Moda dove nacque

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Moda dove nacque

LA MODA FU UNINVENZIONE EUROPEA?

Non solo eurocentrismo

 

Mentre, tra Sei e Settecento, emergeva con crescente consapevolezza una “cultura europea della moda”, ossia una matura riflessione sul fenomeno e sulle sue implicazioni sociali depurata da eccessi moralistici, si formava anche l’idea che la moda fosse una caratteristica tipica della  società europea, sconosciuta nelle pur raffinate civiltà sviluppatesi in Oriente. Ad alimentare tale tesi concorrevano ovviamente i resoconti di viaggiatori, come il diario di viaggio del chevalier Jean Chardin, che aveva visitato la Persia nella seconda metà del Seicento, in cui si leggeva: “Gli abiti degli orientali non sono soggetti alla moda; seno sempre fatti nello
stesso modo, e … i persiani non sono mutevoli neppure nei colori, nelle sfumature e nel tipo delle stoffe.”1 Analoghe considerazioni venivano proposte a proposito della Cina alla fine del Settecento: “In Cina la forma del vestire è di rado mutata dalla moda o dal capriccio. L’abito che si conviene alla condizione di un uomo e alla stagione dell’anno in cui lo porta, è fatto sempre allo stesso modo. Le stesse donne non hanno quasi nuove mode, se non nella disposizione dei fiori e altri ornamenti che mettono in testa.”2 Queste testimonianze riecheggiavano nelle considerazioni degli “orientali” che soggiornavano in Europa e che esprimevano la loro incapacità di comprendere le follie della moda cui erano soggetti gli occidentali: si pensi, ad esempio, alle Lettres persanes di Montesquieu o alle più tarde Letters on the Manners of the French and on the Follies and the Extravagancies of the Times Written by an Indian in


1 Cit. in F. Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme (XVème-XVIIème siècles). Les structures du quotidien: le possibile et l’impossible, Paris. Colin, 1979; tr. it. Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII). Le strutture del quotidiano, Torino, Einaudi, 1982, p. 293.
2 Cit. in Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, cit., p. 284.


 

Paris di Caraccioli. Si cominciò perciò a ritenere che la moda fosse un tratto distintivo della società europea, mentre quelle orientali erano invece contraddistinte dall’assenza di cicli di cambiamento degli stili vestimentari. La moda intesa come grande spartiacque culturale, parafrasando l’abate Le Blanc, che scriveva: “La manière de s’habiller des différens peuples tient peut-être plus qu’on le croit à leur façon de penser. Les Orientaux qui
depuis long-temps ont les mêmes moeurs, portent aussi depuis plusieurs siècles à peu près le même turban.”3 La moda veniva persino assunta come sinonimo di libertà e, di conseguenza, indice del livello di civilizzazione; lo esplicitava l’economista Jean-Baptiste Say nei primi decenni dell’Ottocento:”Je vous avoue que je n’ai aucun attrai pour les modes immobiles des Turcs et des autres peuples de l’Orient. Il semble que’elles prêtent de la durée à leur stupide despotisme”.4 Fino a giungere alla concettosa legittimazione religiosa della moda, proposta da Alessandro Manzoni durante un colloquio con Giuseppe Bonghi: “La moda è cosa cristiana. Gli antichi né gli orientali non avevano e non hanno moda. Il loro modo  di  vestire  è  fissato  dalla  superstizione,  ed  ha  un  vincolo,     una
connessione colle loro idee religiose. Per i cristiani questa superstizione è impossibile: perché il taglio degli abiti non ha niente a che fare con Dio e il culto vero che gli s’ha da prestare. E perché questo? Perché il vestire è effetto del peccato: l’uomo è uscito dalle mani di Dio nudo, e nudo sarebbe


3 J.-B. Le Blanc, Lettres d’un françois, La Haye, Jean Neaulme, 1765, vol. I, p. 4. Secondo il veneziano Antonio Zanon nell’impero ottomano regnava “l’immutabilità della moda e del vestire degli orientali” (A. Zanon, Dell’agricoltura, dell’arti e del commercio…, Venezia, Modesto Fenzo, 1765, vol. V, p.125).
4“Vi confesso che non sono affatto attratto dalle mode immobili dei turchi e degli altri popoli d’Oriente. Sembrerebbe che esse contribuiscano alla durata del loro stupido dispotismo”. J.-B. Say, Cours complet d’économie politique pratique, Onasbruck, Otto Zeller, 1966, Ristampa dell’edizione del 1852, vol. II, p. 247. Anche Chardin riteneva che l’immutabilità dello stile vestimentario dei persiani in fondo riflettesse il fatto che “non sono affatto avidi di nuove invenzioni e di scoperte” (Cit. in Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, cit., p. 293).


 

rimasto se non avesse fatto il male. Ora il peccato produce o un errore stabile o una mutazione continua: quello è la superstiziosa prescrizione di una foggia, ed è quello che è invalso presso i pagani e gli infedeli: la mutazione continua, che è la moda ed a un tempo una prova dell’esser disciolti da quell’errore, è l’effetto prodotto presso i cristiani dalla necessità imposta dal peccato: tra quegli non poteva aver luogo l’altro. Gli è un curioso e forse vero concetto del Manzoni”5.
Questo approccio alla questione è stato poi ripreso dalla storiografia recente, che ha arricchito l’analisi con pertinenti riscontri e argomentate riflessioni, ma senza mutare l’impostazione di fondo. Fernand Braudel, nella sua fondamentale opera sulla civiltà materiale, ha collocato la moda all’interno del contesto economico e sociale dell’epoca che l’aveva generata, trattando il tema in prospettiva comparata. Sulla scorta di interessanti e vivaci resoconti di viaggiatori e di osservatori contemporanei, Braudel illustra la sostanziale staticità dei sistemi vestimentari dell’Impero Ottomano, dell’India, della Cina e del Giappone, contrapposta all’Europa della moda, argomentando che tale differente evoluzione è spiegabile a partire da dinamiche del mutamento sociale profondamente divergenti: mentre in Occidente l’avvento della moda rifletteva un significativo tasso  di avvicendamento, in Oriente l’immutabilità delle apparenze era il sintomo
di   gerarchie   altrettanto   rigide.6    L’efficace   interpretazione braudeliana
costruisce la base di partenza per la ricostruzione proposta da Neil McKendrick, autore del pionieristico saggio sulla moda nella società e nell’economia inglese del Settecento, secondo il quale povertà diffusa e

5 R. Bonghi, G. Borri, N. Tommaseo, Colloqui con il Manzoni, a cura di A. Briganti, Roma, Editori Riuniti, 1985, dal diario di Giuseppe Bonghi, 25 ottobre 1852, resoconto di un colloquio con Alessandro Manzoni. Ringrazio Paolo Malanima per avermi segnalato la citazione.
6 Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, cit., pp. 283-294.


 

immobilismo sociale sarebbero stati i fattori in grado di ostacolare  l’avvento della moda lontano dall’Europa, dove, invece, si instaurò con connotati peculiari. 7 Prende le mosse dalle pagine scritte da Fernand Braudel anche Gilles Lipovetsky, che, nello stimolante volume dedicato  alla moda nelle società moderne, pone in diretta connessione stabilità degli stili vestimentari e sistemi di potere imperiali, accostando gli imperi dell’antichità a quelli orientali. L’emergere della moda come aspetto tipico della società europea sarebbe il prodotto di una serie di condizioni sociali
realizzatesi solo in Europa, quali la società di corte, il modello di vita aristocratico, lo sviluppo delle città e, soprattutto, l’affermazione dell’individuo legittimato a compiere libere scelte8.
Che cristallizzazione sociale e staticità vestimentaria fossero in qualche modo complementari è tesi tutt’altro che priva di fondamento, ma probabilmente è eccessivamente semplicistico sintetizzare in tale binomio tre secoli di storia – dal XVI al XVIII – e tre civiltà - indiana, cinese e giapponese - che, seppure accomunate da dispotismi apparentemente simili, erano profondamente diverse per religione, cultura, economia, istituzioni. Lo sguardo occidentale potrebbe quindi difettare di profondità, in parte, perché condizionato dall’abbagliante esperienza europea di frenetico avvicendamento delle mode e, in parte, perché i criteri che regolavano i meccanismi della moda orientale potevano essere più sottili e meno facilmente percepibili dall’osservatore occidentale. Proprio partendo da quest’ultima obiezione, l’autorevole storico dell’India Kirti Chaudhuri ha rigettato la visione “eurocentrica” delle civiltà orientali come società  senza



7  N. McKendrick, The Commercialization of Fashion, in N. McKendrick, J. Brewer and
J.H. Plumb, The Birth of a Consumer Society. The Commercialization of Eighteenth- century England, London, Europa Publications, 1982, pp.36-42.
8 G. Lipovetsky, L’empire de l’éphémère, Paris, Gallimard, 1987, pp. 30-31, 55, 71.


 

moda.9 A raccogliere la sfida è stato Peter Burke, studioso attento alla dimensione culturale dei processi di cambiamento, che ha proposto una stimolante analisi comparata dell’attitudine al consumo di beni di lusso in Europa, Cina e Giappone basata su materiali iconografici, letterari e museali, mettendo in evidenza inattese analogie. In particolare, la crescente e diffusa propensione al consumo vistoso di bevande e alimenti, arredi, oggetti d’arte, tessuti come espressione di riusciti percorsi di ascesa sociale sembrerebbe accomunare le società europea, cinese e giapponese dell’età moderna: alle base di tale, condivisa, dinamica si troverebbero esperienze  in qualche misura assimilabili ossia il ruolo svolto dalle corti come centri di aggregazione di un’aristocrazia soggetta al potere monarchico - dello shogun in Giappone - , nonché l’elevata urbanizzazione e la possibilità di
rapidi  e  cospicui  arricchimenti.10   Le  suggestioni  di  Peter  Burke aprono
stimolanti prospettive, soprattutto laddove viene messo in discussione l’assunto che i dispotismi orientali impedissero forme di mobilità sociale, ma una più ampia partecipazione ai consumi di lusso non determina necessariamente l’avvio di cicli di moda. Quello della moda è invece tra gli aspetti della ricostruzione comparata proposta dal sinologo neozelandese
S.A.M. Adshead, che, oltre a fare proprie le valutazioni di Burke in tema di similarità di attitudine al consumo in Occidente e in Oriente, spinge la sua revisione della tradizione eurocentrica fin al punto di sostenere che la moda fu un’invenzione cinese dell’epoca della dinastia Tang (618-907), opera dell’imperatrice Yang Kuei-fei, definita la Madame Pompadour cinese, il cui stile influenzò il gusto europeo del tardo medioevo. Tale primato non


9 K.N. Chaudhuri, Asia before Europe. Economy and Civilisation of the Indian Ocean from the Rise of Islam to 1750, Cambridge, Cambridge University Press, 1990, pp. 182-190.


 

conobbe tuttavia sviluppi paragonabili a quelli prodottisi in Europa dal Settecento in avanti, che fecero del vecchio continente l’incubatrice della moda moderna: la moda era nata e si era affermata in Cina molto prima che in Europa, ma non era riuscita a divenire un’istituzione della modernità.11
Si deve a Kenneth Pomeranz la più recente ed equilibrata messa a punto della questione. Secondo questo studioso americano durante i secoli dell’Età Moderna Europa ed Asia non conobbero forme e livelli di propensione al consumo radicalmente diversi; anzi, le motivazioni economico-sociali che stavano alla base del desiderio di acquisire e mostrare beni di lusso nelle società europee non differivano dalle aspirazioni che alimentavano il consumo vistoso in Cina e Giappone. Tuttavia, come si è già avuto modo di osservare, l’attitudine  all’acquisizione di articoli di lusso non determina meccanicamente l’avvicendamento di cicli di moda. Pomeranz rileva infatti, a proposito del caso cinese, come, pur essendone ravvisabili i prodromi, l’avvento della moda   come   istituzione   fu   bloccato   dall’evoluzione     politico-sociale
dell’epoca Quing, convergendo, benché con argomentazioni diverse, sulla conclusione di Adshead.12 Allora l’intuizione di Fernand Braudel, seppur schematica e tranchant, aveva colto nel segno? L’impressione è che, da un lato, nelle società orientali, diversamente dall’esperienza europea, la moda non si sia sviluppata come istituzione sociale destinata a proporsi come tratto saliente della modernità, ma che, dall’altro, sia sbagliato ritenere  che


10 P. Burke, Res et verba: conspicuous consumption in the early modern world, in J. Brewer and R. Porter editors, Consumption and the World of Goods, London and New York, Routledge, 1993, pp. 148-161.
11  S.A.M. Adshead, Material Culture in Europe and China, 1400-1800, Basingstoke  and New York, Macmillan-St. Martin’s Press, 1997.
12 K. Pomeranz, The Great Divergence, China, Europe and the Making of the Modern World Economy, Princeton and Oxford, 2000; tr. it. La grande divergenza. La Cina, l’Europa e la nascita dell’economia mondiale moderna, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 231-244.


 

le grandi civiltà asiatiche non abbiano espresso peculiari forme di  sensibilità e considerazione per il significato sociale dell’abito, nonché cicli di avvicendamento del gusto vestimentario13: questi ultimi aspetti meritano senz’altro qualche approfondimento per tentare di capire se la moda è un’invenzione europea.14

 

Tradizione e cambiamento nell’esperienza indiana

 

“Tra gl’Indiani, o sian mahomettani o sian gentili, gli huomini (…) vestono solo tele bianche, più o manco fine secondo la qualità  delle persone e la comodità che hanno di spendere (…). La veste si mette sopra  la carne nuda, di modo che dalla cintura in su serve per veste e per camicia insieme, attillata nel busto e ampia nelle falde che pendono con grazia infin’a mezza gamba. Dalla cintura in giù, sotto la veste, si cuopre tutto’l resto con un paio di calze lunghissime della medesima tela, che non solo cingono le coscie, ma le gambe ancora infin’al piede e con la lor lunghezza fanno per galanteria nelle gamne molte belle crespe (…). La testa finalmente con tutti i capelli, che i gentili (…) nudriscono lunghi, al contrario de’ mahomettani che gli radono, si avvolge in un piccolo e finissimo turbante, di forma quasi quadrangolare un poco lunga e piatto   in
cima.”15  Questa descrizione dell’abbigliamento maschile in uso in India    è
opera di Pietro Della Valle, patrizio e letterato romano, che viaggiò in



13 Per una discussione sulla necessità di un approccio comparativo si veda C. Clunas, Modernità, Global and Local: Consumption and the Rise of the West, in “The American Historical Review”, vol. 104, fasc. 5, pp. 1497-1511.
14 Il richiamo è a A. Sen, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente, Milano, Mondadori, 2005.
15 P. Della Valle, De’ viaggi di Pietro della Valle il pellegrino descritti da lui medesimo in lettere familiari…, Roma, Vitale Mascardi, 1663, III, pp. 33-34.


 

Oriente, spingendosi fino in India, a Surat, nella parte nord-occidentale del paese, nei primi anni Venti del Seicento. Era l’epoca in cui gran parte del sub-continente indiano era governata dai sovrani Moghul, condottieri di tribù guerriere di religione musulmana provenienti dall’Asia centrale, che avevano assoggettato l’India nel corso del secolo XVI. L’azione illuminata dei monarchi, capaci e tolleranti, che si succedettero tra Cinque e Seicento fu determinante per la straordinaria fioritura culturale di quel periodo, a pieno titolo definito “Rinascimento Moghul”16, che ebbe il suo epicentro nella raffinata corte imperiale, la quale non aveva nulla da invidiare per magnificenza delle architetture, splendore degli apparati e formalità delle liturgie e della vita cortigiane alle più celebrate corti europee17. La testimonianza di Della Valle è particolarmente interessante perché dà conto dell’affermazione del modello di abbigliamento introdotto nella realtà indiana dai Moghul18.
L’architettura vestimentaria dell’India pre-Moghul si basava essenzialmente su capi di vestiario formati da pezze di tessuto utilizzate per avvolgere il corpo secondo varie tecniche di drappeggio19: tendenza questa emersa sotto l’influenza dalla casta sacerdotale induista dei bramini, che celebravano i loro riti religiosi indossando esclusivamente pezze drappeggiate, in quanto gli articoli di vestiario confezionati mediante operazioni di taglio e cucito erano ritenuti impuri.20  Si formarono così le



16 Mutuo il termine da S.N. Dar, Costumes of India and Pakistan. A Historical and Cultural Study, Bombay, D.B. Taraporevala Sons and Co. Private Ltd., 1982, p. 37.
17 Si veda J.F. Richards, The Mughal Empire, Cambridge University Press, 1996.
18 Sulla percezione indiana dell’abbigliamento degli europei si vedano gli esempi proposti in A. Jackson and A. Jaffer editors, Encounters. The Meeting of Asia and Europe 1500-1800, London, V&A Publications, 2004, pp. 190-199.
19 Per un panorama dell’abbigliamento indiano in età pre-Moghul si veda R.P. Mohapatra, Fashion Styles of Ancient India. Dress and Costumes, New Delhi, B.R. Publishing Corporation, 1992.
20 Chaudhuri, Asia before Europe, cit., p. 183.


