Moda antica Tokyo

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Moda antica Tokyo

QUARTIERI DI PIACERE:
CULTURA, ARTE E VITA SOCIALE NELL’ANTICA TOKYO    

 

    E’ davvero un gran piacere per me poter parlare di uno dei periodi che ritengo tra i più interessanti della storia culturale giapponese, e ringrazio di cuore il Gabinetto Vieusseux e la Fondazione Romualdo Del Bianco per avermi dato questa opportunità.
“Antica Tokyo” dice il titolo, e con ciò si intende Edo. Edo era un villaggio di pescatori nella parte orientale del paese, poi città-castello di Tokugawa Ieyasu e, a partire dal 1600, sede del governo militare (lo shogunato), il quartier generale degli shØgun (capi militari). Oltre a optare ovviamente per restare nei propri territori, fu buona politica dei Tokugawa tenere ben distante la propria sede da quella della corte imperiale di KyØto. I Tokugawa governarono per più di 250 anni, poi con la loro caduta nel 1868, l’apertura del paese al mondo dopo il lungo periodo di chiusura, il ripristino dell’autorità imperiale, la scelta di trasferire la capitale da KyØto a Edo e di cambiarne il nome in TØkyØ (capitale orientale) e la conseguente presa di possesso dell’imperatore e della sua corte, ebbe inizio il periodo Meiji: una nuova pagina nella realtà del paese.
Parleremo quindi solo di questi 250 anni, e (purtroppo) di una sola componente: quella ludica, e spero di riuscire a convogliare almeno in parte lo spirito che animava gli abitanti della città di Edo. Infatti la ricchezza di immagini, l’estrosità degli artisti, le gioie e i dolori espressi nei romanzi, nelle opere teatrali, negli oggetti di artigianato, nelle poesie d’amore e nei versi umoristici, la vita quasi frenetica che l’animava, hanno fatto di Edo una città faro per l’intero paese.
Vediamo di collocare questo periodo nell’arco della storia giapponese: terminate le lotte per la conquista del potere che avevano dilaniato il paese dalla metà del 1500, trascorsi gli anni di assestamento sotto la guida dei capi militari Oda Nobunaga e Toyotomi Hideyoshi, ristabilito l’ordine nel 1600 con la battaglia di Sekigahara, aveva avuto inizio la supremazia della casata Tokugawa e il periodo che ci interessa. I primi shØgun Tokugawa (in tutto furono quindici) con una serie di editti, culminato con quello del 1639, chiusero il paese all’esterno. Cacciati i missionari di qualsiasi ordine (gesuiti, francescani, domenicani) e i mercanti occidentali, demolita la “dottrina perversa” (il cristianesimo), chiusi tutti i porti (eccetto Nagasaki su cui torneremo), posto il divieto ai giapponesi stessi di uscire dal paese (e se lo facevano non potevano rientrare), proibito a qualsiasi nave di attraccare anche solo per rifornimenti, imposta la pena capitale per chiunque disobbedisse: questi i provvedimenti presi dai primi shØgun. Ma con la praticità che li contraddistinse e con grande saggezza, lasciarono uno spiraglio al mondo esterno. Da una parte, navi con il sigillo rosso dello shogunato (quindi le uniche autorizzate) portarono nei paesi limitrofi i prodotti artigianali del paese, in particolare lame e ceramiche. Dall’altra, oltre ai cinesi, permisero agli olandesi della Compagnia delle Indie Orientali di tenere un fondaco che relegarono in una isoletta artificiale, Deshima o Dejima, nella baia di Nagasaki sottoposta a strettissima sorveglianza. Come mai gli olandesi? Perché questi avevano dato assicurazioni di non aver intenti missionari e che, anzi, la religione non li riguardava affatto. Quel che interessava loro era solo il commercio. I sospettosi giapponesi che non erano affatto insensibili al discorso economico, ma che per tutto il secolo precedente avevano invece dovuto constatare quanto il binomio Dio-Mammona fosse inscindibile dal rapporto che l’Europa latina (portoghesi, spagnoli, italiani) aveva instaurato nel loro paese, dapprima misero alla prova gli olandesi e poi li accettarono. Prove che ai nostri occhi possono apparire assurde o atroci, ma che avevano un loro senso. Assurdo fu l’ordine di demolire case e magazzini appena costruiti solo perché recavano l’indicazione Anno Domini accanto alla data, e quindi un senso “cristiano”; atroce la richiesta che la nave olandese bombardasse dei contadini asserragliati nel castello di Shimabara — dove protestavano per le vessazioni economiche del loro signore — solo perché avevano inalberato un vessillo con la croce cristiana.
Con la presenza degli olandesi in casa, i giapponesi si posero in una situazione ottimale per quanto riguardava l’informazione dall’esterno. Gli olandesi infatti ricevettero l’ordine di stilare un dettagliatissimo rapporto annuale sulle notizie che ricevevano dall’Europa e di consegnarlo alle autorità. Così, per tutto il periodo, il Giappone fu il paese dell’estremo oriente più al corrente di quanto succedeva nel mondo, mentre nel mondo ben poco si sapeva del Giappone. Questi anni di “isolamento” fecero sì che in Occidente si pensò a un lungo periodo di stagnazione e con tipico atteggiamento eurocentrico quando, dopo l’apertura nel 1868 e l’inizio del periodo Meiji, il Giappone si mise rapidamente al passo con i paesi occidentali, si gridò al miracolo. Sembrava impossibile che un paese così “arretrato” potesse fare tali passi da gigante.
