute couture al termine della Prima guerra mondiale. Di lei – unica testimonial delle sue stesse creazioni – ci sono pervenute numerose fotografie che la ritraggono con giacche informi, sagomate unicamente da una cintura stretta in vita, sulle quali erano applicate le tasche sino ad allora prerogativa maschile, o mentre indossa pantaloni e capi di abbigliamento presi a prestito dal guardaroba maschile. A simboleggiare l’inizio di una nuova era nella storia della moda, nel 1919 la Maison Chanel si stabilì in Rue Cambon, dove ancora oggi ha sede.

In Italia, il 1911 fu l’anno dell’Esposizione universale di Torino dedicata al tema le industrie e il lavoro. Organizzata in occasione della celebrazione del cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, l’Esposizione fu l’occasione per Torino di assurgere al rango di capitale italiana della moda, un ruolo che le derivava più dalla collocazione geografica prossima alla Francia che dalla genuina autonomia creativa delle numerose sartorie e modisterie attive in città.  Le uniche velleità di indipendenza dalla concezione dell’abbigliamento, implicita nella moda propugnata da Parigi maturarono fra le fila del movimento futurista. Nel Manifesto del Vestito Antineutrale (1914) di Giacomo Balla (1871-1958) si legge che l’abito deve essere «dinamico, aggressivo, urtante, volitivo, violento, volante, agilizzante, gioioso, illuminante, fosforescente, semplice e comodo, di breve durata, igienico, variabile».


1921-1930 I “ruggenti” anni Venti
Tendenze “restauratrici”, spinte innovative e “americanismo” ispirato al modello di vita dell’unico Paese a godere di condizioni di benessere nel dopoguerra convivono nei “ruggenti” anni Venti, che si concludono con la drammatica cesura segnata dalla crisi del 1929.
In Italia il Fascismo si misura con i primi tentativi di gettare le basi di una moda italiana.

ALTRI PROTAGONISTI
Lucien Lelong (1889-1958)
Jean Patou (1880-1936)

  • NEL MONDO
  • IN ITALIA

Al termine della Prima guerra mondiale, la moda parigina tardò a ritrovare un trend setter in cui identificarsi. All’inizio degli anni Venti, Jeanne Lanvin (1867-1946), la sarta che aveva incominciato la propria carriera nell’haute couture realizzando vestiti così sontuosi per la propria figlia da suscitare l’invidia delle giovani ragazze dell’alta società parigina, si fece portavoce di una tendenza “restauratrice” attraverso la reintroduzione della crinolina e di decorazioni ottenute con guarnizioni e ricami che contrastavano con l’essenzialità delle proposte di Gabrielle Chanel. Ispirate all’abbigliamento sportivo, queste ultime si caratterizzavano per la semplicità del taglio, la sobrietà delle fogge e la praticità dei materiali, prerogative dell’abbigliamento maschile che lei aveva trasferito e adattato a quello femminile per esprimere un nuovo ideale di eleganza e di femminilità, non più asservite all’ostentazione della ricchezza maschile.  Questo stesso intento trapelò con ancora maggiore evidenza dalla linea di bigiotteria che Chanel incominciò a creare dal 1921, seguendo una strategia di diversificazione il cui primo passo era coinciso con il lancio del suo profumo (la prima fragranza artificiale) e che, di lì a poco, la portò a introdurre un’ampia gamma di accessori in pelle. Il petit noir – il tubino nero che nel 1926 fu battezzato «Chanel-Ford» da «Vogue America» per enfatizzare l’analogia con il modello T uscito dalla nota casa automobilistica statunitense – fu un’altra sorprendente innovazione introdotta da Chanel, che con questo abito introdusse l’uso del nero e dell’abito corto nell’abbigliamento per la sera. La tendenza all’accorciamento dell’abito femminile, incominciata nel decennio precedente, giunse al suo culmine a metà degli anni Venti con l’abito corto sopra il ginocchio sostenuto da due sottili spalline, guarnito di perline e di frange. Insieme all’acconciatura alla garçonne, al lungo filo di perle, al bocchino e alle calze, accessorio che proprio grazie all’accorciamento dell’abito acquistò un’importanza che mai prima d’allora aveva avuto nell’abbigliamento femminile, l’abito-canottiera divenne il simbolo di un periodo – i “ruggenti” anni Venti (1925-1929) – di ritrovata prosperità, dopo le ristrettezze imposte dal conflitto e dalle difficoltà in cui si era imbattuta l’Europa durante la ricostruzione postbellica.
Con l’arrivo delle nuove mode dalla Francia, ripresero vigore gli sforzi per promuovere la nascita di una moda italiana. Dalle pagine della rivista «Lidel» – acronimo dei temi trattati dal mensile «Letture, Illustrazioni, Disegni, Eleganza, Lavoro» – la giornalista Lydia de Liguoro lanciò una campagna a favore della collaborazione fra creazione, produzione e distribuzione, che suscitò scarsi consensi: i consumatori identificavano a tal punto la moda con Parigi da rendere l’imitazione più redditizia dell’innovazione. L’orientamento prevalente propendeva dunque a favore di una dipendenza dalla Francia, mitigata dall’adattamento dei modelli d’Oltralpe al gusto italiano. Per il momento, il Fascismo dovette accontentarsi di esprimere l’originalità della moda attraverso la valorizzazione delle tradizioni folkloristiche e delle lavorazioni artigianali. Ricami, pizzi, merletti, perline di vetro veneziano assunsero la funzione di 1931-1940 Moda e Grande depressione
La moda francese conserva la leadership mondiale nonostante gli effetti della crisi del 1929. In Italia, il Fascismo intuisce l’importanza della moda come strumento di consenso politico.

