Comparti della moda etica

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Comparti della moda etica

Introduzione

La moda etica, critica o sostenibile può essere definita come il consumo di “abiti alla moda che coniugano i principi del commercio equo-solidale a condizioni di lavoro sostenibili senza essere allo stesso tempo dannosi per l’ambiente o per il lavoratori attraverso l’impiego di cotone biodegradabile e organico” (Joergens, 2006: 361, nostra traduzione). L’analisi della letteratura nazionale e internazionale sul tema mette in luce come la moda etica non comprenda soltanto la moda equo-solidale (Dickson, Littrell, 1997; Kim et al., 1998; Shaw, Tomolillo, 2004; Shaw et al., 2006), la moda eco- sostenibile (Hustvedt, Dickson, 2009; Niinimäki, 2010), che implica l’utilizzo di fibre biologiche, l’impiego di processi a basso impatto ambientale (come le tecniche di tintura al naturale per infusione o l’uso di tecnologie in grado di produrre indumenti biodegradabili al 100%) e il riuso di fibre e materiali nell’ottica di ridurre lo spreco e l’inquinamento (si pensi alle borse fatte utilizzando i sigilli delle lattine o gli pneumatici) (Kumar, 2007), ma anche l’acquisto di capi usati o vintage (Lunghi, Montagnini, 2007; Roux, Guiot, 2008), nonché la donazione e lo scambio (swapping) di indumenti e accessori (Bianchi, Birtwistle, 2011; Ha-Brookshire, Hodges, 2009; Martorana, 2009).  Da una recente ricerca condotta da Hiller Connell (2011) emerge altresì che i  consumatori percepiscono come moda sostenibile anche comportamenti finalizzati a minimizzare gli acquisti di nuovi capi e ad allungare il ciclo di vita dei prodotti, come ad esempio comperare solo sulla base del bisogno, preferire capi classici o confezionarli a casa.
Gran parte delle ricerche sulla moda etica si focalizza sui processi decisionali, gli atteggiamenti e i comportamenti di consumo legati alla moda eco-compatibile in generale (Daneshvary  et  al.,  1998;  Koch,  Domina,  1997,  1999;  Francis  et  al.,  1995;   Hines,
Swinker,  1996;  Hustvedt,  Dickson,  2009;  Kim  et  al.,  1997;  Kim,  Damhorst,   1998;
Niinimäki, 2009, 2010; Paff Ogle et al., 2004; Rucker et al., 1995; Shim, 1995; Steinbring, Rucker, 2003) mentre poca attenzione è stata dedicata alle specifiche declinazioni della moda etica, quali la moda organica, la moda riciclata, la moda equo- solidale e lo scambio. Inoltre, sono ancora pochi gli studi che hanno affrontato il tema delle motivazioni legate a queste pratiche di consumo e le eventuali differenze al loro


interno.
L’obiettivo di questo articolo è quello di iniziare a colmare questo gap esistente nella letteratura presentando i risultati della seconda fase di una ricerca empirica condotta dalle autrici. La prima fase dell’indagine, di natura qualitativa, aveva previsto l’effettuazione di 20 interviste in profondità a un gruppo di frequentatrici di cinque canali della moda etica milanesi, oltre che una serie di colloqui con il personale di vendita e gli store manager di tali canali. Più nel dettaglio, la prima fase è stata condotta con l’obiettivo di fare  emergere le motivazioni profonde alla base della frequentazione dei luoghi della moda etica – charity shop, mercatini, negozi o fiere vintage o dell’usato, punti vendita o mercati equo-solidali, negozi che vendono capi di abbigliamento eco compatibili e istituzioni che organizzano swap parties – e del consumo di questa particolare categoria di prodotti della moda in tutte le sue declinazioni (Mortara, Ironico, 2010). Le motivazioni emerse da questa fase sono state indagate con tecniche quantitative nella seconda fase dello studio attraverso la somministrazione di un questionario via web a un campione di 579 consumatori italiani.

Le motivazioni di consumo nei diversi comparti della moda etica

La moda eco-compatibile
I principali temi di ricerca legati alla moda eco-compatibile spaziano dall’influenza dei punti vendita sostenibili sul comportamento d’acquisto (Paff Ogle et al., 2004) agli effetti delle pubblicità di indumenti e accessori a basso impatto ambientale (Kim et al., 1997); dall’intenzione dei consumatori di acquistare capi realizzati a partire da materiali di recupero (Hines, Swinker, 1996) alle loro conoscenze sull’impatto dell’industria dell’abbigliamento sull’ambiente (Hustvedt, Dickson, 2009; Kim, Damhorst, 1998; Stephens, 1995); dai valori, gli atteggiamenti e le aspettative sulla moda sostenibile (Butler, Francis, 1997; Hiller Connell, 2011; Niinimäki, 2009) alla relazione fra i capi etici, l’identità e l’orientamento ideologico dei consumatori (Niinimäki, 2010).
Uno studio condotto da Niinimäki su di un campione di consumatori finlandesi (2010) ha messo in evidenza l’esistenza di una nicchia di “ethical hardliners” (consumatori etici estremi) la cui coscienza etica è talmente radicata da prevalere sull’esigenza di  esprimere la propria identità personale e la propria sensibilità estetica attraverso l’abbigliamento. La priorità di questo gruppo di consumatori è, infatti, quella di ostentare il proprio orientamento ideologico attraverso il consumo. Al di fuori di questa nicchia di mercato, invece, vengono privilegiati tutti quei fattori che sono alla base dei processi decisionali dell’acquisto dei prodotti della moda convenzionale: la qualità, l’estetica, l’esigenza di rinnovare il proprio abbigliamento seguendo il capriccio della moda e, più in generale, di esprimere il proprio modo di essere attraverso l’aspetto esteriore. In questa cornice, la sostenibilità ambientale si limita solo a dare un valore aggiunto ai prodotti già in grado di rispondere alle esigenze e alle aspettative dei consumatori.