Il fondaco degli olandesi a Deshima fu la “finestra” del Giappone sul mondo, e mai “finestra” ebbe tanta importanza per la vita di un paese. Se ne parlo qui è perché il contatto con gli occidentali, pungolato dalla curiosità innata dei giapponesi, diede modo a uno sparuto gruppo di studiosi di entrare in contatto con novità di tipo diverso, che vanno dagli strumenti scientifici e non (astrolabi, telescopi, pompe ad aria, sfere armillari, compassi, sestanti, carte celesti, barometri, orologi, portolani e mappe, la lanterna magica, il megafono, la camera oscura), ma anche con nuove tecniche di pittura, quella a olio (per esempio), l’incisione su rame, la prospettiva e così via. Tutto ciò giunse subito anche all’altro capo del paese, a Edo appunto, in quanto la presenza di una delegazione del fondaco di Deshima per l’annuale “omaggio” (obbligato) allo shØgun fu stimolo anche per gli intellettuali della città di confrontarsi con gli stranieri. Le nozioni così ricevute furono rapidamente accettate, acquisite, assimilate e “nipponizzate”. Ma affascinava anche la vita a Deshima, quello stare seduti su sedie davanti a un tavolo dove per mangiare si usavano strani aggeggi di metallo, e ancora gli abiti a sbuffo e ornati di trine, le calzature con tacchi (che diedero atto alla diceria che gli occidentali non avessero talloni), il biliardo, certi strumenti musicali, le pendole alle pareti e così via.
Con gli anni Edo divenne un centro importante. Per gran parte del XVIII secolo fu la città più popolosa al mondo con più di un milione di abitanti. Anche la topografia era interessante e rivela molto del suo carattere. La città infatti si andava estendendo a partire dal castello costruito dal primo shØgun Tokugawa, Ieyasu (dove adesso è il palazzo imperiale), e mano a mano che si ingrandiva lo faceva a fasce concentriche ben definite: attorno al castello i seguaci più importanti, i daimyØ, con il loro seguito, poi le residenze dei guerrieri minori, poi le case delle truppe, quasi una cintura difensiva (forse qualche scena di film di Kurosawa, Ran ad esempio, può aiutare a visualizzare tale struttura), infine a cerchi sempre più larghi e intercambiabili le abitazioni del popolino di Edo, che formavano la città bassa (shitamachi), un’entità culturale di enorme importanza in particolare nella seconda metà del periodo Tokugawa quando Edo, oltre che capitale politica e militare, si sostituì a KyØto/÷saka anche nella preminenza culturale. Tanto che si parla di “letteratura Edo” per indicare la produzione che vi fiorì dal 1730 in poi.
La struttura sociale sotto i Tokugawa, codificata all’inizio del XVII secolo, era quella di una società verticale che vedeva nelle sue quattro componenti maggiori (esclusa quindi la nobiltà aristocratica), al vertice i samurai/funzionari/burocrati, al secondo posto i contadini (confucianamente ritenuti importanti in quanto “granaio del paese”, ma in effetti solo sfruttati al massimo e senza alcuna voce in capitolo), gli artigiani al terzo, e infine i mercanti all’ultimo posto in quanto, sempre da un punto di vista confuciano, improduttivi e quindi parassiti.
Ma all’interno di Edo soltanto tre di queste componenti erano presenti, mancavano i contadini ovviamente legati alla terra. Le altre tre, come abbiamo visto, erano i samurai, gli artigiani e i mercanti Questi due ultime classi — artigiani e mercanti — formano la categoria dei chØnin (lett. “uomo della città, del quartiere”) nella quale confluì tutta una serie di altre persone, sia dall’alto — samurai impoveriti e nobili decaduti — sia dal basso, cioè entità considerate liminali, come attori, cantastorie girovaghi, monaci non appartenenti a un tempio e così via. E ciò nonostante tutte le leggi, i decreti, i divieti che proibivano la mobilità tra le classi.

Vediamo quindi che la stragrande maggioranza della popolazione di Edo era composta da due categorie sociali: i samurai-burocrati e i chØnin.
La funzione dei samurai era cambiata radicalmente in questi anni. Finite le guerre, pacificato il paese, la loro divenne una posizione delle più anomale: privati della loro ragion d’essere, la guerra, era stato loro demandato di continuare a essere “guida e faro del paese”. A loro erano stati delegati il sapere e il mantenimento dell’ordine. Alcuni samurai-intellettuali produssero opere di grande interesse nei campi della letteratura, della filosofia, della poesia, della storiografia. Altri, indebitati sino al collo, si mescolarono con ceti più bassi e si dedicarono al commercio (com’è noto attività altezzosamente disdegnata in precedenza). Altri ancora divennero mercenari al soldo di tutti.