ALTRI PROTAGONISTI
Fernanda Gattinoni (1906-2002)
Biki (Elvira Leonardi Bouyeure) (1906-1999)
Nina Ricci (1883-1970)
Elsa Schiaparelli (1890-1973)
Giuseppina Tizzoni (1889-1979)

Alla fine del 1929, alle prime avvisaglie di crisi della borsa di New York, i compratori americani che si trovavano a Parigi fecero precipitosamente rientro negli Stati Uniti, lasciando le case di moda a corto di ordinativi. Il settore tessile e dell’abbigliamento fu il comparto dell’economia francese che più duramente accusò il contraccolpo della crisi: nel 1925, l’abbigliamento era una delle più importanti voci delle esportazioni francesi, dieci anni dopo era sceso al ventisettesimo posto. Fra i fattori che concorsero a determinare il crollo delle esportazioni di Alta Moda, ebbero un ruolo determinante i comportamenti isolazionistici dei principali partner commerciali francesi, Stati Uniti e Gran Bretagna. Durante gli anni Venti, la Gran Bretagna era il più importante mercato di sbocco europeo delle esportazioni francesi, un primato che ancora conservava nel 1931 sebbene in calo rispetto agli anni precedenti. Nel 1931, infatti, le esportazioni francesi in Gran Bretagna ammontavano a 5.088 miliardi contro la media di 7.484 miliardi del triennio 1928-1930. La maggior parte dei prodotti francesi esportati in Inghilterra era costituita da beni di lusso – articoli di pelletteria, cosmetici, seta – e da capi di abbigliamento. Nel 1932 le esportazioni calarono ulteriormente scendendo a poco meno di 2 miliardi, per toccare i 1.565 miliardi l’anno successivo. Questo trend rifletteva l’adozione di un provvedimento tariffario – l’Import Duties Act (1931) – che imponeva un dazio ad valorem del 10% su tutte le merci di importazione, accresciuto nel 1932 al 25-30% su tutti i beni di lusso francesi. «Buy British» divenne lo slogan con cui in quegli anni i consumatori inglesi ostracizzarono i prodotti dell’haute couture. Prima ancora dell’Inghilterra, gli Stati Uniti avevano inaugurato una nuova era nei rapporti commerciali con l’emanazione dello Smoot-Hawley Tariff Act (1929), che introdusse tariffe protezionistiche molto elevate sugli articoli di importazione. Tra i generi più colpiti dagli aggravi daziari figuravano i pizzi di Calais, su cui fu applicato un dazio ad valorem del 300%, i cappelli con incrementi che variavano tra il 40% e il 75% a secondo del tipo di copricapo, i ricami, il tulle e i lamé francesi, oltre naturalmente alla seta, alla pelletteria e ai capi di abbigliamento. Le esportazioni francesi verso gli Stati Uniti crollarono da 3.335 miliardi nel 1929 a 1.543 miliardi nel 1931. Nonostante il forte calo subito dalle esportazioni, l’Alta Moda francese conservò la leadership sui mercati internazionali grazie a strategie che denotavano l’adattamento all’accentuazione della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi provocata dalla crisi, esemplificate dalla collezione Les robes d’édition di Lucien Lelong (1889-1958) e dalla collezione Bijou de Diamant di Chanel. La prima indicò alle case di moda parigine la strada della diversificazione della produzione nel prêt-à-porter, la seconda invece si rivolgeva al segmento del mercato rappresentato dalla sempre più ristretta élite in cui la ricchezza si era concentrata. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti il nazionalismo pose le premesse per lo sviluppo di un’autonomia creativa che si espresse nella produzione di abbigliamento sportivo rispettivamente classico e informale.
In Italia il Fascismo trasformò la moda in uno strumento di consenso politico e di realizzazione delle ambizioni autarchiche. La retorica del Regime contrappose la donna “anticrisi”, che con le sue forme prosperose simboleggiava il benessere garantito dal Fascismo, al modello di femminilità francese, che prediligeva la donna esile e longilinea. A conferma dell’importanza politica ed economica attribuita alla moda dal Fascismo, nel 1932 fu fondato l’Ente nazionale della Moda con il compito di certificare l’“italianità” della produzione nazionale e di imprimere una direzione unitaria alla politica di valorizzazione e diffusione del prodotto italiano. La penuria di materie prime di cui l’Italia soffrì dopo l’applicazione delle sanzioni commerciali (1936) diede ulteriore impulso alla ricerca di soluzioni innovative nell’utilizzo di materiali sostitutivi e artificiali, in particolare nella produzione di accessori e calzature in cui si distinsero Guccio Gucci (1881-1953) e Salvatore Ferragamo (1898-1960). La raffia al posto della pelle per le tomaie, il sughero in sostituzione del cuoio per le suole, canapa e ginestra invece del cotone, il lanital come surrogato della lana, la viscosa cangiante come la seta, la pelle di rospo, di dentice e di capretto per borse, scarpe e cinture furono i materiali che consentirono alla moda italiana di esprimere finalmente la propria autonomia creativa.
La moda negli anni trenta e quaranta

ANNI 30:
Dopo il trionfo della linea piatta degli anni '20, rinasce l' amore per il romanticismo e per gli abiti in chiffon... Durante il fascismo, la produzione parigina è superiore della nostra ma i materiali dei tessuti sono quasi sempre italiani. Nel 1930 a Torino nasce un’associazione: l’Ente nazionale della moda. Si compra solo quello che è italiano. Le signore vanno a Torino per rifarsi il guardaroba. Ma il confronto con Parigi non è ancora vinto. Durante gli anni trenta cambia la tendenza: dagli abiti a camicia si tornerà a sottolineare le forme del corpo: seno, vita e fianchi. E’ passata la moda della donna bambina-maschietto. Entra in scena la raffinatezza. Gli abiti vengono tagliati di sbieco per creare effetti di leggerezza e voluttuosità. I tessuti sono morbidi e cedevoli. La parte superiore dell’abito ritorna stretta e aderente con ampie scollature.