In linea con la letteratura (Beard 2008; Joergens, 2006; Niinimäki, 2010), la prima fase della ricerca condotta dalle autrici (Mortara, Ironico, 2010) ha messo in evidenza come fra le motivazioni di consumo legate alla moda eco-compatibile possa esserci una forte coscienza ambientale, che rende il capo etico parte integrante di uno stile di vita sostenibile e/o salutistico in cui rientrano alimenti organici, materiali naturali, prodotti  per la casa e per la cura del sé privi di additivi o sostanze chimiche. Tuttavia, anche in presenza di una forte sensibilità ambientale, la rispondenza dei capi di abbigliamento ai canoni estetici del soggetto è risultata essere un prerequisito per quasi tutte le donne intervistate.
La ricerca ha inoltre confermato come gli indumenti e gli accessori organici, o realizzati con materiali di recupero, possano essere utilizzati come degli strumenti per trasmettere una particolare immagine di sé (Niinimäki, 2010). In questo modo, fra le motivazioni alla base del consumo di prodotti eco-sostenibili sono emerse quelle che tipicamente sono alla base dei consumi di moda in generale: il bisogno di differenziarsi dagli altri (Bourdieu, 1984; Simmel, 1895) e di comunicare il proprio sé (Bauman 2007; Kaiser, 1990; Lipovetsky, 1987), di ostentare uno stile di vita unico e originale (Tian et. al., 2001), di stare al passo con le mode e con le tendenze del momento (Blumer, 1969).
In maniera analoga a quanto avviene per prodotti vintage, i capi realizzati con materiali di recupero sono risultati essere ricercati anche per il loro contenuto di creatività e per il fatto di racchiudere in sé una storia in grado di umanizzare il prodotto (Appadurai,1986). Oltre all’effettiva coscienza ambientale dei soggetti e alle motivazioni di natura  edonistica appena descritte, lo studio ha messo in luce anche una serie di motivazioni di


natura utilitaristica (Babin et al., 1994; Arnold, Fischer, 1994; Bellenger, Korgaonkar, 1980; Bloch, Bruce, 1984; Sherry, 1990a; Sherry et. al, 1993). Molte intervistate hanno, infatti, dichiarato di indirizzarsi verso la moda organica per il fatto di riconoscervi un livello qualitativo superiore rispetto a quello dei prodotti convenzionali. Di conseguenza, queste consumatrici sono risultate disposte a pagare il premium price che caratterizza i prodotti biologici per la loro maggiore resistenza e durabilità, nonché per le sensazioni di benessere associate all’uso dei capi.
Coerentemente a quanto risulta in letteratura (Hustvedt, Dickson, 2009), alcune intervistate hanno infine dichiarato di indirizzarsi verso la moda organica a fronte dell’esigenza di orientarsi verso prodotti maggiormente sicuri per sé e per la propria famiglia, dunque verso indumenti privi di sostanze chimiche dannose per la pelle e per l’organismo in generale.

La moda equo-solidale

 

La letteratura sulla moda fair trade si concentra in gran parte sulle intenzioni d’acquisto dei consumatori nei confronti dei prodotti realizzati nel rispetto lavoratori (Dickson,  1999, Dickson, Littrell, 1997; Shaw et al. 2006; Shaw, Tomolillo, 2004) e, più in generale, sull’impatto della responsabilità sociale delle aziende sui comportamenti di consumo (Kim et al., 1998; Littrel et al. 1996; Shaw, Duff, 2002).
Per quanto riguarda le motivazioni di consumo, una ricerca condotta da Littrel et al. (1996) ha messo in evidenza come i consumatori attribuiscano grande importanza ai valori del consumo equo-solidale – equità nelle retribuzioni, lotta al lavoro minorile e allo sfruttamento dei lavoratori, sicurezza nell’ambiente di lavoro, opportunità per le economie in via di sviluppo etc. – sebbene le loro scelte siano quasi sempre guidate dal gradimento per lo stile etnico che contraddistingue i prodotti della moda fair trade.
Altre ricerche sottolineano invece come i consumatori dotati di una forte  coscienza sociale si trovino spesso in condizioni di incertezza informativa sugli effetti concreti delle loro azioni di consumo (Shaw, Tomolillo, 2004; Shaw, Duff, 2002). A questo proposito Shaw e Duff (2002) chiariscono che non sono tanto le informazioni sui temi del fair trade a  mancare,  quanto  piuttosto  la  capacità  dei  consumatori  di  agire  seguendo     queste informazioni all’atto dello shopping. In assenza di un’etichetta in grado di certificare la conformità agli standard del commercio equo-solidale, i consumatori tendono infatti ad affidarsi a degli indicatori approssimativi di responsabilità sociale di impresa; primo fra tutti il “country of origin” che viene adottato come criterio decisionale nella convinzione che determinati paesi siano associati allo sfruttamento dei lavoratori.
In aggiunta alla mancanza di informazioni sulle marche che condividono i principi del commercio equo-solidale, Shaw et al. (2006) mettono in luce come il consumo di questa moda sia anche limitato dalla scarsità di punti vendita fair trade, dall’assortimento ridotto presente in questi negozi, dal premium price che caratterizza i prodotti ivi venduti, dall’assenza di indumenti e accessori in linea con le mode del momento. A questo proposito, lo studio qualitativo condotto dalle autorici (Mortara, Ironico, 2010) ha messo in rilievo come la propensione ad acquistare capi del commercio equo-solidale sarebbe maggiore se questi fossero inseriti all’interno delle collezioni degli stilisti affermati oppure disponibili in catene come Zara.
Ad un livello generale, dalle interviste qualitative condotte dalle autrici emerge che la moda fair trade è la categoria di moda critica maggiormente guidata da motivazioni di tipo etico. L’altruismo, la solidarietà, la preoccupazioni per le condizioni dei lavoratori, la volontà di combattere lo sfruttamento minorile e il desiderio di sostenere le economie dei paesi in via di sviluppo sono infatti risultate come le motivazioni più citate dalle intervistate. Le partecipanti allo studio hanno inoltre messo in evidenza come la capacità dei prodotti fair trade di incarnare questi valori li renda particolarmente adatti per essere regalati alle persone care.
In maniera analoga a quanto avviene per la moda eco-compatibile, la moda equo-solidale è risultata spesso parte integrante di uno stile di vita votato all’impegno sociale. Oltre a giustificare il premium price che può caratterizzare i prodotti sostenibili, queste consumatrici hanno dichiarato di arrivare addirittura a boicottare tutti i prodotti in contraddizione con i loro principi etici.
Tuttavia, in linea con la letteratura (Beard 2008; Kim et al., 1998; Joergens, 2006; Shaw et. al., 2004), anche per la moda equo-solidale la rispondenza dei prodotti alle aspettative delle consumatrici in termini di qualità, estetica, vestibilità, contenuto moda ed espressione di sé è risultata essere un prerequisito per tutte le intervistate. Pertanto, i risultati dello studio condotto dalle autrici (Mortara, Ironico, 2010) hanno messo in evidenza la necessità di armonizzare quegli attributi di novità, varietà, vestibilità, attrattività del brand e personalizzazione che caratterizzano tutti i segmenti del settore moda, dall’alto di gamma al mass market, con le esigenze dei consumatori di indumenti ed accessori socialmente consapevoli.

