Hip hop e il rap

Hip hop e il rap

 

 

 

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Hip hop e il rap

La cultura hip hop, e la musica rap che ne fa parte, è un elemento che, pur con le sue peculiarità specifiche legate al luogo dove si sviluppa, rimane costante e sostanzialmente uguale nelle sue caratteristiche di fondo, ad esempio, nelle tematiche affrontate, nel linguaggio utilizzato, nell’attitudine e nell’atteggiamento di chi lo fa, nelle potenzialità che offre e nelle finalità che persegue. Una “testa hip hop” (traduzione letterale dell’inglese hip hop head) condividerà la stessa energia e probabilmente una visione della società non così dissimile sia che si trovi negli Stati Uniti, in Francia, in Italia o in qualsiasi altra parte del mondo. Come ha affermato Maurizio Cannavò, in arte The NextOne, uno dei ballerini di breakdance più importanti a livello mondiale e pioniere dell’hip hop in Italia, in un’intervista per il libro di Damir Ivic Storia ragionata dell’hip hop italiano,  «Si tratta di un messaggio universale, fatto per includere, non per escludere.»   E commentando la sua vicinanza con i grandi della scena americana che l’hanno accolto come uno di loro (il famosissimo collettivo americano di breakdance Rock Steady Crew gli ha chiesto di entrare a far parte del loro gruppo), «Credo che semplicemente abbiano visto qualcuno che, pur venendo da un luogo lontano, riusciva a trasmettere gli stessi concetti e le stesse aspirazioni che avevano loro quando erano dei ragazzini nel quartiere.»
Questa è la risposta semplice. Tuttavia, per capire meglio quali siano i valori e lo spirito che si nascondono dietro l’etichetta di “hip hop” e che hanno fatto sì che questo movimento si sia espanso dalle strade del South Bronx a tutto il mondo, andando oltre le mode e barriere culturali e linguistiche di ogni tipo, senza mai perdere del tutto la sua genuinità e forza originaria, dobbiamo andare indietro ed indagare brevemente le sue radici.

2. Cenni di storia dell’hip hop

Agli albori degli anni Settanta New York fu investita da un’ondata di rinnovamento urbano che portò a una “ricollocazione” di massa che coinvolse un altissimo numero di persone di colore (afro-americani e ispanici-caraibici) provenienti dalle più disparate aree della Grande Mela. Il ripopolamento del South Bronx fu inevitabilmente privo di gradualità e produsse una tensione sociale ed economica impossibile da gestire. […] Non era naturalmente il solo South Bronx a versare in condizioni di estrema povertà e di collasso ma anche altri quartieri ad Harlem, nel Queens e a Brooklyn. […] Questi quartieri vennero descritti come vere e proprie terre dimenticate da Dio, come una specie di Far West […]. In realtà, più che dimenticati da Dio, questi quartieri erano stati dimenticati dalle amministrazioni cittadine.

(De Rienzo 2004: 11-12)

È in questo contesto di emarginazione, frustrazione, povertà, mancanza assoluta di intrattenimenti e clima di violenza e lotta tra gang che nacque l’hip hop.