 

tipologie di base del sistema vestimentario indiano. Per quanto riguarda l’abbigliamento maschile, si imposero il dhoti, ossia il capo che copriva la parte inferiore del corpo dalla vita alle ginocchia - un pezzo di stoffa stretto attorno ai fianchi, i cui lembi passavano tra le gambe ed erano fissati alla cintola sulla schiena - e l’ uttariya, cioè la sciarpa impiegata per rivestire il busto. Per quanto concerne l’abbigliamento femminile, si affermarono il dhoti e il sari - in versione più o meno lunga -, ai quali si poteva accostare la fascia stanapatta, che si cingeva per coprire il seno21. Tali articoli base conobbero ampia diffusione, ma vennero adottati nelle varie  zone dell’India  con  notevole  varietà  di  soluzioni  in  relazione  al        tessuto,
all’ampiezza, al drappeggio, nonché di combinazioni con altri capi di vestiario, determinate dall’interazione con gli usi e costumi regionali e con le tradizioni delle varie etnie. Questi elementi costitutivi della cultura indiana dell’apparenza, seppure nelle molteplici varianti locali, rappresentarono una costante di fondo del sistema vestimentario del sub- continente che sopravvisse alle rilevanti trasformazioni politiche, sociali e religiose intervenute nella storia dell’India22: si pensi, ad esempio, alla longevità del sari.23 Forse fu proprio la persistenza  nel  lunghissimo periodo di alcuni indumenti “tipici” del costume indiano a trarre in inganno gli osservatori occidentali, inducendoli a ritenere che in tale staticità si compendiasse la cultura dell’apparenza in India. E’ perciò essenziale guardarsi dal pericolo di ricadere nella medesima svista, enfatizzando gli elementi di continuità rispetto ai cambiamenti: infatti, nonostante le    citate

21  Mohapatra, Fashion Styles of Ancient India. Dress and Costumes, cit.,        pp. 1-100;
B.N. Goswamy, Indian Costumes in the Collection of the Calico Museum of Textiles, Ahmedabad, 1993, pp. 1-9.
22 Goswamy, Indian Costumes, cit., pp. 1-14; si veda anche G. S. Ghurye, Indian Costume, Bombay, Popular Prakashan, 1966.
23  Si vedano L. Lynton, The Sari, London, Thames and Hudson, 1995 e M. Banerjee  and D. Miller, The Sari, Oxford and New York, Berg, 2003.


 

permanenze nell’architettura del costume, tra XVI e XVIII secolo le strategie dell’apparire nella composita società indiana furono tutt’altro che aliene dall’adottare nuove modalità di espressione, dimostrando anzi di saper metabolizzare le influenze esterne mediante trasformazioni e adattamenti24 .
L’evoluzione dell’abbigliamento nell’India pre-moderna passò attraverso fasi significative, delle quali non è però possibile dare conto diffusamente e per le quali si rimanda all’ampia bibliografia esistente25. Si vuole invece approfondire il discorso prendendo le mosse dalla importante discontinuità rappresentata dall’avvento dei Moghul nel corso del XVI secolo. Recentemente è stata messa in discussione la tradizione che attribuiva all’arrivo dei Moghul l’introduzione di capi d’abbigliamento cuciti: è stato infatti dimostrato che le popolazioni indiane conoscevano e praticavano le tecniche sartoriali26, anche se è difficile accertare quanto diffuso fosse l’uso di capi cuciti rispetto a quelli drappeggiati della tradizione Indù27. L’instaurazione del nuovo ordine diede comunque un deciso impulso all’adozione di abiti confezionati mediante il lavoro del sarto, pur senza determinare l’estinzione del costume indiano di ascendenza braminica28. Il modello vestimentario introdotto dai Moghul è quello descritto per sommi capi da Della Valle, secondo il quale il nuovo stile avrebbe accomunato l’elemento locale indù e quello invasore   musulmano,


24 Goswamy, Indian Costumes, cit., p. 1.
25 Si vedano Ghurye, Indian Costume, cit., pp. 1-30; Mohapatra, Fashion Styles of Ancient India. Dress and Costumes, cit., pp. 1-100; Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., pp. 1-35; Goswamy, Indian Costumes, cit., pp. 9-14.
26 Ghurye, Indian Costume, cit., pp. 207-208; Goswamy, Indian Costumes, cit., pp. 1- 14.
27 Si veda B.S. Cohn, Cloth, Clothes and Colonialism in India, in A.B. Weiner and J. Schneider editors, Cloth and Human Experience, Washington and London, Smithsonian Institution Press, 1989, pp. 331-333.
28 Ghurye, Indian Costume, cit., pp. 130-136; Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., p.48.


 

distinti soltanto dall’acconciatura: capelli lunghi per gli uni e testa rasata  per gli altri. In realtà, le culture vestimentarie delle due etnie, almeno in origine, erano decisamente diverse: il fondatore della dinastia Moghul, Babur (1483-1530), aveva rilevato con stupore che in India contadini e popolo minuto andavano in giro quasi nudi.29 Tuttavia, i successori  di Babur perseguirono una lungimirante ed efficace politica volta ad integrare la componente islamica di provenienza mongola con la popolazione locale di prevalente credo induista: politica che raggiunse lo scopo utilizzando
anche lo strumento dell’armonizzazione dell’abbigliamento, al punto tale che Della Valle ne poté constatare gli effetti. Fu soprattutto Akbar (1542- 1605) a mettere in pratica tale progetto, attuando una vera e propria strategia di integrazione vestimentaria, imperniata sulla definizione di uno stile grazie al quale Mughul e Indiani potessero riconoscersi e distinguersi al tempo stesso. L’intervento Akbar si concretizzò nel recupero di alcune tipologie di abbigliamento già in uso, alle quali apportò delle modifiche che ne fecero dei capi diversi da quelli esistenti, conseguendo così il duplice obiettivo di affrancare i rinnovati indumenti dal legame con la tradizione, da un lato, e di conferire loro la forte legittimazione dell’ imprinting sovrano, dall’altro. La riforma di Akbar toccò soprattutto tre elementi del vestiario maschile: la veste, i pantaloni e il turbante. La veste - jama - , che, come scrive Della Valle, si poteva indossare anche senza camicia, scendeva fino alle ginocchia ed era composta da una sezione superiore strettamente aderente al busto, stretta in vita con una cintura di tessuto, e da una inferiore, che, dalla cintola in giù si allargava in ampie falde con fitte pieghe, a mo’ di gonna. A tale veste si accompagnavano pantaloni lunghi e aderenti, che fasciavano strettamente le gambe fino alle caviglie -  payjama



29 Goswamy, Indian Costumes, cit., p. 14.


 

-. 30 Anche il turbante, al pari degli altri capi reinterpretati da Akbar, apparteneva alla storia vestimentaria indiana31: tradizionalmente carico di significati simbolici 32, nella rinnovata versione di “turbante Moghul”33, quella descritta da Della Valle, divenne il copricapo distintivo del nuovo ordine. Akbar portò avanti il suo progetto di armonizzazione del vestiario  al punto da rinominare gli indumenti in base al lessico del linguaggio indù. Come riferisce il cronista Abu’l Fazl, ad esempio, la veste - jama - fu chiamata sarab gati, che significava “ciò che copre l’intero corpo”, i calzoni vennero denominati yar pairahan cioè “compagno della veste” e le scarpe definite con il termine charan dharan ossia “sostegno del piede”.34 Akbar era tuttavia consapevole che se l’integrazione dei due principali gruppi etnici del suo regno era un obiettivo di primaria importanza per assicurare una pacifica convivenza, nondimeno differenze, culturali e soprattutto religiose, esistevano e pertanto non trascurò di sfruttare il potenziale comunicativo dell’abito per renderle visibili, seppure in maniera molto discreta: indù e musulmani avrebbero allacciato la veste - jama - in due distinte maniere, gli uni all’ascella sinistra, gli altri all’ascella destra.35 Questa sapiente gestione della politica delle apparenze dimostra una matura consapevolezza dell’importanza dell’abbigliamento nella manipolazione della rappresentazione delle identità: una politica delle apparenze talmente avveduta e lungimirante che al confronto la dichiarazione con cui Carlo   II

30 Ghurye, Indian Costume, cit., pp.129-130; Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., pp. 43-47; Goswamy, Indian Costumes, cit., pp. 14-18.
31 Mohapatra, Fashion Styles of Ancient India. Hair styles and coiffures, cit., pp. 1-85; Goswamy, Indian Costumes, cit., pp. 7-8.
32  Sull’importanza del turbante si vedano  Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., pp.
47, 96-98 e Cohn, Cloth, Clothes and Colonialism in India, cit., pp. 313-316.
33 Ghurye, Indian Costume, cit., pp. 130, 210.
34Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., pp. 44; Goswamy, Indian Costumes, cit.,  pp. 16-17.
35Ghurye, Indian Costume, cit., p. 210; Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., pp.
43-44; Goswamy, Indian Costumes, cit., p. 16.


 

Stuart dichiarava di adottare il modello di abito in tre pezzi appare quasi un’improvvisazione estemporanea.
Gli effetti del riordino vestimentario Moghul sono riscontrabili anche nel resoconto proposto da un altro viaggiatore, il francese Jean Thévenot, che, qualche decina d’anni più tardi, delineava un quadro con qualche dettaglio in più rispetto alla descrizione di Della Valle, benché più d’un passaggio tradisca debiti con il testo del letterato romano. Anche Thévenot esordiva ribadendo la sostanziale omogeneità di forme dell’abbigliamento indiano, con la sola distinzione della differente gestione della chioma: “Parmy les diverses nations qu’il y a dans Agra, aussi bien que dans le reste des Indes, on y voit assez d’uniformité dans la manière de se vêtir et il n’y a que les mahometans (…) qui se distinguent à l’exterieur par une coiffure particulière, mais au reste ils sont habillez comme les autres.” Passando poi a analizzare le componenti dell’abbigliamento, si comincia dalla parte inferiore del corpo:“Le calçon des Indiens est pour l’ordinaire de toile de coton. Il vient aux uns jusqu’à my-jambe et d’autres le portent un peu plus long en sorte qu’il descend jusqu’à la cheville du pied” e  alcuni non disdegnavano di portare tali calzoni talmente lunghi “qu’ils  leur
font  faire  plusieurs  plis  sur  la  jambe.”36.  Si  trattava  probabilmente   di
payjama in versione più tarda, nota anche come churidar.37 La parte superiore del corpo era coperta da una camicia che scendeva oltre la vita, sopra la quale si indossava la “Caba, qui est une premiere veste” - una variante della jama 38: si trattava infatti di “une maniere de corps de robe  où il y auroit une jupe attachée, qui seroit ouverte pardevant et plissée


36 J. Thévenot, Troisième partie des voyages de M. De Thévenot contenant la relation  de l’Indostan, des nouveaux Mogoles et des autres peuples et pays de l’Inde, Paris, Claude Barbin, 1684, p. 104.
37Ghurye, Indian Costume, cit., pp.129-130; Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., p. 46.


 

depuis le haut jusqu’au bas (…). Il y a un collet haut de deux travers de doigt qui est de même etoffe que le reste. Ils ne font pas fermer cette veste comme nous faisons nos just’aucorps, mais ils la croisent sur l’estomach, premierement de droit à gauche et ensuite de gauche à droit. Ils l’attachent avec des rubans de même etoffe.”39 Anche Thévenot, come già Della Valle, rilevava la predilezione per il bianco: “Ces cabas sont faits   communément
de toile blanche, c’est-à-dire de toile de coton, afin qu’ils soient plus legers et plus propres en les blanchissant souvent et cette maniere est conforme à cellese des anceins Indiens (...).Et quand les riches n’en vêtent pas de blanc, ils en prennent de soye et choisissent de la plus large étoffe qu’ils puissent trouver, qui ordinairement est rayée et à plusieurs couleurs.”40 In effetti il bianco era il colore predominante nell’abbigliamento maschile41, specialmente in combinazione con i tessuti di cotone, ma ciò non impediva, come faceva notare il viaggiatore francese, che si facesse ricorso anche ad altri tessili che offrivano più ampie varietà cromatiche, tra i quali una ricca scelta di sete di differenti qualità.42
La contaminazione tra la tradizione vestimentaria indiana e quella moghul rielaborata attraverso la politica dell’integrazione della cultura dell’abito inaugurata da Akbar sembrerebbe meno evidente nell’ambito del vestiario femminile. Partiamo ancora da Della Valle: “Le donne mahomettane (…) vanno esse ancora vestite tutte di bianco, o semplice o tessuto con oro a fioroni, del qual lavoro si trovano bellissime e sottilissime tele. La veste loro è corta, che par quasi più da huomo che da donna, e di forma anche a quella degli huomini molto si assomiglia (…). Le vesti   (…)


38 Cfr. Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., p. 95.
39 Thévenot, Troisième partie des voyages de M. De Thévenot, cit., pp. 105-106.
40 Thévenot, Troisième partie des voyages de M. De Thévenot, cit., p. 106.
41 Chaudhuri, Asia before Europe, cit., p. 186.
42 Cfr. Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., p. 45.


 

le hanno rosse bene spesso, delle medesime ricche e finissime tele, e le brache o bianche o rosse e spesso anco di varii drappi di seta tessuti a righe di ogni colore (…). Però le Indiane gentili comunemente non usano affatto altro colore che il rosso overo certe tele stampate con lavori di più colori (…) e per la maggior parte non usano vesti, ma portano solo una camicia strettissima e corta fin’alla cintura, le maniche della quale non passano più che a mezzo braccio (…). Dalla cintura in giù si avvolgono più volte intorno dentro un panno lungo, la larghezza del quale le cuopre infin’ai
piedi.”43    L’impressione  che  si  ricava  dalla  ricostruzione  del     letterato
romano è che l’abbigliamento femminile delle due componenti etniche mantenesse elementi di distinzione: corte vesti e pantaloni le donne musulmane, camicia alla vita e sari in versione ridotta - lungi - le donne indù. Di analogo tenore è il resoconto offerto da Thévenot: “Les femmes Mogoles qui se veulent distinguer des autres se vestent presque comme les hommes, cependant les manches de leurs chemises, non plus que celles des autres Indiennes, ne passent point le coude et c’est afin d’avoir comme elles la liberté d’orner le reste du bras de carcans et de brasselets d’or,
d’argent ou d’yvoire ou garnis de pierreries, ainsi qu’elles en mettent au bas de leurs jambes.”44 Per quanto concerne le donne indiane, il francese notava l’uso del sari nella sua forma più ampia, che copriva anche la parte superiore del corpo: “La chemise ordinaire des Indiennes idolâtres ne va que jusqu’à la ceinture (…) parce que de la ceinture en bas elles s’enveloppent dans un morceau de toile ou d’étoffe qui les cache jusqu’aux
pieds comme un cotillon, et cette toile est taillée d’une manière qu’elles en font venir une des extrêmitez sur la teste par derriere le dos. Elles n’ont point d’autre habillement, soit qu’elles demeurent à la maison, soit qu’elles


43 Della Valle, De’ viaggi di Pietro della Valle, cit., p. 35.
44 Thévenot, Troisième partie des voyages de M. De Thévenot, cit., p. 109.


 

aillent par la ville.”45 In realtà, le distinzioni dovevano essere meno manichee di quanto appare dalle descrizioni dei due europee, atteso che, pur essendo verosimile che molte donne indiane conservassero lo stile della tradizione, è altrettanto lecito immaginare che fossero tutt’altro che infrequenti i casi di adozione del gusto Moghul46, tanto più che la corte aveva ormai assunto la funzione di centro di irradiazione dello stile vestimentario.
L’importanza della corte per l’affermazione del modello d’abbigliamento implementato da Akbar fu duplice. Da un lato, il rituale cortigiano prescriveva che quanti erano ammessi alla cerchia del sovrano fossero abbigliati secondo i dettami dello stile Moghul47; dall’altro, il lusso vistoso e ostentato delle vesti indossate dal monarca e dai cortigiani divennero il modello di riferimento dell’eleganza48: se Akbar non aveva nulla da imparare da Carlo II Stuart per quanto riguarda la politica  dell’abito per la costruzione dell’identità, si può anche ritenere che fosse all’altezza del Re Sole per ciò che concerne la manipolazione dei canoni  del buon gusto! L’etichetta prevedeva, tra l’altro, che le circa duemila signore di alto rango che vivevano presso la corte si cambiassero d’abito ogni 24 ore 49; il che richiedeva adeguati e continui rifornimenti: laboratori reali nelle varie città dello stato erano chiamati a produrre tessuti di eccezionale bellezza ed originalità a beneficio della corte.50  Il successore di



45 Thévenot, Troisième partie des voyages de M. De Thévenot, cit., pp. 109-110.
46 Ghurye, Indian Costume, cit., pp.132-136; Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., pp. 38-43.
47 Goswamy, Indian Costumes, cit., p. 17.
48 C.A. Bayly, The origins of swadeshi (home industry): cloth and Indian society, in A. Appadurai editor, The social life of things. Commodities in cultural perspective, Cambridge, Cambridge University Press, 1986, pp. 297-301; Goswamy, Indian Costumes, cit., pp. 17-18; Chaudhuri, Asia before Europe, cit., p. 188.
49 Bayly, The origins of swadeshi, p. 299.
50 Cohn, Cloth, Clothes and Colonialism in India, cit., pp. 315-316.


 

Akbar, Jahangir (1605-1627), proseguì nel solco tracciato dal padre, introducendo un articolo di vestiario di origine curda - una sopraveste senza maniche da indossare sopra la caba o qaba menzionata da Thévenot - che denominò nadiri, il cui uso era riservato esclusivamente al sovrano e a quanti lo avrebbero ricevuto in dono da lui stesso.51 La ricca produzione artistica di quell’epoca offre stupendi riferimenti iconografici del lusso vestimentario messo in scena alla corte dei Moghul.52 Certo, l’ascesa dello stile cortigiano non portò alla scomparsa l’abbigliamento tradizionale53, ma è ai centri del potere, come Delhi, Agra e Lahore, sui quali gravitava la corte, che si deve guardare per cogliere i più interessanti fenomeni di innovazione e cambiamento del gusto.
Della Valle e Thévenot, i cui punti di osservazione erano importanti centri dell’India settentrionale, Surat e la cortigiana Agra, non mancarono  di sottolineare la ricerca di distinzione per mezzo dell’abbigliamento, con riferimento al turbante per quanto concerne la testimonianza del romano - “Quelli che vanno più galanti usano di portare il turbante solo rigato di seta di varii colori sopra’l bianco e anche con oro”54 -, mediante l’esemplificazione dei calzoni nel diario del francese:“Ceux qui se piquent d’estre richement vêtus portent des calçons d’étoffe de soye rayée des differentes couleurs.”55 La stessa letteratura indiana coeva propone testi che ridicolizzano gli eccessi di ricercatezza nell’abbigliamento: all’inizio del
Settecento, quando il cappello portato sulle ventitré divenne il copricapo alla moda in alternativa al turbante, fu coniato il termine kaj kulah, che


51 Goswamy, Indian Costumes, cit., p. 18.
52 Si vedano alcuni esempi nel catalogo della bella mostra tenutasi al Victoria and  Albert Museum di Londra: Jackson and Jaffer editors, Encounters, cit.
53 Ghurye, Indian Costume, cit., pp. 130-136; Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., p. 48.
54 Della Valle, De’ viaggi di Pietro della Valle, cit., p. 34.
55 Thévenot, Troisième partie des voyages de M. De Thévenot, cit., p. 104.


