Appunti di musica

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Appunti di musica

Ascoltando  con  attenzione  una  qualsiasi  musica  notiamo  che  essa    ci “suggerisce” sempre qualcosa: un bel paesaggio,  un  ricordo  del passato, una emozione (gioia, tristezza, sorpresa, ecc.), un colore. Questa semplice esperienza ci rivela un aspetto molto importante dell’arte  dei  suoni:  la musica è un linguaggio.
Se  volessimo  descrivere  la  struttura  di  questo  linguaggio,   dovremmo partire innanzitutto individuando i fattori che gli  permettono di “funzionare”. Quali sono  questi  fattori?  Per  avvicinarci alla risposta, facciamo rapido paragone. Un puzzle è un  gioco da tavolo che consiste nel ricostruire  una  data   immagine mediante la combinazione di diverse tessere. Il puzzle “funziona” solamente se tutti i suoi fattori sono presenti. In primo luogo dovremo avere le tessere; senza di esse è proprio difficile – anche volendo – risolvere un puzzle. In secondo luogo dovremo avere un posto   adeguato in cui poter lavorare: un tavolo, un tappeto, il pavimento (è sempre meglio una superficie piana). Infine è indispensabile avere bene in mente l’immagine che si deve riprodurre (solitamente è stampata sulla scatola). Quest’ultimo fattore  è  importantissimo perché  ci  dice  in quale “ordine” devo disporre le tessere.
Quindi possiamo dire che un puzzle, per poter funzionare, necessita di tre fattori:  le  tessere,  che  chiamiamo  materia  prima;  una    superficie, che chiamiamo luogo; l’immagine da riprodurre, che chiamiamo ordine.
Tornando alla musica, la sua materia prima - il suo corpo - è il Suono; il luogo della musica - il posto cioè in cui essa si muove - è   il Tempo (tanto che di un brano possiamo dire che dura 3 minuti, mentre non possiamo dire che è largo 20 cm!); l’ordine - che permette  di  combinare  le  tessere musicali in maniera significativa - è la Forma.


Suono, Tempo e Forma sono le “qualità essenziali” della musica, poiché, qualora venisse a mancare una sola di esse, la musica non esisterebbe. Infatti: se mancasse il suono la musica sarebbe muta; se mancasse il tempo, i  suoni  (o  i  silenzi)  non  avrebbero  né  un inizio né una fine; infine, se mancasse la forma,  avremmo  una musica  disordinata  e  quindi  senza significato; non avremmo  dunque linguaggio.

Per capire di più l’importanza di quest’ultima qualità (la forma), proviamo a pensare cosa succederebbe se non esistesse ordine nel linguaggio verbale:

li ttago iocga ortclei eln

 

La frase appena proposta  non  avrebbe  alcun  significato,  proprio perché sprovvista  di  un  ordine.  Essa  sarebbe  un  insieme disordinato di  segni grafici.  Ma  se  io  ordinassi  correttamente  le stesse  lettere  nello  spazio, quell’insieme   disordinato   di   segni grafici  darebbe  vita  ad  una    frase perfettamente comprensibile:

Il gatto gioca nel cortile

 

Allo stesso modo, possiamo dire che si ha linguaggio musicale – e quindi significato -  quando la forma ordina il suono nel tempo.

Ecco allora la definizione completa:

“la musica è l’arte di combinare i suoni nel tempo secondo una determinata forma, cioè in maniera significativa”.

 

Ma occorre fare una precisazione. Per poter comprendere qualsiasi  forma di   linguaggio   è   necessario   conoscere   il   “codice”   utilizzato da questo linguaggio. Se io non conosco il “codice”, non posso comprendere il significato della comunicazione. Prendiamo ad esempio la seguente frase:

Wer den Pfennig nicht ehrt, ist den taler nicht wer!


Se io non conoscessi la lingua tedesca, questa frase (benché  ordinata) non mi direbbe nulla. Ma se io conoscessi il tedesco – poniamo  che  la  mia famiglia    sia    originaria    di    Monaco    –  allora  potrei   perfettamente comprendere  il  significato  di  quella scritta, tanto da poterla tradurre    ai miei compagni:

Chi non dà valore al centesimo, non merita l'euro!

 

In musica avviene un po’ la stessa cosa. Finché non conosco il linguaggio musicale, i suoi strumenti, le sue caratteristiche, non posso comprendere i messaggi sonori che essa pone alla mia attenzione.


Cap. 1
La Durata e le Figure Musicali

 

IL TEMPO

Pur non sapendo definirlo, sappiamo che il tempo esiste  e  passa perché  è puntellato  di  avvenimenti:  nasciamo,  lavoriamo,  mangiamo,  studiamo,  ci innamoriamo…  Sono  questi  avvenimenti  che ci fanno sperimentare il tempo; tanto è vero che se non succede nulla, come in certi esperimenti in completo isolamento da qualsiasi forma sociale, la percezione del tempo che passa risulta enormemente travisata.  La  successione  di  questi  eventi nel  tempo  dà  vita  a  ciò che   chiamiamo   comunemente   ritmo.   Esso   è presente  in  ogni aspetto  della  vita  nostra  e  dell’universo,  dal  battito cardiaco  fino  alla successione delle stagioni. Definiamo il ritmo come il rapporto temporale fra due o più eventi.

Nel tempo musicale gli eventi che si succedono sono i “suoni”.
Essi, articolati con un determinato ordine, cioè con un “ritmo”, danno vita alla musica.

 

LA PULSAZIONE

Per   poter   conoscere   il   tempo   musicale,   per   poterlo   comprendere ed utilizzare,   abbiamo   bisogno   di   uno   strumento   che   ci   consenta   di “misurarlo”, di “contarlo”.
Non  è  raro  trovarsi  a  muovere  il  corpo  o  battere  le  mani  con regolarità, sincronizzandosi con i battiti della musica che ascoltiamo, soprattutto se il carattere ritmico è particolarmente accentuato. Ma perché? Con che cosa ci stiamo sincronizzando?
Ogni brano musicale si svolge su un battito regolare che ne scandisce     il movimento,  un  po’  come  un  orologio.  È  su  questo  battito  che  noi ci sincronizziamo quando battiamo le mani “a tempo”. Questa pulsazione in musica prende il nome di “pulsazione isocrona”, cioè una successione di


impulsi di eguale durata, che origina un battito costante e regolare.    Essa costituisce  il  nostro  “orologio  musicale”,  quasi  un  righello,  con il  quale possiamo misurare il tempo.

 

I  I  I  I  I  I  I  I  I  I  I  I  I I  I         Pulsazione isocrona

 

 

CHE COS’É LA DURATA

Ciascun   evento   temporale   possiede   una   sua   “durata”,   definita dalla quantità di tempo che intercorre tra il suo principio e la sua fine. Facciamo un esempio: se una partita di calcetto con gli amici comincia alle ore 21.00 e termina alle 22.15, la sua durata risulta essere di 1 ora e 15 minuti.
In musica, per calcolare la durata degli avvenimenti (i suoni), utilizziamo lo stesso sistema. Prendendo come base il nostro orologio musicale - la pulsazione isocrona - possiamo stabilire con esattezza quante “pulsazioni” dura un certo suono.

Se   proviamo   a   scandire   queste   vocali   su   una   pulsazione isocrona, possiamo infatti definirne la durata musicale

 

La “a” dura una pulsazione La “i” dura due pulsazioni La “e” dura tre pulsazioni La “u” dura una pulsazione

La durata si definisce dunque come la “lunghezza” temporale dei   suoni, calcolata sulla pulsazione isocrona (ad esempio: questo suono dura  un battito, due battiti, ecc.)


NOTE E PAUSE

Per scrivere  la  durata  dei  suoni  ci  serviamo  abitualmente  delle “note”, mentre   per   la   durata   dei   silenzi   (ugualmente importanti) usiamo le “pause”. Note e pause sono segni grafici che attraverso la loro forma ci indicano la durata dei suoni e dei silenzi.       In particolare: le note sono la rappresentazione  grafica  dei  suoni, mentre    le    pause    sono    la rappresentazione grafica dei  silenzi.


Di seguito riportiamo lo schema di tutte le note e le pause:



Tutte  le  figure  musicali  stanno  fra  loro  in  rapporto  1:2;  vale  a dire che ciascuna è il doppio di quella precedente e la metà di quella successiva, come vediamo dalla figura seguente:

 

 

SEGNI DI PROLUNGAMENTO DEL SUONO

Esistono alcuni segni grafici speciali che possono modificare la durata  di una nota: il punto di valore, la legatura di valore e la corona. Questi segni servono ad ottenere particolari effetti di tempo, non ottenibili attraverso le figure musicali finora studiate.