Quei giovani condannati alla marginalità sociale nel Bronx di quegli anni, infatti, ebbero la capacità (necessità) di sintetizzare in un preciso momento storico, in un luogo particolare, determinate forme espressive appartenenti alla tradizione culturale afroamericana e latina, per farle nascere e diffondere attraverso momenti e spazi di aggregazione autoprodotti come i block parties, una nuova ondata creativa che, da lì a breve, invaderà il mondo. Con lo scemare dell’influenza delle gang, l’identità dei singoli non era più data dal gruppo e dai colori di appartenenza, bensì dallo stile individuale, uno stile con cui nessuno poteva competere… per distinguersi, farsi conoscere, essere il migliore e guadagnare lo status di celebrità del ghetto. I giovani che abbracciarono questa cultura in Europa e nel mondo, d’altro canto, cercarono di adattare alle proprie realtà e tradizioni un elemento culturale d’innovazione che non avevano inventato, che arrivava con prepotenza dall’altra parte dell’oceano. Questa la grande differenza, che si risolve nel voler dare il giusto tributo e rispetto ai pionieri della cultura hip hop. […] Gli elementi di continuità sono, come dicevo, moltissimi, ecco perché esistono virtualmente comunità hip hop in tutto il mondo. L’hip hop permette di esprimere sotto le più diverse forme e senza alcun tipo di mediazione l’individualità dei singoli. Ragazzi, per lo più teenager, marginalizzati dalla vita politica e sociale, elettrizzati da quel nuovo fermento culturale, intenti a ricostruire come pezzi di un puzzle la complessità dell’hip hop […].
(Ivic 2010: 58-59)

La storia dell’hip hop è vasta come è vasta questa cultura ma, per semplificare le cose, si possono immaginare i pionieri dell’hip hop come dei ragazzi che cominciano ad aver voglia di divertirsi e rilassarsi e iniziano ad organizzare feste di quartiere dove si ruba la corrente elettrica dall’illuminazione stradale e dove i DJ fanno a gara a chi fa ballare di più il pubblico. In principio era questo: gli street party, la musica dei sound system e gli MC, o maestri di cerimonia, che accompagnano il DJ intrattenendo il pubblico e incitandolo a scatenarsi, parlando a tempo sulla musica. Poi arriva il giamaicano Kool Herc, che molti considerano il padre fondatore dell’hip hop, con la sua tecnica del break che consiste nel protrarre le sezioni ritmiche di un brano in un collage infinito per potere allungare la parte ballabile e a disposizione delle prodezze verbali dell’MC. Potremmo parlare inoltre di Grandmaster Flash e dell’invenzione dello scratch, di Afrika Bambaataa e della Zulu Nation, di come le pacifiche crew, i gruppi hip hop, hanno sostituito le gang come forma di aggregazione per i giovani del ghetto, del writing e del breaking, di come l’hip hop si è poi evoluto ed è entrato nel music business, ma, ai fini di questa ricerca, quello che ci interessa sapere è che, come allora, «quel suono ancora oggi continua a cambiare la vita a un sacco di gente che lo incontra e lo fa suo come se fosse il primo a scoprirlo.» Questo avviene perché «il rap è più importante di chi lo fa, il rap viene prima di chi ne interpreta la pulsazione del momento, il linguaggio ha più peso del mezzo. Il tamburo è più importante dello sciamano di turno. Il rap non è la voce degli artisti che si esprimono attraverso di lui ma è la voce delle grandi periferie, la voce di un habitat nel quale si sviluppa quel suono.»
Ecco perché, quando si cerca un mezzo per dar voce o tradurre la voce del “ghetto”, non si può che prendere la voce che viene dal “ghetto” stesso. In questo senso, la scelta di brani hip hop come serbatoio linguistico (lessicale, sintattico, ritmico) per la traduzione di opere letterarie o cinematografiche con ambientazione nelle grandi periferie urbane mi è sembrata del tutto naturale. Non a caso, la colonna sonora di moltissimi film ambientati nelle periferie delle grandi città è costituita da musica rap. Si pensi al film cult La Haine di Mathieu Kassovitz (1995) che, nonostante sia un film “silenzioso” dove la musica appare di rado, possiamo trovare canzoni rap come Mon esprit part en couilles del gruppo francese Expression Direkt o il mix di DJ Cut Killer che accompagna la sequenza di immagini del quartiere visto dall’alto in cui il classico della canzone francese Non, rien de rien di Edith Piaf si fonde con The sound of da police di KRS-One e con Police degli NTM. Un intero album rap intitolato Le cercle rouge è stato prodotto ispirandosi al film Ma 6-T va crack-er di Jean-François Richet (1996). Tra le pellicole americane, possiamo ricordare Do the Right Thing (1989) del regista afroamericano Spike Lee dove lo stereo gigante di Radio Raheem (il cosiddetto “ghettoblaster”) diffonde le note di Fight the Power dei Public Enemy (1989); Dangerous Minds (1995) con Michelle Pfeiffer, la cui colonna sonora include la famosa Gangsta’s Paradise di Coolio e Training Day (2001) con Denzel Washington e Ethan Hawke, dove troviamo, tra gli altri, anche il singolo del guru dell’hip hop Dr Dre, Put it On Me. Per non parlare poi dei film di argomento musicale o di danza come 8 Mile(2002) e Save the Last Dance (2001) che sono anch’essi ambientati nelle periferie urbane e hanno una colonna sonora hip hop.
Non si tratterà ovviamente di prendere indiscriminatamente tutte le caratteristiche dei testi che andremo ad analizzare e di considerarle tutte valide per un futuro processo traduttivo. Ogni elemento andrà soppesato considerando la ricorrenza nei testi in analisi, le coordinate geografiche e temporali e tenendo a mente che, per quanto il linguaggio hip hop sia universale, i brani in questione nascono comunque in un contesto italiano e presentano quindi dei riferimenti alla realtà del nostro paese o delle peculiarità che li distinguono dal rap proveniente da altri luoghi. Questo perché, come ha detto Neffa in un’intervista del 2001, «Io ero e resto sempre convinto che l’hip hop vada applicato interfacciandosi con il proprio tessuto sociale.» Inoltre, il rap italiano si differenzia dal rap d’oltreoceano o francese anche per i suoi luoghi di origine.