 

significa “colui che indossa il cappello obliquo”, con il quale si indicavano gli elegantoni.56 In effetti, tra XVII e XVIII secolo, il gusto vestimentario indiano - quello disceso dal riassetto di Akbar – fu trasformato da una crescente tendenza all’eccesso e alla stravaganza, che offre inattesi spunti  di somiglianza con l’esperienza europea: la competizione tra turbante e cappello era solo uno degli aspetti di tale evoluzione. L’epoca del regno di Aurangzeb (1657-1707) fu contraddistinta, ad esempio, dall’esagerazione nell’ampiezza degli indumenti: turbanti, jama e payjama divennero sempre
più ampi, lunghi, voluminosi. Tra Sei e Settecento si imposero colossali turbanti, spesso di colore verde, che non di rado inalberavano una rosa su uno dei lati. La veste - jama - molto più larga e lunga del modello originario, scendeva ben oltre il ginocchio, giungendo non di rado fino a coprire anche i piedi ed oltre, a tal punto da strascicarne i bordi per terra. Eccessi analoghi erano ravvisabili nei calzoni, che da indumento aderente alle gambe - payjama - si erano trasformati in larghi pantaloni a sbuffo.57 Negli ultimi decenni del secolo XVIII la tendenza si invertì e si affermò  un
deciso orientamento verso la riduzione delle dimensioni di vari capi del guardaroba. Il poeta Mir Taqi Mir, campione della moda “ampia“ a Delhi, giunto a Lucknow - città che aveva soppiantato i centri cortigiani  dell’epoca Moghul come punto di riferimento dello stile elegante  –  divenne lo zimbello della società locale a causa del suo abbigliamento superato.58 Il nuovo gusto si espresse innanzitutto nella foggia dei turbanti, la cui dimensione si contrasse a tal punto da renderli simili ai cappelli. Come  si  è  già  avuto  modo  di  accennare,  gli  stessi  cappelli conobbero
notevole  popolarità  come  alternativa  al  tradizionale  turbante, soprattutto


56 Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., p. 47.
57 Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., pp. 51-52; Goswamy, Indian Costumes, cit., pp. 18-20.
58 Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., p. 52.


 

nella elegante Lucknow. La rinnovata versione di jama - angarakha- era decisamente più contenuta e veniva indossata dagli eleganti di Lucknow - i bankas - sopra un indumento a vivaci colori, che si lasciava intravedere attraverso la fine mussola bianca con cui era confezionata la veste. Tale tendenza al ridimensionamento ebbe effetti anche sui pantaloni, per i quali non si tornò alle aderenze della prima epoca Moghul, ma furono emendati gli eccessi raggiunti tra Sei e Settecento. L’architettura vestimentaria del Settecento fu influenzata, oltre che dalla riduzione dei volumi, dall’aspirazione ad ostentare attitudini marziali che si esprimevano mediante un look guerriero costruito lasciando crescere la barba alla maniera    dei  Sikhs  e,  soprattutto,  indossando  corazze  e  portando  armi
ornamentali.59  Le varianti nelle tipologie dell’abbigliamento femminile  tra
XVII e XVIII secolo parrebbero discendere principalmente da fattori connessi alla localizzazione regionale, da un lato, e all’identità etnico- religiosa dall’altro.60 Peculiarità questa, che sarebbe andata diluendosi nel corso dell’Ottocento, quando emerse una netta tendenza verso  una maggiore armonizzazione delle tipologie vestimentarie, sia per quanto concerneva le distinzioni di genere, sia in relazione agli usi locali e alle credenze religiose,61 ma il secolo del dominio inglese avrebbe  portato anche - o, forse, soprattutto - all’avvio della diffusione di modelli di abbigliamento occidentali.62
I capi di vestiario presi in considerazione, sia sul versante maschile che su quello femminile, sono ben lungi dall’esaurire la molteplicità di soluzioni e combinazioni disponibili: sono stati trattati solo gli elementi più


59 Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., pp. 51-55; Goswamy, Indian Costumes, cit., pp. 18-20.
60 Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., pp. 59-71.
61 Goswamy, Indian Costumes, cit., p. 21.


 

esemplificativi al fine di una ricostruzione sintetica. La varietà di  condizioni climatiche, di tradizioni culturali e di convinzioni religiose del sub-continente indiano rende peraltro assai arduo dar conto del caleidoscopio, anche lessicale, vestimentario indiano, tuttavia l’impressione che si ricava da questa seppur sommaria disamina è che esistessero cicli di avvicendamento del gusto in materia di vestiario e che vi fosse matura consapevolezza di tali fenomeni: testimonianze sarebbero reperibili nella letteratura e nella cultura popolare.63 Pietro Della Valle, nella sua analisi della realtà dell’India, esprimeva stupore per il lusso ostentato dai ricchi indiani  in  materia  di  abbigliamento:  “Qualsivoglia  privato  ancora      di
qualunque paese e religione si sia può in queste parti trattarsi alla grande quanto gli piace e ci è libertà che ogni uno può far, se vuole e se ha potere, quanto faccia il re medesimo. Quindi è che tutti per ordinario vivon molto alla nobile e riesce il farlo sì perché il re, benché veda le genti con pompa e con apparenze di ricchezza, non per questo le perseguita con calunnie, né le tiranneggia pigliando da loro cosa alcuna, come si fa bene spesso in altri paesi di mahomettani.”64 Gli faceva eco Thévenot quando descriveva i sontuosi apparati che contraddistinguevano lo stile dei vita dei facoltosi mercanti “banians”.65 Tutto ciò si potrebbe configurare come una forma di consumo vistoso riservato ai ceti elevati: Kenneth Pomeranz sostiene infatti che era questa la dinamica in atto nella società indiana, la quale - a differenza di Cina e Giappone - non si sarebbe mai del tutto affrancata dai vincoli di carattere ascrittivo che regolavano i consumi vestimentari e sarebbe così rimasta impermeabile all’avvento della moda, anche perché  la


62 Ghurye, Indian Costume, cit., pp. 210-211; Bayly, The origins of swadeshi, pp. 304- 309; Cohn, Cloth, Clothes and Colonialism in India, cit., pp. 333-338.
63 Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., pp. 55-71; Goswamy, Indian Costumes, cit., p. 20.
64 Della Valle, De’ viaggi di Pietro della Valle, cit., p. 33.


 

distribuzione del reddito mantenne un forte polarizzazione, precludendo di fatto un più largo accesso al gioco delle apparenze.66 Tuttavia, lo stesso Pomeranz ammette che “oltre che dagli aristocratici, le città indiane fra il Quattro e il Settecento, erano popolate da un numero crescente di funzionari, piccoli e medi mercanti e appartenenti ad altre categorie sociali in grado di acquistare beni anche non di prima necessità.”67 Il che troverebbe riscontro con la passione per l’eleganza che, in particolare tra Settecento ed Ottocento, avrebbe contagiato a tal punto la società indiana che persino le persone dotate di limitate risorse economiche non rinunciavano ad una tenuta elegante da sfoggiare in pubblico, mentre nella vita quotidiana indossavano tutt’al più un semplice dhoti.  68  La permeabilità della società a forme di consumo allargate dipendeva anche dalle modalità di regolazione delle relazioni sociali69, o per dirla con Fred Hirsch, dalle scelte che guidavano l’offerta di “beni posizionali”70: la funzione che nella società occidentale era svolta dalle leggi suntuarie, in India era affidata al sistema delle caste.71 Gli effetti prodotti sull’abbigliamento da tale tipo di meccanismo regolativo si intersecavano e si sovrapponevano alle tradizioni locali, che erano molto forti e, lo si è ribadito più volte, potevano differire significativamente da regione a regione: così, ad esempio, ai raccoglitori di linfa di palma destinata alla



65 Thévenot, Troisième partie des voyages de M. De Thévenot, cit., pp. 104-110.
66 Pomeranz, La grande divergenza, cit., pp. 206-208, 224-226.
67 Pomeranz, La grande divergenza, cit., p. 226.
68 Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., pp. 55-56.
69 “Quindi anche se il sistema della moda e del consumo di beni di lusso in India  dovesse assomigliare agli sviluppi cinesi ed europeo-occidentali in misura maggiore di quanto io ritenga, il sistema delle relazioni sociali e l’organizzazione del lavoro facevano probabilmente sì che gli impulsi provenienti da essi interessassero una parte della popolazione molto più esigua.” (Pomeranz, La grande divergenza, cit., p. 226).
70 F. Hirsch, Social Limits to Growth, Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1976; trad. it I limiti sociali allo sviluppo, Milano. Bompiani, 2001, pp. 37-62.
71 Ghurye, Indian Costume, cit., p. 21.


 

produzione di bevande alcoliche del Malabar e della costa orientale non era consentito indossare scarpe e ornamenti d’oro, mentre, sempre in Malabar, agli appartenenti a tutte le caste, con la sola eccezione dei Bramini,  era  fatta formale proibizione di coprire il busto al di sopra della vita.72 Secondo lo studioso indiano S.N. Dar, tuttavia, a determinare le scelte dei consumatori in fatto di abbigliamento la condizione economico-sociale avrebbe contribuito in misura non inferiore all’appartenenza di casta.73 Anche Kirti Chaudhuri ha offerto una visione del sistema delle caste più malleabile e flessibile di quanto si possa, di primo acchito, immaginare: fenomeni di arricchimento o, all’opposto, di deterioramento delle condizioni di vita produssero forti pressioni al cambiamento economico- sociale che non di rado trovarono soluzione. 74

Allo stato attuale delle conoscenze è difficile riuscire a determinare se e in quale misura gli avvicendamenti nello stile dell’abbigliamento - che è indubbio vi fossero – assunsero un ritmo accelerato e riuscirono a penetrare diffusamente attraverso i ceti  - ma fino a che punto è corretto parlare di  ceti con riferimento alla realtà indiana?- , diventando, per chi sapeva mostrarsi trendy, un mezzo di accreditamento per la mobilità sociale: di conseguenza appare assai arduo valutare se si fosse effettivamente verificato il passaggio da un sistema vincolato da criteri di natura ascrittivi ad uno regolato dalla moda come istituzione, anche se parrebbe sensato non escludere tale eventualità. E’ plausibile ritenere che la consapevolezza   del


72 G.S. Ghurye, Features of the Caste System, in D. Gupta editor, Social stratification, Delhi, Oxford University Press, 1991, pp. 35-48.
73 Dar, Costumes of India and Pakistan, cit., pp. 58-59.
74 Chaudhuri, Asia before Europe, cit., pp. 55-56. Spunti sulle condizioni di vita nel secolo XVI si trovano nella discussione tra V.A. Desai, Population and standards of living in Akbar’s time, in “The Indian Economic and Social History Review”, 1972, vol. 9, pp. 43-62 e S. Moosvi, Production, consumption and population in Akbar’s time, in “The Indian Economic and Social History Review”, 1973, vol. 9, pp. 181- 195.


 

valore comunicativo dell’apparire avesse fatto maturare una “cultura dell’abito”, ma, forse, non ancora la “cultura della moda”. Se si potesse azzardare un accostamento comparativo, la situazione indiana potrebbe in qualche misura ricordare - unicamente con riferimento al sistema vestimentario - l’esperienza francese dell’epoca del Re Sole: un’epoca dominata dalla corte come centro di elaborazione del gusto, durante la  quale eleganza e lusso rappresentavano ancora un’endiadi, le cui opportunità erano alla portata di strati sociali piuttosto definiti, come, ad esempio, l’aristocrazia e gli arricchiti à la monsieur Jourdain, il borghese gentiluomo di Molière.

 

Il protocollo dell’abbigliamento: le gerarchie dell’apparenza cinesi

 

La rappresentazione occidentale dei modelli vestimentari orientali attraverso le descrizioni dei viaggiatori offre un interessante punto di partenza anche per provare a comprendere la funzione svolta dall’abbigliamento nella società cinese. Tra i primi resoconti in materia troviamo i testi prodotti dai gesuiti75. Il padre portoghese Alvaro Semedo, che visse in Cina per oltre vent’anni nel primo terzo del secolo XVII, dedicava particolare attenzione al vestiario cinese nella sua Historica relazione del gran regno della Cina. 76 Secondo la ricostruzione di padre Semedo il sistema vestimentario cinese si sarebbe formato attorno al quarto secolo dell’era cristiana e da quell’epoca nulla sarebbe più mutato: “Li materiali  de’  quali  lavorano  varie  tele  per  servitio  delle  loro   persone,



75 Adshead, Material Culture, cit., pp. 73-74.
76 A. Semedo, Historica relazione del gran regno della Cina …, Roma,  Vitale  Mascardi, 1653 (prima edizione 1643).


 

vestiti, letti et altri addobbi di casa sono lane, canape (...), seta e bambagia, il tutto in somma abbondanza. Dugento anni prima della nostra Redentione usavano vestiti di maniche corte, come hoggi dì usano i giapponesi, che da quelli hanno la loro origine e conservano quell’abito. Perseverò qui questo modo di vestire insino al Regno di Hoan77 et al tempo di questo re, il quale fu fra loro molto celebre, fu gli anni quattrocento, si alterò l’habito tanto  nel popolo, quanto negli officiali nel modo che hoggi si vede. E’ l’istesso  in tutto il regno, quantunque conti di tante e sì grandi provincie, né si può
alterare (come né meno li costumi fra essi più notabili) senza ordine particolare del re.”78 Al tempo in cui il gesuita portoghese scriveva l’abito dei cinesi avrebbe ormai assunto il carattere di una tradizione più che millenaria, non soltanto impermeabile ai mutamenti, ma anche uniformemente diffusa nei vasti territori dell’impero: valutazione che, pur essendo connotata positivamente dal religioso, al cui giudizio risultavano assai disdicevoli la vacuità e l’incostanza sottese alla passione europea per  il cambiamento79, tuttavia non poteva che apportare un contributo, anche se non necessariamente il primo o il più influente, alla costruzione della visione occidentale delle società orientali - nello caso specifico di quella cinese - come mondi dalla cultura vestimentaria fossilizzata.
Padre Semedo passava poi a descrivere i tratti salienti dell’abbigliamento cinese, ribadendone la longevità e sottolineandone i criteri  ascrittivi  che  lo  regolavano:  “Sono  questi  vestiti  conservati   per

77 Sarebbe naturale accostare la riforma dell’abito alla dinastia Han (206 a.C.-220) (J. Vollmer, In the Presence of the Dragon Throne, Toronto, Royal Ontario Museum, 1977, p. 21), il che contrasta, però, con l’indicazione cronologica, seguendo la quale il riferimento potrebbe essere al regno Han, uno dei sedici stati esistenti durante l’epoca Jin (285-420).
78 Semedo, Historica relazione del gran regno della Cina, cit., p. 90.
79 “Questo è l’habito di un regno così mapio come quai tutt’Europa, la quale in qualsivoglia distretto delle sue provincie a pena se ne mantiene uno con un poco di stabilità” (Semedo, Historica relazione del gran regno della Cina, cit., p. 94).


 

tant’anni nell’istessa forma, lunghi dal collo sino ai piedi, aperti davanti d’alto a basso. E questi vestiti sono per il di dentro, essendo più aggiustati al corpo; per di fuori usano veste più larga e di più ampio giro. Le estremità d’havanti, perché non hanno bottoni, si soprapongono l’una all’altra nel modo che fra noi si fa alle vesti clericali. Le maniche sono ben larghe et il tutto senza guarnimento alcuno. Serve per collare un pezzo di taffettano bianco di lunghezza d’una mano: subito che s’imbratta, lo levano e ne mettono un altro nuovo. Questo solamente s’intende delli letterati e della
gente pulita e non del popolo, che non le può portare”.80  Le distinzioni di
ceto si riflettevano nei materiali impiegati per la confezione dei vari articoli di vestiario: “Le scarpe non conoscono altra materia che seta d’ogni sorte e colore per li ricchi e per li poveri bambagia. Nella forma sono differenti dalle nostre e nell’opera di spesa, havendo molti lavoretti fatti ad aco. Le pelli s’usano solamente negli stivali, che raramente si veggono. Le calzette nella gente principali e nelli più facoltosi del popolo sono di damasco o  raso o di qualsivoglia altra seta bianca e per gli altri di bambage ancor bianca.”81 Le differenze tra l’abbigliamento maschile e quello femminile non erano particolarmente rilevanti agli occhi di Semedo, fatta eccezione, ovviamente, per l’usanza di fasciare i piedi delle bambine, sulla quale   non
mancava di esprimere commenti pertinenti: “Le donne vestono decentemente quell’istesse toniche, per così chiamarle, serrate sino alla gola, per la maggior parte di seta. (…). Tutto il resto del vestito di sotto è l’istesso negli huomini e nelle donne, solamente le scarpe son sì picciole che ragionevolmente si dubita se piedi così piccioli siano di corpo humano già cresciuto. Procede questo perché dalli primi giorni della loro fanciullezza se li fasciano strettamente perché non crescano e non, come


80 Semedo, Historica relazione del gran regno della Cina, cit., pp. 91-92.
81 Semedo, Historica relazione del gran regno della Cina, cit., pp. 93-94.