Il punto di valore è un puntino posto dopo la nota che prolunga la durata della nota di metà del suo valore. Quindi una semiminima col punto sarà uguale


alla somma di  una semiminima più  una croma, mentre una minima   col punto sarà uguale alla somma di una minima più una semiminima:

 

La legatura di valore, invece, è una linea curva che lega due note    (della stessa altezza) fondendole in una  sola  nota  del  valore  pari alla somma delle durate iniziali: ad esempio, se lego due semiminime otterrò una minima, mentre legando una semiminima e una croma otterrò  una  durata  pari  ad una semiminima col punto:

 

La corona (o punto coronato), posta su una  nota  o  una  pausa, prescrive il prolungamento del loro valore a tempo indeterminato, cioè a piacere.


Cap. 2
La Velocità

 

CHE COS’É LA VELOCITÀ

Per capire cos’è la velocità dobbiamo fare un piccolo passo indietro.      La durata non ci dice propriamente quanto dura un suono, ma quanto dura un suono rispetto alla pulsazione, quindi ci dice la sua durata relativa. La durata effettiva di un suono dipende dalla durata della pulsazione isocrona. Finché non so quanto dura una pulsazione, non posso neanche sapere la durata delle note che abbiamo calcolato su di essa.
È  la  velocità  quel  parametro  del  tempo  che  ci  dice  quanto  dura    la pulsazione isocrona di un brano musicale, che ci dice quanto è “veloce” il brano. Dunque  la  velocità  ci  dice  la  durata  della pulsazione isocrona, svelandoci così la durata effettiva dei suoni.

 

IL METRONOMO

Per scrivere  la  velocità  si  possono  utilizzare  due  distinte  modalità, che possono comparire da sole o anche insieme.  Il  primo  modo  consiste nell’indicare  quante  volte   una   pulsazione   deve   essere battuta   in  un minuto:

q = 60 (volte al minuto)

In questo caso una pulsazione durerà 1 secondo. Se invece desidero  che le la pulsazione duri  un  po’  meno  di  un  secondo  (in  questo caso  ce  ne staranno più di 60 in un minuto) scriverò :

q = 62


Sorge    però    un    problema:    per quanto possiamo essere abituati a misurare il tempo (cosa    non    troppo    diffusa) al    massimo  riusciamo      a      contare più o meno precisamente intorno al secondo: come si fa ad ottenere tutte le  altre possibili sfumature? Esiste un strumento (un tempo meccanico ora elettronico) che serve esattamente a dare all’esecutore la battuta giusta: il metronomo. La parola fu inventata da Johann Nepomuk Mälzel nel  1815  e significa “regola della misura” (dal greco: metron + nomos).
Il  modello  definitivo  a  doppio  pendolo fu elaborato dall'orologiaio   di Amsterdam Dietrich  Nikolaus  Winkel, che va considerato il vero inventore    del
metronomo moderno. Johann  Nepomuk  Mälzel nel 1816 brevettò lo strumento, modificandolo per ottenere un battito anche sonoro e non solo visivo. Fu  così  che  quest’ultimo  passò  erroneamente  alla  storia  come l’inventore del metronomo.
Il metronomo è una sorta di pendolo capovolto, con un'asta graduata fra le frequenze 40 e 208 al minuto ed un peso, detto lente, che possiamo spostare lungo quest'asta selezionando le  pulsazioni  al minuto.  Le  indicazioni  di velocità che precisano il numero di pulsazioni al minuto vengono definite per questo indicazioni metronomiche (indicate con la sigla MM, che sta per Metronomo Mälzel).

 

INDICAZIONI AGOGICHE

Il secondo modo di scrivere la velocità è più libero, meno preciso, ma non per insufficienza di indicazioni.  Il  compositore  vuole appositamente lasciare un margine entro cui l’esecutore possa trovare il tempo nel quale gli sembra che emerga meglio, sotto le sue mani, il carattere più profondo del brano. Questa modalità non si serve di numeri, ma di aggettivi relativamente generici, detti indicazioni di agogica, che consentono un certa libertà   interpretativa.


Quali   siano   i   limiti   entro   cui   potersi   muovere   vengono    indicati nuovamente dal metronomo:

Largo 40-60 mm
Larghetto 60-66 mm
Adagio 66-76 mm
Andante 76-108 mm
Moderato 108-120 mm
Allegro 120-168 mm
Presto 168-200 mm
Prestissimo 200-208 mm

 

Occorre ricordare che l’aggettivo  non  indica  il  carattere  del  brano (un brano con l’indicazione “Allegro” può essere tutt’altro che gioioso), bensì il suo andamento temporale.
Vediamo l’inizio di una Sonata per pianoforte di Joseph Haydn (1732 – 1809): qui i due sistemi sono compresenti.

 

 

 

Durante il trascorrere del brano è possibile che l’autore desideri cambiare improvvisamente o progressivamente la velocità di riferimento. Nel primo caso si usa segnalare a fine  battuta  che  da quella successiva qualcosa cambierà,  utilizzando  una  doppia stanghetta e scrivendo sulla battuta seguente la nuova velocità di riferimento; nel secondo caso  invece  si useranno delle scritte, o  meglio le loro abbreviazioni, che indicheranno un rallentamento o una accelerazione progressivi: rall… o accel….


Cap. 3
Il metro

 

CHE COS’É IL METRO

Il metro è una struttura musicale basata sulla ricorrenza periodica di accenti. Fanno  riferimento  al  metro  espressioni  come  "questo  brano è  in  4/4  ", oppure “siamo in metro 3/4”, ecc.
Esso è il tentativo di dare un ordine alla pulsazione isocrona, per creare un ritmo costante sopra il quale costruire la musica.
Per fare questo il metro divide la pulsazione in “misure” o “battute”, in cui raccoglie sempre lo stesso numero di battiti. In questa scansione di battiti, l’inizio di una nuova battuta coincide sempre con il ritorno dell’accento, quindi la prima pulsazione della misura è sempre  accentata.  Inoltre  ogni tipo  di  battuta  o  misura,  ogni  tipo  di “metro”, ha al suo interno  una specifica organizzazione che vedremo più avanti.

 

La  misura  è  delimitata  da  stanghette  verticali  che  prendono  il  nome di
stanghette di battuta.

 


Esse  possono  essere  semplici  o  doppie  (come  si  vede  dalla figura). La doppia stanghetta di battuta viene utilizzata sia al termine del brano sia, eventualmente, per dividere le diverse parti di esso.

 

A seconda del numero di pulsazioni o tempi contenuti in ogni misura il metro si dirà:

 

  • binario se la battuta è composta da 2 tempi

q q / q q / q q / q q

 

  • ternario se la battuta è composta da 3 tempi

q q q / q q q / q q q / q q q

 

  • quaternario se la battuta è composta da 4 tempi

q q q q / q q q q / q q q q / q q q q

 

  • quinario se la battuta è composta da 5 tempi

q q q q q / q q q q q / q q q q q / q q q q q

 

Ecc…

 

      • SUDDIVISIONI DELLA PULSAZIONE

A  seconda   del   metro,   ciascuna   pulsazione   della   battuta   può essere composto  da  “suddivisioni”  binarie  o  ternarie.  La suddivisione  binaria alterna  sempre  un  battere  e  un  levare,  mentre in suddivisione ternaria abbiamo un battere e due  levare.
Se  il   metro   ha   suddivisione   binaria   della   pulsazione   si   dice metro semplice,   mentre   se   la   suddivisione   è   ternaria   si   parlerà di   metro composto.

 

 

INDICAZIONI METRICHE

Il tipo di metro viene normalmente segnalato all’inizio del brano con una frazione,     detta     “indicazione     metrica”     (da     non confondere    con l’indicazione metronomica, relativa alla velocità!).

Nei metri  semplici,  il  numeratore  della  frazione  indica  la  quantità  di impulsi  contenuti  in  ogni  battuta,  mentre  il  denominatore  indica la durata dell’impulso. Ad esempio  se  trovo  la  frazione  4/4  lo schema ritmico  sarà composto da 4 impulsi della durata di 1/4, cioè di una semiminima.

Nei metri composti, il numeratore indicherà il numero  delle suddivisioni totali di ogni battuta, mentre il denominatore designerà il valore di durata di ciascuna suddivisione. Ad esempio, il metro 6/8 avrà 6 suddivisioni da 1/8, cioè  del  valore  di  una  croma,  raccolti in 2  movimenti da  3  suddivisioni ciascuno.


Principali Metri Semplici

 

2/4= due tempi di semiminima a suddivisione binaria di crome

 

 

3/4= tre tempi di semiminima a suddivisione binaria di crome

 

 

4/4= quattro tempi di semiminima a suddivisione binaria di crome

 


Principali Metri Composti

 

 

6/8= sei suddivisioni di croma raccolte in due movimenti di semiminima puntata

 

9/8= nove suddivisioni di croma raccolte in tre movimenti di semiminima puntata

 

12/8= dodici suddivisioni di croma raccolte in quattro movimenti di semiminima puntata

 


SINCOPE E CONTROTEMPO

La sincope è  uno  spostamento  di  un  accento  dal  tempo  forte  al tempo debole. Ad esempio un suono che inizia sul tempo debole e si prolunga sul tempo forte, indebolisce quegli accenti che sarebbero forti e rinforza quelli che dovrebbero essere deboli. La forma più diffusa di sincope si ha quando una qualunque nota si trova su un tempo debole fra altre due figure di durata   inferiore.
Il controtempo si ha invece quando dei suoni iniziano sui tempi deboli, ma non si prolungano su quelli forti, sui quali sono presenti delle pause.
La sincope si differenzia dal controtempo in quanto nella prima il suono si prolunga sul tempo forte, mentre nel secondo il suono cade solo sul tempo debole lasciando in pausa il tempo forte.