E’ però sul secondo gruppo, quello dei chØnin, che mi soffermerò, in quanto formavano quello che viene chiamato il “cuore pulsante di Edo”.
Il termine chØnin, che continuerò a usare perché è difficile trovare un corrispondente che inglobi tutti le sue componenti, è spesso tradotto con “borghesia” o “borghesia mercantile”, ed è appunto lo strato urbano-mercantile che abitava le città, ma molto allargato come si può dedurre da una pur limitata lista di professioni: il mercante all’ingrosso accanto al venditore ambulante, l’incisore di stampe popolari e il forgiatore di spade, il proprietario di ristorantini e quello di mescite di sake, fabbricanti e venditori di ombrelli e calzature, rØnin (samurai rimasti senza signore) senza arte né parte, il tenutario di bordelli e quello di bagni pubblici, il pittore e lo stampatore, il monaco questuante, il carpentiere, lo scrittore/libraio/editore (una delle figure più interessanti), l’indovino e l’intrattenitore agli angoli delle strade, cortigiane e prostitute, il venditore di almanacchi, l’intrallazzatore, l’agente di cambio, il contadino inurbato, gli artigiani, gli artisti che ci hanno lasciato pettini, ventagli, kimono, scatole in lacca, ceramiche, paraventi, monili per le acconciature e così via.
A chi erano destinati questi oggetti? Possiamo ben dire che, come molto spesso avvenuto nella cultura giapponese, i produttori erano a loro volta i fruitori. Così come le dame della corte imperiale di KyØto dell’XI secolo, Murasaki Shikibu, Sei ShØnagon e le altre, scrissero opere che presentavano situazioni ben note alle persone alle quali le leggevano (il che permetteva un linguaggio da “iniziati”), così a Edo artigiani e mercanti, samurai e facoltosi contadini inurbati si ritrovavano in cenacoli dove componevano poesie che avevano per argomento il loro mondo, si mostravano l’un l’altro il prodotto della loro abilità, portavano addosso accessori fabbricati dai loro amici, e durante la cerimonia del tè tenevano fra le mani con apprezzamento estetico le ceramiche di famosi artisti del momento. Come si era arrivati a tutto ciò, visto che nei secoli precedenti la cultura era stata appannaggio dapprima dell’aristocrazia di corte e poi di quella guerriera?
Alcuni fattori. La diffusione della stampa portò a un vasto interesse per i classici del passato (sino al 1600 circa le copie erano manoscritte ed essendo la calligrafia un’arte in Giappone, gli esemplari erano pochi e costosissimi). Con la stampa su matrici in legno e con una produzione di massa vi fu il boom della cultura e quando il costo del libro era troppo elevato, sopperivano le biblioteche circolanti a prestito. Il chØnin di grado più elevato, il samurai indebitato, il giovane intellettuale di umile estrazione operarono un’appropriazione dei classici, rivendicando il diritto alla cultura da sempre appannaggio di una ristretta cerchia di aristocratici e di monaci. Il chØnin ricco e colto, che si poteva permettere di acquistare libri, di dare un’istruzione elevata ai propri figli, capì che era giunto il momento di entrare nell’agone: per la prima volta nella storia culturale giapponese un non-aristocratico si dava “all’arte per l’arte”, non all’arte per guadagnare con i profitti delle vendite, e scriveva waka per divertimento. La poesia waka (5-7-5-7-7) era per antonomasia “proprietà” della classe colta nobile. Cimentarsi nel comporre waka significava aver abbattuto certe barriere.
Torniamo alle attività dei chØnin. Molti si distinsero per attività plurime. Un esempio tra i tanti. Un personaggio che fece molto parlare di sé fu Hiraga Gennai (1728-1780): scienziato, botanico, scrittore (di opere di fantasia ma anche di applauditi testi teatrali), pittore, uomo di mondo, ceramista, fustigatore dei costumi, inventore di un’estrosità senza limiti. Oltre a oggetti utili come una bussola, una livella ad acqua, un termometro, un macchina elettrostatica, una sorta di tessuto d’amianto, si dedicò anche a cose più futili. Un giorno, si era nel 1776, ideò un pettine ornamentale in legno d’aloe ornato di carbonchio e con i denti d’avorio. Lo donò alla più famosa cortigiana del tempo, facendole credere che era di legno preziosissimo importato da Nagasaki (la finestra sul mondo, ricordiamo, quindi con un tocco di esotico che non guastava) e pregandola di adornare la sua acconciatura solo con quello. Fu un successo strepitoso: tutti richiesero il pettine. Ancora: a Nagasaki giungevano oggetti (molto spesso italiani) in cuoio goffrato come borse, portacarte, portagioie ecc. Sempre Gennai ne fece un’imitazione in cartone spesso che richiamava il cuoio, ricoperto di shibu (una sostanza estratta dai frutti del caco e usata come vernice), e poi dipinto e decorato in oro. Con tale materiale, detto kinkarakawa (kin/oro, kara/arabesco, kawa/pelle) si fecero numerosi oggetti molto alla moda.