 

qui si dice, perché non crescano e sebene è comun parere che sia parte della bellezza aver piccolo il piede, li cinesi però più intendenti tengono quella piacevolezza provenire da gran balordaggine.”82
Padre Semedo era un attento osservatore: lo attestano i moderni studi sulla storia dell’abbigliamento cinese, nei quali si trova conferma di gran parte delle descrizioni proposte dal gesuita portoghese. Lo testimonia la stessa notazione sulla riforma vestimentaria introdotta in epoca Han, che si riferisce alla codificazione delle forme della sopraveste p’ao – una sorta di kimono con ampie maniche - indossata in occasioni formali, considerata come l’archetipo dell’abito cinese e, in quanto tale, riproposto dalle  dinastie di etnia cinese ogniqualvolta si trattava di restaurare le forme della cultura tradizionale in opposizione alle dominazioni straniere: cosa che avvenne, ad esempio, proprio nel periodo in cui padre Semedo visse in Cina, ossia in epoca Ming, dinastia che era succeduta a quella mongola
Yuan (1278-1368)83. Se il gesuita può risultare affidabile come cronista dei
costumi del tempo in cui visse in Cina, disponeva anche delle conoscenze necessarie per interpretarne l’evoluzione di più lungo periodo? In altre parole, i resoconti di padre Semedo possono senz’altro essere considerati degni di fede per quanto concerne ciò che constatò direttamente durante il suo soggiorno in Oriente, ma il giudizio sulla immutabilità dell’architettura vestimentaria cinese va sottoposto ad un più attento vaglio.
Nella Cina tradizionale lo stile di vita delle persone era funzione della condizione sociale: l’abbigliamento apparteneva a tale contesto ed il suo utilizzo era regolato di conseguenza84. Secondo John Vollmer l’istituzione di    una    tassonomia    vestimentaria    associata    all’ordinamento sociale


82 Semedo, Historica relazione del gran regno della Cina, cit., pp. 94-95.
83 Vollmer, In the Presence of the Dragon Throne, cit., pp. 20-21.
84  V. Steele and J.S. Major, China Chic. East meets West, New Haven and London,  Yale University Press, 1999, pp.15-19.


 

risalirebbe alla dinastia Zhou (1028-256 a.C.). Tale visione si consolidò definitivamente in epoca Han, quando la filosofia confuciana divenne il fondamento ideologico del potere imperiale: materiali, forme e colori degli abiti dei sudditi dell’imperatore non potevano essere oggetto della libera scelta degli individui, ma, poiché rappresentavano status, rango e autorità morale di chi li indossava, essi dovevano essere determinati dallo stato85. Un testo delle origini dell’età imperiale sentenziava – con toni del tutto simili a quelli rilevati nei documenti e nella trattatistica dell’Europa nella prima epoca moderna: “Guardando all’abito di un uomo si può vedere se egli sia nobile o umile, e guardando alla bandiera di un uomo il suo potere può essere accertato.”86 Tessuti e colori, variamente combinati, componevano la mappa della gerarchia sociale cinese. In generale, le stoffe più preziose erano riservate alle élites, ma l’avvicendarsi delle dinastie comportò l’introduzione di variazioni. Durante l’epoca degli imperatori Tang (618-907) gli ufficiali e i funzionari di alto rango avevano diritto ad
indossare abiti confezionati con i tessuti di seta più raffinati per distinguersi dal popolo, al quale erano riservate seta di scarsa qualità e canapa, mentre  in età Sung (969-1279) alla gente comune era consentito l’uso della sola canapa. Con l’avvento della dinastia Ming (1368-1644) ai ceti elevati fu concesso il privilegio esclusivo dei tessuti di broccato e dei ricami dorati, mentre il popolo poteva servirsi di sete ordinarie, di garze e di cotoni87. Cambiamenti più rilevanti si ebbero nell’ambito della connotazione sociale dei colori. Con le dinastie Sui (589-618), Tang e Sung porpora, scarlatto, verde e blu erano i colori per gli ufficiali e i funzionari di rango   superiore,


85 J. Vollmer, Chinese Costume and Accessories 17th-20th Century, Paris, AEDTA, 1999, p. 4.
86 T’ung-Tsu Chu, Law and Society in Traditional China, Paris-La Haye, Mouton &  Co., 1961, p. 135.
87 T’ung-Tsu Chu, Law and Society, cit., pp. 138-139.


 

mentre a quelli di livello inferiore ed al popolo erano destinati il bianco e il giallo. Con l’avvento dei Ming il rosso fu adottato come colore imperiale e ai ceti sociali inferiori furono consentite limitate soluzioni di colore per il loro abbigliamento. L’ultima dinastia imperiale, quella dei Qing, restaurò l’antica tradizione del giallo come colore esclusivo dell’imperatore e della sua famiglia, rievocando la leggendaria figura dell’Imperatore Giallo, mitico fondatore della civiltà cinese.88 Queste prime, sommarie indicazioni già bastano a sgomberare il campo dalla tesi della millenaria immutabilità del vestiario cinese, almeno per quanto riguarda stoffe e colori89: il che, tuttavia, non dimostra l’esistenza di cicli di moda; anzi, proprio il fatto che  i mutamenti introdotti nel sistema vestimentario coincidessero con l’avvicendamento delle dinastie sembrerebbe condurre in direzione opposta, ossia a delineare un assetto in cui i cambiamenti erano molto  lenti
– non millenari, ma perlomeno plurisecolari – e regolati da principi di natura ascrittivi. Vale perciò la pena di intraprendere un’analisi più approfondita, focalizzando l’attenzione sulla dinamica in atto all’epoca delle ultime due dinastie imperiali cinesi, Ming (1368-1644) e Qing (1644- 1911), per le quali sono disponibili  studi recenti.
L’epoca Ming ebbe inizio con la conclusione della vittoriosa guerra condotta dal generale Zhu Yuanzhang, che pose fine al dominio della dinastia mongola Yuan e restaurò la leadership imperiale cinese,  assumendo egli stesso il titolo di imperatore con il nome di Hongwu e dando così origine alla nuova dinastia. Una delle priorità del nuovo ordine fu quella di ripristinare le usanze e costumi della più autentica tradizione cinese corrotta da un secolo di dominazione mongola: l’abito rientrava a



88 T’ung-Tsu Chu, Law and Society, cit., p. 137; Vollmer, Chinese Costume, p.6.
89 Ma il discorso può essere esteso anche al taglio, cfr. Steele and Major, China Chic, cit., pp. 24-29.


 

pieno titolo tra le istituzioni dell’identità cinese. Provvedimenti successivi restaurarono l’ordinamento vestimentario, ispirandosi ai modelli delle epoche più genuinamente cinesi delle dinastie Han, Tang e Song, fino agli statuti promulgati nel 1587 dall’imperatore Wanli, che sistematizzavano la materia.90 Tali norme definivano le regole per l’abbigliamento dell’imperatore e della sua famiglia, nonché per il vestiario della burocrazia civile e militare e della nobiltà. Il guardaroba dell’imperatore era articolato in  cinque  categorie,  per  ognuna  delle  quali  era  previsto  un       preciso
protocollo di utilizzo. L’abito cerimoniale era indossato in occasione delle celebrazioni dei riti sacrificali ed era composto da un cappello di seta nera dalla superficie piatta, una giacca pure di seta nera dalle maniche ampie, i cui bordi erano riccamente decorati, e da una sottana gialla, dalla quale pendeva una striscia di garza di seta gialla ricamata con i simboli del potere imperiale. Per particolari udienze imperiali, quando il sovrano faceva proclami o riceveva ambasciate o tributi da popoli stranieri era prescritto l’abito militare di pelle, cosiddetto perché in origine il copricapo era confezionato con la pelle della renna bianca, era anch’esso articolato in ampia veste, gonna a pieghe e striscia che pendeva da essa. L’abito militare normale, richiesto per le spedizioni e le campagne militari, era di garza di seta rossa e si accompagnava ad elmo e calzature pure rosse. L’abito formale, che contraddistingueva appunto gli eventi formali che si tenevano a corte, era una veste di seta di colore scuro ricamata, sotto la quale si portavano altri indumenti: nel complesso la tenuta formale comprendeva 12 pezzi. Infine, l’abito ordinario, che era adatto per qualsiasi occasione di carattere informale: si trattava di un copricapo di garza di seta nera, sulla cui parte posteriore spuntavano due ali, e di una veste gialla a collo tondo


90 V. Garrett, Chinese Clothing, Oxford and New York, Oxford University Press, 1994, p.3; Steele and Major, China Chic, cit., p.28.


 

con ampie maniche strette ai polsi, decorata con quattro medaglioni - sul petto, sulla schiena e sulle spalle – sui quali erano ricamati o tessuti dragoni dorati.91 Il dragone non era un simbolo proprio della dinastia Ming: esso fu introdotto probabilmente durante l’epoca Yuan e, nonostante si trattasse di un retaggio dell’invisa etnia mongola, si affermò in maniera irreversibile nella simbologia del potere Ming fino a diventarne uno degli elementi caratteristici. La voluminosa veste dell’abito ordinario imperiale, nota  come la veste del dragone, venne infatti adottata dai sovrani Ming, che, a
seconda dei periodi, inalberavano da quattro sino a dodici medaglioni che raffiguravano il mitico animale. Inoltre, la veste del dragone costituì il modello di riferimento per la definizione dell’abito di nobili e ufficiali.92
Ciò che distingueva la veste del dragone dei membri della famiglia imperiale da quella dell’élite dell’impero erano le fattezze del dragone: i primi erano riconoscibili dal dragone a cinque artigli - long -, privilegio che poteva anche essere accordato dall’imperatore stesso a quanti egli considerasse degni di tale alto onore, mentre nobili e cortigiani erano identificati dal dragone a quattro artigli - mang -93. Nella sua forma più tipica, la veste del dragone aveva il collo rotondo, si allacciava a destra e copriva tutto il corpo scendendo fino a terra; il colore del tessuto con cui essa era confezionata poteva variare a seconda delle epoche e della condizione di chi la indossava.
Nell’esercizio delle loro attività istituzionali ordinarie, i rappresentanti della burocrazia imperiale civile e militare indossavano una sorta di lunga e ampia toga di broccato o damasco – pao –, che rievocava il costume della tradizione  cinese:  veniva  allacciata  sul  fianco,  aveva  collo  tondo,      le

 

91 Garrett, Chinese Clothing, cit., pp. 3-7.
92 Garrett, Chinese Clothing, cit., pp. 7-8; Steele and Major, China Chic, cit., p.28.
93 Garrett, Chinese Clothing, cit., pp. 9-10.


 

maniche erano sovradimensionate sia in lunghezza che in larghezza per coprire anche le mani. La lunghezza della toga e l’ampiezza della maniche erano direttamente proporzionali al rango del funzionario che la vestiva; anche il colore poteva indicare la condizione del burocrate: quelli di rango più elevato indossavano vesti rosse, quelli di livello intermedio le avevano blu e quelli inferiori verdi.94 A partire dalla fine del XIV secolo fu  introdotta una nuova tassonomia per distinguere il grado dei mandarini: l’emblema di rango – pu zi – Si trattava di una pezza quadrata di tessuto – generalmente seta - ricamata con l’animale identificativo del grado che andava applicata sul petto e sulla schiena del pao. Ai nove gradi della
burocrazia civile e della gerarchia militare vennero assegnati altrettanti simboli: così, ad esempio, i mandarini erano contrassegnati da uccelli – dalla gru del primo grado alla quaglia del nono -, mentre i militari erano riconoscibili da animali più combattivi - dal leone al rinoceronte95 -.96  Come indumento informale era un uso una veste meno ampia - bei zi - , aperta sul davanti, decorata con motivi consoni al rango, che si stringeva con legacci annodati al petto97.
Analoga severa regolamentazione definiva i caratteri dell’abbigliamento femminile. Anche il guardaroba dell’imperatrice era articolato in capi cerimoniali, formali e semi-formali. La veste cerimoniale dell’imperatrice  –  xia  pei  –     era  in  uso  a  corte  sin  dal  V  secolo     e



94 Garrett, Chinese Clothing, cit., pp. 10-12.
95 Il nono grado era però rappresentato dall’ippocampo. Secondo una importante uomo di stato dell’epoca Ming, Chiu Hsun, gli uccelli simboleggiavano  l’eleganza  letteraria che era richiesta per accedere alla carriera di mandarino, mentre gli animali evocavano il coraggio come virtù cardinale del guerriero (S. Cammann, The Development of the Mandarin Square, in “Harvard Journal of Asiatic Studies”, vol.  8, 1944, p. 76).
96Cammann, The Development of the Mandarin Square, cit., pp. 71-79; Garrett, Chinese Clothing, cit., pp. 14-17; Steele and Major, China Chic, cit., pp. 28-29.
97 Garrett, Chinese Clothing, cit., p. 12.


 

sopravvisse fino all’epoca Ming. Essa contraddistinta da maniche lunghissime che arrivavano quasi a terra e da una lunga gonna, oltrechè da ricche decorazioni e sontuosi accessori adeguati allo status. Per le occasioni formali e semi-formali la xia pei si accompagnava ad una veste decorata con simboli del potere imperiale. Le mogli di nobili e alti funzionari dell’impero indossavano vesti con ampie maniche o bluse accoppiate a gonne. L’abbigliamento informale contemplava lunghe e aderenti giacche aperte davanti – una tipologia di bei zi – sopra ancor più lunghe gonne, il cui bordo venivano trascinato per terra. Naturalmente anche le donne erano tenute ad esporre gli emblemi di rango sul vestiario che indossavano: il simbolo dell’imperatrice e delle nobildonne più ragguardevoli era la fenice, mentre le signore della nobiltà inferiore dovevano accontentarsi del fagiano e le mogli dei mandarini avevano diritto allo stesso uccello o animale che
era ricamato sui vestiti del marito. 98
La gran massa del popolo minuto non aveva accesso – sia per le condizioni economiche, che per i vincoli sociali – ai tessuti preziosi e alle vesti lussuose, né, ovviamente, poteva fregiarsi dei costosi ed esclusivi simboli di rango. La gente comune indossava semplici abiti confezionati contessuti di canapa o, sempre più spesso in epoca Ming, di cotone. I cinque colori ufficiali – giallo, rosso, nero, blu e bianco – erano riservati ai ceti elevati, per cui il vestiario popolare esprimeva una varietà cromatica assai ridotta di tonalità sfumate, le cui decorazioni si limitavano a disegni stampati. 99
Nell’attuazione del programma di recupero e ripristino dell’identità cinese, che attingeva alle antiche istituzioni della tradizione Han, Tang e Sung, gli imperatori del periodo Ming avevano attribuito un ruolo di  primo


98 Garrett, Chinese Clothing, cit., pp. 19-25.
99 Garrett, Chinese Clothing, cit., p. 12.


 

piano al sistema vestimentario, trattato come uno degli elementi fondamentali della rappresentazione del potere imperiale: i colori, lo sfarzo, l’ampiezza e la simbologia delle vesti erano considerati potenti mezzi di comunicazione dell’ordinamento culturale e politico-sociale dell’impero.  La storia dell’ultima dinastia di etnia cinese – han – si concluse nel 1644 e l’avvento degli imperatori Quing, originari della Manciuria, portò con sé una cultura diversa, foriera di non trascurabili cambiamenti all’architettura vestimentaria del celeste impero.100 Gli imperatori Quing erano tutt’altro che estranei alla cultura cinese, tuttavia, volendo salvaguardare la propria identità, e, al tempo stesso, ricompattare l’unità dell’impero, non   esitarono
ad imporre ai cinesi il loro usi e costumi: l’aspetto più noto è forse l’obbligo del codino, ma anche il vestiario dovette essere adeguato. In particolare, nobili e mandarini dovettero adottare l’abbigliamento della nuova dinastia imperiale venuta dal nord quando si presentavano a corte o svolgevano funzioni istituzionali, mentre in privato era consentito indossare gli abiti della tradizione han.101
Il gruppo etnico che assunse il potere in Cina dal 1644 al 1912 proveniva dai territori oltre i confini settentrionali dell’impero, dove viveva praticando le attività tipiche delle popolazioni nomadi delle steppe eurasiatiche: si trattava infatti di tribù di guerrieri a cavallo dedite alla caccia e alla guerra, che avevano adottato uno stile di vita consono a tali occupazioni. L’abbigliamento era ovviamente modellato per soddisfare le esigenze di chi trascorreva gran parte della giornata in sella al cavallo in balia degli elementi. L’abito indossato dai manciù era lungo – ma non quanto quello dei cinesi - stretto in vita con una cintura e fatto aderire al


100 Cammann, The Development of the Mandarin Square, cit., pp. 79-80.
101 Cammann, The Development of the Mandarin Square, cit., pp.80-81; Garrett, Chinese Clothing, cit., pp. 29-30; Vollmer, Chinese Costume, cit., p.6; Steele and Major, China Chic, cit., p. 29.


 

busto con alamari e occhielli per proteggere il corpo dal freddo senza impacciare i movimenti: il lembo sinistro della veste, che si chiudeva sovrapponendosi a destra all’altezza del collo, era di taglio curvo, retaggio dell’epoca in cui i cavalieri della steppa confezionavano i propri capi d’abbigliamento con la pelle degli animali e non con le pezze rettangolari uscite dal telaio. Maniche lunghe e strette e polsini svasati ripiegabili riparavano braccia e mani dal vento. La parte inferiore dell’abito era aperta sia davanti che dietro per agevolare i movimenti del cavaliere in sella. A protezione dai rigori del clima invernale sopra tale veste veniva indossata
una giacca aperta sul davanti con maniche al gomito o anche senza maniche.102
Elementi della cultura tradizionale delle tribù della Manciuria entrarono quindi a far parte dell’ordinamento vestimentario introdotto dai Quing – per esempio, il taglio curvo del lembo della veste, le maniche aderenti, i polsini svasati - anche se, d’altro canto, gli stessi manciù erano entrati in contatto con il gusto cinese ed erano stati contaminati esso, come è testimoniato dal fatto che adottarono prontamente il modello della veste del dragone, che avevano imparato a conoscere ricevendola come donativo dagli imperatori Ming. Si può quindi ritenere che le due culture vestimentarie si fossero reciprocamente influenzate, anche se la soluzione  di continuità introdotta dagli imperatori Quing è chiaramente percepibile nella decisa semplificazione dell’abbigliamento ufficiale, per lo meno nei volumi, che nella tarda epoca Ming erano divenuti effettivamente  cospicui.