 

SINCOPE

 

 

CONTROTEMPO

 

 

GRUPPI IRREGOLARI

Durante lo svolgimento  di  un  brano  musicale  è  possibile  incontrare dei gruppi irregolari di note. Sono irregolari poiché la loro esecuzione risulta sovrabbondante o insufficiente rispetto al tempo che dovrebbero occupare normalmente.


La terzina  è  costituita  da  un  gruppo  di  tre  note  il  cui  valore temporale viene  accorciato  in  modo  da  corrispondere  al  valore  di due note della stessa specie. La terzina è segnalata dal numero 3 posto al di sopra o al di sotto del gruppo. L’accentazione della terzina è + - -

La sestina è costituita da un gruppo di sei note il cui valore temporale viene accorciato in modo da corrispondere al valore di quattro note   della stessa specie. La sestina è segnalata dal numero 6 posto al di   sopra o al di sotto del gruppo. Diversamente da  quanto  si  possa pensare, la sestina non è l’unione di due terzine, infatti l’accentazione della sestina raccoglie le note per sottogruppi di 2:  + - + - + -

 

La quintina è costituita da un gruppo di cinque note da eseguirsi nel tempo di quattro figure della stessa specie.


Cap. 4
LAltezza

 

CHE COS’É L’ALTEZZA

L’altezza è quella qualità che distingue i suoni in acuti e gravi, cioè       – meno correttamente – alti e bassi. Questi termini derivano dall’istintivo richiamo al profondo, al pesante, al basso di un suono grave e, viceversa, sull’immediata relazione tra la vetta, l’alto, il leggero, il luminoso e l’acuto. Anche l’altezza però, come la durata dei suoni,      è una qualità “relativa”; infatti uno stesso suono può essere acuto rispetto ad un suono più grave, ma anche grave se confrontato ad un suono  più  acuto:  i  suoni  dunque sono più o meno acuti e più o meno gravi sempre in relazione ad altri.
Tuttavia, nel  corso  della  storia,  si  sono  delineati  per  convenzione  un “registro acuto” (il registro delle voci “femminili” e degli   strumenti come il violino, il flauto, la tromba, ecc…) e un “registro grave” (il registro delle voci “maschili” e degli strumenti come il violoncello,  il  trombone,  il contrabbasso, ecc…).

 

LA SCRITTURA DELLE ALTEZZE

 

L’altezza del suono, per essere scritta con precisione, necessita di tre segni grafici: il pentagramma, la chiave e le note.

Il pentagramma è un sistema di 5 linee orizzontali parallele e 4 spazi che permette di localizzare con precisione le note.


 

Sia le linee che gli spazi si contano dal basso verso l’alto:

La chiave musicale,  invece, è quel segno che ci svela  l’altezza di un   rigo specifico, svelandoci così l’altezza di tutti gli altri righi e spazi. In origine le “chiavi” non erano altro che i nomi dei suoni riportati all’inizio di un rigo, dal momento che anticamente veniva utilizzato il sistema  alfabetico  per indicare  le  altezze  (A=la,  B=si,  C=do, ecc.). Col tempo però esse hanno cambiato forma fino a  diventare quelle  che  oggi  conosciamo.  É  così  che dalla lettera “g” (che indicava il sol), si è passati alla moderna “chiave di violino”; dalla lettera “c” (che indicava il do), si è passati alla moderna “chiave di do” e dalla lettera “f” (che indicava il fa), alla moderna    chiave di fa.

La chiave di Sol, o chiave di chiave di violino, ci dice che il secondo   rigo (quello su cui poggia), sarà il rigo del “sol”:

 

La chiave di Do, ci indicherà la linea del do:



La chiave di Fa, ci indicherà invece la linea del fa:


 

Le  chiavi  di  DO  e  di  FA,  tuttavia,  possono  muoversi  sul pentagramma, prendendo nomi diversi. Per esempio, la stessa chiave di Fa, se posta sul 4° rigo, viene detta chiave di basso; mentre, se posta sul 3° rigo, viene detta chiave di  baritono.
Ecco il prospetto delle sette chiavi antiche con i relativi nomi chiave di violino, chiave di soprano, chiave di mezzosoprano, chiave di contralto, chiave di tenore, chiave di baritono, chiave di basso :

L’insieme delle sette chiavi viene detto “Setticlavio”.


Sopra  al  pentagramma,  dopo  la  chiave,  vengono  scritte  le  note.   Esse indicano   l’altezza   di   un   suono   a   seconda   della   loro posizione sul pentagramma. Per ora utilizzeremo un pentagramma in chiave di violino. Ovviamente più la nota è posta in alto nel pentagramma, più sarà acuta, più è posta in basso, più sarà grave.

Può succedere però che il pentagramma non sia più sufficiente ad indicare l’altezza  di  un  suono;  in  questo  caso  vengono  utilizzati sopra e sotto di esso i cosiddetti “tagli addizionali”. I tagli addizionali sono dei frammenti di linee che si utilizzano per “ampliare” il pentagramma, quando esso non basta più. Essi stanno sempre fra la nota e il pentagramma e mai oltre   la nota che si deve scrivere.

Qualora     l’estensione   dello   strumento   sia   tale   da   richiedere   un uso eccessivo  di  tagli  addizionali  –  come  per  esempio  un pianoforte o un organo – si è soliti utilizzare due pentagrammi sovrapposti: uno in chiave di basso (per ospitare le note  gravi)  ed uno in chiave di violino (per ospitare le note acute). Nella pagina seguente riportiamo la successione completa dei suoni sul doppio pentagramma.


 


I NOMI DEI SUONI

Da dove nascono le sillabe che danno nome ai suoni?
Nell’antichità i suoni venivano nominati in maniera differente  a seconda delle culture e delle epoche. Uno dei sistemi che ebbe maggior fortuna fu il sistema  alfabetico,  nel  quale  ogni  suono  era  associato  ad una lettera dell’alfabeto. Ma le sillabe che oggi utilizziamo per indicare i suoni hanno origine  solo  all’inizio  del  secondo  millennio. Fu infatti nel 1025 che un monaco benedettino, di nome Guido d’Arezzo, pubblicò un trattato musicale  nel  quale  propose  di nominare i suoni  utilizzando  le  sillabe iniziali dei versi dell’Inno a San Giovanni, un antico canto liturgico la cui melodia aveva la particolarità  di  iniziare  ogni   verso   su   un   tono immediatamente più acuto di quello precedente. Ecco il testo dell’inno:

 

Ut queant laxis Resonare fibris Mira gestorum Famuli tuorum Solve polluti Labii reatum

(Innum Sancte Iohannes)

 

Come si può notare, le sillabe proposte da Guido d’Arezzo erano:

 

UT RE MI FA SOL LA.

Il  sistema  fu  subito  adottato  e  si  sviluppò  nel  corso  dei  secoli  fino  a diventare quello che oggi conosciamo. La sillaba UT fu    sostituita con DO all’inizio del XVII secolo da Giovanni Battista Doni per evitare ai cantanti i problemi di pronuncia e fonetica legati alla sillaba  “UT”;  il  SI  venne aggiunto  nel  Rinascimento  per completare la  successione, e deriva  dalle iniziali di “Sancte Iohannes”.


L’OTTAVA

La successione completa di questi sette suoni, più la ripetizione del primo all’acuto, viene definita “ottava” (otto suoni).

 

DO  RE  MI   FA  SOL LA  SI  DO

 

Come si vede, abbiamo una successione di 8 tasti bianchi (7 + la ripetizione del primo), che rappresentano i cosiddetti “suoni naturali”: DO RE MI FA SOL LA SI DO’.
In  mezzo  a  questi  gradini  principali  troviamo  solitamente  dei   suoni intermedi, i “tasti neri”, che si pongono ad una altezza mediana rispetto ai due tasti bianchi fra i quali stanno e rappresentano  i cosiddetti suoni “alterati”, cioè quei suoni la  cui  altezza  è  stata “alterata” da particolare segni musicali, come vedremo più avanti.

 

TONI E SEMITONI

 

La differenza minima di altezza che può esistere fra due suoni del nostro sistema musicale viene chiamata semitono. Sulla tastiera di un pianoforte il  semitono  si  configura  come  la  distanza  (in  termini    di altezza) che intercorre fra un qualsiasi tasto e quello immediatamente successivo  o precedente  -  sia  esso  bianco  o  nero. La somma di due semitoni viene definita tono. È di semitono, per esempio, la distanza fra MI e FA, mentre è di tono la distanza fra DO e RE.