    La cultura popolare che si sviluppò a Edo con i chØnin come grandi protagonisti, ebbe due luoghi deputati: i quartieri di piacere e il mondo del teatro kabuki e di quello dei burattini (jØruri), ma non bisogna dimenticare la città stessa, ovviamente, dove la strada è la protagonista principale delle scorribande descrittive di Hiraga Gennai, e inoltre il bagno pubblico e la bottega del barbiere luoghi di osservazione di un altro scrittore, Shikitei Sanba.
L’istituzione dei quartieri di piacere (che risale alla fine del XVI secolo, ma che ebbe una struttura definitiva sotto i Tokugawa) mirava a porre sotto controllo governativo il diffuso fenomeno della prostituzione non autorizzata: sorsero così Yoshiwara a Edo, Shimabara a KyØto, Sonezaki e Shinmachi a ÷saka, Maruyama a Nagasaki, per citare solo i più importanti. Si trattava di vere e proprie città nelle città, le “città senza notte” come venivano chiamate.
Solo un dato per rendere l’idea: nella seconda metà del XVIII secolo, la popolazione “fissa” di Yoshiwara ammontava a 14.500 unità su un totale complessivo di 1.285.000 abitanti di Edo. Già il rapporto tra il numero degli abitanti di Edo e quello degli abitanti del quartiere è molto interessante: più dell’1%. Ma è quando si va a vedere la composizione di queste 14.500 unità che ci si sorprende: 8.200 uomini e 6.300 donne, ma di queste solo 2.500 sono cortigiane, donne di piacere e apprendiste. Sono queste cifre a dare il senso del quartiere di piacere. Come mai le “operatrici del settore” sono in così netta minoranza? Proprio perché attorno a loro ruotava un complesso meccanismo che rendeva il quartiere di piacere una città nella città. Yoshiwara era praticamente la copia di un qualsiasi altro popoloso quartiere di Edo, dalle strette viuzze dove si accalcavano addossate una all’altra, le bottegucce degli artigiani, le rivendite di sake, i ristorantini, tutte le attività elencate prima. A Yoshiwara, oltre alle case di appuntamento, alle case da tè e così via, abbondanza di botteghe di cosmetici, di stoffe, di monili, di acconciature.

Il gran numero di persone era dovuto alla struttura in atto per ricevere il cliente. Quando un visitatore entrava in Yoshiwara scattava un meccanismo che metteva in moto una catena di persone: il padrone (o padrona) della casa che organizzava la visita del cliente; l’incaricato che stilava un rapporto dettagliato sul cliente da presentare alle autorità; l’intromettitore che andava a fissare la prescelta nella casa di appartenenza; i servi che andavano a prenderla per scortarla; le giovani ragazze che formavano il seguito della donna (ovviamente più numeroso a secondo del grado della stessa); coloro che si occupavano di organizzare il banchetto e di fare in modo che il sake non mancasse mai nelle coppe; le “guardiane” alle quali era demandato di sorvegliare il comportamento sia delle cortigiane sia delle altre e di denunciare ogni irregolarità (la loro stanza era posta in posizione strategica nella casa per osservare il viavai continuo); le inservienti della stanza dove i due si ritiravano e così via. Se era richiesta anche la presenza di geisha, bisognava mandarle a chiamare, e quelle arrivavano in gruppo di tre accompagnate da giovani apprendiste che portavano lo shamisen, l’inseparabile strumento a corde di una geisha, e da una servetta con la lampada di carta che aveva come contrassegno il nome della “casa” alla quale il cliente si era rivolto al suo arrivo. Era il padrone di quest’ultima che si occupava di tutto e che presentava il totale (dove un complicatissimo giro di mance lasciava pure il segno) al cliente il mattino dopo. A sua volta, avrebbe saldato i conti con il padrone del bordello a cui la donna apparteneva e con tutti gli altri, ivi compresi guardie, esattori, portantinai, uomini dei risciò e una categoria tutta particolare, quella degli onnipresenti scrocconi, nulla- o tutto-facenti a seconda dei punti di vista, insediatasi stabilmente nel quartiere.
Se la prescelta era una “cortigiana” la procedura era più complessa e più lunga in quanto il cliente poteva avere rapporti con lei solo al terzo incontro e sempre che la donna acconsentisse. Era uso inoltre che questa non passasse tutta la notte con un uomo, ma ne visitasse più d’uno e la mattina passasse nelle stanze a salutarli. Anche le vesti, gli ornamenti, i pettini decorativi, le suppellettili delle stanze, tutto sottostava a un rigido cerimoniale.
