Nascita della moda italiana

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Nascita della moda italiana

1951-1960 La nascita della moda italiana
Il 12 Febbraio 1951 una sfilata organizzata da Giovanni Battista Giorgini (1898-1971) entusiasma giornalisti e buyer americani: è la nascita della moda italiana.
A Parigi due giovani talenti creativi – Pierre Cardin (1922) e Yves Saint Laurent (1936-2008) – si impadroniscono della scena dell’haute couture.

ALTRI PROTAGONISTI
Pierre Balmain (1914-1982)
Norman Norell (1900-1972)
Roger Vivier (1913-1998)
Cristobal Balenciaga (1895-1972)
Hubert de Givenchy (1927)
Guy Laroche (1921-1989)
Mila Schön (1916-2008)
Maria Antonelli (1903-1969)
Laura Aponte (1906-1990)

  • NEL MONDO
  • IN ITALIA

Nel corso del decennio due giovani talenti creativi si impadronirono della scena dell’haute couture parigina. Pierre Cardin rivoluzionò l’Alta Moda introducendo linee geometriche e nuovi materiali – come il vinile utilizzato per il suo space look – e interpretando in maniera nuova il ruolo dello stilista. Fu il primo a lavorare per i grandi magazzini, a produrre una propria linea di prêt-à-porter, a estendere la politica del licensing all’abbigliamento pronto, suscitando la reazione della Chambre Syndicale de la Couture Parisienne che lo espulse. Nel 1958 Yves Sain Laurent, che aveva iniziato la propria carriera da Dior, esordì presentando la linea trapezio: vestiti a forma di sacco, stretti in alto e svasati verso il basso, lunghi fino al ginocchio. Nel 1954, quindici anni dopo la chiusura, riaprì i battenti la Maison Chanel.

Il 12 febbraio 1951 Giovanni Battista Giorgini organizzò nella propria residenza fiorentina – Villa Torrigiani – una sfilata alla quale si fa convenzionalmente risalire la nascita della moda italiana. Le ragioni dell’importanza di quell’evento sono molteplici. Sulla passerella sfilarono creazioni sartoriali esclusivamente italiane di alcune fra le più importanti case di moda fiorentine, milanesi e romane, che accettarono di presentare i loro modelli in una sfilata collettiva. Inoltre, la manifestazione si svolse immediatamente dopo gli appuntamenti di moda parigini, un espediente pensato per incuriosire i compratori americani e indurli a prolungare il loro viaggio europeo sino a Firenze. Ai rappresentanti dei più importanti department store d’oltreoceano – I. Magnin di San Francisco, Henry Morgan di Montreal, B. Altman, Bergdorf Goodman e Leto Cohn Lo Balbo di New York – doveva essere ben chiaro che a Firenze li attendevano collezioni del tutto nuove, dal momento che alle case di moda italiane era mancato materialmente il tempo necessario per recepire ed elaborare le nuove tendenze lanciate dalle passerelle parigine. Di origini nobili, nel periodo fra le due guerre, Giovanni Battista Giorgini si era dedicato all’attività di rappresentante dei prodotti dell’artigianato toscano – paglie, maioliche, biancheria ricamata per la casa – che aveva commercializzato negli Stati Uniti, acquisendo una conoscenza molto approfondita del mercato e dei gusti americani. Sapeva che la produzione delle case di moda italiane – dall’alta sartoria ai modelli boutique, dalle creazioni per lo sport a quelle per il tempo libero – aveva tutte le carte in regola per soddisfare le esigenze di un mercato in cui la ricchezza diffusa aveva creato bisogni di consumo che non potevano essere appagati dalle creazioni esclusive ed elitarie proposte dagli atelier parigini. Da un articolo pubblicato dal magazine americano «Time» a commento della sfilata fiorentina, i lettori appresero che i modelli italiani costavano circa la metà di quelli francesi, ai quali non avevano nulla da invidiare. «Cause for worry», concludeva il giornalista: gli italiani stavano incominciando a impensierire seriamente i couturier francesi. A Firenze per l’Alta Moda romana sfilarono Simonetta, Carosa, Alberto Fabiani, le sorelle Fontana ed Emilio Schuberth (1904-1972) che, con l’accostamento dei colori e dei materiali delle sue creazioni, diede alla sfilata un contributo di gusto mediterraneo e di profonda conoscenza delle tradizioni sartoriali napoletane. Milano era presente con le creazioni delle sartorie Vanna e Noberasco, con le pellicce di Jole Veneziani (1901-1989), e con Germana Marucelli (1905-1983). Quest’ultima, considerata dagli storici della moda l’anticipatrice del New Look di Christian Dior, con l’aiuto di Franco Marinotti (fondatore della Snia Viscosa), era subentrata alla storica casa Ventura aprendo un proprio atelier, divenuto cenacolo di architetti, pittori, scultori, poeti. Per la moda boutique sfilarono i sarti milanesi Giorgio Avolio, le cui creazioni si caratterizzavano per i colori, i disegni e il taglio classico, e Franco Bertoli (1910-1960) che, al contrario, si distingueva per originalità e fantasia, doti affinate durante gli anni Trenta, quando la scarsità delle materie prime aveva costretto a far largo impiego di materiali di fortuna. Presentò i propri modelli anche Emilio Pucci (1914-1992), che a quell’epoca si era già aperto un varco nel mercato statunitense attraverso la stampa di moda e i grandi magazzini che commercializzavano i suoi modelli con il marchio Emilio. Vissuto all’insegna della conquista dei mercati internazionali, il decennio si concluse ribadendo la centralità della capitale: a Roma nel 1958 fu fondata la Camera sindacale della Moda italiana e, sempre a Roma, nel 1959 Valentino (1932) aprì la propria casa di moda.