 

La moda dell’usato

 

Il vintage e, più in generale, la moda dell’usato compaiono spesso all’interno della letteratura sulla moda eco-compatibile in quanto pratiche in grado di ridurre gli sprechi e favorire il ricircolo delle risorse (Brace-Govan, Binay, 2011; Hiller Connell, 2011). Tuttavia, nello studio qualitativo condotto dalle autrici (Mortara, Ironico, 2010), il  legame fra coscienza etica e second-hand è emerso soltanto in un numero limitato di casi, portando a concludere che la moda dell’usato verrebbe vissuta come una pratica sostenibile soltanto da una nicchia di consumatori assimilabile a quella degli ethical hardliners emersi dallo studio di Niinimäki (2010). Per tutti gli altri, il vintage e il second hand sono risultati essere un modo alternativo per rispondere alle classiche funzioni della moda e dello shopping. Attraverso queste scelte di consumo le intervistate soddisfano il loro desiderio di andare alla ricerca di affari (Arnold, Reynolds, 2003; Tauber, 1972; Westbrook, Black, 1985) e, più in generale, di fare shopping in maniera intelligente (Mano, Elliott, 1997); assecondano la volontà di esibire uno stile unico e originale (Tian et. al., 2001), in grado di distinguerle dagli altri (Bourdieu, 1984; Simmel, 1895) e, al contempo, l’esigenza di stare al passo con la moda e con lo spirito del tempo (Blumer, 1969).
Pertanto, sembra essere più corretto interpretare queste pratiche come delle forme di smart shopping (Mano, Elliott, 1997) o di espressione di sé (Bauman 2007; Kaiser, 1990; Lipovetsky, 1987) e soltanto marginalmente come delle pratiche di consumo etico.
Indizi che vanno in tale direzione provengono anche dalla letteratura di Consumer Behavior (Bardhi, Arnould, 2005; Belk et al., 1988; Hermann, 1996; Roux, 2005; Roux, Guiot, 2008; Sherry, 1990a). Facendo riferimento alla nota distinzione fra motivazioni di tipo utilitaristico o economico e motivazioni di tipo edonistico o ricreativo (Babin et    al.,1994; Arnold, Fischer, 1994; Bellenger, Korgaonkar, 1980; Bloch, Bruce, 1984; Sherry, 1990a; Sherry et. al, 1993), Bardhi e Arnould (2005) indagano sul second hand all’interno di una dialettica fra parsimonia (thrift) e appagamento (treat), cioè fra motivazioni economiche e ricreative quali, pianificare gli acquisti, limitare le spese, andare a caccia di affari, estendere il ciclo di vita dei prodotti, limitare l’acquisto di nuovi beni, riciclare i prodotti usati, trovare prodotti di marca o di lusso a prezzi accessibili. Gli autori mettono in luce come la parsimonia possa paradossalmente venire utilizzata dai consumatori per giustificare condotte di tipo consumistico (comprare più del necessario, acquistare prodotti che non verranno mai utilizzati soltanto per il loro costo contenuto). In questo modo, la parsimonia diventa una “risorsa culturale” che i consumatori utilizzano per realizzare i propri desideri e giustificare pratiche di consumo incontrollate.
La letteratura mette in evidenza anche come i consumatori possano indirizzarsi verso la moda vintage e second hand per il fascino che i canali dell’usato possono esercitare su di loro (Roux, Guiot, 2008), appagando il gusto di aggirarsi fra merci diverse rispetto a quelle dei negozi tradizionali, consentendo di spulciare tra abiti e accessori disposti alla rinfusa, andando a caccia di affari o “tesori”, socializzando e contrattando con i venditori (Belk et al., 1988; Brace-Govan, Binay, 2011; Gregson, Crewe, 1997; Hermann, 1996; Roux, 2004, 2005; Roux, Guiot, 2008; Sherry, 1990a). A questo proposito, lo studio qualitativo condotto dalle autrici (Mortara, Ironico, 2010) ha messo in evidenza come lo shopping nei canali della moda usata possa dare ai consumatori la sensazione di appartenere a un “clan di esperti” che condivide la conoscenza su un modo alternativo per fare shopping.



Da altre ricerche emerge che l’acquisto di capi usati può anche derivare dalla nostalgia  per prodotti appartenenti al passato (Brace-Govan, Binay, 2011; Roux, Guiot, 2008) o ancora (Mortara, Ironico, 2010) che le consumatrici si indirizzano verso i capi  provenienti dal passato perché vi riconoscono un livello qualitativo superiore, oppure ancora perché sono attratte da un prodotto che racchiude una storia al suo interno (Appadurai, 1986); sono poche le persone intervistate che hanno dichiarato di andare alla ricerca di capi dotati di un’identità storica precisa. In alcuni casi, paradossalmente, il capo vintage è risultato essere uno strumento per seguire le mode del momento, considerando le numerose citazioni di stili passati (gli anni ’50, gli anni ’60 etc.) contenute nei capi


contemporanei.
Dalla letteratura emerge chiaramente anche il legame fra l’usato, il desiderio di unicità, la distinzione sociale e, più in generale, l’espressione di sé (Brace-Govan, Binay, 2011; Reiley, De Long’s, 2011; Roux, 2005; Roux, Guiot, 2008; Sherry, 1990b). L’interesse dei consumatori per l’usato può infatti emergere dalla resistenza alle pressioni di conformismo provenienti dal mercato, e dunque dalla necessità di sfuggire all’omologazione che caratterizza i canali di acquisto tradizionali (Sherry, 1990b). La moda vintage e l’usato diventano pertanto uno strumento per riappropriarsi del potere comunicativo dell’abbigliamento (Thompson, Haytko, 1997), per sperimentare nuovi sé andando oltre i canoni di bellezza imposti dal mercato e dalla società (Brace-Govan, Binay, 2011), per sottolineare l’appartenenza a determinati gruppi e subculture attraverso la condivisione di uno stile alternativo, unico e originale (McRobbie,1989).