“Quartiere di piacere” può però essere un’etichetta fuorviante. Il mondo di Yoshiwara, divenuto ormai sinonimo di quartiere di piacere, era un mondo composito con il quale non vi fu scrittore, poeta, uomo di teatro, artista di ukiyoe (stampe del mondo fluttuante) e di shunga (stampe erotiche) che non vi ebbe a che fare, e non mi dilungo a citare noti assai noti come Utamaro, Hokusai, Hiroshige, Sharaku tra gli artisti, KyØden, Sanba, Shunsui tra gli scrittori. Ne descrissero la vita, vi ambientarono le proprie opere, ne ritrassero le donne più famose. Yoshiwara non deve essere considerato un lungo elenco di bordelli, per usare il termine più crudo, un luogo dove si faceva soltanto commercio d’amore, bensì una complessa entità dove nuove forme d’arte, di musica, di letteratura, di poesia nacquero e si svilupparono contribuendo a fare della cultura di Edo uno dei momenti più brillanti della storia giapponese. Addirittura nuovi termini estetici vennero coniati per definire le qualità del “frequentatore dei quartieri di piacere”, lo “tsËjin” l’uomo di mondo, il raffinato conoscitore dei codici, a proprio agio in qualsiasi situazione, l’arbitro indiscusso di eleganza.
Qualche cenno sulla nascita di Yoshiwara: con la rapidissima crescita di Edo e con l’aumento della popolazione — dovuto anche al fatto che tutti i daimyØ delle province erano tenuti a risiedere per sei mesi all’anno a Edo e ciò comportava un accresciuto numero di samurai e di servitori —, molti tenutari di bordelli vi trasferirono la loro attività da altre parti del Giappone concentrandosi in alcuni quartieri. Ma ben presto i responsabili delle case di piacere capirono che era giunto il momento di ristrutturare la loro attività e si presentò al governo una petizione nella quale si proponeva che un appezzamento di terreno venisse riservato unicamente alle attività delle yËjo (ragazze di piacere). La richiesta era stata acutamente motivata con tre ragioni alle quali lo shogunato era molto sensibile e cioè (1) che alcuni frequentatori dei bordelli, cadendo nelle mani di tenutari poco scrupolosi che li trattenevano per giorni e giorni, dilapidavano tutte le loro sostanze causando scompensi nella loro categoria di attività; (2) che la prostituzione libera favoriva la vendita di bambine e l’adescamento di giovani fanciulle di famiglie povere; (3) che i bordelli erano anche il rifugio di rØnin, ormai divenuti elementi poco raccomandabili e potenziali fomentatori di rivolte.
Nel 1617 il governo assegnò a tale scopo un terreno di circa due ettari a patto che nessun prostituta si aggirasse più per la città (se ciò succedeva, doveva essere denunciata alle autorità) e imponendo le seguenti regole: 1) la professione di tenutario doveva essere svolta solo all’interno del quartiere; 2) nessun ospite poteva rimanervi più di ventiquattro ore; 3) le donne dovevano indossare abiti semplici, erano vietati i ricami in oro e argento; 4) gli edifici del quartiere non dovevano avere nulla di lussuoso, e i residenti erano tenuti agli stessi obblighi di servizio di tutti gli abitanti di Edo (come quello di far parte delle squadre di vigilanza contro gli incendi); 5) ogni cliente — fosse nobile o chØnin — doveva essere sottoposto a controllo e nei casi sospetti le autorità dovevano essere avvertite. Regole che, come sempre, col tempo furono in parte rinforzate e in parte disattese.
La zona concessa si trovava appena fuori la città, a est di Nihonbashi (il punto centrale della città), ed era terra acquitrinosa ricoperta di canne e giunchi. Si bonificò la terra, si delineò la struttura del quartiere e si iniziò a costruire. Alla fine del 1626 Yoshiwara iniziò la sua attività. Il nome all’inizio fu scritto con i caratteri di yoshi (giunco) e hara (=wara, piana, pianura) e solo più tardi il primo segno venne cambiato nell’omofono che significa “buona fortuna”. La struttura della nuova “città” era molto semplice e si estendeva con strade parallele che si intersecavano ad angolo retto formando così a loro volta dei “quartieri” o “città” (machi), struttura che sarà ripresa tale e quale nella costruzione dello Shin’yoshiwara (Nuovo Yoshiwara). Nel 1656 infatti, le autorità di Edo comunicarono che il terreno occupato da Yoshiwara serviva ad altri scopi e decisero che il quartiere doveva essere dislocato molto più lontano, a nord-est della città, oltre il tempio di Asakusa. Le autorità, resesi conto che la zona prescelta era effettivamente molto fuori mano, promulgarono nuove leggi per aiutare l’insediamento. Tra l’altro, proprio per la distanza, permisero l’apertura del quartiere anche di notte, esentarono gli abitanti dai servizi di ferma, e vi fecero trasferire anche i duecento e passa bagni pubblici della città, con grande soddisfazione dei tenutari ufficiali. Infatti, questi bagni (furoya) erano a tutti gli effetti dei bordelli, dove ragazze offrivano notte e giorno i loro servigi, per di più a buon prezzo, mentre le “ragazze di piacere” autorizzate potevano lavorare solo di giorno.