1961-1970 I giovani
L’industria dell’abbigliamento confezionato in serie diventa una realtà capace di influenzare gusti e consumi della popolazione italiana.
Mentre Parigi si apre ai contributi di una nuova generazione di designer giapponesi, il mini abito di Mary Quant e il corpo da adolescente di Twiggy diventano i simboli del look degli anni Sessanta.

ALTRI PROTAGONISTI
Irene Galitzine (1916-2006)
Pino Lancetti (1932-2007)
Rudi Gernreich (1922-1985)
André Courrèges (1923)
Paco Rabanne (1934)
Emanuel Ungaro (1933)

  • NEL MONDO
  • IN ITALIA

Mentre le passerelle parigine riuscirono ancora a sorprendere ospitando le collezioni degli stilisti giapponesi emergenti Hanae Mori (1926), Kenzo Takada (1939), Kansai Yamamoto (1944), Issey Miyake (1938), la geografia internazionale della moda si arricchì di un ulteriore protagonista grazie a una nuova generazione di stilisti inglesi, che contribuì a ridefinire gli standard della moda. La chiave del loro successo fu la capacità di interpretare e di sfruttare i cambiamenti sociali rappresentati dall’emergere di un nuovo tipo di consumatore – i giovani –, che rifiutava di conformarsi alle tradizioni e alle convenzioni. Il senso di disagio e di ribellione diffuso nel mondo giovanile si espresse anche attraverso la contestazione dei simboli dell’abbigliamento tradizionale: a colletti, pantaloni diritti con la piega, giacca e scarpa classica si contrapposero colli alti, jeans e fuseaux, eskimo e mocassini. Il mini abito di Mary Quant (1934) e il corpo da adolescente di Twiggy  (1949) diventarono i simboli del look femminile degli anni Sessanta, e la “Swinging London” entrò nel novero dei grandi attori della moda internazionale. Mentre i ragazzi londinesi si divisero fra rockers e mods, negli Stati Uniti nasceva il look hippie, una forma di anti-moda affermatasi come segno di identificazione del movimento giovanile che rifiutava il consumismo e condannava la politica estera americana.
Sulla scia dei successi raccolti nel decennio precedente, la moda italiana consolidò la propria fama internazionale grazie sia alle iniziative di firme ormai note che alle idee di giovani talenti creativi. Tra le prime sono da annoverare le sorelle Fendi, la cui pellicceria attiva a Roma sin dal 1925 salì alla ribalta internazionale grazie alla collaborazione con Karl Lagerfeld (1933), che innovò taglio e materiali. Tra i secondi spiccano Mariuccia Mandelli (Krizia, 1935) e Ottavio (1921) e Rosita Missoni (1931), che a Firenze presentarono le loro prime collezioni di maglieria. Nel 1962, venne ricostituita la Camera nazionale della Moda – nata nel 1958 ma rimasta poi inattiva –, da subito impegnata a fronteggiare i primi segnali di crisi che offuscavano il successo della moda italiana, tra cui le rivalità e i dissidi che contrapponevano Firenze e Roma, e le difficoltà economiche in cui si dibatteva l’Alta Moda, che risentiva di costi di gestione troppo elevati, ripartiti su un numero di creazioni troppo esiguo. Alcune case di moda decisero in quegli anni di compiere il passo verso la produzione di prêt-à-porter di lusso. Per l’Italia, la grande novità del decennio è tuttavia rappresentata dall’affermazione dell’industria dell’abbigliamento confezionato in serie, che porta a maturazione il ciclo delle innovazioni introdotte nella seconda metà egli anni Cinquanta con la “rivoluzione delle taglie”. Per la prima volta, anche per il consumatore italiano, venne così a esistere un’alternativa alla produzione sartoriale.  Nonostante gli ostacoli culturali e commerciali – in Italia “abito pronto” era ancora sinonimo di “abito usato” e l’arretratezza del sistema distributivo giocava a sfavore della diffusione dell’abito confezionato –, le imprese che producevano abbigliamento si moltiplicarono e realizzarono ingenti investimenti in capitale fisso, marketing e distribuzione. Gruppo Finanziario Tessile, Max Mara, Marzotto posero le basi delle realtà industriali che, nei decenni successivi, diventeranno i principali interlocutori di stilisti italiani e stranieri.