Scorrendo la tastiera del pianoforte, possiamo notare la successione di toni e semitoni all’interno dell’ottava: c’è un tono fra DO-RE,    RE-MI, FA-SOL, SOL-LA, LA-SI; mentre c’è un semitono fra MI-FA e SI-DO.

 

DO    RE    MI   FA  SOL LA    SI     DO’

 

 

ALTERAZIONI

 

Le alterazioni sono segni grafici che servono a variare l’altezza di una nota. Quando troviamo uno di questi segni davanti ad una  nota  dovremo eseguirla “alterata”, cioè un po’ più acuta o un po’ più     grave dell’altezza naturale.
Le principali alterazioni sono tre:

 

Il diesis alza la nota di un semitono.
Il bemolle abbassa la nota di un semitono.
Il bequadro riporta la nota alla sua altezza naturale dopo una alterazione.


 

 

Le alterazioni sono poste prima della nota e sullo stesso rigo o nello stesso spazio della nota alla quale si riferiscono e il loro potere dura   fino alla fine della battuta in  cui  sono  comparse.  Può  succedere tuttavia di incontrare una o più alterazioni subito dopo la chiave, all’inizio del pentagramma. In questo caso siamo in presenza di alterazioni fisse, che agiscono sulle note a cui si riferiscono per tutta la durata del brano. Esse vengono riscritte dopo ogni chiave, su tutti i righi di pentagramma.
La prima specie di alterazioni - quelle  di  percorso  -  vengono definite “alterazioni di passaggio”, mentre le seconde sono dette “alterazioni in chiave”.

 

Le alterazioni possono presentarsi anche  in  forma  “doppia”;  in  tal caso saremo di  fronte  alle  cosiddette  “doppie  alterazioni”  e  l’altezza del suono verrà alterata di 1 tono intero. Ovviamente per annullare i doppi diesis e i dopi bemolle occorre un doppio bequadro.


È grazie alle alterazioni che possiamo dare nome ai  suoni intermedi,   ai tasti neri del pianoforte, che vengono per questo definiti “suoni alterati”.
Così  il  tasto  nero  dopo  il  Do  si  chiamerà  Do  diesis,  mentre     quello immediatamente precedente al Mi si chiamerà Mi bemolle, ecc. In base a quanto detto, la successione completa dei suoni dell’ottava (comprendente suoni naturali e alterati) risulta essere la seguente:

 

 

    • Guardando      questa      immagine      ci      accorgiamo      di alcune corrispondenze. Ciascun tasto del pianoforte - nonostante produca un solo suono - può avere più di un nome. Questo significa che due note differenti possono “suonare” allo stesso modo. Ad  esempio: la nota mi diesis avrà lo stesso  suono  di    fa  e  il  do    bemolle lo stesso di si. Abbiamo così  delle “coincidenze” sonore fra note diverse. Queste note “coincidenti” vengono definite enarmoniche.

Questo fenomeno  è  paragonabile  alla  somiglianza  che  c’è  nella lingua italiana tra A ed HA. Ambedue infatti  “suonano”  allo  stesso modo pur essendo scritte in maniera diversa. Che cosa mi fa capire (o mi “dovrebbe” far capire…) se stiamo parlando della preposizione A oppure della terza persona singolare del presente indicativo del verbo avere (HA)?
È il contesto. Analogamente, è il contesto musicale (la scala utilizzata, come vedremo più avanti) che stabilisce il nome del suono in questione.


Cap. 5
Intensità

 

CHE COS’É L’INTENSITÀ DEL SUONO

L’effetto  dell’intensità  è  facilmente  intuibile,  non  fosse  altro  che  per l’esperienza che ne facciamo quotidianamente usando il telecomando della tv  o  i  comandi  del  nostro  lettore  mp3:  si  tratta del volume del suono. Parlare di un suono più intenso di un altro è come dire che un suono è più forte dell’ altro, che a sua volta si trova ad essere più debole del primo.
In sintesi possiamo dire che l’intensità è quella qualità che distingue       i suoni in forti e deboli. Come ricordato per la definizione di acuto e grave, ancor  di   più   la   definizione   di   forte   e   piano   non   può che essere assolutamente relativa e legata a diverse variabili: la sensibilità e capacità dell’esecutore, le possibilità sonore dello strumento,  la   vicinanza   o lontananza dalla fonte sonora, l’acustica della sala, ecc.

 

 

SEGNI DI DINAMICA

La  notazione   dell’intensità   in   ambito   musicale   è sorprendentemente tardiva e cominciò a comparire solo alla fine del XVI secolo.
Questo non significa che precedentemente tutti i suoni venissero realizzati allo stesso livello di volume, ma tutto era affidato all’intelligenza, alla sensibilità, alla conoscenza e condivisione della tradizione da parte di chi eseguiva il canto. Quando l’intensità è diventata “birichina” e i compositori hanno voluto che facesse le  “bizze”, andando anche contro le movenze naturali (per eccitare strani colpi di scena, per provocare “affetti” artificiosi in chi ascoltava) si sentì la necessità di  indicare  l’intensità attraverso  dei  simboli  chiamati segni di dinamica (la forza con cui un suono deve essere eseguito).


Essendo  in  quel  periodo  indiscussa   la   posizione   guida   della musica italiana, questi segni furono impostati sulla nostra lingua, utilizzando le lettere iniziali degli aggettivi corrispondenti: f divenne quindi il simbolo di forte e p quello di piano. Fissati i due punti di riferimento, ben presto il sistema si ampliò anche in relazione al continuo perfezionamento degli esecutori (soprattutto quelli strumentali)  introducendo  vari  stadi  interdi (mf,  mezzo  forte  e mp,  mezzo  piano)  e  sforando  verso  gli  estremi  ff (fortissimo),  fff (più che fortissimo), pp (pianissimo), ppp (più che pianissimo) e ancora oltre, verso le violente esagerazioni della musica del ‘900.

In musica è possibile anche modificare l’intensità di una frase in maniera graduale, per questo esistono segni di variazione progressiva dell’intensità (il passaggio, per esempio, da un piano ad un forte senza far sentire sbalzi di volume).

Esse sono realizzate tramite segni detti forcelle (simili ai simboli matematici di  maggiore  e  minore)  che  possono  essere  aperte (verso una intensità maggiore) o chiuse (verso una  intensità minore) e con le abbreviazioni cresc. (crescendo) dim. (diminuendo).

 


Cap. 6
Il timbro

 

CHE COS’É IL TIMBRO DEL SUONO

Il timbro  è  quella  qualità  che  definisce  il  “colore”  del  suono. Abbiamo suoni più scuri, più chiari, più caldi, più dolci, più aspri, più pungenti, ecc. In effetti, se proviamo a suonare lo stesso suono (uguale  in  altezza  e intensità)   con   strumenti   diversi,   per esempio pianoforte e violino, otterremo “colori” differenti. Questo perché ciascuno strumento ha un proprio “timbro”, grazie al quale riusciamo a distinguere se a suonare è un violoncello, un oboe o una chitarra. La stessa cosa avviene con  le  voci umane: ciascuno ha un proprio timbro di voce ed è per questa ragione che riusciamo a riconoscere la voce di chi conosciamo anche senza vederlo.
Il timbro si scrive generalmente con la semplice indicazione all’inizio della partitura dello strumento  esecutore,  attraverso  l’abbreviazione del suo nome. Se invece voglio  indicare  all’esecutore  di  cambiare timbro al suo strumento (pizzicato, sul ponticello, sfiorando  con  le dita  le  corde  le pianoforte, cantando una a invece che una u,    suonando con l’archetto un piatto, ecc.) o introducendo materie aggiuntive  che  cambiano  anche  la forma  stessa  dello  strumento (per esempio la sordina,  o  il  pianoforte “preparato”)  posso  indicarlo   direttamente   in   partitura    attraverso indicazioni dalla forma molto libera, purché comprensibile.