Verso la fine del 1657, lo Shin’yoshiwara (che continuò a essere però chiamato Yoshiwara) era pronto a iniziare la sua attività. Vi si giungeva su barche che trasportavano i clienti da vari punti della città lungo il fiume Sumida sino al canale San’ya, da dove, attraverso un terrapieno detto Nihonzutsumi si arrivava a un pendio (saka) in discesa, chiamato Emonzaka perché lungo il percorso il cliente si riassettava gli abiti (emon). All’inizio dell’Emonzaka era stato piantato un grande salice (yanagi) a ricordo del primo nucleo sorto a Edo (lo Yanagimachi) e anche perché il salice simboleggiava le donne del quartiere. Dall’Emonzaka all’entrata si snodava una strada dove si ammassavano ben venticinque case da tè e che portava all’ingresso principale, dove c’era la casa del guardiano incaricato di sorvegliare le entrate e le uscite delle donne del quartiere, e da dove partiva la strada centrale, il Naka no chØ, che attraversava tutto Yoshiwara (ben otto ettari), e da questa si ripartivano ad angolo retto altre strade che prendevano il nome dai quartieri che delimitavano. Lungo le strade si allineavano, una addossata all’altra, costruzioni a due piani: gli hikitejaya, dove il cliente doveva recarsi in primo luogo se voleva che gli venisse organizzato un programma in piena regola; lì un incaricato fissava gli appuntamenti e faceva accompagnare il cliente al luogo prescelto; gli ageya, dove la donna richiesta raggiungeva il cliente e stava con lui il tempo stabilito; i mizuchaya, ove questi si riposava; i funayado, dove si noleggiavano barche attrezzate per piacevoli escursioni; gli amigasajaya, situati all’entrata, dove il visitatore che non voleva essere riconosciuto (in particolare nobili e samurai) poteva affittare un ampio copricapo in bambù che copriva anche il volto; e poi abitazioni, ristoranti e rivendite di sake; negozi di ogni genere e botteghe di artigiani: di pettini e monili per le acconciature, di lampade e lanterne, di ombrelli, di geta, di ventagli, di tatami, di almanacchi, di talismani; venditori di cosmetici, di stoffe, di pipe; e poi parrucchieri, sarti, incisori e così via in un incessante brulichio di attività.
Il “quartiere” era un luogo chiuso, cintato e sorvegliato da guardiani risoluti a farne rispettare le leggi. Tale rigidità era dovuta al fatto che la libertà all’interno dipendeva dal seguire certe disposizioni governative: il quartiere era considerato dalle autorità una valvola di sfogo per la popolazione oberata da tasse e privazioni, ma il tutto doveva risolversi all’interno e non provocare disordine sociale nell’apparato dello Stato. Non si sfuggiva ai sorveglianti all’ingresso. E insieme alla stanza per la cerimonia del tè, il quartiere di piacere era l’unico luogo pubblico dove il samurai era costretto a entrare disarmato, lasciando le due spade all’ingresso. Sul fatto che così il samurai fosse ridotto “nudo” e quindi simile agli altri esseri umani, e che molto spesso vi giungesse in incognito, si scatenarono ironia e lazzi.
Tra le tante feste che abbondavano nel quartiere, uno spettacolo grandioso era la rituale parata delle “prime donne” per la via centrale del quartiere quando esse si offrivano agli occhi degli astanti in tutto il loro splendore di abiti e di ornamenti, ondeggiando nella lenta camminata dall’alto dei loro geta, precedute e seguite da giovani apprendiste e da servitori con stendardi e strumenti musicali.
Posso immaginare che qualcuno si stia chiedendo come mai le geisha siano state citate solo di sfuggita. Abbiamo visto che all’interno di Yoshiwara vi erano diverse categorie di donne di piacere, dalle oiran alle tayË immortalate nelle stampe e protagoniste dei drammi più acclamati, a quelle di più basso rango. Ma la geisha era all’epoca una prostituta non autorizzata, lontana dalle raffinatezze delle cortigiane dello Yoshiwara, e operava clandestina per le strade di Edo. Solo in un secondo tempo e, diremo così, per una certa carenza di personale, e a poco a poco entrò a far parte di quel mondo: ma non ne divennero residenti stabili, se non molto più tardi. Venivano infatti chiamate per allietare, con la musica del loro shamisen, i banchetti e a intrattenere gli ospiti. Lo shamisen è uno strumento a corde, relativamente piccolo, e quindi facilmente trasportabile. Di origine straniera, viene dalle isole RyËkyË, e giunse in Giappone solo nel XVI secolo, e sarà poi anche strumento principe nel teatro dei burattini.
Torniamo alle geisha. Il termine significa “persona versata nelle arti di intrattenimento”, “persona di talento”, ed è antico, mentre è abbastanza recente l’accezione con il quale è ora noto. Esistevano sia gli uomini-geisha (otoko geisha) sia le donne-geisha (onna geisha). [Proprio perché il termine geisha è formato da due caratteri “gei”, talento, arte, e “sha”, persona (non donna!) che sono invariabili, è errato italianizzare e fare il plurale “geishe”, tanto più che in giapponese un ideogramma con pronuncia “she” non esiste].