102 Cammann, The Development of the Mandarin Square, cit., p.80; Vollmer, In the Presence of the Dragon Throne, cit., p. 22; Vollmer, Chinese Costume, cit., p.6; Steele and Major, China Chic, cit., p. 29.
103 Steele and Major, China Chic, cit., p. 29.


 

Rifacendosi alla pratica istituzionale del periodo Ming, interventi normativi successivi, 1644 e 1759, dettarono regole dettagliate per l’abbigliamento dell’imperatore e della sua famiglia, dei nobili e dei mandarini. La nuova classificazione definiva le tenute per le occasioni ufficiali e quelle non ufficiali, le quali, a loro volta, si articolavano a seconda del livello di formalità. Le norme stabilivano inoltre la nuova gerarchia dei colori: l’imperatore poteva fare sfoggio di qualsiasi colore,  ma il giallo divenne il colore del potere imperiale e quindi riservato a solo al monarca, tonalità diverse di giallo identificavano membri della   famiglia
del sovrano, mentre ai nobili competevano il blu e il marrone e ai  mandarini il blu e il nero. 104 L’abito di corte - chao fu – era riservato all’èlite di corte ed era composto, oltre che da una serie di accessori,  da  una veste – chao pao -, la cui parte superiore era una corta giacchetta allacciata sul fianco, alla quale si attaccava una coppia di grembiuli pieghettati che formavano una sottana. La foggia del chao pao incorporava tratti caratteristici della cultura vestimentaria manciù, come il taglio ricurvo del lembo che si allacciava al collo, le maniche strette, i polsini svasati   per
coprire le mani. Per occasioni meno formali era adatta la veste del  dragone

  1. ji fu – rimodellata secondo gli stilemi manciù: si trattava sempre di una lunga tunica con lembo di allacciatura di taglio ricurvo decorata con dragoni. La simbologia era rimasta la stessa dell’epoca Ming: nove dragoni a cinque artigli – long – per la famiglia imperiale e dragoni a quattro  artigli
  2. mang –, da nove a cinque a seconda del rango, per gli altri principi e per i nobili. 105 L’abbigliamento ufficiale femminile era soggetto alle stesse regole    di    quello    maschile:    le    norme    imperiali    dettagliavano  le



104 Garrett, Chinese Clothing, cit., p. 30.
105 Vollmer, In the Presence of the Dragon Throne, cit., pp. 30-45; Garrett, Chinese Clothing, cit., pp. 31-46.


 

caratteristiche dell’abito di corte, nelle sue varianti stagionali, così come  del chao gua, una sorta di soprabito senza maniche indossato sopra il chao pao. In occasioni meno formali anche le cortigiane indossavano la veste del dragone, di foggia molto vicina a quella maschile, con le stesse prescrizioni in materia di tipologia e numero dei dragoni.106
Gli imperatori della dinastia Quing mantennero l’ordinamento amministrativo esistente imperniato sui due ordini di funzionari: i burocrati civili e i comandanti militari, la cui gerarchia, come si ricorderà, era articolata in nove gradi. Il vestiario dei pubblici ufficiali imperiali era modellato secondo lo schema messo a punto per la famiglia imperiale e i nobili, al quale si aggiungevano le specifiche regole relative agli emblemi  di grado, che non avevano subito radicali modificazioni rispetto alla codificazione del periodo Ming: vari tipi di uccello identificavano il rango dei funzionari civili, mentre gli animali distinguevano i diversi livelli della carriera militare. L’abito formale ufficiale dei mandarini era il chao pao blu scuro, che gli esponenti dei gradi più alti della gerarchia potevano ostentare con decorazioni raffiguranti dragoni a quattro artigli - mang -. Per situazioni meno formali si ricorreva alla veste del dragone - ji fu - , sulla quale si indossava un ampio soprabito - pu fu - recante gli emblemi del rango. L’indumento per le occasioni informali o abito ordinario – chang  fu

  1. consisteva in una lunga tunica di seta - nei tao – che conservava evidenti segni della sua origine manciù: era di foggia molto simile alla veste del dragone - quindi aveva il lembo dell’allacciatura curvo, le maniche strette e i polsini svasati -, ma era anche aperta al centro, davanti e dietro, e sui fianchi per permettere di cavalcare agevolmente. 107


106 Garrett, Chinese Clothing, cit., pp. 47-61.
107   Cammann,  The  Development  of  the  Mandarin  Square,  cit., pp. 79-90;    Garrett,
Chinese Clothing, cit., pp. 62-75.


 

La minuziosa regolamentazione emanata dagli imperatori Quing si applicava al vestiario che la nobiltà e i funzionari civili e militari indossavano a corte e nell’esercizio delle funzioni di pubblici ufficiali. La gente comune non era soggetta al severo protocollo vestimentario imperiale
- fatta salva, ovviamente, l’osservanza del divieto di vestire abiti di colori, tessuti e fogge non confacenti alla propria condizione sociale - e i cinesi, i sudditi dei etnia han, potevano indossare i capi d’abbigliamento ispirati alla loro tradizione - facoltà concessa anche agli stessi mandarini nell’ambito della sfera domestica -, anche se l’influenza dello stile manciù aveva contaminato il taglio dei capi più informali. I cinesi non impegnati in mestieri manuali adottavano una tunica con maniche lunghe fino a coprire, che arrivava all’altezza delle caviglie ed era allacciata con alamari e occhielli - chang shan -, sopra la quale portavano una giacca con o senza maniche - ma gua -: il tessuto impiegato per la confezione di questi articoli poteva essere la seta o il cotone a seconda della condizione di chi li vestiva. Il popolo minuto, artigiani, contadini, servi e lavoranti in genere - coolies -, necessitavano però di un abbigliamento più pratico: l’insieme, confezionato con tela blu di cotone, era costituito da una corta tunica che scendeva sotto la vita - shan ku - e da morbidi pantaloni. Le donne cinesi indossavano un’ampia sopraveste con maniche larghe allacciata sul lato destro – ao
combinata con gonna - gun – o, per coloro che non erano sposate, larghi pantaloni - ku -.108
La ricostruzione sin qui proposta restituisce l’immagine di un sistema vestimentario cinese costruito da una serie di regole minuziose che disegnavano con grande precisione l’architettura delle apparenze modellandola in base alle esigenze protocollari di rappresentazione dei ranghi  in  cui  si  articolava  la  piramide  sociale  dell’impero.  I meticolosi


108 Garrett, Chinese Clothing, cit. pp. 76-94; Steele and Major, China Chic, cit., p.31.


 

regolamenti che dettavano le norme da seguire per quanto concerneva il vestiario ufficiale dell’élite erano lo strumento attraverso cui gli imperatori miravano a fissare le corrispondenze tra condizione sociale e apparenza vestimentaria; la legislazione imperiale annoverava anche provvedimenti volti a disciplinare i consumi della popolazione in generale, paragonabili alle leggi suntuarie europee, ma si trattò di interventi di portata limitata, dato che la politica della distinzione sociale si compendiava in gran parte nella disciplina di “segni” incorporati nell’abbigliamento ufficiale:  la qualità e il colore del tessuto, il numero dei dragoni a quattro o cinque artigli, le gerarchie degli uccelli e degli animali. 109
Viene naturale chiedersi fino a che punto tale puntigliosa costruzione normativa vincolasse i comportamenti effettivi: si può immaginare che, trattandosi appunto di prescrizioni per le occasioni ufficiali, vi fossero forme di controllo che in qualche misura ne assicuravano l’osservanza, ma è altrettanto plausibile ritenere che, al variare delle congiunture politiche e sociali, non mancassero le violazioni alle regole. Così, ad esempio, sono tutt’altro che infrequenti le testimonianze a proposito degli abusi commessi nell’uso degli emblemi di grado. Un rapporto sottoposto all’imperatore nel 1488 denunciava: “Negli ultimi cento anni [mandarini] civili e militari osservarono le antiche leggi e se gli emblemi di rango non erano stati conferiti loro, essi non osavano usurparli. Ma [ora] gli ufficiali militari in gran parte non si conformano alle vecchie leggi e adottano le vesti di duchi,
marchesi e conti, oltre a quelle del primo grado.”110  Il rapporto non  suscitò
reazioni immediate, ma nel 1527 furono reiterati gli ordini che imponevano



109 C. Clunas, Superfluous Things. Material Culture and Social Status in Early Modern China, Cambridge, Polity Press, 1991, pp. 147-115.
110 Cit. in Cammann, The Development of the Mandarin Square, cit., p. 78. Mia traduzione dalla versione inglese.


 

ai mandarini di indossare gli emblemi confacenti al loro rango.111 In epoca Quing le infrazioni dovettero farsi più diffuse e frequenti, dato che i provvedimenti coi quali si ribadiva la proibizione di decorare l’abito con insegne non pertinenti al grado divennero più numerosi. Per porre rimedio  a tale situazione, oltrechè per riordinare e aggiornare la materia, nel 1748 l’imperatore Qianlong ordinò una revisione dei regolamenti che  produsse un editto col quale si riorganizzava e, al tempo stesso, si rafforzava l’ordinamento vestimentario ufficiale112. L’abuso degli emblemi di rango continuò però ad essere difficile da arginare, specialmente nel tardo Settecento, quando fu introdotta la pratica della vendita delle cariche.113
In epoca Ming, alle denunce dei disordini che minavano la compattezza della gerarchia ufficiale della apparenze si accompagnavano le lamentele, che si levavano da più voci, per gli eccessi e le stravaganze nel modo di vestirsi che stavano prendendo piede in vari territori dell’impero. Che il gusto cinese per l’abbigliamento fosse sensibile al fascino del cambiamento è attestato dallo stesso padre Semedo, che visse in Cina alla fine del periodo Ming: “Li giovani usano ogni sorte di colore, perché li vecchi sempre tirano più al modesto. Il popolo per la maggior parte si veste di nero, come anche ogni sorte di servitori, con obligo di non potere mutar colore. Coloro che governano, o hanno governato, nell’occorrenze delle feste si vestono di rosso il più fino. Nelle quattro stagioni dell’anno li facoltosi  mutano  vestito;  la  gente  manco  (benché  povera)  nelle      due,
d’estate   e  d’inverno.”114    Ancor  più  esplicite  sono  però  le     numerose
testimonianze  cinesi  sulla  follia  consumistica  che  avrebbe  contagiato la


111 Cammann, The Development of the Mandarin Square, cit., p. 79; Garrett, Chinese Clothing, cit. p 10.
112 Vollmer, Chinese Costume, cit., p.7; Garrett, Chinese Clothing, cit. pp. 30-31.
113   Cammann,  The  Development  of  the  Mandarin  Square,  cit.,  pp.  86-87;  Garrett,
Chinese Clothing, cit. p. 70.


 

società imperiale tra Cinque e Seicento. Chen Yao – studente che si preparava per la carriera di mandarino – scriveva nel 1570, ricordando i sobri costumi di un tempo, che “ora i giovani damerini nei villaggi dicono che nemmeno la garza di seta è buona abbastanza e desiderano ricami di Suzhou, broccati in stile Song, garze come nuvole e saie di cammello, vestiti belli e costosi”; ma ciò che più colpisce Chen è la rapidità dei cambiamenti: “Lunghe gonne e ampi collari, larghe cinture e strette pieghe: cambiano senza preavviso. E’ ciò che chiamano moda”.115 Zhang Han, influente burocrate vissuto tra il 1511 ed il 1593, osservava: “Le usanze dei tempi attuali hanno raggiunto l’estremo della stravaganza, esse sono  diverse ogni mese e differenti ogni stagione.”116 L’ansia della novità e il gusto per il cambiamento non portavano soltanto alla corruzione degli antichi costumi, ma minacciavano l’ordinamento sociale stesso, come rilevava un cronista della contea di Tongcheng: “Dal periodo di Chongzhen [1628-1644] la stravaganza divenne eccessiva e le distinzioni erano confuse.”117 In effetti, il pericolo che questi comportamenti incrinassero la tenuta dell’assetto sociale – o almeno le forme della sua rappresentazione –
, inficiando o addirittura annullando l’identificazione del ceto con l’ abbigliamento, diventava reale, se modelli di consumo irrispettosi delle regole filtravano anche tra il popolo, come più d’un osservatore contemporaneo rilevava. Un autore che scriveva nel 1573 annotava indignato come “oggigiorno persino le servette si vestono di qi e luo [garze


114 Semedo, Historica relazione del gran regno della Cina, cit., p. 92.
115 Cit. in T. Brook, The Confusion of Pleasure. Commerce and Culture in Ming China, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1998, p. 220. Brook traduce con fashion il termine shiyang, che letteralmente significa “l’apparenza del momento”. Mia traduzione dalla versione inglese.
116 Cit. in Clunas, Superfluous Things, cit., p. 144. Mia traduzione dalla  versione inglese.
117 Cit. in Clunas, Superfluous Things, cit., p. 155. Mia traduzione dalla  versione inglese.


 

di seta leggeri e sottili].”118 Ye Mengzhu, trattatista dell’inizio dell’epoca Quing, così ricostruiva la dinamica della diffusione del gusto per la novità ed il cambiamento verificatosi nel periodo Ming: “Se andiamo indietro alle origini, tutto cominciò probabilmente con le famiglie più ricche. Le loro domestiche e concubine ne copiarono stile, poi si propagò ai loro parenti e poi andò ai vicini.”119 Questa contaminazione venne favorita anche dalla circolazione degli articoli di vestiario alimentata dalla diffusa pratica di affittare capi d’abbigliamento per particolari occasioni o dalla altrettanto comune consuetudine di impegnare gli abiti della stagione trascorsa per poi riscattarli successivamente120, costume, quest’ultimo, segnalato anche da padre Semedo: “Molti impegnano quel che serve in una stagione per quel dell’altra.”121
L’esplosione della passione per la ricercatezza del vestire combinata con la febbrile attenzione nel seguire il rapido avvicendamento dei gusti, che, stando alle testimonianze citate – soltanto alcune tra le molte proposte dagli studi recenti -, si sarebbero affermate tra i ceti elevati per contaminare poi il popolo minuto, era solo una delle espressioni del fervore  consumistico che caratterizzò la tarda età Ming.122 Fu quella un’epoca di prosperità economica, sostenuta dall’accelerazione del processo di integrazione commerciale di varie regioni del paese, da un lato, e della  Cina stessa nei circuiti dell’economia mondiale, dall’altro.123 Questa trasformazione dell’economia cinese, che stimolò la crescita demografica e


118 Cit. in Clunas, Superfluous Things, cit., p. 154. Mia traduzione dalla  versione inglese.
119 Cit. in Brook, The Confusion of Pleasure, cit., pp. 222. Mia traduzione dalla versione inglese.
120 Garrett, Chinese Clothing, cit. pp. 77-78.
121 Semedo, Historica relazione del gran regno della Cina, cit., p. 92.
122 Clunas, Superfluous Things, cit.; Brook, The Confusion of Pleasure, cit.
123 Clunas, Superfluous Things, cit., p. 5; Brook, The Confusion of Pleasure, cit., pp. 10- 13, 190-210.


 

l’urbanizzazione, ebbe nei mercanti gli attori principali124: tale dinamica attivò canali per l’accumulazione e la redistribuzione della ricchezza, che, specialmente in alcune zone del paese, consentirono ai più abbienti di arricchire ulteriormente e permisero a chi si trovava in condizioni modeste di migliorare il proprio tenore di vita125. E’ lecito attendersi  che l’accresciuta prosperità di alcuni gruppi avesse aperto le porte a percorsi di promozione sociale126, anche se è difficile valutare l’importanza del fenomeno, mentre sembra accertato che le migliorate condizioni economiche di alcuni strati della società – in particolare mercanti, ansiosi  di legittimare socialmente la loro ricchezza - avessero alimentato la  rincorsa al consumo emulativo dello stile di vita delle élites.127 Sarebbe riconducibile all’emergere di tali aspirazioni la pubblicazione di trattati sulla vita elegante - come Otto discorsi sull’arte di vivere di Gao Liang o il Trattato sulle cose superflue di Wen Zhenheng – che guidavano i nuovi ricchi lungo il percorso del buon gusto.128
Il quadro della tarda epoca Ming che emerge dagli elementi raccolti dalla storiografia e dalle testimonianze citate presenta significative somiglianze con la contemporanea società europea129: le opportunità di arricchimento, la crescente propensione al consumo, la trasgressione delle regole della gerarchia delle apparenze, la passione per il cambiamento, il gusto    della    novità,    la    trattatistica    di    comportamento…    Si tratta


124 Brook, The Confusion of Pleasure, cit., pp. 210-218.
125 Clunas, Superfluous Things, cit., pp. 160-165.
126  Si vedano, ad esempio, i casi presentati nel recente Q. Guo, Ritual Opera and
Mercantile Lineage. The Confucian Transformation of Popular Culture in Late Imperial Huizhou, Stanford, Stanford University Press, 2005, pp. 56-74. Si veda inoltre M. Zelin, The Merchants of Zigong. Industrial Entrepreneurship in Early Modern China, New York, Columbia University Press, 2006.
127 Clunas, Superfluous Things, cit., pp. 160-165; Brook, The Confusion of Pleasure,  cit., pp. 210-218.
128 Il  tema è trattato da Clunas, Superfluous Things, cit.
129 Per una discussione del tema cfr. Clunas, Superfluous Things, cit., pp. 170-172.