Cap. 7
Acustica

 

CHE COS’É L’ACUSTICA

Che cos’è un suono? Domanda alla quale è facile rispondere con frasi fatte, generiche e quasi sempre astrattamente legate a  sfuggenti sensazioni: in realtà il suono è un fenomeno fisico studiato approfonditamente  e misurabile quantitativamente con precisione.
La scienza che studia il suono si chiama acustica. Essa divide la vita     del suono in 4 momenti:

 

  • produzione
  • propagazione
  • ricezione
  • valutazione

 

 

Produzione

Il      suono      viene      prodotto  dalla vibrazione di un “corpo elastico”,  che costituisce la cosiddetta fonte sonora. Per vibrazione  si   intende   il movimento            delle microscopiche particelle che costituiscono il corpo. Queste particelle si chiamano molecole: esse sono invisibili ad occhio nudo ed hanno la facoltà di subire leggerissime         oscillazioni, qualora         vengano
sollecitate.  Questi  movimenti  di  particelle  non  alterano  la composizione


del corpo, tuttavia, a fronte di una sollecitazione potente, è possibile che la vibrazione  sia  talmente  ampia  da  diventare  visibile  ad  occhio nudo.  In questo  movimento  ogni  particella  tende  ad  oscillare  come un pendolo, spostandosi e ritornando alla posizione originaria. L’elasticità di un corpo è esattamente la capacità che un corpo ha di muoversi a livello molecolare. Benché tutti i corpi siano capaci di muoversi  a livello molecolare, alcuni risultano  maggiormente  elastici di  altri.  Questo  perché  ciascun  materiale ha  una  capacità  specifica di entrare in vibrazione, diversa  dagli  altri. L’elasticità  è  dunque quella  proprietà  della  materia  legata   alla  sua struttura  molecolare, che  consiste  nella  capacità  (sviluppata  a  differenti livelli)  di tornare nella posizione iniziale dopo una perturbazione, una sollecitazione.    Questo    “rientro”    progressivo    produce    una    serie di sommovimenti regolari (suono) o irregolari (rumore) dette vibrazioni, attraverso le quali noi possiamo compiere l’esperienza dell’ascolto.
In sintesi: il suono viene prodotto quando, a seguito di una  sollecitazione esterna, un corpo  elastico  (quindi  qualsiasi  corpo) entra in vibrazione a livello  molecolare.

Propagazione

Una volta che la fonte sonora è entrata   in vibrazione, essa tende a “contagiare” tutto ciò che è a diretto contatto con lei. Questo fenomeno di contagio viene chiamato “propagazione”. Analogamente  a  quanto succede    quando    lanciamo un sasso nell’acqua, le onde sonore tendono     a   propagarsi concentricamente     in    ogni direzione.
Perché   avvenga   la   propagazione della vibrazione occorre però che vi sia almeno un corpo a contatto con la fonte sonora. Infatti qualora la fonte sonora fosse isolata, circondata dal vuoto, la vibrazione non  potrebbe  propagarsi  e  il  suono  non sarebbe udibile. Dunque per far giungere la vibrazione dalla  fonte sonora  al  ricevente, occorre  una   materia   -   detta   “mezzo propagante”  -  che  permetta  la trasmissione del  suono.


Detta trasmissione avviene  attraverso  il  fenomeno  del  movimento coatto  - movimento forzato - delle particelle. Per capire meglio cos’è il movimento coatto facciamo un esempio. Pensiamo ad un autobus pieno di gente nel quale  una  grossa  signora,  pressata  dalle  persone che le stanno accanto, decida di  scendere.  Per  farsi  spazio  e raggiungere l’uscita, comincia a spingere e a sgomitare tutti quelli che sono vicino a lei, trasmettendo loro il movimento (almeno fino a quando   qualcuno   non   decidesse   si abbatterla).

La vibrazione si trasmette normalmente allo stesso modo, cioè attraverso il sommovimento della materia che confina con  la  fonte  e  con  il ricevente. Normalmente il mezzo di trasporto più comune è l’aria, che  ci fa il piacere di spostarsi, portandoci il suono.

N.B. La trasmissione del suono – come vedremo più avanti - non è  mai istantanea,  anche  se  nella  maggior  parte  dei  casi   abbiamo questa impressione. Infatti essa necessita di tempo per compiersi e questo tempo di trasmissione dipende dal tipo di materiale  che  compone  il  mezzo propagante.   Più   è   denso   il   materiale,   più sarà   alta   la   velocità   di trasmissione;  meno  è  denso  il  corpo,   più  sarà  lenta  la  propagazione. Questo avviene per una ragione  molto semplice: se le molecole sono vicine (maggior densità), la vibrazione impiegherà poco tempo per passare dall’una all’altra; viceversa, se le particelle sono distanti (minore densità), la   vibrazione impiegherà più tempo. La velocità di trasmissione dunque   è proporzionale alla densità del  mezzo  propagante.  L’aria,  per esempio, trasporta la vibrazione ad una velocità di circa 340 metri al secondo - 1224 chilometri all’ora - mentre il ferro trasporta  il suono a  circa  18.000  km orari.

 

Ricezione

Il   suono   giunge   al   nostro   orecchio,   detto   “organo   ricevente”,  che attraverso varie strutture interne svolge una triplice funzione: ricevere le vibrazioni, amplificarle e  trasformarle  in  impulsi  elettrici da  inviare  al cervello.  Lo  stimolo  dunque  nell’orecchio  cambia natura:  non  è  più  di carattere cinetico, ma elettrico (e questo permette al nostro cervello di non dover vibrare ad ogni suono ricevuto).


La  vibrazione  viene  “captata”  dal  padiglione  auricolare  e  scorre lungo il canale  uditivo  giungendo  al  timpano.  Al  di  là  del  timpano si trova una catena di tre ossicini (martello, incudine e staffa) che trasportano la vibrazione nella  coclea,  un  canale  a  forma  di chiocciola.  All’interno  della  coclea  è presente un liquido che comincia a muoversi all’arrivo della vibrazione. Il liquido mette in movimento delle piccole “ciglia” (Organo del Corti); esse trasformano la vibrazione in impulsi elettrici e attraverso il nervo acustico inviano al cervello i dati raccolti.

 

 

 

Valutazione

Si tratta evidentemente dell’azione conclusiva affidata al cervello nel quale la  vibrazione  fisica  originaria,  trasformata  nelle  varie   fasi, arriva   a diventare   “sensazione”.   Evidentemente   ci   avventuriamo nel   campo misterioso e affascinante dalla psicoacustica: la sensazione   è intimamente


legata alla inafferrabile singolarità  dell’individuo  ed  è  difficile affermare che i vari concetti usati con scontata disinvoltura (acuto, grave,  forte, piano,   chiaro,   scuro...)   corrispondano   con   esattezza   a determinate sensazioni. Il cervello riesce a distinguere tre qualità principali del suono: l’altezza, l’intensità e il timbro.

 

 

 

Velocità di propagazione del suono

Per  velocità  si  intende  lo  spazio  che  percorre  una  vibrazione   sonora nell’arco di un secondo. La velocità di propagazione del suono nell’aria fu stabilita a Parigi nel 1738 e poi nel 1822 dai    membri dell’Accademia delle Scienze e si venne alla conclusione che la velocità del suono (in questo caso nell’aria) aumenta con l’elevazione della temperatura. Alla temperatura di 0 gradi, la velocità di propagazione nell’aria è di 330 metri al secondo,  ma


se la temperatura sale a 16 gradi, la velocità aumenta fino ad arrivare a 340 metri al secondo. Per quanto riguarda  la  velocità  di propagazione nei liquidi, gli scienziati Colladon e Sturm, nell’esperimento  operato  sul  lago di  Ginevra,  trovarono  che nell’acqua, la trasmissione del suono avviene più velocemente che nell’aria. Altri esperimenti sui gas,  dimostrarono invece che, quanto  più la loro densità è maggiore, tanto più la velocità di propagazione risulta bassa. Nei solidi invece, la velocità di propagazione è maggiore che nell’aria, specie per i metalli. Occorre tenere ben presente che la temperatura di un corpo influisce notevolmente sulla sua struttura interna e quindi  sulla  densità,  determinando  velocità  differenti.  In altre parole, possiamo dire che uno stesso  corpo  trasmette  la  vibrazione  a velocità differenti al variare della sua temperatura.
In conclusione affermiamo che la velocità del suono dipende dal grado di elasticità e densità del corpo, ed esse crescono o diminuiscono al variare della temperatura.

 

Riflessione del suono

Il                fenomeno della riflessione si ha quando un’onda sonora incontra un  ostacolo, urta contro di esso, rimbalza   sul medesimo e  retrocede formando due angoli: uno d’incidenza e l’altro riflesso.            L’angolo di riflessione       è sempre uguale      a quello     di incidenza ed è per questo
che possiamo calcolare  con  assoluta  precisione  la  direzione  che  il raggio sonoro prenderà dopo  la  riflessione.  Le  onde  che  giungono dalla fonte sonora vengono dette “onde dirette”,  mentre  quelle generate dalla riflessione vengono dette “onde  riflesse”.  Dalla riflessione del suono derivano due effetti acustici molto particolari: il riverbero e l’eco.
Si parla di riverbero  quando  la  riflessione  genera  un  rafforzamento del suono simile ad una risonanza. Il riverbero è particolarmente apprezzabile


all’interno  di una stanza. In  questo caso, le  onde  dirette che arrivano  al ricevente si sommano alle onde che si riflettono sulla parete, creando una sovrapposizione  delle  vibrazioni.   L’eco   invece   è   quel fenomeno   di riflessione  che  si  produce  quando  la  distanza  è  tale  da  far  sentire  il riverbero    nettamente    staccato    del    suono   emesso,     creando     una “ripetizione”.  Questo  avviene  perché,  a causa della notevole distanza, il tempo che impiega l’onda sonora ad “andare e  tornare”  è  tale  da  farci percepire distintamente le onde dirette e quelle riflesse.