Il dono, lo scambio e lo “swapping”

 

I contributi sul dono e/o lo scambio di vestiti rientrano in gran parte nella letteratura sulle pratiche di smaltimento dei prodotti di abbigliamento (Bianchi, Birtwistle, 2009; Dameshvary et al., 1998; Koch, Domina, 1997, 1999; Francis et al., 1995; Ha- Brookshire, Hodges, 2009; Shim, 1995). Ha-Brookshire e Hodges (2009), in particolare, hanno messo in evidenza che i consumatori donano o scambiano indumenti o accessori principalmente al fine di creare spazio nei loro guardaroba per nuovi capi di abbigliamento, evitando di dover gettar via quelli vecchi. Il dono e/o lo scambio di indumenti e accessori fra parenti, amici e conoscenti - o attraverso istituzioni di carità - viene pertanto vissuto come un modo per evitare il senso di colpa che accompagna normalmente lo smaltimento dei capi usati; ciò nonostante, i consumatori riconoscono il valore sociale (dare ai più bisognosi) e ambientale (evitare gli sprechi, permettere il ricircolo delle risorse, evitare di usarne delle nuove) di questa pratica (Bianchi,  Birtwistle, 2009).
Secondo Martorana (2009) lo scambio viene presentato come l’ultima tendenza del consumo sostenibile; gli swap party, in particolare, vengono descritti come una pratica sempre più diffusa fra gli individui che si oppongono alle logiche del consumismo e fra coloro che si battono per l’ambiente o che, più semplicemente, sono alla ricerca di nuovi modi di risparmiare. Nonostante le sue connotazioni edonistiche, lo swapping viene dunque dipinto come una controtendenza all’interno della società dei consumi, grazie ai valori di solidarietà, socialità, riciclo e parsimonia che contraddistinguono un atto di scambio in cui è stato rimosso il denaro.
Le interviste condotte dalle autrici nella prima fase dello studio (Mortara, Ironico, 2010) hanno confermato come le preoccupazioni di natura sociale e ambientale sono alla base soltanto di una minima parte delle donne che donano e/o scambiano regolarmente indumenti o accessori. In maniera analoga a quanto avviene per la moda dell’usato, queste pratiche sono risultate essere dei modi non convenzionali per rispondere alle tradizionali funzioni utilitaristiche ed edonistiche dello shopping, in particolare il bisogno di rafforzare il senso di appartenenza ai propri gruppi di riferimento (Arnold, Reynolds, 2003; Tauber, 1972; Westbrook, Black, 1985); il desiderio di distrarsi dalla routine quotidiana (Tauber, 1972; Babin et al., 1994); la ricerca di esperienze divertenti e stimolanti (Babin et al., 1994; Bellenger, Korgaonkar, 1980; Bloch, Bruce, 1984; Sherry 1990a; Holbrook, Hirshman, 1982); il desiderio di socializzare e il piacere di fare affari (Arnold, Reynolds, 2003; Tauber, 1972; Westbrook, Black, 1985).



Lo scambio e la partecipazione agli swap party sono, infatti, risultati da un lato dei modi per rafforzare i legami affettivi con i propri cari, per condividere delle esperienze divertenti fra amici oppure per socializzare, e dall’altro dei modi alternativi per risparmiare, accedere a capi di marca o rinnovare più frequentemente il proprio guardaroba evitando il senso di colpa derivante dall’accumulo di prodotti di moda. Analogamente a quanto avviene per la parsimonia (thrift) associata al second hand (Bardhi, Arnould, 2005), il lato sostenibile dello scambio può così divenire una “risorsa culturale” di cui si riappropriano i consumatori per giustificare i loro desideri incontrollati di possesso.

Metodologia della ricerca

 

L’obiettivo generale della ricerca presentata in queste pagine è stato quello di fare un primo passo nella direzione di una validazione quantitativa delle motivazioni di  consumo emerse dalla prima fase dello studio. Più nel dettaglio, si è cercato di confermare l’ipotesi secondo cui gli indumenti e gli accessori etici possono venire acquistati anche per motivazioni diverse rispetto all’esigenza di consumare prodotti sostenibili dal punto di vista sociale e ambientale. Pertanto, l’obiettivo specifico della ricerca è stato quello di confermare come non esista alcuna incompatibilità fra la moda etica e le convenzionali funzioni utilitaristiche e edonistiche della moda (Barnard, 2002) e dello shopping (Babin et al., 1994; Arnold, Fischer, 1994; Bellenger, Korgaonkar, 1980; Bloch, Bruce, 1984; Sherry, 1990a; Sherry et. al, 1993). Lo studio ha voluto quindi confermare che i consumatori delle diverse categorie di moda etica non sono spinti soltanto da motivazioni collegabili ai temi della sostenibilità, ma anche per rispondere alle classiche motivazioni edonistiche ed utilitaristiche della moda e dello shopping: il desiderio di indossare abiti non convenzionali in grado di distinguere il soggetto dagli altri, di sperimentare nuove immagini di sé, di condividere uno stile con i propri gruppi di riferimento, di accedere a capi di marca o con un livello qualitativo elevato a un prezzi contenuti o più in generale  di fare affari.
A partire dalle risposte delle donne che hanno partecipato alla prima fase dello studio, è stato messo a punto un questionario (cfr. tavola 1 in appendice) sulle motivazioni di consumo di tutti i comparti della moda etica: la moda eco-compatibile, intesa come consumo di indumenti, accessori realizzati con materiali organici (cotone biologico etc.), a basso impatto ambientale (prodotti al naturale, tinti mediante tecniche di infusione naturale etc.) o di recupero; la moda equo-solidale; la moda dell’usato, intesa come consumo di indumenti, accessori, non necessariamente vintage, provenienti da canali second hand come i charity shop oppure i mercati, le fiere del vintage, dell’usato; la donazione, lo scambio di prodotti moda attraverso parenti, amici, conoscenti, istituzioni o la partecipazione a swap party pubblici o privati.



Il questionario si componeva di tre sezioni principali: una prima parte destinata a raccogliere le informazioni socio-demografiche relative ai partecipanti; una seconda parte in cui viene richiesto di esprimere, su una scala da 1 a 5, il grado di accordo con una serie di item volti a valutare il coinvolgimento dei soggetti in tematiche ambientali,  salutistiche, sociali (stile di vita); una terza parte in cui viene richiesto di esprimere il grado di accordo su una serie di item relativi alle motivazioni sottostanti al consumo   dei diversi tipi di moda etica.