 

effettivamente di forti analogie, che se, da un lato, non possono non suscitare sorpresa, dall’altro, sollevano la questione della mancata o  limitata evoluzione di tale contesto, ossia delle ragioni per cui, nonostante l’Europa e Cina dei secoli XVI e XVII fossero accomunate da condizioni apparentemente molto simili, fu soltanto in Occidente che la moda come istituzione sociale si affermò compiutamente. Secondo S.A.M. Adshead l’avvento della moda nella società cinese fu ostacolato dal ruolo marginale che era riservato alle donne: mentre in Europa fu proprio la componente femminile ad agire da catalizzatore della dinamica del gusto vestimentario, in Cina le donne furono inibite da tale azione sia perché vincolate ad una vita sociale più limitata rispetto all’esperienza europea, sia perché il loro
abbigliamento era funzione del rango del marito.130  Interpretazione  questa,
che si fonda su argomentazioni plausibili, ma che forse difetta di eurocentrismo: se è vero che nella società europea del Seicento fu affidata alle donne la sperimentazione della moda come istituzione sociale, è altrettanto vero che non si trattava dell’unica soluzione possibile e che in altri contesti analoga funzione poteva essere affidata anche ad altre figure. Altri sinologi, come Craig Clunas e e Timothy Brook, sottolineano  piuttosto il fatto che i fenomeni di arricchimento, documentati tra Cinque e Seicento, latori di quella competizione emulativa dei consumi che aveva coinvolto anche l’abbigliamento, in realtà, riguardarono soltanto una porzione assai limitata sia della società che del territorio cinese e che, pertanto, non raggiunsero una scala tale da generare un cambiamento diffuso: la gerarchia sociale – e con essa la gerarchia delle apparenze – fu
soltanto  momentaneamente  incrinata,  non  abbattuta131.   All’esaurimento


130 Adshead, Material Culture, cit., p.75.
131 Clunas, Superfluous Things, cit., p. 173; Brook, The Confusion of Pleasure, cit., p. 160.


 

della dinamica in atto tra XVI e XVII secolo potrebbe anche aver contribuito il mutamento del sistema politico-sociale determinato dall’avvicendamento della dinastia Ming con quella dei Quing.132 L’avvento degli imperatori manciù rinvigorì l’ordinamento sociale tradizionale imperniato sull’articolazione in ranghi della burocrazia imperiale e, di conseguenza, le forme di rappresentazione della distinzione ricominciarono ad identificarsi sempre più con la simbologia codificata dai regolamenti imperiali invece che con mutevoli criteri di eleganza.133 Alla fine, infatti, si può forse concludere che la cultura vestimentaria cinese fu dominata dall’abbigliamento ufficiale: se le tendenze - così simili a quelle europee - emerse tra Cinque e Seicento finirono per esaurirsi, ciò fu dovuto in buona parte – oltre alle cause che si sono menzionate – anche al fatto che quella cinese era una società in “uniforme”, in cui l’obiettivo della competizione - e della trasgressione – era quello di poter ostentare un abito con  insegne  di  rango  elevato,  magari  superiore  a  quello effettivamente
ricoperto, piuttosto che dare dimostrazione di buon gusto in fatto di scelta dell’abbigliamento.


132 Anche se Peter Burke non ritiene che l’avvento dei Quing rappresenti una radicale soluzione di continuità (Burke, Res et verba: conspicuous consumption in the early modern world, cit., pp. 151-152.)
133 Clunas, Superfluous Things, cit., p. 173; Pomeranz, La grande divergenza, cit., pp. 231-237.


 

Il consumismo giapponese

 

Le origini della cultura vestimentaria giapponese si intrecciano con l’irradiazione del gusto cinese dell’epoca della dinastia Tang (618-907), la cui influenza fu notevole in varie regioni dell’Asia orientale134. Fu durante l’epoca Heian (785-1185), periodo in cui capitale imperiale fu insediata a Kyoto, che cominciò ad emergere uno stile giapponese autonomo, progressivamente meno sensibile ai modelli in voga in Cina. Il sontuoso e complesso  abbigliamento  dell’élite  Heian  rispondeva  alle  esigenze     di
rappresentazione del potere, di distinzione tra vari livelli di formalità e di identificazione di ceto attraverso la modulazione delle forme e la combinazione dei colori - kasane no irome- aspetto quest’ultimo, al quale  la cultura Heian era particolarmente sensibile 135. Il tratto  formale  distintivo dell’abito ufficiale dell’epoca era probabilmente costituito dalle ampie e lunghe maniche – hirosode -. Così, ad esempio, la tenuta delle signore di rango era costituita dalla sovrapposizione in strati successivi di dodici corte vesti di diversi colori – juni hitoe -, le cui ampie maniche erano
via via più corte in maniera tale da lasciare intravedere una piccola  porzione del capo di vestiario sottostante; la parte inferiore del corpo era rivestita da ampi e lunghi pantaloni – hakama – e da una gonna-grembiule che poteva terminare con uno strascico - mo -; sopra l’uchigi – questo era il nome dell’abito multistrato – si indossavano una sorta di giacca chiamata karaginu ed una stola detta hire. L’abbigliamento per le occasioni  informali era una versione ridotta del costume formale: non era   necessario


134 H. B. Minmich, Japanese Costume and the Makers of its Elegant Tradition, Rutland (Vt), Tuttle Co., 1963, pp. 28-29; S. et D. Buisson, Kimono: art traditionnel du Japon, Lausanne, Edita, 1983, pp. 20-21; L. Crihfield Dalby, Kimono. Fashioning Culture, Seattle and New York, University of Washington Press, 1993, pp. 25-30.
135 Crihfield Dalby, Kimono, cit., pp. 217-269.


 

vestire karaginu, né mo, mentre l’uchigi era composto di “soli” cinque strati.136
La lunga stagione di ricercata ostentazione dello stile vestimentario che aveva caratterizzato la vita cortigiana dell’epoca Heian giunse al termine quando, a conclusione della guerra civile per la successione imperiale, si instaurò una reggenza militare con capitale Kamakura.  Nell’età Kamakura (1185-1333) l’eminenza della componente militare fece prevalere nella società principi di semplicità e modestia che si rifletterono anche nell’abbigliamento e fu proprio in quell’epoca di restaurazione della sobrietà in opposizione al lusso della corte Heian che emerse l’abito destinato ad identificarsi nei secoli successivi con la civiltà del Giappone: il kosode – letteralmente piccole maniche – termine con il quale si definiva ciò che oggi è universalmente conosciuto come kimono. La stratiforme architettura vestimentaria Heian fu progressivamente abbandonata in favore di un solo indumento – stile hitoe gi ossia vestiario monostrato -, in precedenza usato soltanto come sottoveste, che si distingueva nettamente
dall’abbigliamento formale del periodo precedente appunto per la ridotta estensione delle maniche. 137
L’avvento del kosode costituì un vero e proprio cambiamento epocale. L’abbigliamento femminile del periodo Kamakura si era ridotto ad un semplice kosode - dapprima bianco, poi sempre più frequentemente decorato - indossato sopra pantaloni – hakama – rossi. Il processo di semplificazione si estese anche al vestiario maschile: i samurai dell’epoca adottarono  il  completo  hitatare,  articolato  in  un  kosode  per  la      parte



136 Buisson, Kimono, cit., pp. 22-29; Crihfield Dalby, Kimono, cit., pp. 28-32, 217-269.
137 S. Noma, Japanese Costume and Textile Arts, New York, Weatherill, 1974, pp. 13- 26; Buisson, Kimono, cit., pp. 31-32; Crihfield Dalby, Kimono, cit., pp. 33-34.


 

superiore del corpo e pantaloni per quella inferiore. 138 In epoca Muromachi (1333-1573), durante la quale la capitale fu riportata a Kyoto, l’evoluzione del sistema vestimentario giapponese proseguì lungo le direttrici disegnate nel periodo precedente. Il kosode si consolidò come l’indumento base del vestiario femminile: la lunghezza aumentò fino a coprire le caviglie, decretando così la scomparsa dei pantaloni - hakama-. A quel punto divenne però necessario trovare un modo per serrare i due lembi del kosode stesso: la soluzione venne trovata nell’adozione di una fascia da cingere in vita - obi -. Il guardaroba femminile era poi completato da una sopraveste
per le occasioni formali - uchikake -, un kosode di tessuto più pesante non stretto in vita da alcuna cintura. 139 Il kosode era ormai divenuto il perno dell’architettura vestimentaria giapponese, non soltanto in ambito femminile, ma anche in quello maschile140: dal XVI secolo in poi l’evoluzione del gusto e l’avvicendamento degli stili in materia di abbigliamento si sarebbero espressi soprattutto attraverso cambiamenti nei tessuti e nei motivi decorativi del kosode.
Il kosode era ricavato da un’unica pezza di tessuto del formato di 35 centimetri di altezza e di 11 metri di lunghezza mediante ridotte ed essenziali operazioni sartoriali di taglio e cucito. Il corpo del kosode era costituito da due tagli di eguale lunghezza uniti con una cucitura sulla schiena e lasciati aperti sul davanti (mihaba). Da un altro taglio della stessa pezza, sezionata a metà, si ottenevano due bande della stessa lunghezza del corpo, ma di estensione dimezzata, che venivano applicate a ciascuno dei
138 F. Komatsu, L’évolution du costume au Japon depuis l’Antiquité jusq’à l’époque des Tokugawa, Paris, Maurice Lavergne, 1942 pp. 107-114; Minmich, Japanese Costume, cit., p. 30; Buisson, Kimono, cit., pp. 31-32; Crihfield Dalby, Kimono, cit., pp. 34-35.
139 Minmich, Japanese Costume, cit., p. 31; Buisson, Kimono, cit., pp. 34-36; Crihfield Dalby, Kimono, cit., pp. 36-37.
140 Noma, Japanese Costume, cit., p. 36.


 

due lembi aperti della parte anteriore (okumi), e servivano per chiudere il kosode, sovrapponendo il lato sinistro a quello destro. Da una ulteriore porzione della stessa pezza si ricavavano poi i due rettangoli di stoffa che venivano cuciti ai lati del corpo per formare le maniche (sode). Il tutto era completato dalla striscia di tessuto che contornava il collo e scendeva sul petto (eri). La confezione del kosode era economica perché sfruttava la pezza di tessuto di dimensioni standard, che veniva tagliata e cucita in porzioni rettangolari, senza produrre alcuno scarto di lavorazione: il kosode veniva adattato alle fattezze del corpo di chi lo indossava mediante un
sapiente uso delle pieghe - talvolta fissate con cucitura -, dei drappeggi, delle sovrapposizioni. 141
La centralità del kosode nella cultura vestimentaria giapponese, femminile e maschile, venne definitivamente consacrata nel periodo di prosperità noto come epoca Momoyama (1573-1615). La pacificazione del paese, dopo un periodo di instabilità e conflitti interni, rappresentò un contesto ideale per la ripresa delle attività economiche, tra le quali si deve segnalare quella tessile nel quartiere Nishijin di Kyoto, divenuto il principale centro del paese per la produzione di tessuti di seta. L’accesso alle risorse rese disponibili dalla crescita dell’economia alimentava anche  la propensione al consumo, nella forma di una competizione che richiamava, senza distinzione di ceto, i giapponesi abbienti, desiderosi di confrontarsi, tra le altre cose, anche sul piano dell’eleganza del proprio kosode. Gli artigiani giapponesi avevano imparato a produrre le morbide sete un tempo importate dalla Cina ed avevano messo a punto sofisticate tecniche per la tintura e la decorazione dei tessuti:  il kosode era il supporto

 

141 Crihfield Dalby, Kimono, cit., pp. 17-21; S. B. Hanley, Everyday Things in Premodern Japan, Berkeley, Los Angeles and London, University of California Press, 1997, pp.68-71.


 

tessile su cui si esercitava l’abilità tecnica e creativa di questi tessitori, tintori e ricamatori al fine di soddisfare le esigenze di una clientela sempre più larga e raffinata, che andava dai mercanti ai signori feudali – daimyo – agli stessi samurai. 142
Questi fermenti dovevano poi giungere a completa maturazione nella nuova fase della storia del Giappone che si aprì con il 1615 e si prolungò per due secoli e mezzo, l’epoca Tokugawa, dal nome della famiglia che assunse e mantenne il titolo di Shogun – comandante dell’esercito –, relegando l’imperatore ad una mera funzione simbolica. Si inaugurava allora un lungo periodo di stabilità interna, assicurato, tra l’altro, dai severi provvedimenti adottati dal bakufu - il governo degli shogun -: da un lato, per evitare possibili disordini interni alimentati dai signori locali, fu introdotto l’obbligo della residenza nella nuova capitale Edo - che diverrà poi Tokyo - per i daimyo e per le rispettive famiglie – gli uni erano tenuti  ad abitarvi per buona parte dell’anno e le altre continuativamente -, che, in tal modo, erano tenuti sotto il diretto controllo del potere centrale; dall’altro lato, per prevenire i pericoli derivanti da eventuali condizionamenti esterni, furono  progressivamente  ridotti  i  contatti  con  l’esterno  fino  ad arrivare
all’isolamento – sakoku -, fatta eccezione per la base commerciale concessa agli Olandesi a Nagasaki143. Il disegno di stabilizzazione del paese perseguito dal bakufu contemplava anche un riassetto dell’ordinamento sociale, basato su una precisa gerarchizzazione della società, al vertice  della quale si trovavano i samurai, seguiti dagli agricoltori, dagli artigiani e, da ultimi venivano i mercanti. Queste due ultime categorie sociali erano


142 Minmich, Japanese Costume, cit., pp. 31-32; Noma, Japanese Costume, cit., pp. 30- 35; Buisson, Kimono, cit., pp. 37-39; Crihfield Dalby, Kimono, cit., pp. 38-39.
143  Forme di scambio controllato vennero mantenute anche con la Cina e la Corea.   Cfr.
D. Landes, The Wealth and Poverty of Nations, London, Little, Brown and  Company, 1998, pp. 350-358.


 

spesso accomunate dal termine chonin, che significa cittadini, in considerazione del fatto che essi svolgevano le proprie attività economiche soprattutto negli ambienti urbani144. Tuttavia, furono proprio questi chonin, ed i mercanti in particolare, di Kyoto, Osaka, Nagasaki, Sakai gli artefici e, al tempo stesso, i maggiori beneficiari della prosperità economica di cui godette il Giappone dell’epoca Tokugawa.145 L’obbligo di residenza a Edo per i daimyo e le loro famiglie aveva poi fatto della nuova capitale un importante centro di consumi, dove le attività artigianali, commerciali e finanziarie si erano rapidamente moltiplicate per poter soddisfare la domanda di articoli di lusso alimentata appunto dalle esigenze di rappresentazione del proprio status dell’aristocrazia giapponese: situazione che consentì ai mercanti più abili ed intraprendenti di accumulare ingenti fortune.146  L’epoca dei guerrieri era finita e si apriva quella dei mercanti.
Lo scrittore Ihara Saikaku (1641-1693) ci ha lasciato nelle sue opere, Il magazzino eterno del Giappone e I calcoli del mondo, uno straordinario spaccato del ceto mercantile giapponese dell’epoca Tokugawa, raccontandone le vicende, ora fortunate ora meno, le aspirazioni e le vanità, l’intraprendenza e le debolezze. Così, ad esempio, Saikaku descrive la vivacità economica delle città, centri commerciali come Nagasaki: “Nagasaki, la prima città del Giappone per tesori favolosi, è uno spettacolo di febbrile attività allorché, d’autunno, le navi arrivano cariche di seta grezza, tessuti, erbe medicinali, pelli di pescecane, legno di aloe e altre curiosità di ogni genere: ogni anno si accumulano montagne di    mercanzie

144 D. H. Shively, Sumptuary Regulations and Status in Early Tokugawa Japan, in “Harvard Journal of Asiatic Studies”, vol. 25, 1964-65, pp. 123-164.
145A. Kennedy, Costumes Japonais, Paris, Adam Biro, 1990, pp. 10-20; J. Liddell, The Story of the Kimono, New York, E.P. Dutton, 1999, pp.121-127.
146Burke, Res et verba: conspicuous consumption in the early modern world, cit.,      pp.
153-154; Landes, The Wealth and Poverty of Nations, cit., pp. 365-366.