ALTEZZA E FREQUENZA

 

Ogni  suono  è  caratterizzato  da  un  certo  numero  di  vibrazioni  emesse
nell’unità di tempo che è il secondo. L’altezza del suono dipende precisamente dal numero delle vibrazioni al secondo,  cioè  dalla frequenza che si misura in Hertz. Tanto più numerose  sono  le vibrazioni,   tanto   più   alta   è   la frequenza,   tanto   più   acuto   sarà il suono. Possiamo immaginare la vibrazione come un’onda: è la lunghezza  dell’onda  a  determinarne  il numero,  quanto  più  l’onda   è lunga tanto  meno  ce  ne  staranno  in  un secondo, tanto più bassa sarà la frequenza.


Nel primo caso siamo in presenza di un’onda di frequenza 9 Hertz (infatti sono presenti 9 oscillazioni nell’arco di un secondo), mentre nel secondo la frequenza   sarà   di   4   Hertz.   Il   suono   più   acuto fra  i  due   presi   in considerazione sarà il primo perché la sua frequenza è maggiore.

Il nostro orecchio ha dei limiti fisiologici naturali che non permettono   di percepire suoni che oltrepassano certe frequenze: per questo motivo  ai di sotto dei 16 Hertz l’orecchio umano non è in grado di sentire vibrazioni che pure esistono e che prendono il nome di infrasuoni. Parallelamente, la stessa cosa avviene al di sopra dei 20.000 Hertz, la zona degli ultrasuoni. I limiti della percezione uditiva sono molto diversi per le varie  specie animali,  che  normalmente  superano  di molto verso  l’acuto  le  possibilità umane (per questo motivo cani, gatti, uccelli sembrano reagire a impulsi acustici che a noi  sfuggono).

 

AMPIEZZA D’ONDA E DECIBEL

 

Come abbiamo visto, in definitiva l’altezza del suono è determinata dalla lunghezza d’onda della vibrazione. Per trovare l’elemento che determina la seconda qualità  del  suono,  l’intensità,  occorre  partire dalla semplice constatazione che un’ onda non possiede solo la dimensione orizzontale (la lunghezza, appunto), ma anche quella verticale: la sua ampiezza. È proprio l’ampiezza d’onda a incidere sull’intensità del suono. Quanto più l’oscillazione dell’onda è ampia, cioè quanto più vibra, tanto più il suono sarà   intenso.
Dal punto di vista fisico l’intensità viene misurata in decibel (dB). Nella tabella che segue sono riportati alcuni livelli indicativi di dB.


Decibel

Evento

300

Krakatoa, Indonesia (1883)

250

All'interno di un tornado

180

Motore di un missile a 30 m

150

Motore di un jet a 30 m

140

Colpo di fucile a 1 m

130

Soglia del dolore

120

Concerto Rock; Discoteca

110

Motosega a 1 metro

100

Martello pneumatico a 2 m

90

Camion pesante a 1 m

80

Aspirapolvere a 1 m

70

Traffico intenso a 5 m; radio ad alto volume

60

Ufficio rumoroso, radio

50

Ambiente domestico; teatro a 10 m

40

Quartiere abitato di notte

30

Sussurri a 5 m

20

Respiro umano a 3 m

16

Soglia dell'udibile

0

Silenzio

N.B.  L’altezza  della  vibrazione  dipende  a  sua  volta  dalla  forza,  dalla violenza con cui il corpo viene eccitato: un auto che si schianta ai 200 all’ ora produce una vibrazione e uno spostamento d’aria ben superiore alla signora che parcheggiando ai 7 km orari striscia ogni giorno la  fiancata all’ingresso del garage.


Ecco  un  grafico  riassuntivo  delle  due  qualità  dell’onda  sonora  finora affrontate:

 

 

TIMBRO E SUONI ARMONICI

 

Nella   maggior   parte   dei   casi, ciascun suono   prodotto    dalla    voce  o da strumenti musicali (eccetto qualche eccezione) è sempre accompagnato  da vibrazioni aggiuntive, che il più delle volte sfuggono all’udito, ma che gli conferiscono un particolare “colore”, un particolare timbro. Il suono è dunque l’insieme di tante  vibrazioni, di cui la più imponente (la più forte) viene chiamata suono “fondamentale” mentre lealtre (tutte più deboli, al punto  che non  riusciamo a distinguerle dal   suono
principale)    sono    vibrazioni    secondarie    chiamate    suoni armonici,   o semplicemente armoniche.


I suoni armonici sono, dunque, suoni secondari emessi insieme  al  suono fondamentale e sono sempre più acuti e meno intensi rispetto ad esso.

Ecco la sequenza di suoni secondari che accompagnano il DO

 

Occorre precisare  che  i  suoni  armonici  sono  fissi,  vale  a  dire  che  la loro sequenza rispetto ad un determinato suono (un DO) con uno strumento o con un altro sarà sempre la medesima.

Come  mai  allora  un  DO  eseguito  da  un  tenore  è  diverso  da  un   DO eseguito da un corno?

Perché la forma del corno è evidentemente diversa dalla forma dell’uomo così come la materia del corno  è  evidentemente  diversa  dalla materia dell’uomo. La forma e la materia dello strumento infatti fanno “risuonare” alcuni armonici a discapito di altri, ne sottolineano alcuni e ne penalizzano altri. Ne deriva uno “spettro  armonico”  che risulta diverso per  ciascuno strumento e per ciascuna voce. Guardiamo ad esempio lo spettro di un LA 440 Hz eseguito da un violino e quello dello stesso suono eseguito da un  pianoforte

 

In sintesi:  lo  spettro  degli  armonici  assume  caratteristiche  differenti  a seconda della forma e della materia dello strumento che è in grado di far “risuonare” alcune armoniche meglio di altre. L’onda sonora risultante sarà la somma dell’onda fondamentale con le vibrazioni armoniche e avrà forme diverse a seconda dello strumento produttore (e quindi del timbro).

    1. È possibile tuttavia variare il timbro anche di uno stesso strumento, semplicemente cambiando la modalità con la quale produciamo il suono oppure modificando la forma e la materia dello strumento.

Anche    con    la    nostra    voce    possiamo    produrre    “timbri” diversi, modificando la postura della gola e della bocca, oppure “sforzando” il suono per ottenere una voce più rock… È quello che accade quando, per divertirci, proviamo ad imitare la voce di un amico   o di un personaggio  famoso.


Cap. 8
Gli strumenti musicali

 

Introduzione

Gli strumenti musicali sono così numerosi e diversi fra loro che si è soliti suddividerli in categorie,  in  gruppi  omogenei.  Sono  stati  i tedeschi Curt Sachs e Erich Hornbostel, musicologo il primo e etnomusicologo il secondo, a raccogliere nelle famiglie che oggi conosciamo i più diversi strumenti musicali.  Agli  inizi  del  ‘900 essi operarono una classificazione basata sulla diversa materia vibrante che produce il suono.
Arrivarono ad  ottenere  quattro  famiglie  diverse  di  strumenti musicali: Cordofoni, Aerofoni, Membranofoni e Idiofoni.
Questa classificazione  venne  completata  negli  anni ’50,  con l’aggiunta di una nuova categoria di strumenti che  di  lì  a  poco sarebbero entrati di diritto nella storia della musica occidentale: gli Elettrofoni.

 

Cordofoni

I    Cordofoni       (comunemente detti strumenti “a corda”) sono strumenti musicali che producono suono  grazie alla  vibrazione  di corde  tese  tra  due punti.
Gli          strumenti          cordofoni sono solitamente  dotati   di   una cassa   di
risonanza che ne amplifica il suono. Al loro interno i cordofoni si possono distinguere per il diverso meccanismo di produzione del  suono. Esistono cordofoni “a pizzico”, come arpa, chitarra e clavicembalo;        a “sfregamento”,  come  violino,  viola,  violoncello   e contrabbasso; e “a percussione”, come pianoforte, clavicordo e cimbalom.


Aerofoni

Sono    strumenti    musicali che producono  suono attraverso la messa in vibrazione dell'aria, direttamente     indotta     da una sollecitazione esterna (come  la pressione  del  fiato o  quella  di un mantice…).
Al   loro   interno   gli   aerofoni   si   possono   distinguere   per   il diverso meccanismo di produzione del suono. Esistono aerofoni “a imboccatura semplice” (flauto diritto, flauto traverso, ottavino, flauto di pan, ocarina), “ad ancia semplice” (clarinetto, sassofono), “ad ancia doppia” (oboe, corno inglese, fagotto, controfagotto), “a mantice”   (organo,   zampogna, cornamusa, fisarmonica), “a bocchino” (tromba, trombone, tuba, corno).