Dopo essere stato “testato”, il questionario è stato inviato, via web, a un campione a  scelta ragionata di uomini e donne italiane. Per partecipare allo studio, è stata posta come condizione quella di aver acquistato almeno una volta indumenti o accessori appartenenti alle categorie sopra descritte oppure di aver donato, ricevuto o scambiato almeno una volta nella vita dei capi di abbigliamento o degli accessori.
La non disponibilità di dati completi e aggiornati sugli effettivi consumatori delle diverse categorie di moda etica ha inibito la possibilità di costruire una lista di campionamento da cui estrarre un campione probabilistico e dunque rappresentativo della popolazione di riferimento. Pertanto, si è scelto di utilizzare due canali di reclutamento che consentissero di intercettare con facilità un numero accettabile di effettivi utilizzatori di indumenti e accessori etici: la rete nazionale GAS (Gruppo di acquisto solidale) (http://www.retegas.org), che attualmente conta circa 900 gruppi di acquisto in tutto il territorio nazionale, e i gruppi di discussione sulle diverse categorie di moda etica  presenti sui principali social network italiani (LinkedIn, Facebook, cfr. tavola 2 in appendice). Seguendo una procedura a valanga (Bailey, 1986; Frosini, Montinaro, Nicolini, 1994), il questionario è stato dapprima diffuso tra i coordinatori di ciascun gruppo di acquisto, che, a loro volta, hanno inviato il questionario a tutti i membri del GAS.
La medesima procedura è stata seguita anche con il canale dei social network. Quest’ultimo, in particolare, è stato scelto in quanto ha consentito di accedere a consumatori coinvolti in pratiche di consumo difficilmente monitorabili attraverso canali più istituzionali, come, ad esempio, la frequentazione di mercatini vintage o equo-solidali oppure la partecipazione a swap party privati.
Inoltre, dato che la prima fase della ricerca aveva fatto emergere un discreto numero di frequentatori dei canali della moda etica dotati di bassissimi livelli, di consapevolezza e coinvolgimento nelle tematiche della moda sostenibile – un dato, questo, confermato anche dalle interviste al personale di vendita – si è scelto di somministrare il questionario anche agli studenti di due corsi di studio estratti casualmente dalle facoltà  di appartenenza delle autrici. Questo al fine di coinvolgere nello studio, non soltanto consumatori “critici”, “consapevoli”, “consumeristi” (come possono essere i Gassisti o   i


partecipanti a gruppi di discussione sul biologico o sull’equo-solidale) o, all’opposto, “fashion victim” (come possono esserlo gli appassionati di vintage o degli swap party), ma anche consumatori caratterizzati da un profilo più “neutrale”, che si rivolgono a indumenti e accessori etici a prescindere dal loro livello di coinvolgimento in tematiche sociali e/o ambientali.
La procedura di campionamento ha dunque cercato di riflettere da un lato le peculiarità degli effettivi frequentatori dei canali della moda etica rilevate nella prima fase della ricerca (Mortara, Ironico, 2010), e, dall’altro, le informazioni sulle caratteristiche dei consumatori italiani di moda etica disponibili in letteratura (Bovone, Mora, 2007, Lunghi, Montagnini, 2007).
Di conseguenza, anche se il disegno del campionamento non ha potuto seguire una procedura probabilistica, è possibile affermare che esso riflette in massima parte le caratteristiche della popolazione di riferimento.

I risultati dello studio

 

Il profilo socio-demografico dei partecipanti

 

Al questionario hanno risposto 579 individui, in maggioranza di sesso femminile. La prevalenza di donne riflette probabilmente un maggiore coinvolgimento nella categoria merceologica oggetto di studio, ossia quella dei prodotti della moda. Per quanto riguarda l’età, la fascia più rappresentata risulta essere quella dai 36 a 55 anni, seguita da quella  dai 26-35 anni e quella dai 18-25 anni. Decisamente meno presenti sono invece gli ultra 56 anni.
Quasi la metà dei rispondenti risiede in piccoli centri e si concentra nel Nord Ovest del paese. In accordo con quanto emerge da altre ricerche effettuate in Italia sui consumatori responsabili (Bovone, Mora, 2007), il campione si presenta come altamente scolarizzato: il 49,74% è diplomato, ben il 48,70% è in possesso di una laurea, se non di una specializzazione, e l’1,55% ha conseguito solo la licenza media.
Infine, per quanto riguarda la professione, la maggior parte dei rispondenti (40,24%) si colloca nella categoria insegnante/impiegato (ancora una volta in accordo con quanto


emerge da precedenti ricerche), il 21,24% sta ancora studiando, il 16,06% si dichiara professionista, il 7,08% è disoccupato o in cerca di prima occupazione; solo il 2,25% fa l’operaio (cfr. tabella 1, in appendice).

Lo stile di vita

 

Agli item relativi allo stile di vita ha risposto più del 99% del campione. Lo stile di vita che registra la percentuale maggiore di adesione è quello relativo alla sostenibilità ambientale (faccio scrupolosamente la raccolta differenziata, cerco di contenere i  consumi energetici, compro cibo biologico, ecc.). L’adesione a questo stile di vita è risultata massima per gli uomini e, a livello complessivo, per la fascia d’età 36-55 anni, seguita dagli over 56, i 26-35enni e, con ampio distacco, i 18-25enni (cfr. tabella 2 in appendice).
Il 66,61% degli intervistati si è dichiarato molto propenso a boicottare le “aziende che  non hanno un comportamento responsabile nei confronti dei lavoratori”, dimostrando un’elevata consapevolezza delle proprie scelte di consumo e più in generale di abbracciare uno stile di vita “critico”. Le percentuali di accordo più elevate sono state registrate tra gli uomini e, complessivamente, tra le due fasce d’età più alte, seguite dai 25-35enni e, con grande distacco, dai più giovani (cfr. tabella 3 in appendice).
Il 55,81% degli intervistati adotta uno stile di vita salutistico, facendo sport, seguendo un’alimentazione corretta e bilanciata. I maggiori gradi di accordo sono stati rilevati ancora una volta tra gli uomini e, complessivamente, tra gli over 55 (cfr. tabella 4 in appendice).
Infine, il 46,45% degli intervistati ha dichiarato di seguire uno stile di vita fortemente orientato al sociale, dedicandosi ad esempio al volontariato. Anche in questo caso, i gradi di accordo più alti sono stati registrati tra gli uomini e, complessivamente, tra gli over 55 (cfr. tabella 5 in appendice).
Gli alti livelli di partecipazione rilevati per gli stili di vita orientati all’ambiente e al sociale mettono dunque in evidenza come alcuni strati del campione si distinguano per una forte coscienza etica che caratterizza in particolare gli uomini e i soggetti  appartenenti alle fasce di età più elevate. Risultati, questi ultimi, che confermano i diversi


livelli di coscienza etica riscontrati nella prima fase dello studio.