ANNI 40:
Durante la seconda guerra mondiale i tessuti e le materie prime cominciano a scarseggiare. Bisogna arrangiarsi. Ritorno a una moda semplificata ma con l’uso di alcuni espedienti, come le spalline. La guerra crea disastri; le città si spopolano, manca l’elettricità, ci sono situazioni drammatiche. Permettersi una messa in piega non è più possibile: vanno di moda i turbanti. Durante la guerra la moda è limitata, le riviste suggeriscono di riadattare i capi vecchi. Si tagliano le gonne per farci vestiti da bimbo e sciarpe. Si diffonde la campagna propagandistica: “ Make - doand Mand” ( adattare e riparare ). La parola d’ordine è “razionamento”. C’è poca stoffa. Solo tacchi bassi. Bisogna limitare i consumi. Le taglie vengono standardizzate. Non ci sono più materiali come la seta e il nylon perciò le donne usano calze di cotone.

1941-1950 Una nuova geografia internazionale della moda
Dopo la parentesi bellica, Parigi torna ad essere la capitale mondiale della moda con Christian Dior (1905-1957) che nel 1947 lancia il New Look.
In Italia, incomincia a farsi strada l’idea che la moda italiana possa non solo emanciparsi da quella francese, ma persino competere con essa.

ALTRI PROTAGONISTI
Jacques Fath (1912-1954)
Grès (1903-1993)
Charles James (1906-1978)
Anne Klein (1923-1974)
Tina Leser (1910-1986)
Vera Maxwell (1901-1995)