 

Idiofoni

Sono    strumenti    che    producono suono grazie alla vibrazione del  materiale stesso di cui sono fatti. Il tipo di suono prodotto può  essere   ad altezza determinata o indeterminata, a seconda  degli strumenti.
Al   loro   interno   gli   idiofoni   si possono distinguere per il diverso meccanismo di produzione del  suono. Esistono idiofoni “a percussione”  (legnetti,  triangolo,  nacchere, piatti, xilofono, glockenspiel), “a scotimento” (sonagli, maracas), “a raschiamento” (guiro), “a pizzico” (scacciapensieri), “a frizione” (armonica di bicchieri).

 

Membranofoni

Sono    strumenti    che    producono suono grazie alla vibrazione di una membrana tesa.


Solitamente i  membranofoni  sono  dotati  di  un  risuonatore,  o  cassa di risonanza, che ha la funzione di amplificare il suono. Fanno parte di questa categoria il tamburo militare (o rullante), i timpani, il tamburello basco, i bongos, ecc…

 

Elettrofoni

Sono strumenti  che  producono  o  elaborano  il  suono  grazie  ad impulsi elettrici.  Si  possono   suddividere   in   elettrofoni   “a oscillatori” (sintetizzatore),  “a  generatori  elettromagnetici”  (organo    hammond), “semielettronici”      (chitarra      elettrica, basso      elettrico),      “digitali” (campionatore,
sequencer).


Cap. 9
La Melodia

 

CHE COS’É LA MELODIA

Si chiama “melodia” la dimensione  orizzontale  di  un  brano  musicale; potremmo definirla come successione lineare di altezze e durate. Essa procede sempre un suono alla volta, un suono dopo l’altro, così come una linea procede punto dopo punto. Il passaggio da un  suono  a  quello successivo si chiama “intervallo”.

GLI INTERVALLI

 

L’intervallo è la differenza di altezza fra due suoni e può essere armonico o melodico. Nel primo  caso  i  due  suoni  sono  sincronici,  cioè eseguiti simultaneamente, nel secondo invece sono diacronici, eseguiti  uno dopo l’altro.
Ogni  intervallo  ha  due  caratteristiche  che  lo  determinano:  il    numero
d’intervallo e il tipo d’intervallo.

Per  calcolare  il  numero  d’intervallo  occorre  partire  dalla  prima  nota e contare fino alla seconda. Normalmente la prima nota nominata è quella più grave, quindi se chiedessi che intervallo è DO-FA occorrerebbe partire dal DO contando “uno” e si arriverebbe al FA sul numero quattro. Si tratta dunque di un intervallo  di  quarta.  Per calcolare il numero d’intervallo quindi non si fa caso al numero di semitoni compresi, ma si fa riferimento esclusivamente ai nomi delle note: DO-RE è un intervallo di seconda come SI-DO. Per questa ragione, anche se risulta strano, mentre DO-DO# è un intervallo di prima, DO-REb  (stessi  suoni  in  gioco;  REb  l’enarmonico  di DO#) è un intervallo di seconda.


Esempi: DO-RE = 2°

DO-SOL = 5°
LA-SI = 2°
MI-SOL= 3°
DO-RE# = 2°

Come si può notare, sia DO-RE che DO-RE# sono intervalli di 2°. Questo ci dice che non basta il numero d’intervallo per specificare nel dettaglio e con precisione l’ampiezza della distanza fra i due suoni.
Occorre infatti specificare anche il tipo d’intervallo. Il tipo d’intervallo  si calcola in relazione alla distanza in toni e semitoni presente fra i due suoni. Vediamo ora come calcolare gli intervalli di seconda.

 

INTERVALLI DI SECONDA

Quando un intervallo di seconda è di un tono intero siamo in presenza di una seconda maggiore; se invece la distanza fra i due suoni è di semitono, siamo   in   presenza   di   una   seconda   minore.   Esistono però  altre   due possibilità. Se la distanza fra i due suoni è di 1,5   toni, l’intervallo sarà di seconda eccedente. Al contrario, quando la distanza risulta essere di 0 toni, si parla di seconda diminuita.

Esempi:

DO-RE = 2° da 1 tono = 2° Maggiore (M) DO-REb = 2° da 1 semitono = 2° minore (m)
DO-RE# = 2° da 1,5 toni = 2° eccedente (ecc.) DO-REbb = 2° da 0 toni = 2° diminuita (dim.)

 

INTERVALLI DI TERZA

Gli intervalli di terza si comportano in maniera analoga a quelli di seconda. Quando una terza è di 2 toni, sarà Maggiore; quando è di soli 1,5 toni si dice minore. Avremo una terza eccedente in presenza quando fra i due suoni vi sono 2,5 toni; la terza diminuita sarà invece quella da 1 tono.


Esempi:

DO-MI = 3° da 2 toni = 3° Maggiore
DO-Mib = 3° da 1,5 toni = 3° minore
DO-MI# = 3° da 2,5 toni = 3° eccedente
DO-Mibb = 3° da 1 tono =3° diminuita

 

INTERVALLI DI QUARTA

Gli  intervalli  di  quarta  non  sono  mai  né  maggiori  né  minori; essi, nella forma base si dicono “giusti”.  Un  intervallo  di  quarta  si  dice giusto quando contiene 2,5 toni.  Non potendo parlare  di maggiore  e  minore,  al variare della distanza avremo subito un intervallo eccedente o diminuito. Quindi un intervallo di quarta è eccedente quando fra i due suoni vi sono 3 toni  interi;  un  intervallo di quarta è diminuito quando  fra  i  due  suoni sono presenti “solo” 2 toni.

Esempi:

DO-FA = 4° da 2,5 toni = 4° Giusta
DO-FA# = 4° da 3 toni = 4° eccedente
DO-Fab = 4° da 2 toni = 4° diminuita

    1. l’intervallo   di   quarta   eccedente,   per   la   sua   particolare sonorità (alquanto aspra) è chiamato anche “tritono” (3 toni  interi) e nel medioevo, proprio perché particolarmente difficile da intonare,  prese  il  nome  di “diabolus in musica”.

 

Tuttavia nel  calcolo  delle  quarte  possiamo  agevolmente  utilizzare una legge che semplifica notevolmente i  passaggi.  Sappiamo  infatti che:  in assenza di alterazioni, tutti gli intervalli di quarta si dicono giusti, tranne FA-SI che risulta eccedente.
Sulla base di  questa  semplice  legge,  quando  un  intervallo  giusto viene allargato di  un  semitono,  esso  diventa  eccedente  (attenzione! Per allargare un intervallo posso seguire due direzioni: alzare di un semitono la nota acuta o abbassare di un semitono la nota grave). In pratica, se do-fa è una quarta giusta, do-fa# e do bem-fa sono due quarte eccedenti.
Quando un intervallo  giusto  viene  ristretto  diventa  diminuito.  Per questo
do#-fa e do-fa bem sono due quarte diminuite.


 

INTERVALLI DI QUINTA

Gli intervalli di quinta si comportano in tutto e per tutto come quelli     di quarta. Senza stare  a  calcolare  i  toni  e  i  semitoni,  diremo  perciò che:  in assenza di alterazioni, tutti gli intervalli di quinta si dicono giusti, tranne SI-FA che risulta diminuito.
Anche qui, se aumento di un semitono la quinta giusta, otterrò una quinta eccedente; diversamente, se restringo una quinta giusta di un semitono, ottengo una quinta diminuita.

Esempi:

DO-SOL = 5° Giusta SOL-RE# = 5° eccedente LA-Mib = 5° diminuita

Possiamo ora sintetizzare quanto abbiamo detto finora sugli intervalli con una tabella:

 

-2 SEMITONI

-1 SEMITONO

NATURALE

+1 SEMITONO

 

Diminuito

Giusto

Eccedente

Diminuito

Minore

Maggiore

Eccedente

 

Ecco   dunque,   riassumendo,   le   quattro   regole   auree   per   il conteggio dell’ampiezza di un intervallo:

 

      1. Un intervallo di seconda è maggiore quando tra i due suoni c’è un tono.
      2. Un intervallo di terza è maggiore quando tra i due suoni ci sono due toni
  1. In  assenza  di  alterazioni,  tutti  gli  intervalli  di  quarta  si dicono giusti, tranne FA-SI che risulta eccedente.
  2. In  assenza  di  alterazioni,  tutti  gli  intervalli  di  quinta  si dicono giusti, tranne SI-FA che risulta diminuito.

 

 

 


Cap. 10
LArmonia

 

CHE COS’É L’ARMONIA

Si  chiama  “armonia”  la  dimensione   verticale   di   un   brano musicale; potremmo definirla come il rapporto musicale simultaneo  fra più voci (o melodie). I suoni, sovrapponendosi nel tempo, producono degli “insiemi” sonori, che vengono definiti “accordi”.