Il coinvolgimento nelle diverse categorie di moda etica

 

Analizzando i sei sub-campioni relativi alle diverse categorie di moda etica, in tutti rimane rispettata la proporzione tra donne e uomini. Il sub-campione più numeroso è quello costituito da chi ha acquistato almeno una volta nella vita prodotti moda equo- solidale, seguito da coloro hanno dichiarato di aver partecipato a qualche forma di baratto (dono e/o scambio), di aver acquistato capi di moda ecosostenibile e, con un discreto distacco, di essere entrati nel circuito dell’usato. La pratica che invece ha registrato i più bassi livelli di partecipazione (circa il 20% del campione) è quella relativa alla partecipazione a swap party privati e istituzionali (cfr. tabella 6 in appendice).
Per quanto riguarda le fasce d’età, viene rispettata la stessa ripartizione del campione complessivo se si esclude la moda dell’usato che, in linea con la letteratura (McRobbie, 1989), vede una netta prevalenza della fascia d’età compresa tra i 26-35 anni (cfr. tabella 6).
Nessuna differenza si riscontra rispetto al campione complessivo anche per quanto riguarda il sesso, la residenza e la distribuzione geografica.
Per quanto riguarda invece il livello di istruzione, in alcuni sub-campioni si inverte la proporzione tra chi ha conseguito la laurea o la specializzazione e chi invece si è fermato al diploma, ciò si è riscontrato in particolare per la moda dell’usato, per la moda eco- sostenibile, per il riciclo e per l’equo-solidale.
Infine, per quanto attiene alla professione, la categoria nettamente prevalente risulta essere quasi sempre quella dell’insegnante/impiegato, nonostante lo swapping, la moda- ecosostenibile la moda del riciclo e la moda equo-solidale siano risultate più adottate tra i professionisti.
Il confronto fra gli stili di vita dei rispondenti e la loro partecipazione alle diverse categorie di moda etica consente già di avanzare alcune considerazioni sulle motivazioni di consumo. I dati mettono infatti in luce che i forti livelli di coscienza ambientale che sono stati rilevati nei rispondenti (il 77% ha dichiarato d’accordo o molto d’accordo con l’affermazione di seguire uno stile di vita orientato alla salvaguardia dell’ambiente)    non


si traducono necessariamente nella scelta di indumenti e/o accessori normalmente etichettati come sostenibili, in quanto l’acquisto di quest’ultimi è stato registrato in una percentuale minore di consumatori (il 73,06% ha acquistato moda organica o al naturale, mentre soltanto il 55,27% prodotti realizzati con materiali di recupero),
Il risultato opposto è stato invece registrato per quanto concerne la coscienza sociale, posto che la percentuale di consumatori di prodotti equo-solidali (79,45%) è superiore a quella di coloro che manifestano la tendenza a boicottare le aziende non etiche (66,61%)  e soprattutto a quella di coloro che dichiarano livelli elevati di partecipazione al sociale (46,45%).
Tali dati possono dunque essere interpretati come una conferma preliminare del fatto che  i consumatori possono indirizzarsi verso prodotti della moda sostenibile per motivazioni diverse da quelle etiche. In aggiunta, tali dati fanno sospettare, confermando i risultati di alcune recenti ricerche (Black, Cherrier, 2010), che i consumatori possono perseguire la sostenibilità ambientale e sociale anche attraverso pratiche di anti-consumo. Non è un caso, a questo proposito, come pratiche estranee alle dinamiche di mercato convenzionali, come il ricorso ai canali second hand e il baratto, siano stati rilevati tra una percentuale significativa del campione (rispettivamente 72,02% e 71,85%).

Le motivazioni di consumo della moda eco-sostenibile

 

La prima fase della ricerca aveva fatto emergere come motivazione prevalente per la moda eco-sostenibile la sostenibilità ambientale dei prodotti, mettendo in evidenza fra le donne intervistate una forte sensibilità nei confronti nelle tematiche di tipo ambientale. Insieme alla coscienza ambientale, erano emerse anche delle motivazioni di natura utilitaristica legate alla qualità percepita, alla sicurezza dei capi (maggiore resistenza, durabilità, assenza di sostanze chimiche dannose per la pelle), a cui si affiancavano motivazioni legate al valore simbolico dell’abbigliamento, come la necessità di esprimere sé stessi o di differenziarsi. Dall’indagine quantitativa la motivazione prevalente è quella legata al concetto di sicurezza: l’item “Compro indumenti e accessori eco-sostenibili perché non contengono sostanze dannose per la pelle” ha ricevuto infatti un consenso pari al  74,23%  del  campione,  una  delle  percentuali  più  elevate  riscontrate  tra  gli    item.


Importante è anche la qualità, che viene percepita come superiore rispetto ai prodotti non eco-compatibili dal 62,23% degli intervistati.
Un’altra dimensione rilevante è quella legata alla coscienza ambientale, che tuttavia ha ricevuto dei gradi di accordo inferiori rispetto alle motivazioni di natura utilitaristica appena discusse. In particolare, il 61% degli intervistati ha dichiarato di acquistare “abiti, accessori eco-sostenibili perché hanno un basso impatto sull’ambiente”.
Sono invece risultate meno importanti le motivazioni di natura edonistica: poco più di un terzo dei rispondenti consuma moda eco-sostenibile perché “consente di rafforzare il legame con le persone che la pensano come lui” e perché i capi “sono originali, diversi da quelli che hanno tutti”. Inoltre, questa pratica viene percepita come un fenomeno “di moda” soltanto da una percentuale ridotta di rispondenti (cfr. grafico 1 in appendice).
Per quanto attiene alla moda del riciclo, invece, la motivazione prevalente risultata essere il suo contenuto di creatività, dato che “rielabora in maniera originale materiali poveri o  di scarto”. Diversamente da quanto si è rilevato per il vintage, anche la storia (Appadurai,1986) che i prodotti portano con è risultata essere un’importante motivazione all’acquisto (cfr. tavola in appendice).
Le motivazioni legate alla sostenibilità dei prodotti (“Compro abiti e accessori realizzati con materiali di recupero perché hanno un basso impatto sull’ambiente”) sono emerse invece soltanto nel 45% degli intervistati; una percentuale più bassa è stata registrata soltanto dall’effetto distinzione (“La moda riciclata è originale, mi fa sentire differente dalla massa”), che ha riguardato solo il 35,46% del campione (cfr. grafico 2 in appendice).