1971-1980 Il trionfo del prêt-à-porter
Mentre il ritmo di avvicendamento delle mode subisce una forte accelerazione, il rapporto fra stilismo e industria imprime una svolta alla storia della moda italiana e proietta Milano nella geografia internazionale della moda.
In Francia il processo di democratizzazione della moda si concentra intorno al gruppo Créateurs et Industriels. In Inghilterra nasce il punk.
ALTRI PROTAGONISTI
Ossie Clark (1942-1996)
Gianfranco Ferré (1944-2007)
Jean-Paul Gaultier (1952)
Norma Kamali (1945)
Jean Muir (1928-1995)
Zandra Rhodes (1940)
Sonia Rykiel (1930)
Nicola Trussardi (1942-1999)
Agnès B. (1941)
Zoran Ladicorbic  (1947)

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In Francia il processo di democratizzazione della moda si concentrò intorno al gruppo Créateurs et Industriels, creato da Didier Grumbach (1937). Erede di una dinastia di industriali dell’abbigliamento, nel 1970 è direttore generale del gruppo che produce il prêt-à-porter Saint Laurent Rive Gauche, Givenchy Nouvelle Boutique e le collezioni di moda pronta di Valentino, Chanel e Philippe Venet (1929). Le sfilate parigine di prêt-à-porter abbandonarono le tradizionali passerelle per diventare veri e propri spettacoli. Questo divorzio dall’Alta Moda fu il presupposto di un rapporto di complementarità destinato a consolidarsi negli anni Ottanta. Negli Stati Uniti Ralph Lauren (1939) e Calvin Klein (1942) uscirono dall’anonimato dedicandosi all’eleganza casual femminile e maschile, ma ci vorrà ancora un decennio prima che l’America riesca a conquistare una vera e propria autonomia stilistica. Intanto Londra si fece ancora portavoce dei movimenti giovanili: nel 1976 nacque il punk divenuto moda grazie a Vivienne Westwood (1941).