 

di cui nessuna rimane invenduta – ogni merce trova il suo compratore.”147  E l’indaffarato dinamismo della nuova capitale giapponese:“Nelle vie di Edo regna la pace e qui la gente di tutto il paese desidera fare i propri  affari: si vedono negozi di ogni tipo e non passa giorno senza che arrivino mercanzie inviate da ogni provincia per via mare e sul dorso di migliaia di cavalli.”148
L’inventiva e l’abilità erano doti essenziali per una carriera imprenditoriale di successo nel settore del commercio, come attesta l’esempio di “un tale di nome Sanmonjiya che iniziò con l’invenzione degli impermeabili tascabili, vendendo poi mantelline da viaggio. Con il crescere del capitale, acquistò partite di sete giapponesi e, in seguito, tessuti dall’estero; si procurò pelli, quattrocento metri di orango e mille di tigri. Nel suo negozio si trovava  tutto ciò che si cercava, e sarebbe stato possibile trovare tessuti di lana purpurea introvabili addirittura a Kyoto.”149 La pace e la stabilità garantite dal bakufu fecero decollare la dinamica economica, che già si era rianimata negli ultimi due decenni del secolo XVI, offrendo numerose opportunità  di
arricchimento ai mercanti, delle quali Saikaku offre qualche esempio significativo: “Chi ebbe successo in Osaka fu il pioniere della  fabbricazione del saké per l’invio per nave a Edo, la cui intera famiglia gode ora della sua prosperità; colui che si fece una fortuna di notte, nelle miniere di rame; i commercianti di oggetti laccati Yoshino; il costruttore della prima barca da carico che portava le merci a Edo, ora famoso per la sua agenzia di navi; colui che trasse profitto dall’affitto di proprietà; coloro che crebbero lentamente ma fermamente alla ricchezza acquistando miniere


147 I. Saikaku, Il magazzino eterno del Giappone. I calcoli del mondo, a cura di M. Marra, Torino, UTET, 1983, p. 120.


 

di ferro. Tutti questi sono esempi di mercanti che hanno avuto successo recentemente, negli ultimi trent’anni.”150
I facoltosi mercanti dell’epoca, benché confinati all’ultimo gradino della formale gerarchia sociale Tokugawa, trovarono nel consumo vistoso   il canale attraverso il quale legittimare il ruolo chiave che avevano assunto nella vita economica del paese, inaugurando così una sfrenata competizione consumistica che coinvolse ogni sorta di bene, dagli arredi alle opere d’arte e, soprattutto, all’abbigliamento.151 E’ ancora Ihara Saikaku a dare efficacemente conto del clima dell’epoca: “La semplicità di un tempo è scomparsa e le pretese della gente sono talmente cresciute che solo i fronzoli la soddisfano, senza guardare la crisi della borsa. Basta guardare
come vestono le mogli e le figlie dei nostri cittadini per accorgersi che, al  di là, non si può andare (…). Negli ultimi anni, grazie all’ingegno di alcuni sarti di Kyoto, si usano tutte le varietà di splendidi materiali per confezionare abiti maschili e femminili, e i campionari dei venditori di stoffe sono fioriti in una ridda di colori (…). Il conto del guardaroba della moglie e gli abiti del corredo delle figlie hanno alleggerito le tasche a molti mercanti, facendo sfiorire le loro speranze negli affari.”152 Ciò che colpisce in  particolar  modo  nelle  pagine  di  Saikaku  è  la  chiara        indicazione
dell’avvento del gusto per il costante cambiamento: “Qui [A Sakai] si suole portare un vestito per trentaquattro o trentacinque anni di fila senza mandarlo a lavare una sola volta (…); le madri riforniscono le figlie di corredi nuziali perfettamente nuovi che passeranno alle figlie nel medesimo stato. A dieci chilometri da Sakai c’è Osaka, un altro mondo, dove si vive alla  giornata,  senza  badare  al  giorno  dopo.  Qui  è  di  regola  essere

150 Saikaku, Il magazzino eterno del Giappone, cit., pp. 169-170.
151 Kennedy, Costumes Japonais, cit., pp. 16-25; Burke, Res et verba: conspicuous consumption in the early modern world, cit., pp. 154-155.
152 Saikaku, Il magazzino eterno del Giappone, cit., pp. 20-21.


 

stravaganti ogni qual volta ce ne sia occasione (…). Le donne sono ancor più liberali degli uomini: non soddisfatte di un cambio di vestiti a Capodanno, al Bon, d’estate e d’inverno, acquistano nuovi abiti in ogni occasione che gettano via dopo un brevissimo uso, facendone ritagli per la scatola del cucito.”153 Appare inoltre evidente che la passione per la novità costituiva alimentava comportamenti estranei alla tradizione giapponese: “Sappiamo da un antico poema che la donna addetta alla produzione del sale  a  Nada  non  aveva  pettini  nei  capelli,  ma  oggi  le  donne  non     si
preoccupano che di kimono, pronte sempre a studiare l’ultima moda cittadina; esse sanno che un kimono a disegni di piccoli pini è fuori moda e che oggi occorre una trama con il disegno di un bambù colpito dai raggi del sole serale.”154 E ancora: “Specialmente in anni recenti, le donne si mostrano stravaganti ovunque: posseggono tutti i vestiti che si potrebbero desiderare e, come se non bastasse, fanno di tutto per procurarsi altri indumenti all’ultima moda per il Capodanno.”155 La frenetica rincorsa all’ultimo ritrovato stilistico in materia di abbigliamento sembra contagiare tutti i cittadini, a prescindere dalle loro possibilità: “Non solo a Kyoto ma tutt’intorno alla periferia di Edo e di Osaka, appezzamenti vuoti ed anche distese di terre incolte sono scomparse senza lasciare traccia ed ora si ergono file di abitazioni in successione continua: non è chiaro come questa gente si mantenga ma a Capodanno fanno dono di un nuovo kimono ai bambini e non solo li riforniscono di abiti da danza per il Bon ma migliorano il risultato con fasce legate sul dorso, secondo la moda più recente.”156

 

153 Saikaku, Il magazzino eterno del Giappone, cit., p. 113.
154 Saikaku, Il magazzino eterno del Giappone, cit., p. 262.


 

Il kosode-kimono era definitivamente assurto a protagonista assoluto della cultura consumistica dell’epoca Tokugawa, l’oggetto del desiderio attraverso il quale esibire la ricchezza e il buon gusto. La foggia  del kimono - tanto vale ora adottare questo termine, una volta chiarita la sua derivazione dal kosode – non subì cambiamenti radicali della ormai consolidata struttura a “T”, salvo l’allungamento del lembo posteriore, che arrivava a terra, e la tendenza all’ampliamento delle maniche, che,  potevano raggiungere un’estensione ragguardevole, al punto che in quel caso l’indumento assumeva la denominazione di furisode. Mutò invece in maniera significativa l’ampiezza della fascia che cingeva in vita il kimono - obi -, che acquistò via via maggiore visibilità, fino a divenire un fondamentale complemento dell’abbigliamento elegante. Tale  cambiamento fu il frutto di due processi concomitanti: da un lato, le accresciute dimensioni dell’obi, dall’altro, il conseguente aumento di volume del nodo con cui lo si fissava, dapprima davanti, poi sul fianco e finalmente  dietro,  che  divenne  esso  stesso  elemento  di  distinzione      a
seconda   del   modo   con   cui   veniva   realizzato.157     Tuttavia,   ciò   che
determinava il valore estetico e sociale del kimono  era  soprattutto  il motivo decorativo del tessuto con cui era confezionato. Le morbide sete prodotte dagli artigiani di Nishijin erano il supporto tessile su cui esperti decoratori esercitavano la propria creatività, utilizzando sofisticate e laboriose tecniche di tintura in grado di produrre quegli effetti straordinari che costituivano il valore aggiunto del kimono.158 Fulcro della filiera produttiva del kimono era il magazzino di tessuti, il cui proprietario, oltre ad  occuparsi  della  vendita,  coordinava  il  lavoro    di  tessitori,  tintori   e



157 Crihfield Dalby, Kimono, cit., pp. 40-49.
158 Minmich, Japanese Costume, cit., pp. 195-251.


 

ricamatori159. Sono, ancora una volta, le pagine di Ihara Saikaku ad offrire una vivida descrizione del negozio di kimono: “Non molto tempo fa, in una sartoria poco discosta da via Muromachi, (…) lavorava un tale che confezionava abiti alla moda con mano particolarmente abile (…). Ogni anno, il primo giorno del Quarto mese, quando sopraggiungeva il tempo del cambio dei vestiti invernali (…) egli aveva sempre pronto in negozio una fresca schiera di kimono estivi magnificamente colorati, tra i quali se ne potevano osservare alcuni fatti di tre strati diversi – crespo scarlatto posto tra due pareti trasparenti di delicata seta bianca – ed altri con maniche e colletti  imbottiti:  tali  meraviglie non  s’erano  mai  viste prima.”160  Tra gli
imprenditori di spicco del settore vi era Mitsui Takatoshi, il cui negozio era tra i più noti di Edo; egli è considerato l’inventore di nuove tecniche di vendita, come prezzo fisso, sconti per pagamenti in contanti, volantini pubblicitari, abiti a disposizione degli attori di teatro per pubblicizzare l’azienda durante gli spettacoli, ombrelli con il logo del negozio disponibili per i clienti in caso di piogge improvvise. 161 Il mercato di kimono diventava sempre più ampio e, nel contempo, il gusto continuava ad evolversi  senza  soluzione  di  continuità:  per  far  fronte     all’incremento
quantitativo e all’articolazione qualitativa della clientela, fu introdotta una importante innovazione commerciale, quella del catalogo. Si trattava di raccolte di disegni per kimono, impressi in bianco e nero sulla pagina blocchi di legno incisi, secondo la tecnica detta ukiyo-e. Le immagini contenute negli hi-inagata – questo era il nome dei cataloghi - erano accompagnate da didascalie che fornivano dettagli sui colori, sui materiali decorativi  e  sul  tipo  di  tessuti  impiegati  per  la  confezione  del kimono


159 Liddell, The Story of the Kimono, pp. 136-139.
160 Saikaku, Il magazzino eterno del Giappone, cit., p. 21.
161 Liddell, The Story of the Kimono, pp. 136-139.


 

riprodotto. E’ difficile dire fino a che punto questi cataloghi servissero effettivamente per raccogliere ordini o se, invece, svolgessero la meno pratica, ma più sofisticata funzione di orientare il gusto dei clienti. Comunque fosse, non vi è dubbio che si trattasse di una raffinata forma di comunicazione commerciale. 162
La ricostruzione prospettata descrive una società giapponese pervasa dall’inesauribile desiderio di un abito nuovo decorato con motivi mai visti prima, contagiata da una febbrile ansia di novità che coinvolgeva soggetti appartenenti a tutti i ceti sociali, i quali, sollecitati dalle offerte sempre più attraenti dei venditori e dalle innovative tecniche di marketing, si  lasciavano prendere senza riguardo alcuno per le distinzioni formali di rango: in una parola è la moda. Laddove la moda si è imposta come istituzione sociale – come in Europa – la tenuta della tradizionale gerarchia sociale è stata messa in crisi dai comportamenti di quanti, in virtù delle loro prospere condizioni economiche, hanno adottano ed esibito un tenore di  vita superiore a quello consentito dal rango sociale di appartenenza. Così ammoniva i contemporanei Ishida Baigan, autore di un trattato di comportamento della prima metà del Settecento, con toni assai simili a quelli usati in Europa: “La vanitosa gente del mondo attuale non solo indossa abiti raffinati essa stessa, ma veste la propria servitù con indumenti
fatti di sottile damasco e raso operato con ricami e appliqué163. Qualcuno
della campagna vedendoli li prenderebbe per nobili cortigiani o dignitari feudali, ma si chiederebbe perché non siano accompagnati dal seguito di samurai.  I  cittadini  di  bassa  estrazione  che  sono  così  pretenziosi  sono


162 Minmich, Japanese Costume, cit., pp. 203-208; Crihfield Dalby, Kimono, cit., pp. 271-321.
163 Un tipo di decorazione.


 

criminali che violano i principi morali.”164 Che l’avvento della moda fosse potenzialmente latore di sovvertimento dell’ordine sociale era perciò chiaro agli shogun non meno che ai sovrani e alle aristocrazie europee: anche il bakufu trovò infatti nelle leggi suntuarie lo strumento normativo attraverso il quale consolidare il tradizionale ordinamento, disciplinando i comportamenti dei consumatori.
I primi interventi in materia risalivano agli anni centrali del secolo XVII, ma fu dal 1683 che cominciò una vera e propria offensiva suntuaria lanciata dallo shogun Tsunayoshi, che emanò non meno di sette provvedimenti volti a regolare il comportamento dei chonin. Le norme promulgate dal bakufu ponevano innanzitutto precisi limiti al consumo e all’ostentazione di abiti sontuosi da parte dei  chonin, indicando quali erano i tessuti e le decorazioni confacenti al loro status, ma stabilivano altresì quali erano le regole da osservare per il vestiario della servitù, che non di rado – come denunciava il brano appena citato – veniva anch’essa rivestita con indumenti sontuosi. La legislazione suntuaria interveniva inoltre con la proibizione di impiegare nella confezione di tessuti e kimono materiali o fibre particolarmente costose, arrivando anche ad interdirne l’importazione, e con limitazioni applicate al settore produttivo mediante l’inibizione di tecniche di tintura e di decorazione ritenute eccessivamente lussuose. Le norme di carattere santuario promulgate dal bakufu non riguardavano soltanto i chonin – benché fossero soprattutto loro ad essere nel mirino -:   vi erano anche regolamenti specifici per le altre classi sociali. L’abbigliamento dei contadini era soggetto a restrizioni molto più severe di quelle previste per i mercanti, che pure erano collocati ad un livello sociale inferiore:  così,  per  esempio,  agli  agricoltori  era   fatto  divieto,  con rare


164 Cit. in Shively, Sumptuary Regulations, cit., p. 158. Mia traduzione dalla versione inglese.


 

eccezioni, di fare sfoggio di abiti di seta. Anche i samurai furono oggetto di provvedimenti volti a regolarne la propensione al consumo, ma in questo caso l’obiettivo perseguito dagli shogun era diverso rispetto allo spirito delle norme per cittadini e contadini: la prescrizione di un sobrio stile di vita era lo strumento per tutelare lo status dei samurai, preservandoli dal rischio dell’impoverimento che avrebbero corso accettando la sfida consumistica lanciata dai ricchi chonin, con i quali non avrebbero potuto competere attese le modeste condizioni economiche della maggior parte di loro. La regolazione del lusso dei daimyo era piuttosto blanda: in fondo, la concentrazione delle loro residenze a Edo aveva, tra le altre cose, proprio lo scopo di spingerli a focalizzare il loro interesse sulla incruenta competizione nel consumo vistoso; per non incorrere in sanzioni bastava perciò   che   essi   non   ambissero   a   misurarsi   sul   piano   dello  sfarzo
direttamente con gli shogun. 165
Il dubbio che accompagna ogni analisi delle varie forme di  regolazione del lusso è quello relativo alla loro effettiva applicazione. Convenzionalmente si ritiene che la reiterazione di tali provvedimenti sia una prova della loro inefficacia. Nel caso giapponese l’intensa azione normativa promossa dallo shogun Tsunayoshi allo scopo di ridimensionare le velleità dei chonin fa sospettare lo scopo non fosse stato raggiunto, come si evince, tra l’altro, anche da qualche passaggio del testo delle stesse leggi in cui si faceva esplicito riferimento alla ripetuta violazione delle prescrizioni166. E’ pur vero che la letteratura e la memorialistica riferiscono di casi in cui la plateale ostentazione di lusso da parte dei mercanti era stata
punita dallo stesso shogun, come avvenne nel 1681, quando Tsunayoshi,

 

165 Shively, Sumptuary Regulations, cit., pp. 123-158; Minmich, Japanese Costume, cit., pp.209-251.
166 Shively, Sumptuary Regulations, cit., pp. 131-135, 155-158.


 

notando una signora vestita in un sontuoso kimono chiese se si trattasse della moglie di un ricco daimyo, ma, informato che era invece la consorte  di un mercante, ordinava che venisse bandita da Edo, obbligata ad  indossare il più semplice dei kimono e privata delle proprietà167. E’ comunque difficile appurare quanto frequenti fossero queste sanzioni esemplari. Tuttavia, anche accreditando le leggi suntuarie di un’effettiva applicazione, non mancarono gli espedienti per eluderle o aggirarle. Gli artigiani impegnati nella lavorazione dei kimono furono prontissimi ad inventare nuove tecniche di tintura e decorazione che sostituissero quelle messe al bando dalle leggi. Così, ad esempio, i raffinati e costosi decori a
ricamo furono sostituiti con applicazioni; il ricercato effetto prodotto dallo schema decorativo di minuti anelli bianchi ottenuto con la laboriosa tecnica tintoria denominata kanoko, che richiedeva di stringere con il filo minuscole porzioni di tessuto prima del processo di tintura, fu  imitato grazie a nuove e più semplici procedure basate sulla pittura con stampi (tayu-kanoko) o sull’impiego di cera (uchidashi-kanoko).168
Fu però lo stesso bakufu ad offrire la migliore opportunità di elusione delle norme suntuarie con l’istituzione dei “quartieri del piacere”: il più famoso era quello di Yoshiwara a Edo, costruito dopo che il precedente, installato a Nihonbashi, era stato distrutto dal grande incendio del 1657. Si trattava ben delimitate zone delle principali città - nella maggior parte dei casi un fossato ed un muro di cinta ne definivano i confini - in cui vigeva la franchigia dalle norme suntuarie, all’interno delle quali ognuno poteva liberamente ostentare tutta la propria ricchezza, indossando i kimono più sontuosi,  ad  eccezione  dei  samurai,  per  i  quali  era  ritenuto disdicevole



167 Minmich, Japanese Costume, cit., p. 208.
168 Minmich, Japanese Costume, cit., pp. 209-251; Crihfield Dalby, Kimono, cit., pp. 286-287; Liddell, The Story of the Kimono, pp. 147-153.