 

In Italia, al contrario di Francia o Inghilterra, non abbiamo mai subito contaminazioni particolari da parte delle culture nere, a livello macrosociale; non siamo mai stati un paese coloniale, a parte qualche ridicolo tentativo, e l’immigrazione nei decenni passati è sempre stata bassissima […]. In Europa l’hip hop ha attecchito in profondità dove poteva contare su un serbatoio di immigrazione ex coloniale consistente […]. In Italia sono stati i centri sociali a radicare nel territorio i canoni estetici dell’hip hop.

(Ivic 2010: 99)

Questo fattore ha avuto importanti conseguenze a livello di contenuti (agli albori, le canzoni delle cosiddette “posse” che si raccoglievano intorno ai centri sociali erano strettamente di contenuto politico, spesso incitanti alla lotta di classe e alla ribellione o dedicati a cause sociali) e, forse ancora più marcatamente, a livello di diffidenza nei confronti dell’industria musicale e delle etichette mainstream, con una tendenza a rimanere un genere di nicchia e incontaminato, con una preferenza per l’autoproduzione. Se questo atteggiamento è stato positivo in quanto ha permesso all’hip hop italiano di sopravvivere alle ondate di mode effimere, allo stesso tempo, è stato deleterio perché non gli hai mai fatto acquisire lo status di genere musicale considerato alla pari degli altri. Quasi mai lo ha fatto accedere al grande pubblico e ai grandi numeri, l’hip hop in Italia si è sempre accontentato di un angolino e delle briciole, dicendosi che questa era l’unica strada percorribile per rimanere puri. Dice Damir Ivic a proposito del rap dell’Area Cronica, importante etichetta discografica indipendente della seconda metà degli anni ’90, fondata dal gruppo Sottotono, «[è un rap] molto attento a stare nei canoni, incapace di prendersi dei rischi artistici perché fatto da persone che vivevano e credevano nell’ortodossia […]. Dischi fatti dalla scena, per la scena, apprezzabili (e nemmeno del tutto) solo nei confini della scena.» Questa ortodossia (addirittura l’autoimporsi di rimanere dentro i canoni dell’ortodossia) e i modelli che si ripetono nelle canzoni rap, fanno sì che questo genere musicale sia particolarmente indicato per individuare e raccogliere caratteristiche comuni da utilizzare in ambito traduttivo.
Ad ogni modo, «la grande, straordinaria novità del fenomeno del rap italiano», nonostante i testi politici e militanti del primo periodo delle posse,