Il decennio è caratterizzato dal persistere di gravi incertezze economiche che si ripercuotono sulla produzione e sul consumo di abbigliamento. Per diminuire i costi, le grandi imprese che si erano formate nel corso degli anni Sessanta avviarono un processo di rinnovamento che le portò a ridurre il numero degli addetti, a investire in nuove tecnologie, a snellire la propria struttura ricorrendo al decentramento di intere fasi del processo produttivo. L’industria italiana dell’abbigliamento assunse di conseguenza una configurazione del tutto nuova rispetto al passato: il numero medio degli addetti per unità produttiva calò sensibilmente e il tessuto fatto di piccole e piccolissime imprese specializzate, flessibili, e agglomerate nei “distretti” che emerse in quegli anni diventò la cifra distintiva del sistema industriale italiano, particolarmente nel settore del tessile e dell’abbigliamento. Sul fronte dei consumi, la contrapposizione generazionale si acuì ma i giovani incominciarono a non essere più gli unici a esprimere forti istanze di cambiamento. Anche tra gli adulti si diffuse il rifiuto dell’omologazione dei gusti che la standardizzazione della produzione di abbigliamento confezionato aveva inevitabilmente imposto. In Italia, Walter Albini (1941-1983) fu il primo a intuire che la risposta al cambiamento nei gusti e nei comportamenti di consumo di abbigliamento doveva andare nella direzione di una maggiore personalizzazione del prodotto industriale, ottenuta attraverso la collaborazione fra stilismo e industria nella fase della progettazione del prodotto e del processo produttivo per realizzarlo. Albini aveva in mente una moda industriale così diversa dalle creazioni artigianali che sfilavano sulle passerelle fiorentine e dall’Alta Moda romana da necessitare di un nuovo trampolino di lancio. Artefice del primo esempio di collaborazione fra moda e industria spinta fino alla creazione di intere collezioni, preceduta da un’intensa attività di studio e modifica delle macchine e dei tessuti in funzione dei progetti stilistici, all’inizio del decennio Walter Albini decise di presentare a Milano le proprie creazioni disegnate per cinque diverse case di moda (Basile, Escargots, Callaghan , Misterfox, Diamant’s, alla quale subentrò dopo breve tempo Sportmax), specializzate in differenti produzioni (giacche, maglieria, jersey, abiti, camicie) fra loro complementari. Il distacco dalle passerelle fiorentine – condiviso da Krizia, Jean Baptiste Caumont (1932), Missoni, Ken Scott (1919-1991) – segnò una svolta nella storia della moda italiana. Fu in quegli anni infatti che Milano si affermò come una delle principali capitali internazionali della moda grazie a stilisti con spiccate doti imprenditoriali e manageriali del calibro di Albini che, nel 1975, presentò una collezione maschile con il proprio marchio, precorrendo ancora una volta i tempi; di Gianni Versace (1946-1997), che debuttò disegnando la collezione Complice di Girombelli; di Giorgio Armani (1934) che, dopo aver lavorato a lungo per la Hitman di Cerruti, inaugurò nel 1978 con il Gruppo Finanziario Tessile una nuova forma di collaborazione con l’industria basata sui contratti di licensing.


1981-1990 Stilismo e industria
Con l’estensione dei contratti di licenza di uso del marchio dall’abbigliamento ai profumi e agli accessori incomincia una nuova era della storia del successo internazionale, conquistato dalle grandi firme italiane della moda.
La moda diventa sempre più internazionale: non più solo dalla Francia e dall’Europa, ma anche dagli Stati Uniti e dal Giappone provengono nuovi stili e nuove mode.
ALTRI PROTAGONISTI
Azzedine Alaïa (1940)
Manolo Blahnik (1942)
Rei Kawakubo (1942)
Christian Lacroix (1951)
Thierry Mugler (1949)
Yohji Yamamoto (1943)