 

frequentare tali quartieri, ma che non esitavano a dissimulare la propria condizione sociale per accedere ai piacevoli intrattenimenti che vi si offrivano. Su questi i quartieri, epicentro di quello che all’epoca venne definito “mondo fluttuante”, regnavano incontrastate due figure. Da un lato vi erano le affascinanti prostitute: le più famose – non a caso soprannominate keisei ossia “distruggi castelli” – si facevano ammirare mentre si spostavano in corteo lungo le vie ombreggiate dai salici – antico simbolo cinese della prostituzione - facendo sfoggio dei più straordinari kimono, fasciate in altrettanto preziosi obi, mentre quelle meno note si offrivano alla vista dei potenziali clienti quando sedevano nelle stanze ad esse riservate nelle case da, separate dalla strada semplicemente da una larga grata, una vera e propria vetrina. Dall’altro vi erano gli attori del  teatro Kabuki, forma di rappresentazione popolare sviluppatasi proprio all’interno dei quartieri del piacere in alternativa al classico ed esclusivo, in
quanto riservato ai samurai ai daimyo, teatro Noh. 169  Furono soprattutto
questi ultimi a svolgere il ruolo di trend-setters nel campo della moda, lanciando gusti che poi facevano tendenza. 170 Fu, ad esempio, l’attore Ito Kodayu a far sì che si imponesse la già citata innovativa tecnica tintoria detta tayu-kanoko, indossando un kimono color porpora realizzato con quella procedura ed introducendo così una moda che in breve tempo diffuse in tutto il paese; un altro tra i molti casi noti è quello del motivo decorativo a scacchi ancor oggi chiamato ichimatsu, che deve il suo nome all’attore che lo aveva lanciato nel 1741: Sanogawa Ichimatsu. 171


169 Shively, Sumptuary Regulations, cit., pp. 131-133; Noma, Japanese Costume, cit.,  pp. 37-41; Kennedy, Costumes Japonais, cit., pp. 15-28; Liddell, The Story of the Kimono, cit., pp. 128-136.
170 Minmich, Japanese Costume, cit., p. 199; Crihfield Dalby, Kimono, cit., pp. 274- 275; Liddell, The Story of the Kimono, cit., pp. 132-136.
171 Minmich, Japanese Costume, cit., p. 212; Liddell, The Story of the Kimono, cit., p.134.


 

Il ciclo di vita della moda giapponese cominciava perciò nella zona franca dei quartieri cittadini del piacere ad opera soprattutto degli attori – ma anche delle più intraprendenti prostitute – che avevano assunto il ruolo di arbitri del gusto, per propagarsi poi ai ricchi chonin e, soprattutto, alle loro mogli e figlie, particolarmente sensibili al fascino della moda, almeno a giudicare dalle testimonianze contenute letteratura e della memorialistica contemporanea. La diffusione delle mode non terminava però nelle case dei mercanti, ma proseguiva fino a raggiungere anche i ceti inferiori. I canali attraverso i quali operava il meccanismo del trickle down – ma anche la centralità della “via femminile” di trasmissione - sono descritti in un testo del Seicento, nel quale si legge come le giovani di Edo che andavano a servizio nelle residenze dei daimyo si pavoneggiassero durante cerimonie o al feste cittadine con indosso gli eleganti e sfarzosi kimono  ricevuti in  dono dalle padrone di casa, alimentando così un processo di emulazione
che  coinvolgeva  anche  gli  strati  inferiori  della  società172.  Una      fonte
dell’inizio del XVII secolo denunciava infatti con indignazione: “Ognuno indossa vivaci e costosi broccati e persino i servi spendono tutto quello che hanno per un kimono.”173 Che donne e servi fossero considerati tra i pericolosi untori del contagio della moda è poi confermato dalla particolare attenzione ad essi dedicata dalle leggi suntuarie174
Tuttavia, lo si è fin qui discusso, le leggi suntuarie non riuscirono nell’intento di ridimensionare la propensione al consumo vistoso del ceto emergente dei chonin, anzi, con l’istituzione dei “quartieri del piacere”, il bakufu offrì una modalità attraverso la quale essi poterono esprimere pienamente   le   loro   aspirazioni   alla   legittimazione   sociale   mediante

 

172 Minmich, Japanese Costume, cit., p. 199.
173 Cit. in Minmich, Japanese Costume, cit., p. 191.
174 Shively, Sumptuary Regulations, cit., pp. 123-131.


 

l’ostentazione del tenore di vita. E’ perciò soltanto in apparenza  paradossale che l’epoca in cui si concentrò la massiccia offensiva suntuaria di cui s’è detto coincidesse con un periodo di straordinaria fioritura creativa nell’ambito della moda, la cosiddetta era Genroku (1688-1704), durante la quale il kimono assurse al rango di vera e propria opera d’arte, con cui si cimentarono alcuni tra più celebrati artisti del tempo. 175 L’epoca fu segnata dalla straordinaria abilità dei decoratori di kimono, capaci di inventare e realizzare ogni volta fantasie e motivi originali che affascinavano i clienti più esigenti. Tra i più famosi vi erano Ogata Korin, artista conosciuto in tutto  il  paese,  e,  soprattutto,  Miyazaky  Yuzensai,  pittore  di  ventagli di
Kyoto, ritenuto l’inventore di un innovativo processo di tintura noto come yuzen-zome. Tale procedura cominciava con il disegno del soggetto sul tessuto di seta, le cui linee, tracciate con tintura vegetale, venivano successivamente ricoperte con uno strato di pasta di riso. La seconda fase iniziava dopo che la pasta si era asciugata ed era quella in cui il decoratore dipingeva a mano con i colori richiesti le varie aree delimitate dal disegno, che la pasta proteggeva da eventuali sbavature. Infine il tessuto veniva risciacquato per eliminare le tracce di pasta. Questa tecnica consentiva realizzare complessi ed articolati disegni con molteplici sfumature di colore
che non facevano certo rimpiangere i ricchi ricami in auge nei decenni precedenti, dei quali, peraltro, non erano certo meno costosi. 176
La costante ricerca dell’effetto decorativo per suscitare stupore e l’ostentazione delle più inusitate combinazioni di colore che caratterizzavano  la  sfarzosa  moda  dell’epoca  Genroku  cominciarono   a


175 Minmich, Japanese Costume, cit., pp. 277-282; Crihfield Dalby, Kimono, cit., pp. 40-51; Burke, Res et verba: conspicuous consumption in the early modern world,  cit., pp. 154-155.
176  Liddell, The Story of the Kimono, cit., pp. 150-153; Crihfield Dalby, Kimono, cit.,  pp. 40-41.


 

declinare al volgere del primo decennio del secolo XVIII. Le condizioni economiche del paese erano peggiorate, acuendo il contrasto tra quanti seppero approfittare della situazione, arricchendosi ulteriormente, e chi, invece, subì una consistente contrazione del reddito. I daimyo, non potendo rinunciare al loro tenore di vita per ragioni di prestigio sociale, si indebitarono sempre più con i mercanti, le cui facoltà risultarono accresciute, e, nel contempo, ridussero drasticamente la remunerazione di samurai al loro servizio, la cui posizione si deteriorava progressivamente al punto da indurli ad intraprendere altre attività, nei più svariati settori: commesso, insegnante, ombrellaio, pompiere. In questo contesto lo stesso disciplinamento suntuario diventava di agevole applicazione, in quanto era anche nell’interesse dei ricchi chonin evitare di provocare il risentimento dei samurai impoveriti. Si impose perciò un nuovo gusto improntato alla sobrietà, connotato dalla prevalenza dei colori scuri e da forme di distinzione più sofisticate in aperto contrasto con l’ostentazione della stagione Genroku: iki era il termine con cui venne identificata la nuova tendenza destinata a caratterizzare lo stile vestimentario del XVIII secolo. L’eredità stilistica dell’epoca precedente non scomparve del tutto, ma sopravvisse nei capi d’abbigliamento indossati sotto il kimono o nelle fodere delle sopravesti, che non soltanto ne riproponevano la vivacità cromatica, ma la portavano all’eccesso con provocanti motivi decorativi. Come si può facilmente intuire, il gusto iki fu veicolo di una maggiore austerità di costumi soltanto in apparenza, poiché i capi d’abbigliamento ispirati alla nuova moda non erano in alcun modo meno costosi di quelli del periodo precedente: si trattava dell’avvento di canoni di eleganza più raffinati e sottili, riconoscibili soltanto dall’occhio attento del   conoscitore,
l’elegante e distinto tsu delle città giapponesi del Settecento. 177


177  Noma, Japanese Costume, cit., pp. 89-93; Crihfield Dalby, Kimono, cit.,    pp.52-55;


 

Sostanzialmente esente dalle influenze della moda era l’abito formale, l’abbigliamento prescritto dall’etichetta di corte per le occasioni e le cerimonie ufficiali, che si ispirava all’architettura vestimentaria della tradizione giapponese e si era lentamente modificato seguendo un percorso autonomo.178
Il sistema vestimentario giapponese si era evoluto, all’ombra dell’isolamento decretato nel primo terzo del secolo XVII, in forme del  tutto autonome sia rispetto ai condizionamenti della civiltà cinese, che pure erano stati significativi nei secoli precedenti, sia nei confronti delle dinamiche in atto nelle società occidentali, rispetto alle quali, tuttavia, si possono rilevare forti, stupefacenti analogie. Si pensi ad esempio, al contrasto tra le aspirazioni dei ceti mercantili ad ostentare la propria ricchezza attraverso il lusso dell’abbigliamento e l’arroccamento dei daimyo e del bakufu a difesa della gerarchia delle apparenze mediante lo strumento della norma suntuaria: non accadeva lo stesso fenomeno nell’Europa dei secoli XVI e XVII? Non era del tutto simile la retorica  delle indignate rimostranze di quanti, in Giappone come in Europa, vedevano nella moda la causa prima di un sovvertimento dell’ordinamento sociale? Oppure si consideri il ruolo fondamentale giocato dalle donne come protagoniste della scena della moda o, ancora, la funzione di intermediazione svolta dalla servitù nell’attivazione di processi di  diffusione del gusto trickle down, sia nel vecchio continente che nell’arcipelago nipponico. Infine, la stessa evoluzione settecentesca verso un gusto più sobrio e raffinato sembra ancora una volta invitare ad istituire un parallelismo tra le tendenze presenti nelle società europee e in quelle



Liddell, The Story of the Kimono, cit., pp. 166-169.
178 Komatsu, L’évolution du costume, cit., pp. 107-171; Minmich, Japanese Costume, cit., p. 33; Buisson, Kimono, cit., pp.38-39, 42-45.


 

operanti nella realtà giapponese. Certo, si potrebbe obiettare, vi erano inopinate analogie, ma anche significative differenze: la “lunga durata” del kimono come perno del sistema vestimentario giapponese costituì una peculiarità che si contrappone decisamente ai mutamenti delle foggia dell’abbigliamento europeo; la “cultura della moda”, ossia il discorso sulla moda elaborato, anche grazie alla stampa specializzata, in Europa non sembra avere un corrispettivo in Giappone, nonostante la precocità dei cataloghi di kimono a stampa; infine, ma l’argomento è strettamente collegato alla precedente considerazione, era diverso lo “status” della moda all’interno della società: mentre nell’esperienza europea la funzione della moda era stata riconosciuta e legittimata, nella storia giapponese la moda era stata confinata ai recinti dei “quartieri del piacere” della grandi città. In altre parole in Giappone la moda rimase un’istituzione sociale “debole”, cresciuta in un ambiente particolare: una “moda di serra”! Fu forse per questa “debolezza” che la moda giapponese, che pure vantava secoli di sofisticate tecniche di tessitura e decorazione, nonché di gusto raffinato,  non sopravvisse all’impatto con la cultura occidentale, che inondò il paese con la fine dell’isolamento, nella seconda metà dell’Ottocento. L’abbigliamento occidentale – yofuku contrapposto a wafuku, l’abbigliamento giapponese – conquistò progressivamente i diversi gruppi sociali, prima gli uomini e, tra questi, i burocrati, i militari, gli studenti, e più lentamente le donne, e il kimono divenne un capo etnico, utilizzato
soprattutto nell’ambiente domestico.

179 Crihfield Dalby, Kimono, cit., pp.59-107; Hanley, Everyday Things, cit., pp. 166- 168; Jackson and Jaffer editors, Encounters, cit., pp. 212-217.


 

La moda non fu un’invenzione europea

 

Con questo saggio si voleva trovare una risposta alla domanda “la moda fu un’invenzione europea?” Alla luce degli elementi presi in considerazione la risposta è negativa: la moda non fu un’invenzione europea. L’analisi dell’evoluzione dei sistemi vestimentari indiano, cinese  e giapponese ha evidenziato come queste società avessero conosciuto fasi  in cui, grazie a situazioni economiche propizie, l’accentuarsi della propensione al consumo stimolò comportamenti che sfidarono la tradizionale gerarchia delle apparenze regolata da canoni di natura  ascrittivi. Ne discesero una emergente sensibilità per il cambiamento ed un sempre più spiccato gusto per la novità che crearono le condizioni per l’attivazione di cicli di avvicendamento degli stili nell’abbigliamento. Situazioni del genere, seppure con notevoli differenze da caso a caso, sono ravvisabili nell’India Moghul, nella Cina della tarda età Ming e nel Giappone dell’epoca Tokugawa. La ricostruzione di queste esperienze ha poi fatto emergere – soprattutto con riferimento a Cina e Giappone – notevoli analogie con la coeva realtà europea: la crescente passione per il cambiamento e l’insaziabile ricerca della novità, la contagiosa propagazione ai ceti inferiori – ivi compresi i servi – di tali comportamenti, le indignate reazioni dei contemporanei che vedevano nella moda  un mezzo per sovvertire gli ordinamenti sociali. Si tratta di corrispondenze già
messe in evidenza da più d’un autore180, tuttavia, accanto alle   somiglianze
emergono – e alla fina prevalgono - anche significative differenze. La dinamica del cambiamento che ha caratterizzato l’avvicendarsi delle  mode



180 Clunas, Superfluous Things, cit; Burke, Res et verba: conspicuous consumption in  the early modern world, cit.; Adshead, Material Culture, cit.; Brook, The Confusion of Pleasure, cit.


 

nelle società indiana, cinese e giapponese era imperniata sul rinnovamento dei tessuti, dei colori e, soprattutto dei motivi decorativi, mentre il taglio e la foggia delle varie tipologie di abbigliamento in cui si articolavano i sistemi vestimentari rimanevano sostanzialmente immutati per lunghi periodi: emblematico a questo proposito è l’esempio del kimono. Per contro, in Europa tra XVI e XVIII secolo, parallelamente al rinnovamento di tessuti, colori e fantasie, si trasformava profondamente anche la foggia del vestiario, sia maschile che femminile: si pensi, ad esempio, a come cambiò l’abbigliamento per l’uomo maschile, passando dall’effemminato e ampolloso stile francese di fine Seicento al ricercato, ma sobrio gusto “alla giovane Werther” degli ultimi decenni del Settecento, o alle trasformazioni intervenute nella struttura dell’abito femminile nel corso di qualche decennio dalle complesse architetture degli hoop petticoat alla linearità della chemise à la reine . Vi era poi una seconda importante differenza tra la moda europea e le mode asiatiche. Nell’ India Moghul, nella Cina della tarda età Ming e nel Giappone Tokugawa la moda si identificava in larga misura con il lusso – anche i sobri kimono stile iki erano molto costosi – e la diffusione delle mode avveniva secondo modalità trickle down. In Europa, invece, l’evoluzione del gusto nell’abbigliamento europeo fu via via sempre più marcata dalla crescente disponibilità di articoli  di vestiario  e accessori trendy accessibili anche a costi contenuti – i beni “populuxe” ne erano un esempio – e non mancavano i casi di contaminazione trickle up.  In Europa si potevano seguire le tendenze in voga al momento anche senza disporre di ingenti facoltà e pertanto l’influenza moda si estendeva a gran parte della società, contrariamente a quanto avvenne, ad esempio, in Cina, dove i fenomeni di ansia consumistica documentati tra Cinque e Seicento riguardarono soltanto una porzione assai limitata sia della società che del territorio cinese e, di conseguenza, non raggiunsero una portata tale da


 

generare un cambiamento diffuso181. Il che contribuisce a spiegare un terzo, forse il più importante, elemento che distingue nettamente il ruolo che la moda aveva assunto in Europa rispetto alle grandi civiltà orientali: nel vecchio continente si affermò una sofisticata e condivisa “cultura della moda”, maturata grazie all’attenzione dedicatale dagli intellettuali, ma soprattutto a seguito della nascita e della diffusione della stampa specializzata, che nemmeno i manuali cinesi di comportamento o i cataloghi giapponesi di kimono poterono in alcun modo eguagliare. Una cultura della moda che rappresenta la migliore dimostrazione della avvenuta legittimazione della funzione che la moda svolgeva nella società. Si può così può spiegare perché gli stili vestimentari affermatisi nelle società indiana, cinese e giapponese non siano divenuti “mode” a tutti gli effetti, ma, al contrario, siano stati  progressivamente  relegati   nell’ambito
dell’etnico o confinati ad un uso limitato agli ambienti domestici182:   certo,
non mancano gli esempi di abiti orientali adottati dagli europei, ma si tratta, appunto, di forme di espressione di snobismo o di particolari tendenze della moda occidentale.183 La moda non fu un’invenzione europea, ma solo in Europa si sviluppò pienamente come istituzione sociale, mentre in India, Cina e Giappone essa si era evoluta soltanto parzialmente, senza riuscire ad ottenere un pieno riconoscimento sociale. Nel XIX secolo non vi era altra moda che quella affermatasi nelle società occidentali, la quale si sarebbe imposta al resto del mondo, relegando le altre tradizioni vestimentarie nelle peculiari nicchie di cui s’è detto: questo significa che la moda contribuì al processo  di  globalizzazione?  E’  possibile.  Certo  essa  potrebbe  essere a


181 Clunas, Superfluous Things, cit., p. 173.
182 Sulla percezione orientale del modo di vestirsi degli europei si veda Jackson and Jaffer editors, Encounters, cit., pp. 190-217.
183 Cohn, Cloth, Clothes and Colonialism in India, cit., pp. 333-338; Jackson and Jaffer editors, Encounters, cit.


 

pieno titolo annoverata tra quei “germi di civiltà”, che, secondo Niall Ferguson, furono disseminati nel mondo dal dominio britannico e che aprirono la strada alla modernità nei territori extra-europei. 184



184 Non vi è dubbio che la moda abbia svolto un ruolo più rilevante degli sport di squadra! (N. Ferguson, Empire. How the Britain Made the Modern World, London, Penguin Books, 2004, p. XXIII).

 

Fonte: http://www.unibs.it/sites/default/files/ricerca/allegati/Belfanti07.pdf

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Autore del testo: Marco Belfanti

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