consiste in un decisivo ritorno alla quotidianità, alla vita di tutti i giorni, allo scandire monocorde delle ore che caratterizzano un’esistenza “ai margini”. Non necessariamente nel ghetto, ma in una periferia che è ormai divenuta un “luogo dello spirito”. Uno spazio ideale, insomma, dove i conflitti nascono sovente nel chiuso dell’esperienza individuale per poi dilatarsi fino a divenire “globali”, frammenti del malessere di una generazione costretta a fare i conti con il degrado morale e materiale delle città […].

(Pacoda 1996: 7-8)

Il rap italiano, insomma, magari non nasce in un “ghetto fisico” come quello il suo corrispettivo americano, ma le condizioni psicologiche di chi lo fa sono le stesse, un disagio interiore, un senso di emarginazione e diversità, spesso unito anche ad un po’ di autocommiserazione ed autoindulgenza. I luoghi di provenienza dell’hip hop, i ghetti neri delle metropoli americane e le banlieues parigine e marsigliesi, sono «tutti posti capaci di realizzare un rovesciamento del sentire comune, una miscela di culto ed esotismo sovente inavvicinabile per l’osservatore occidentale “politicamente corretto”, che sogna però di vivere almeno un frammento di quella esperienza nella quale riconosce una propria naturale (spesso obbligata) condizione di isolazionismo.» I rapper di tutto il mondo sentono l’attrazione verso queste «aree povere, ma molto fiere, che affidano alla propria produzione culturale “di strada” il messaggio di sopravvivenza e di opposizione» e sentono che, pur non sempre vivendo nelle stesse condizioni socio-economiche, condividono la stessa sensibilità e desiderio di gridare il proprio malessere con i ragazzi del ghetto che hanno originato l’hip hop. Come afferma Giuseppe Pipitone, in arte u.net, nel suo libro sulle radici dell’hip hop, Renegades of Funk:

L’hip hop deve essere davvero capace di suscitare emozioni profonde se i giovani di mezzo mondo sognano di vivere nel South Bronx! Un quartiere squallido, poverissimo, con alti livelli di sofferenza, violenza, droga e disperazione è divenuto la mecca dei giovani di tutto il pianeta. Molti di loro ne hanno compreso lo spirito di resistenza e sono rimasti affascinati da quei ragazzi cresciuti nella miseria, eppure capaci di rispondere con attacchi creativi piuttosto che soccombere alla durezza del quotidiano. L’hip hop è diventata la cultura preferita di tutti i giovani immigrati, delle minoranze etniche, dei giovani delle favela così come di quelli delle banlieue. È un mezzo con cui i giovani possono esprimere sentimenti e frustrazioni.

(u.net 2008: 9)

«Basta guardarsi intorno, insomma, e recuperare la capacità narrativa, la voglia di raccontare, il desiderio della discussione assembleare, mediata, però, ed è questo la chiave di volta del rap, da tutto l’edonismo possibile. Così l’“educazione” incontra “l’intrattenimento”» (l’Edutainment di KRS-One, education and entertainment) «e il “messaggio” può tornare a “colpire al cuore”, seducendo gli adolescenti e rendendoli finalmente protagonisti invece che passivi fruitori dell’ultima invenzione di una multi nazione.»

2.1 Breve cronologia delle origini della cultura hip hop

 

            La seguente cronologia si limita ai primi decenni di sviluppo della cultura hip hop. Ho deciso di non estenderla oltre ai primi anni ‘90 sia perché ripercorrere l’intera storia dell’hip hop richiederebbe molto più spazio di un semplice paragrafo e sia perché quello che ci interessa qui è cercare di trasmettere lo spirito originario del movimento hip hop che poi si è diffuso in ogni angolo del pianeta.