  • NEL MONDO
  • IN ITALIA

La Seconda guerra mondiale coincise con un periodo di gravi incertezze per l’Alta Moda francese. Le difficoltà di approvvigionamento dei materiali e il diradarsi della clientela costrinsero molti atelier alla chiusura. La sopravvivenza della moda francese giunse persino ad essere minacciata dalle forze di occupazione, che tentarono di appropriarsi degli archivi della Chambre Syndicale de la Haute Couture Parisienne – depositari della memoria storica delle maison parigine – per trasferirli a Berlino, la città designata a raccogliere l’eredità di capitale della moda. L’abbigliamento era regolato da norme severe, che stabilivano il numero massimo di metri di stoffa con cui un cappotto o un vestito potevano essere confezionati, oppure l’altezza che le cinture non dovevano superare. Gli abiti inevitabilmente si accorciarono e diventarono più smilzi. Il cappello, realizzato con materiali di risulta e scampoli di stoffa altrimenti inutilizzati, assunse il compito di distogliere l’attenzione dall’impoverimento dell’abbigliamento. Dopo la guerra, Parigi tornò a essere la capitale mondiale della moda. Il suo ritorno sulla scena internazionale avvenne nel 1945 con il Théâtre de la Mode,  una “sfilata” itinerante con più di 150 bambole di filo di ferro vestite con abiti di alta moda realizzati dalle case di moda francesi. Due anni dopo, Christian Dior lanciò la sua prima collezione, soprannominata «New Look» da Carmel Snow, editore di «Harper’s Bazar», in cui ogni traccia delle sofferenze e delle ristrettezze belliche era scomparsa. Le creazioni di Dior – sfarzose ed eleganti, realizzate con abbondanza di tessuti pregiati – proponevano una rielaborazione in chiave moderna dei canoni stilistici tardo ottocenteschi, che suscitò le critiche delle più audaci innovatrici del secolo. Nella sua autobiografia Elsa Schiaparelli ricordò il 1947 come il momento in cui «suonarono le campane a morto, quando il New Look, abilmente immaginato, superbamente finanziato e, infine, lanciato con un fracasso assordante di pubblicità, diede il colpo finale alla più breve esistenza di tutta la storia della moda». Più che dal carattere innovativo, il successo delle collezioni di Dior dipese da una tempestiva e perspicace interpretazione delle tendenze del mercato, e dall’efficacia delle sue strategie manageriali. Dior fu il primo a comprendere il valore della stampa come canale di promozione dell’Alta Moda – contrassegnò ogni collezione con un nome che veniva ripreso nei titoli degli articoli – e a servirsi, limitatamente agli accessori, dei contratti di licenza d’uso del marchio come strumento per finanziare la diversificazione e l’espansione del suo marchio sui mercati internazionali. La ricerca di una maggiore efficacia pervasiva che caratterizzava le strategie manageriali adottate dalla maison Dior era tuttavia il segno che la Seconda guerra mondiale aveva reso più incerto lo scenario competitivo. New York fu la città che per prima riuscì ad approfittare dell’appannamento della leadership francese. Una nuova generazione di disegnatori di moda, tra cui Claire McCardell (1905-1958), si fece portavoce dello stile di vita americano che esigeva abiti eleganti, di qualità, a prezzi accessibili e abbastanza pratici da poter essere indossati da donne attive ed emancipate nella loro vita quotidiana.