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  • IN ITALIA

Negli anni Ottanta la moda è diventata definitivamente internazionale. Oltre all’Italia, in Europa anche Germania e Inghilterra incominciarono a fare concorrenza alla Francia. Dagli Stati Uniti arrivò la moda classica sportiva. Da sempre attenta alla praticità e alla funzionalità dell’abbigliamento, la moda americana raggiunse il successo mondiale in quegli anni con le sue tre firme più prestigiose: Donna Karan, Calvin Klein e Ralph Lauren. Dal Giappone invece arrivò la moda d’avanguardia. Con l’apripista Kenzo, diventato ormai una presenza stabile sulle passerelle parigine, gli stilisti giapponesi si contraddistinsero per l’uso di materiali insoliti nella confezione di abiti che vestivano il corpo ignorandone il sesso, una novità con cui la concezione occidentale del corpo, dell’abito e della sessualità continua ancora oggi a misurarsi.
La parola d’ordine del decennio è apparire. È il trionfo dell’immagine usata come mezzo di comunicazione, come leva delle strategie di marketing e come “filosofia” di comportamento espressa dal total look, uno stile studiato dalla testa ai piedi in cui tutto è coerente dal più piccolo accessorio al capospalla. Nelle strategie di crescita e di diversificazione delle imprese, il trionfo dell’immagine ha trovato il proprio corrispettivo nell’importanza assunta dal brand, il segno distintivo che soddisfa un bisogno di consumo edonistico indifferente alle qualità intrinseche del prodotto. Sostenuto da una filiera produttiva che integra il tessile e le industrie correlate all’abbigliamento, il successo internazionale del “sistema moda” italiano in quegli anni si è consolidato grazie all’apporto di creatività e di idee imprenditoriali e manageriali di stilisti ormai affermati e di nuovi talenti. Fra le giovani promesse della moda italiana vi erano il sarto Domenico Dolce e il grafico Stefano Gabbana, che nel 1986 presentarono a Milano la loro prima collezione, e Franco Moschino (1950-1994) che, dopo una gavetta trascorsa disegnando la produzione di prêt-à-porter di alcune fra le più importanti imprese dell’abbigliamento italiane, debuttò con i marchi Moschino Couture, Moschino Jeans, e Cheap&Chic. Il successo internazionale della moda italiana degli anni Ottanta si identifica con Giorgio Armani e con la giacca destrutturata su cui facevano indifferentemente perno le collezioni maschili e femminili. Realizzato per l’uomo con colori e tagli inediti, il blazer diventò componente essenziale del guardaroba femminile in un’epoca in cui le donne accedevano sempre più numerose al mondo del lavoro. Nel 1982, il magazine americano «Time» dedicò ad Armani e alla sua giacca destrutturata la copertina.  A quella data, la moda Armani era già ben nota negli Stati Uniti. La linea Giorgio Armani Le Collezioni per uomo e per donna era commercializzata attraverso i più lussuosi department store. Il marchio e il logo Emporio Armani erano segno distintivo al tempo stesso di una collezione e di un canale distributivo monomarca. Il guardaroba maschile disegnato da Armani per Richard Gere, interprete di American Gigolo (1980), aveva contribuito a estendere la notorietà dello stilista ben oltre i confini dei tradizionali mercati. Saldamente radicata nel mercato americano, l’impresa fondata da Giorgio Armani diventò un modello di crescita e di diversificazione basato su solidi pilastri: la collaborazione con l’industria, fondamentale per trasformare la creatività stilistica in innovazioni di successo, l’uso delle royalties generate dai contratti di licenza d’uso del marchio – sottoscritti nel 1980 con L’Oréal e nel 1988 con Safilo – per finanziare gli investimenti pubblicitari, la realizzazione della rete di negozi monomarca e l’internazionalizzazione dell’impresa, che dal 1987 fece il proprio ingresso in Giappone.


1991-2000 Globalizzazione
Il sistema produttivo su cui la moda italiana aveva costruito il suo successo incomincia a manifestare segnali di crisi e la direzione di alcune grandi imprese della moda italiane e francesi si apre agli apporti di direttori creativi stranieri: due segnali, fra i tanti, dei cambiamenti che il fenomeno della globalizzazione sta portando nel mondo della moda.