Le motivazioni di consumo della moda equo-solidale

 

La prima fase dello studio aveva messo in luce una prevalenza di motivazioni etiche anche nel caso della moda fair trade: la solidarietà con i paesi in via di sviluppo e più in generale nei confronti del prossimo, unita alla possibilità di mostrarsi critici nei confronti del sistema moda, prevaleva infatti rispetto a motivazioni utilitaristiche ed edonistiche come la qualità percepita e la dimensione estetica dei capi.
L’indagine quantitativa ha confermato sia la coesistenza di motivazioni di diversa  natura


sia la predominanza di motivazioni etiche. Il 79,52% dei rispondenti è molto d’accordo con l’affermazione “Mi piacciono gli abiti, gli accessori equo-solidali perché credo in quello che rappresentano (aiutano i paesi in via di sviluppo, sono attenti alle condizioni dei lavoratori, non sfruttano i minori, ecc.)”, mentre al 62,31% “piace regalare prodotti di moda equo-solidale perché fanno riflettere le persone”, affermazione quest’ultima che mette in luce anche l’aspetto più critico che la scelta di questa moda porta con sé.
Un po’ più della metà dei rispondenti sceglie l’equo-solidale per fare regali e circa il 60% compra prodotti alimentari, confermando come spesso l’acquisto di questo genere di moda avvenga perché ci si è già avvicinati al mondo fair trade per acquisti di altre categorie di prodotti (Mortara, Ironico, 2010).
La qualità percepita, infine, è risultata essere una dimensione marginale, considerando che solo il 33,63% degli intervistati si è dichiarato d’accordo con l’affermazione  “Compro abiti, accessori equo-solidali perché hanno una qualità superiore” (cfr. grafico 3 in appendice).

Le motivazioni di consumo della moda dell’usato

 

La fase qualitativa dello studio aveva messo in luce come le motivazioni che sottostanno all’acquisto di moda usata spazino dal desiderio di risparmio alla possibilità di trovare, anche attraverso indumenti vintage, capi d’abbigliamento particolari che consentano alle persone di essere alla moda o, al contrario di differenziarsi dal mercato di massa. Fra le motivazioni etiche era emersa, in maniera marginale, la possibilità di ridurre l’impatto ambientale evitando di aumentare i rifiuti, concedendo quindi agli abiti una seconda o  una terza vita.
I risultati dell’indagine quantitativa, invece, mettono in rilievo come la principale motivazione al consumo di moda usata rientri nel novero delle motivazioni etiche (cfr. grafico 4 in appendice). Infatti, l’item che ha ricevuto un livello di accordo più elevato è “frequento i negozi dell’usato perché non mi piace buttare via le cose”, che potrebbe essere anche sintomatico di un senso di colpa. Al secondo posto si trovano coloro che frequentano i charity shop “perché, dal momento che il ricavato va in beneficenza” sentono  di  fare  del  bene.  Sempre  nell’area  delle  motivazioni  etiche,  una  buona


percentuale frequenta i canali dell’usato anche “per prendere le distanze dal sistema moda”, avvicinandosi al concetto della moda etica come espressione di criticità nei confronti del fashion system.
Un grado di accordo elevato è stato rilevato anche per l’item “la qualità dei capi di una volta non ha nulla a che fare con quella di oggi”, che rinvia a motivazioni di tipo utilitaristico. Emerge come rilevante anche la componente edonistica connessa all’acquisto di questi capi di abbigliamento: più di un terzo degli intervistati si è dichiarato d’accordo con l’affermazione “Mi piace spulciare nei negozi o nelle bancarelle dell’usato perché mi sembra di partecipare a una caccia al tesoro”, come pure con l’idea che la moda usata consenta di indossare “cose originali, diverse da quelle che hanno tutti”.
Gli item che fanno riferimento all’acquisto di un capo usato perché vintage – “Frequento negozi, fiere o mercati dell’usato perché sono amante del vintage” e “Se vanno di moda gli anni ’50, gli anni ’60 o gli anni’70, preferisco andare a cercare dei capi originali nei negozi vintage piuttosto che comprare dei capi nuovi che imitano lo stile di quei  periodi”
– hanno ricevuto invece un accordo appena superiore al 20%. Sembra quindi che la moda dell’usato, contrariamente a quanto emerso dalla fase qualitativa, non venga scelta per assecondare l’esigenza di stare al passo con la moda e con lo spirito del tempo (Blumer, 1969). Nonostante questo, “comprare prodotti che abbiano una storia” è stato giudicato molto affascinante da più di un terzo degli intervistati.
Infine, l’area della convenienza non sembra essere tra le motivazioni prevalenti: solo il 25,96% ha dichiarato di comprare abiti usati perché convenienti e solo il 14,75% di rivolgersi al canale second hand per entrare in possesso di capi o marche che altrimenti non si potrebbe permettere. È necessario notare però che a queste domande, che potrebbero sottintendere una condizione di scarsa disponibilità finanziaria, non sia stata data una risposta completamente sincera; a parziale conferma di ciò, infatti, l’item  relativo alla possibilità di fare degli affari (che implica sempre un risparmio, ma pone l’accento anche sull’eventuale astuzia del consumatore), ha ricevuto un consenso pari al 28,19%.
L’item che ha registrato il livello d’accordo più basso è quello legato al concetto della moda come modalità di espressione dell’appartenenza a un reference group: solo l’1,52%


degli intervistati ha dichiarato che “Gli indumenti, gli accessori usati mi fanno sentire più simile ai miei amici”; anche se il 23,41% è d’accordo con il fatto che nei negozi dell’usato è più facile trovare dei capi in grado di rispecchiare la propria personalità.

Le motivazioni del dono, dello scambio e dello “swapping”

 

Per questa categoria di moda etica, la fase qualitativa aveva fatto emergere fra le motivazioni prevalenti il risparmio, la possibilità di condividere esperienze divertenti con i propri gruppi di riferimento e la dimensione etica dell’evitare lo spreco.
I dati dell’indagine quantitativa (cfr. grafico 5 in appendice), invece, mettono in luce in maniera molto netta una dimensione diversa; in accordo con una parte consistente della letteratura sulle pratiche dello scambio e del dono (Ha-Brookshire, Hodges, 2009; Bianchi, Birtwistle, 2009), risulta infatti molto in evidenza la motivazione legata al senso di colpa. Infatti, l’item che ha ricevuto l’accordo maggiore è “Buttare via i vestiti mi fa sentire in colpa, preferisco donarli o scambiarli”. Di conseguenza, anche gli elevati gradi di accordo registrati per l‘item“: Mi piace scambiare vestiti, accessori perché così non si butta via nulla e non si producono rifiuti”, possono essere letti in una chiave non tanto di sensibilità ambientale, quanti di senso di colpa derivante dagli sprechi.
Meno importanti risultano le aree del risparmio, della sperimentazione nel vestire e della capacità dei capi scambiati di incarnare una relazione di tipo simbolico con i loro possessori originali.
Come si è detto, la partecipazione agli swap party riguarda soltanto meno di un quarto del campione. Coerentemente ai risultati della prima fase dello studio, per questi intervistati le motivazioni principali rinviano non tanto a dimensioni etiche (evitare gli sprechi) o utilitaristiche (risparmiare o fare affari), quanto a dimensioni ludiche, edonistiche e ricreative.