 

GLI ACCORDI

 

Triadi maggiori e minori

Un accordo è la sovrapposizione simultanea di almeno tre suoni e si costruisce partendo da un suono fondamentale (che dà il nome all’accordo) e sovrapponendo ad  esso  due  suoni  per  intervalli  di terza. Se l’accordo è composto di soli 3 suoni viene chiamato “triade”, mentre se è composto da 4 suoni  viene  chiamato  “quadriade”.  Le triadi  principali  che possiamo
incontrare       sono la triade maggiore e la triade minore. Esse differiscono per la disposizione dei   propri intervalli
interni.               Infatti
entrambi              sono costruiti     con      un suono fondamentale,  la sua terza (il suono che        sta        ad un intervallo di terza) e la sua quinta (che sta


ad  un  intervallo  di  quinta  giusta  rispetto  alla  fondamentale  e  ad   un intervallo di terza rispetto al secondo suono), ma se l’intervallo fra primo e secondo suono è di terza “maggiore” avremo una triade “maggiore”, se è di terza “minore” avremo una triade “minore”.

 

Triadi eccedenti e diminuite

Se alzo di un semitono la “quinta” di una triade maggiore, ottenendo   un intervallo  di  5°  eccedente  con  il  suono  fondamentale  ottengo una  triade eccedente;
Se abbasso di un semitono la “quinta” di una triade minore, ottenendo un intervallo  di  5°  diminuita  con  il  suono  fondamentale  ottengo una  triade diminuita;

 

 

Quadriadi: l’Accordo di settima

L’accordo di settima è una quadriade, cioè un accordo di 4 suoni. Esso  si forma aggiungendo un ulteriore suono a intervallo di 3° minore dalla 5°, quindi ad un intervallo di 7° minore rispetto al suono fondamentale.

 


I rivolti delle triadi

Finora abbiamo presentato gli accordi sempre in stato fondamentale, ossia con il suono fondamentale al basso, ma è possibile trovare ed utilizzare gli accordi    anche    “rivoltati”,    cioè    in    una    forma diversa   da   quella  fondamentale.
Esistono due tipi di rivolto delle  triadi:  il primo  e  il  secondo rivolto. Se troviamo al basso, al posto  della  fondamentale,  la  terza  dell’accordo, saremo di fronte ad una triade in 1° rivolto; se al basso troviamo invece la 5° dell’accordo, saremo al cospetto di una triade in 2° rivolto.

Dunque una triade può presentarsi in 3 forme diverse:

  1. Stato fondamentale: se il suono più grave è il suono fondamentale
  2. Primo rivolto: se il suono più grave è la 3° dell’accordo
  3. Secondo rivolto: se il suono più grave è la 5° dell’accordo

 


Cap. 11
Le scale

 

CHE COSA SONO LE SCALE

Per comprendere il concetto di scala può essere utile partire da quello che il termine stesso ci suggerisce: una scala serve per passare da un piano ad un altro, da un’altezza ad un’altra, attraverso una serie di gradini. Allo stesso modo la scala musicale è il passaggio da una nota (un’altezza) alla sua ottava (doppio di vibrazioni) attraverso una serie  di  gradini,  i  gradi.  Le  scale possono  procedere  verso  l’alto (scale  ascendenti)  o  verso  il  basso (scale discendenti).
Se vengono utilizzati tutti i dodici gradi a disposizione (i dodici semitoni) ci troviamo di fronte ad una scala detta cromatica, generalmente utilizzata solo per ottenere effetti di scivolamento. Normalmente  invece  non  tutti  i suoni  a   disposizione  vengo utilizzati: esistono vari tipi di scale che possono usare  solo  cinque  suoni (pentatonica),  sei  (esatonali),  scale  che escludono dei  suoni (scale difettive) e  infine  esiste  la  nostra  scala,  la  scala diatonica, che utilizza solo sette dei dodici suoni a disposizione.

 

Scala Maggiore Naturale

La scala maggiore è la scala formata dalla naturale successione dei suoni di una ottava.

DO RE MI FA SOL LA SI DO’

 

Questa scala maggiore prende il nome dal primo suono, il primo  gradino: il do. È la scala di Do maggiore. essa è caratterizzata da una particolare successione di toni e semitoni che le conferisce quel carattere che ci risulta così familiare:

DO            RE             MI            FA            SOL            LA            SI             DO’


Scale Maggiori Derivate

Sull’esempio   della   scala   di   do   maggiore,   esiste   una   scala maggiore costruita  su  qualsiasi  altro  suono  dell’ottava.  Tuttavia occorre  fare  molta attenzione   perché   è   possibile    ottenere    una scala   maggiore   solo ricostruendo  la  stessa  sequenza  di  toni  e semitoni presente nella nostra scala “madre”, quella di Do  maggiore.

Per   questo   dovremo   “aggiustare”   la   successione   naturale   dei suoni servendoci delle alterazioni.

 

  1. Ora   verifichiamo   che   quella   successione   di   note   rispetti la sequenza di toni e semitoni segnata.

 

Gli unici intervalli da correggere rispetto alla successione di note naturali sono quelli tra VI e VII grado (mi – fa) e tra VII e VIII  grado (fa – sol). Infatti naturalmente fra mi e fa abbiamo un semitono, mentre secondo la sequenza dovremmo avere un tono. Allora allarghiamo il nostro intervallo


alterando il fa,  risolvendo  così  tutti  i  nostri  problemi.  Infatti  con  il fa# avremo sia il tono tra VI e VII grado, sia il semitono tra VII e VIII grado.
La scala di sol maggiore, quindi, utilizza quindi solo una alterazione: il fa#.

 

  1. Ora possiamo scrivere la scala sul pentagramma, stando attenti a riportare tutte le alterazioni davanti alle note relative.

 


Cap. 12
Alterazioni in chiave e Tonalità

 

ALTERAZIONI IN CHIAVE

Come abbiamo visto nel capitolo precedente,  ciascuna  scala  necessita di particolari alterazioni per poter essere corretta. Per questa ragione, una volta che ho deciso quale scala utilizzare per un brano musicale, posso segnare le alterazioni proprie della scala direttamente dopo  la chiave  di inizio pentagramma.
Queste  alterazioni  vengono  chiamate  “alterazioni  in  chiave”  e  vanno ripetute ogni riga del pentagramma.

Le alterazioni in chiave hanno un ordine fisso di apparizione

 

I diesis in chiave procedono per quinte ascendenti: FA-DO-SOL-RE-LA- MI-SI. Come  possiamo  notare  dalla figura  però,  vengono  segnati  nelle seguenti posizioni standard:

 

I bemolli in chiave procedono per quinte discendenti: SI-MI-LA-RE-SOL- DO-FA. Anche i bemolli hanno posizioni standard:


Quindi, se ho 3 diesis in chiave, essi saranno necessariamente il FA il DO e il SOL, mentre se ne ho 1, esso sarà necessariamente un FA. La stessa cosa vale per i bemolle.
L’ordine delle alterazioni è molto importante, perché un ordine   diverso di apparizione darebbe vita a scale errate. Quindi l’unico modo per ottenere delle successioni funzionanti è quello di alterare i suoni  con questo ordine, per non trovarmi ad utilizzare successioni irregolari e quindi inutilizzabili.

 

TONALITÀ

 

La tonalità di un brano dipende dalla scala che utilizzo ed è individuabile già dalle alterazioni in chiave.
Se utilizzo la scala di Do maggiore, sarò generalmente in tonalità di    Do maggiore oppure della tonalità relativa minore (la scala minore    che nella forma naturale utilizza gli stessi suoni della scala di do maggiore), cioè La minore. Ecco la tavola delle tonalità:

 


Può succedere tuttavia che un brano sia impostato su una tonalità diversa da quella presumibile osservando le alterazioni di chiave. In questo caso occorrerà fare attenzione alle  alterazioni  di  passaggio  e  alla  struttura armonica della composizione.

 

MODULAZIONI

All’interno  dello  svolgimento  di  un  brano  musicale  può  accadere – in realtà è frequentissimo – che il compositore voglia cambiare tonalità in corso d’opera. Queste “migrazioni” vengono chiamate modulazioni. Ovviamente, la modulazione segue regole ben  precise,  che servono a raggiungere la nuova tonalità con “passaggi” il più possibili graduali. La modulazione dunque deve procedere per   passaggi “giustificati”. Quando questo non avviene, chi ascolta percepisce una  scollatura,  uno “strappo” nel  discorso  musicale. Talvolta però il compositore può utilizzare una modulazione improvvisa proprio per ottenere questo effetto di  “stacco”. Le modulazioni più semplici sono quelle che portano alle tonalità “vicine”. Sono  così  definite  le  tonalità  del  IV  e  V  grado  della  scala di partenza, oppure  la  sua  tonalità  relativa  minore.  Se  siamo  in tonalità di Do maggiore, saranno “vicine” le tonalità di La minore (relativa minore), Fa maggiore (IV grado) e Sol maggiore (V grado); tutte le restanti   tonalità sono definite “lontane”.

 

Fonte: http://www.liceomalpighi.it/didattica/pforlani/downloads/APPUNTI%20DI%20MUSICA%20-%20Libro%20di%20testo%20per%20le%20classi%20prime.pdf

Sito web da visitare: http://www.liceomalpighi.it

Autore del testo: SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO “M. MALPIGHI”

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