  • Primi anni ’70: «Era l’era della disco: a Manhattan la gente si riversava nei club alla ricerca di musica, sesso e droga. […] Ma fuori dalla Manhattan dei ricchi, senza un soldo, cosa si poteva fare?»

Le feste di quartiere (block parties) si diffondono nel South Bronx per ovviare alla mancanza di divertimenti e come risposta pacifica alla cultura delle gang.

  • 11 agosto 1973: Clive Campbell, in arte DJ Kool Herc, organizza una festa in occasione dell’inizio della scuola nella sala ricreativa del suo palazzo al 1520 di Sedgwick Avenue, nel South Bronx. Nel corso di questo evento, Kool Herc esibisce la sua nuova tecnica consistente nell’utilizzare due giradischi e un mixer (inizialmente nient’altro che un amplificatore per chitarra) per riproporre in loop una breve sezione di sole percussioni all’interno di un brano (il break) su cui i ballerini possono scatenarsi e su cui l’MC può intrattenere il pubblico con tecniche verbali riprese dalla tradizione afroamericana che poi avrebbero dato vita all’emceeing, ovvero al rap. Il 1520 di Sedgwick Avenue è stato chiamato da DJ Kool Herc “la Betlemme dell’hip hop” e, nel 2007, è stato anche riconosciuto come “Luogo di nascita dell’hip hop” dal New York State Office of Parks, Recreation and Historic Preservation .
  • 1973: Afrika Bambaataa, ex membro della gang Black Spades, fonda la Bronx River Organization (più tardi nota come Zulu Nation), un’organizzazione ispirata a principi di pace e unità che iniziò ad organizzare feste hip hop nei quartieri.
  • Metà anni ’70: Grandmaster Flash forma il gruppo Grandmaster Flash and the Furious Five. Appaiono nuove tecniche di djing come il backspin o lo scratching (la cui invenzione è solitamente accreditata a Grand Wizzard Theodore ma che è stata poi perfezionata da Grandmaster Flash) e la pratica dell’emceeing si affina, smettendo progressivamente di essere un mero accompagnamento alla performance del DJ e acquisendo una dignità propria. Con rapper del calibro di Kurtis Blow e Lovebug Starsky, i testi non sono più solo improvvisati ma diventano più elaborati e complessi.
  • 1979: Il singolo Rapper’s Delight della Sugahill Gang fa entrare il rap nell’industria musicale e lo rende famoso presso il grande pubblico. Questo brano viene spesso erroneamente considerato il primo pezzo rap della storia. In realtà, King Tim III (Personality Jock) della Fatback Band era stato rilasciato diverse settimane prima, anche se non aveva ottenuto un grande successo commerciale. Di poco successive sono Christmas Rappin’ di Kurtis Blow e Superrappin’ di Grandmaster Flash, brani realizzati da veri esponenti della scena hip hop newyorchese e non da prodotti dell’industria discografica come i membri della Sugarhill Gang, che la leggenda vuole fossero stati scovati dalla produttrice Sylvia Robinson in una pizzeria del New Jersey .
  • 1982: Esce The Message di Grandmaster Flash and the Furious Five, il cui testo è una denuncia delle difficili condizioni di vita nel ghetto.

È di quest’anno anche il film cult Wild Style, dedicato al writing, al breaking e al djing, che documenta la nascita della cultura hip hop.
Afrika Bambaataa organizza il primo tour hip hop in Europa, il New York City Rap Tour che passa anche da Parigi e Milano.
In Francia appaiono le prime trasmissioni radio dedicate al rap.

  • 1983: Esce il documentario Style Wars dedicato alla cultura hip hop.
  • 1984: Esce il film Beat Street, anch’esso dedicato ai pilastri dell’hip hop, con la partecipazione di diversi artisti, quali Afrika Bambaataa, DJ Kool Herc e la Rock Steady Crew, nei panni di loro stessi.