Conclusioni, limiti della ricerca e implicazioni manageriali

 

La presente ricerca è nata dall’esigenza di approfondire i risultati dell’indagine esplorativa condotta dalle autrici sulle motivazioni d’acquisto della moda etica  (Mortara,


Ironico, 2010), attraverso una quantificazione delle motivazioni emerse dalle interviste qualitative.
Pur tenendo presente i limiti legati all’impossibilità di condurre lo studio su un campione statisticamente rappresentativo dei consumatori italiani di moda etica, la fase quantitativa della ricerca ha confermato, in massima parte, la coesistenza di molteplici motivazioni alla base dell’acquisto delle diverse categorie di moda etica, mettendo in luce come i capi etici non siano in contraddizioni con le convenzionali funzioni della moda (Barnard, 2002) e dello shopping (Babin et al., 1994; Arnold, Fischer, 1994; Bellenger,  Korgaonkar, 1980; Bloch, Bruce, 1984; Sherry, 1990a; Sherry et. al, 1993). Infatti, a prescindere dai loro attributi di sostenibilità ambientale e sociale, i consumatori si indirizzano verso i capi etici perché questi consentono loro di vivere delle esperienze ludiche e ricreative, di abbracciare a trecentosessanta gradi uno stile di vita salutistico, di accedere a capi di livello qualitativo superiore, di ostentare uno stile non convenzionale, di alleviare i sensi di colpa derivanti dagli sprechi o di partecipare al gioco della moda a fronte di una spesa contenuta.
Rispetto alla fase qualitativa, tuttavia, il campione intervistato è risultato maggiormente orientato a privilegiare motivazioni di tipo etico rispetto a quelle edonistiche o utilitaristiche, che, pur essendo sempre presenti, possono essere poste in secondo piano,  in particolar modo per quanto riguarda i prodotti del commercio equo-solidale.
L’emergere deciso della dimensione etica è coerente con la scelta della rete nazionale GAS e dei gruppi di discussione sulla sostenibilità presenti nei social network come canali per reclutare gli intervistati. Gran parte di questi consumatori, infatti, è assimilabile a quella nicchia di ethical hardliners emersa dallo studio di Niinimäki (2010), in quanto caratterizzata da una forte impronta al consumo consapevole e dall’aspetto più critico del consumo, tanto che per loro si potrebbe parlare di consumerismo politico  (Neilson, 2010).
Inoltre, è opinione dei ricercatori che la prevalenza delle motivazioni etiche possa derivare, in gran parte, dall’effetto di desiderabilità sociale degli item proposti, rafforzata dal titolo stesso del questionario, “Moda etica”, che potrebbe aver indotto i partecipanti allo studio a dare risposte di carattere normativo, anteponendo le motivazioni etiche a quelle di natura edonistica ed utilitaristica.


A valle di queste considerazioni, gli intervistati sono risultati ben consapevoli del fatto che consumare moda etica vuol dire dimostrare solidarietà nei confronti delle popolazioni disagiate e attenzione alla sostenibilità ambientale (Brace-Govan, Binay, 2011; Ha- Brookshire, Hodge, 2009; Martorana, 2009). Essi, inoltre, sono consci del fatto che donare abiti, scambiarli o frequentare i negozi dell’usato contribuisce a minimizzare lo spreco (Bardhi, Arnould, 2005; Hiller Connell, 2011; Martorana, 2009), consente di limitare l’acquisto di nuovo nuovi prodotti e aumenta la vita dei capi che sono già stati acquistati (Bardhi, Arnould, 2005; Hiller Connell, 2011).
D’altronde, le motivazioni di tipo utilitaristico ed edonistico sono sempre presenti, spesso con percentuali di accordo poco inferiori a quelle etiche, dimostrando che, come ipotizzato, la moda etica non si sottrae alle regole del fashion system e che anche i consumatori più consapevoli non disdegnano l’aspetto ludico ed esperienziale dello shopping.
Le implicazioni manageriali sono evidenti nei diversi stadi della supply chain. Infatti, la conoscenza delle motivazioni che inducono i consumatori all’acquisto di abiti ed accessori etici possono aiutare le imprese del settore a partire dalla realizzazione di capi  di moda etica fino alla comunicazione dei loro attributi e benefici. Abiti e accessori etici devono essere chiaramente percepiti come tali per andare incontro alle necessità dei consumatori e alle loro esigenze di sostenibilità. Come emerge dalla letteratura, inoltre, la dimensione estetica non può esser trascurata (Eckhardt, al., 2010) e, a prescindere dall’impegno nei confronti dell’ambiente e del coinvolgimento nelle tematiche a forte impatto sociale, la moda etica non può esimersi dal soddisfare il bisogno di auto- espressione, di soddisfazione estetica connaturato nell’essenza stessa della moda  (Blumer, 1969).
Anche se la convenienza non è emersa come la principale delle motivazioni al consumo  di moda usata o, viceversa, come il principale ostacolo al consumo di moda eco- sostenibile o equo-solidale, i costi maggiori dovuti alla necessità di armonizzare le logiche produttive della moda sostenibile con quelle della fast fashion (Hazel, 2008) potrebbero essere, come testimoniano altre ricerche (MADE BY, 2010), un ostacolo alla diffusione della moda etica. A questo proposito, una maggiore attenzione alle aspettative dei consumatori in termini di qualità, reperibilità ed estetica influirebbero in maniera


positiva sulla disponibilità a pagare un premium price (Carrigan and Attala, 2001; Joergens, 2006).
Per quanto attiene alla comunicazione della moda etica, se la letteratura (Eckhardt, al., 2010) suggerisce di sottolineare maggiormente gli aspetti estetici piuttosto che quelli etici dei prodotti, il mercato italiano, ancora agli esordi rispetto a quello nordeuropeo o statunitense, non sembra rifuggire i “charity appeals” (Black and Cherrier 2010) volti a trasformare i consumatori in consumatori etici. Lo dimostrano i dati sull’aumento del volontariato e delle donazioni spontanee (Gadotti, Mortara, 2007).
Infine, anche dalla fase quantitativa è emersa la necessità di questi consumatori di sentirsi parte di un gruppo che condivide lo stesso sistema di valori e che per questo ama scambiare opinioni e informazioni sui prodotti. Le aziende che entrano in questo mercato dovrebbero quindi incoraggiare questa nuova forma di socialità (Cova et al., 2007) costruita attorno al consumo responsabile, stimolando il senso di affiliazione anche attraverso la comunicazione off-line, ad esempio promuovendo la partecipazione a blog e forum dedicati attraverso la presenza nel mondo dei social network.


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Fonte: http://www.marketing-trends-congress.com/archives/2012/Materials/Papers/Consumer%20Behavior/MortaraIronico.pdf

Sito web da visitare: http://www.marketing-trends-congress.com

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