Dicevo che l’intensa vita dei quartieri di piacere fornì il materiale per romanzi, drammi teatrali, stampe e raccolte poetiche. Protagoniste assolute, le donne che vi vivevano — e in particolare quelle che raggiungevano le gerarchie più alte — furono ammirate e corteggiate, e assursero a simbolo di una (solo apparente) libertà, che non era concessa né alle donne del ceto samuraico, né alle donne chØnin. Divennero simboli dell’ideale femminile per bellezza, buon gusto, sensibilità. I costumi che indossavano, i pettini e spilloni di lacca che ornavano le acconciature, il particolare gergo, dettavano la moda. I loro drammi d’amore, di passioni, di vendette, di sacrifici, portati sul palcoscenico del kabuki e del jØruri, facevano fremere i cuori degli spettatori, e i nomi delle eroine erano sulla bocca di tutti.
La vita all’interno del quartiere, pur nel suo sfolgorante luccichio e nell’apparente gaiezza, era tuttavia per le donne un “mondo penoso”. Il passare degli anni, le eventuali malattie, l’apprensione per la diradata richiesta dei clienti e l’angoscia di non poter più provvedere ai bisogni dei genitori, tutto ciò pesava molto. Unica possibilità d’uscita era il riscatto e quindi l’inizio di una vita normale, ma era occasione offerta a una minima percentuale delle donne: le altre scendevano rapidamente gli scalini della notorietà.
Un “dramma” avveniva spesso all’interno del quartiere: l’innamoramento dei due partner. Non era nelle regole e quindi metteva in moto un’inarrestabile catena di eventi in cui si scontravano doveri e passioni, in quello che è noto come “conflitto tra giri e ninjØ”. Giri è il legame di obbligazione e abnegazione sino al sacrificio che aveva sempre connotato il rapporto tra inferiore e superiore tra i guerrieri, ma che poi anche i chØnin avevano assimilato nella loro cultura. NinjØ è il sentimento, ciò che si prova nel rapporto con il singolo, ciò che dà voce alla natura umana. Giri era un valore che poneva il singolo davanti alla società alla quale doveva rispondere; significava quindi non violare certe regole, era un codice di comportamento di rinuncia. Era la “facciata”, la parte visibile a tutti, l’ufficialità. NinjØ era un valore “interiore”, nascosto, che dava libero sfogo alle passioni. Giri e ninjØ devono essere visti come interdipendenti uno dall’altro, non come due entità staccate. Infatti non vi è ninjØ che non si scontri con il giri, e viceversa. Solo che il confucianesimo predicava il giri, mentre teatro e romanzi esaltavano il ninjØ, e da questo contrapposizione sono nate alcune tra le più belle pagine del periodo.
Ai due amanti, travolti dalla passione e dilaniati dai doveri verso la famiglia e la società, non rimaneva che la via del suicidio insieme, lo shinjË, il “doppio suicidio d’amore”, cantato da scrittori e drammaturghi, portato sul palcoscenico a suscitare lacrime e batticuore tra gli spettatori.
Il teatro kabuki, sorto agli inizi del XVII secolo a ÷saka, si era rapidamente sviluppato ed era assurto a uno dei divertimenti pubblici principali insieme al teatro dei burattini. Dopo alterne vicende, che videro il pesante intervento delle autorità per ragioni di pubblica moralità, solo uomini poterono calcarne il palcoscenico. Nacque così una categoria di attori specializzati in parti femminili, gli onnagata, alcuni dei quali si immedesimarono talmente nel ruolo da conservarne gli atteggiamenti anche nella vita quotidiana: divennero così famosi da scatenare entusiasmo e rivalità. Anche il mondo del teatro, che si intrecciò con quello dei quartieri di piacere, e che i chØnin sentivano tutto loro era quasi un mondo a sé, con le sue leggi e i suoi codici. Ancora una rivalsa sulla classe superiore, visto che lo shogunato ne proibiva l’accesso ai samurai e questi dovevano abbassarsi a camuffarsi per assistervi di nascosto, pena gravi sanzioni.
L’autore più noto di drammi sia per il kabuki sia per il teatro dei burattini fu Chikamatsu Monzaemon (1653-1724), il grande cantore dei sentimenti, dei dolori, delle sofferenze e delle gioie dei chØnin. Da un lato, attraverso drammi storici, li faceva inorgoglire del loro passato guerriero e li faceva sentire superiori a chiunque. Dall’altro, li commuoveva narrando storie prese dalla realtà, con il destino crudele degli amanti condannati dal “dovere” (giri) a perdere tutto in un doppio suicidio che solo in teoria rappresentava la vittoria del “sentimento” (ninjØ). Cosa spingeva allora i due amanti a questo passo estremo, cosa li sosteneva? La convinzione incrollabile che dopo la morte si sarebbero ritrovati non nell’aldilà, ma qui in questo mondo, rinati sulla stessa foglia del fiore di loto del Buddha per dare inizio a una nuova vita. Commossa partecipazione quindi di Chikamatsu a queste storie, mentre il primo scrittore chØnin, Ihara Saikaku (1642-1693), anni prima, assume un atteggiamento più distaccato e più vicino alla cruda realtà dei fatti, come in uno dei suoi capolavori, Cinque donne amorose (KØshoku gonin onna, 1686).