Sydney, il primo presentatore di origine africana alla televisione francese, presenta H.I.P. H.O.P., la prima trasmissione dedicata all’hip hop. Questa cultura comincia così a diffondersi in tutto il paese e, in particolar modo, nelle aree più svantaggiate. DJ Dee Nasty produce il primo disco di rap francese, Panam City Rappin.

  • Metà anni ’80: L’hip hop sbarca in Italia. «L’hip hop in Italia è arrivato di importazione e quelli che ne volevano sapere di più […] erano costretti a cercarne notizia in rarissime immagini o nei film underground dove si vedeva ballare la break dance o screcciare sui piatti. Il primo grande film arrivato in Italia fu Beat Street, dove proprio Afrika Bambaataa si esibiva al Roxy, un locale mitico del Bronx.» «[…] Nella stragrande maggioranza dei casi la scintilla iniziale è arrivata incappando in Wild Style, Beat Street e Style Wars
  • 1990: In Italia, è il periodo delle posse e dei centri sociali («Il nostro South Bronx, per molti versi, sono stati i centri sociali.» ) Esce Batti il tuo tempo dei romani Onda Rossa Posse, considerato «l’atto di nascita ufficiale del rap italiano.»

Ivic, D. (2010). Storia ragionata dell’hip hop italiano. Roma: Arcana Edizioni: 34

Ibidem: 36

Pacoda, P. (1996) Potere alla parola, Antologia del rap italiano. Milano: Feltrinelli: 2

Ibidem: 3

Ivic, D. (2010) Storia ragionata dell’hip hop italiano. Roma:  Arcana Edizioni: 183

Ivic, D. (2010) Storia ragionata dell’hip hop italiano. Roma:  Arcana Edizioni: 124-125

Ibidem: 10

Pacoda, P. (1996), Potere alla parola, Antologia del rap italiano, Milano: Feltrinelli: 8

De Rienzo, N. (2004) Hip Hop.  Parole di una cultura di strada, Milano: Zelig Editore: 19

Chang J. (2005) Can't Stop Won't Stop: A History of the Hip-Hop Generation. New York: St. Martin's Press:  68–72

http://allhiphop.com/2007/07/18/1520-sedgwick-avenue-to-be-recognized-as-official-birthplace-of-hip-hop/ [visitato: 27.01.2012]

http://cityroom.blogs.nytimes.com/2007/07/23/an-effort-to-honor-the-birthplace-of-hip-hop/ , New York Times [visitato: 27.01.2012]

http://www.npr.org/templates/story/story.php?storyId=7550286 [visitato: 27.01.2012]; Ivic, D. (2010) Storia ragionata dell’hip hop italiano. Roma: Arcana Edizioni: 26

http://www.washingtonpost.com/local/obituaries/sylvia-robinson-producer-of-sugarhill-gangs-rappers-delight-dies-at-75/2011/09/30/gIQAdsGRDL_story.html [visitato: 27.01.2012]

Pacoda, P. (1996) Potere alla parola, Antologia del rap italiano. Milano: Feltrinelli: 3

Ivic, D. (2010) Storia ragionata dell’hip hop italiano,  Roma: Arcana Edizioni: 17-18

Ibidem: 47

Ibidem: 48

3. Il linguaggio hip hop

 
Per analizzare il linguaggio dell’hip hop, dobbiamo tener conto di tre elementi fondamentali. Primo, la musica hip hop è una musica e in quanto tale possiede caratteristiche che, come quelle di tutti i generi musicali, si capiscono meglio ascoltandola che leggendone una descrizione scritta; secondo, l’hip hop è una musica e una cultura afroamericana; terzo, l’hip hop è nato in un contesto urbano di ghettizzazione e povertà.
L’hip hop condivide una storia comune con le altre “musiche nere” nate in America in seguito alla deportazione di milioni di schiavi dal continente africano.