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  • IN ITALIA

Sebbene sin dall’inizio del decennio la capacità dell’Alta Moda francese di dettare le linee di tendenza apparisse drasticamente ridimensionata, le passerelle parigine continuarono ad esercitare una irresistibile attrazione. Sfilare a Parigi era garanzia di reputazione, visibilità e prestigio anche in una fase di avvicendamenti generazionali che portarono le nuove leve inglesi alla direzione stilistica di alcune fra le più importanti maison: John Galliano ha lavorato per Givenchy e per Dior, Alexander McQueen gli è succeduto alla direzione artistica di Givenchy a soli ventiquattro anni, mentre la casa Chloé ha scelto Stella McCartney come chef designer. L’immissione di energie creative inglesi nelle case di moda francesi e il fenomeno dei “sei di Anversa” - il gruppo formato da sei diplomati della Royal Academy of Fine Arts della città belga, che presentarono le loro collezioni a Londra alla fine degli anni Ottanta per poi continuare a lavorare autonomamente – hanno chiuso emblematicamente un secolo in cui la moda è diventata un fenomeno sempre più internazionale.
La particolarità della moda degli anni Novanta consiste nella mancanza di una tendenza estetica univoca. È moda tutto quello che creano i grandi couturier francesi e gli stilisti italiani, ed è moda tutto quello che si acquista nelle boutique o nei grandi magazzini, purché sia soggetto ad una rapida obsolescenza. La moda contribuisce ancora a creare personalità individuali e a disegnare linee di demarcazione sociali, ma le forme concrete che essa assume cambiano sempre più rapidamente e si mescolano in combinazioni inedite e contraddittorie: l’abbigliamento sportivo elegante, il lusso povero, lo stile “chic-trasandato”. Ai grandi fenomeni della moda italiana degli anni Novanta appartengono case di moda che vantano una lunga tradizione nell’ambito della produzione di abbigliamento e di accessori, e stilisti che avevano incominciato a muovere i primi passi nel mondo della moda soltanto da pochi anni. Dopo la crisi degli anni Settanta e Ottanta, Gucci è risorta grazie al designer americano Tom Ford (1961), che ne ha assunto la direzione creativa imprimendo un radicale rinnovamento all’impresa. Per Miuccia Prada, subentrata alla fine degli anni Settanta nella gestione dell’impresa fondata nel 1913, la fama arrivò alla metà del decennio dopo i primi successi ottenuti con il nuovo design di zaini e borse, e con il lancio di una collezione di prêt-à-porter nel 1985. Nel 1999, con l’acquisto di una quota dell’azienda della stilista tedesca Jil Sander, il marchio Prada si è affermato anche a livello internazionale. Gianni Versace, Dolce e Gabbana, che vestirono la popstar Madonna nella tournée del 1993, Gianfranco Ferrè, cui fu affidata la direzione della Maison Dior, sono solo alcuni fra i tanti che contribuirono ad alimentare la fama della moda italiana in un periodo in cui il sistema produttivo su cui essa aveva costruito il suo successo incominciava a manifestare segnali di crisi. Per le economie industrializzate, il modello produttivo italiano era facilmente riproducibile, soprattutto per quanto concerne le lavorazioni a minor contenuto artigianale. Le imprese italiane, a loro volta, misero in atto strategie di delocalizzazione della produzione per abbattere i costi. Sul mercato internazionale iniziò ad avvertirsi sempre più aggressiva la concorrenza dei Paesi a basso costo del lavoro, capace di spiazzare le aziende italiane produttrici di abbigliamento confezionato.