A teatro, i chØnin dimenticavano gli affanni di una vita non certo facile, nemmeno per i mercanti più facoltosi. Su di essi il governo faceva spesso calare la mannaia delle leggi suntuarie. Si cercava così di frenare il lusso ostentato dalle ricche famiglie di mercanti, quasi un’”offesa” per i samurai che si indebitavano sino al collo per condurre lo stesso tenore di vita. Inoltre, i debiti di quest’ultimi nei confronti dei mercanti venivano periodicamente azzerati per decreto shogunale, senza possibilità d’appello. Nonostante ciò la vitalità e l’intraprendenza di molti chØnin vanificarono tali tentativi. A nulla valsero leggi che proibivano ai chØnin e alle loro mogli ornamenti in oro e sottovesti di seta, che limitavano i divertimenti, che prescrivevano che il fronte dei negozi/abitazioni dovesse essere molto stretto (la casa si allungava all’interno) e uguale per tutti per non permettere esibizioni di ricchezza.
Niente da fare. L’esuberanza degli abitanti di Edo (anzi dei “figli di Edo” (edokko) come erano orgogliosi di chiamarsi) trovava altre vie per esprimersi (oltre a non tener poi in gran conto neppure le suddette leggi; passato un po’ di tempo tutto tornava come prima). Una di queste fu una forma poetica nota come senryË. Il senryË è brevissimo (sole 17 sillabe /5-7-5/, come il forse più noto haiku), molto spesso di pungente ironia (non di satira) sulla realtà quotidiana.

    Quasi sempre anonimi e quindi ancor più voce di popolo, bersaglio dei senryË sono i monaci buddhisti zoticoni e presuntuosi, i mariti creduloni e traditi, i samurai-burocrati invidiosi della libertà espressiva dei chØnin, le comari pettegole e ciarliere, ma sempre con un punto in più sugli uomini, gli zotici di campagna sperduti nella grande città, i medicastri ignoranti. Si gioca anche sulle grandi opere del passato, sui classici, trasferendone episodi nella realtà del presente, dissacrandoli.
Un esempio tra i tanti: Ono no Komachi. Komachi, una poetessa attiva verso la metà del nono secolo, uno dei sei geni (rokkasen) poetici del periodo Heian, era donna di grande bellezza e di altrettanta superbia e alterigia. Si narra che avesse promesso a uno spasimante di permettergli di farle visita solo se si fosse recato davanti alla sua casa per cento notti consecutive. Il poveretto è fedele alla consegna ma muore la sera della novantanovesima notte. La leggenda si impossessò del fatto che restò nei secoli ad esempio della costanza di un innamorato e della crudeltà di una donna bella.
Ma a Edo, Komachi diventa una donna del quartiere di piacere che ha una lista di clienti regolari e il senryË dice: “alla novantanovesima notte ne cancella il nome dal carnet”.
Giochi di parole, battute a sfondo sessuale, prese in giro, occasionali sfide all’autorità ritornano anche in un altro divertimento popolare, i kobanashi o storielle. Raccontati dapprima agli angoli delle strade, poi recitati in teatrini da declamatori famosi in tutta la città, infine raccolti in antologie. L’episodio di prima ritorna in forma diversa e ancor più dissacrante: sono tempi in cui non vale più la “faticaccia” imposta allo spasimante di Ono no Komachi. Ecco il fatto “versione Edo”.
Un uomo invia missive amorose a una donna, una dama aristocratica, che alla fine gli fa sapere che gli concederà i suoi favori se si recherà davanti a casa sua per cento notti consecutive e se, come prova, lascerà un segno, una tacca, sul legno della rimessa delle carrozze. Ciò avviene, con la pioggia e con il vento, ogni notte, per novantanove notti. Fin qui si segue la tradizione. Ma alla novantanovesima notte, prima che lui si allontani dopo aver apposto il segno per la novantanovesima volta, la donna manda un’ancella a chiamarlo. “Manca solo una notte, lasci perdere, l’accompagno dentro”. A queste parole l’uomo è molto impacciato. La donna lo sollecita: “Perché esita?”, e lui: “A dire la verità, il fatto è che sono pagato alla giornata per venire a fare questo segno”.

 

    Un mondo composito quindi, vivace e affascinante come si può intuire. Per molti decenni invece e fino a non molto fa, parlando del Giappone del periodo Tokugawa si insisteva nel presentarlo come un paese arretrato e statico, che gli occidentali, dapprima attraverso la “finestra di Nagasaki” e la loro tecnologia, poi con i cannoni delle “navi nere” del Commodoro Perry, erano finalmente riusciti a forzare. Al solito, un’idea di chiaro sapore eurocentrico, salvo poi a meravigliarsi di quanto presto il Giappone si era messo al passo con l’Occidente, senza considerare che esistevano tutti i pressuposti perché ciò avvenisse, e che la grande “rimonta” del Giappone si basava proprio sulla vivacità intellettuale dei suoi abitanti.

 

Fonte: http://www.flemingyouth.it/download/Quartiere%20di%20piacere.doc

Sito web da visitare: http://www.flemingyouth.it

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