Mentre la haute couture francese sembrava sempre meno adeguata ad adattarsi alle esigenze del mercato americano, la moda italiana possedeva esattamente le caratteristiche richieste per poterle soddisfare: una lunga tradizione artigianale, garanzia della qualità dei materiali e della confezione, forza lavoro abbondante e a basso costo. L’influenza politica e culturale esercitata dagli Stati Uniti sull’Europa, uscita a pezzi dal conflitto, rese l’Italia uno dei maggiori beneficiari del declino relativo cui era andata incontro Parigi, al punto che, nella nuova geografia internazionale della moda che si stava delineando in quegli anni, riuscì a farsi largo Roma. Gli abiti confezionati dalle più importanti sartorie della capitale – Simonetta, Fabiani, Carosa, Sorelle Fontana salite alla ribalta internazionale nel 1947 con la creazione dell’abito nuziale di Lynda Christian sposatasi con Tyron Power  – indossati dalle attrici dentro e fuori la scena, fecero del cinema uno dei più efficaci strumenti di promozione della moda italiana.
ANNI 50:
Una delle più belle mode di tutti i tempi, preziosa e semplice allo stesso tempo, raffinata ed egualmente popolare. Finalmente una moda proprio per tutte: dalla signora di buona famiglia alla ragazza di campagna che si identificano entrambe in una gonna a ruota e nei vari miti dell’epoca. Gonne a ruota e pois,andavano per la maggiore e facevano tutte le donne belle. Ma anche abiti stretti e bustini ed erano tutte figurini. Ma anche abiti stretti e bustini ed erano tutte figurini. Cintura alta, stretta in vita, il fascino dona alla bimba fiorita. Il reggiseno e il bustino, grazie alle maggiorate, la fanno da padrone regalando un decolleté mozzafiato.

ANNI 60:
I mitici anni 60 per la moda sono ancora oggi un riferimento per la moda contemporanea: gli anni 60 segnati dalla minigonna, dai Beatles, dagli stivali alti fin sopra il ginocchio erano lo specchio di una generazione pronta a ribellarsi a tutto cio' che la opprimeva. la cura dell’abito che sempre più viene visto come status simbolo e non come lusso moralmente deprecabile esibito dalle classi superiori. Questo fatto produce la proletarizzazione dell’abito (vestiti in serie) con la perdita delle connotazioni di prestigio ad esso connesse e con la scomparsa della divisione classista degli stili che si accontenta di differenziazioni più sottili che non riguardano più la foggia ma la qualità e gli accessori. Tale trasformazione, a sua volta, induce un’accelerazione dei cicli della moda che, se prima della guerra duravano anche diversi anni, ora si trasformano in modo rapido con un alternarsi di modelli destinati a una breve durata. Gli anni'60 furono soprattutto gli anni della minigonna.

 

Fonte: http://italianidentity.weebly.com/uploads/2/1/3/4/21348774/storia_della_moda_italiana_1.docx

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