2001-2010 Un decennio di crisi
Dal crollo delle Torri Gemelle alla recessione internazionale dell’ultimo biennio, l’inizio del nuovo millennio è coinciso con un periodo di gravi turbolenze per l’economia in generale e per il mercato dei beni dell’abbigliamento e del lusso in particolare.
La crisi non ha risparmiato il sistema moda italiano, all’interno del quale è in corso un processo di severa selezione delle imprese più solide ed efficienti.
Il decennio è coinciso con un periodo di gravi turbolenze per l’economia in generale e per il mercato dei beni dell’abbigliamento e del lusso in particolare.  Dal 2001 in poi l’instabilità ha prevalso sui mercati internazionali. Il clima di incertezza scaturito dal deterioramento del quadro politico internazionale si è riflesso come prevedibile sulla dinamica dei consumi, ma si è anche manifestato attraverso fenomeni di altra natura tra i quali l’accentuazione della volatilità tipica dell’industria della moda, in cui non sono inconsueti clamorosi successi di brevissima durata, il forte rallentamento della crescita dei mercati dei Paesi più sviluppati, la tendenza a spostare la produzione verso i Paesi in cui il costo del lavoro è più basso (Cina, Hong Kong, Taiwan e le Filippine). Complessivamente, con riferimento all’ultimo decennio, si può comunque parlare di crescita del mercato globale della moda alimentata da due fenomeni che hanno caratterizzato l’economia internazionale del nuovo millennio. Il primo è rappresentato dall’aumento della domanda proveniente dalla regione asiatico-pacifica (Australia, Cina, Giappone, India, Singapore, Corea del Sud e Taiwan), che nel 2007 ha superato l’Europa per valore delle vendite totali (34% contro il 30%), compensando la stagnazione del potere d’acquisto nei mercati sviluppati. Il secondo è costituito dal progressivo ampliamento della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi, che in molte economie sviluppate, come gli Stati Uniti, sta generando un divario sempre più marcato tra ricchi e poveri. Questo significa che, anche se il potere di spesa globale di un’area economica è limitato, i consumatori della fascia alta dello spettro socio-economico possiedono comunque redditi per mantenere vivace la dinamica della domanda di beni di lusso. Sebbene sia ancora prematura una valutazione degli effetti della crisi che si è manifestata nell’ultimo biennio con intensità e ampiezza di raggio d’azione tali da essere paragonata alla Grande depressione del 1929, non c’è alcun dubbio che il decennio sia coinciso con un periodo estremamente critico per le imprese della moda italiane, segnato da clamorosi dissesti finanziari, da acquisizioni da parte dei due grandi poli del lusso francesi, da dolorose ristrutturazioni aziendali. Le imprese che godono di buona salute sono poche e fra queste spicca l’impero fondato da Giorgio Armani, che negli ultimi anni è stato protagonista di acquisizioni delle imprese manifatturiere licenziatarie del marchio. Si tratta di una strategia di carattere tutt’altro che difensivo, che sembra voler indicare nella riscoperta e nella valorizzazione delle origini manifatturiere del successo della moda italiana una via di uscita dalla crisi e una prospettiva di recupero della competitività internazionale del sistema moda italiano.
Come possiamo considerare oggi la moda? Prevalentemente è un condizionamento di un gusto, di un modello, di una scelta di colori, di stili e quant’altro rivolto a un pubblico vasto che accogliendo il messaggio pubblicitario o tramite lo stile di qualcuno, imita e fa suo a sua volta la “moda”in questione. Si può dire che oggi esistano tre tipi di moda, parlando in particolar modo dell’abbigliamento femminile: quello d’alta sartoria, riservato alle sfilate di modelle e alle ricche milionarie; la moda pronta che, in diversa qualità e con diverso prezzo, si può trovare nei normali negozi come nei più grandi magazzini e la moda giovane. Quest’ultima è una moda non moda. A noi giovani infatti non piace farci condizionare nella scelta dei nostri gusti dal mondo degli adulti e preferiamo quindi dar vita ad una moda soltanto nostra, nella quale possiamo riconoscerci, e che possiamo interpretare a modo nostro. Così la moda di noi giovani, agli occhi di una persona anziana o legata alle tradizioni superate del passato, può sembrare un pugno in un occhio, una stravaganza senza significato. Invece per noi giovani i colori vivaci, le stoffe orientali, lunghi foulards, la minigonna che ora sta ritornando di gran moda, tutto questo ha un preciso significato. Oggi il giovane veste a modo suo, mentre in passato doveva sottostare al gusto degli adulti.
In questi casi la moda giovane è diventata schiava della moda adulta e il nostro desiderio di indipendenza è stato annullato. Credendo di non essere condizionati in pratica lo siamo come e forse anche di più degli adulti, dai quali vorremmo distinguerci. Anzi, come dicevo prima, molte volte ci lasciamo influenzare più noi dei nostri genitori. Per noi infatti è un fatto di vitale importanza vestire nel modo “giusto” e seguiamo alla lettera insegnamenti mutevoli di una moda in continuo cambiamento. L’adulto invece sa scegliere meglio e più di noi fra ciò che è destinato a durare una settimana o un’intera stagione.

 

Fonte: http://italianidentity.weebly.com/uploads/2/1/3/4/21348774/storia_della_moda_italiana_1.docx

Sito web da visitare: http://italianidentity.weebly.com

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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