Nelle parole del bassista Charles Mingus, il jazz proviene non solo dai neri, ma “da quello che è stato fatto ai neri, e dalla sofferenza che hanno dovuto sopportare. E alla quale i neri sono sopravvissuti” (S.G. Mingus, p. 180). Aggiunge il tenorista Archie Shepp: gli afro-americani sono “tutti vittima di quella stessa esperienza che costituisce la base, la fonte della musica nera: un dolore, un malessere avvertito dentro a ciascun uomo, donna e bambino” (1988, p. 1). Non bisogna però pensare che il jazz debba sublimare (o abbia sublimato) le proprie condizioni di partenza: il senso di perdita, di oppressione e opposizione è parte costitutiva della storia dei neri – e quindi della loro musica. Lo chiarisce bene lo scrittore James Baldwin: “La musica nero-americana è il frutto, e reca testimonianza, di una delle avventure più oscene nella storia dell’umanità” (1979, p. 32)

(Sparti 2007: 12)

La stessa cosa accade nella cultura hip hop dove questi sentimenti di perdita, oppressione e opposizione vengono espressi (ma non del tutto sublimati) attraverso il ballo, le arti grafiche, la musica e le parole del rap. Per questo il risultato non può che essere una musica dura e volgare, caratteristiche di cui il rap viene spesso accusato. Il disagio non si può esprimere attraverso una forma raffinata ed elegante. Oltre un secolo dopo la fine della schiavitù, i neri che abitano nei ghetti delle città del nord sperimentano la stessa mancanza di libertà che affliggeva i loro avi nelle piantagioni o i cantanti jazz negli anni della segregazione razziale. Certo, le condizioni di vita non sono esattamente le stesse, ma le condizioni socio-economiche in cui versano gli afroamericani fanno sì che essi siano ancora privati delle libertà fisiche e intellettuali che dovrebbero essere garantite a tutti i cittadini. In questo contesto, l’arte, come ha detto lo scrittore Ralph Ellison, è ciò di cui gli afroamericani dispongono al posto della libertà. L’arte, in particolare la musica, è l’unica forma di libertà che rimane loro, l’unico modo che hanno per esprimersi e raccontarsi, perché «l’individuo, privato della facoltà di raccontarsi, è reso ansioso e alienato, nel senso di incapace di realizzare qualcosa di duraturo (una storia, un lavoro, un prodotto)».
La propensione all’improvvisazione e alla sperimentazione molto presente nella musica afroamericana, dal jazz all’hip hop, affonda anch’essa le radici nella situazione sociale e nella storia dei neri d’America. L’improvvisazione, oltre al fatto di essere legata ad una tradizione musicale che, al contrario di quella europea, non segue una rigida partitura scritta, è una sublimazione di quello che Davide Sparti chiama il senso del “provvisorio duraturo” .

«L’essere riusciti a venire a capo della transizione dall’Africa all’America senza disporre delle necessarie istituzioni culturali è segno di un raro potenziale adattivo, nonché un atto di improvvisazione collettiva (societal improvisation)». La dislocazione, in fondo, corrisponde a una delle operazioni chiave di chi improvvisa: la capacità di coabitare – assimilandoli – con universi simbolici in tensione con il proprio.

(Sparti 2007: 37)

Anche la spinta a sperimentare può essere ascritta a ragioni sociali e, in particolare, al ruolo marginale attribuito ai neri nella società americana.

La marginalità, l’essere posti sul bordo culturale, non è vissuta solo come condizione di privazione. Può rappresentare una condizione ex-centrica di possibilità estetiche […] scrive bell hooks […] «Per me questo spazio di apertura radicale è il margine, il bordo […] Vivendo in questo modo – all’estremità – abbiamo sviluppato uno sguardo particolare sul mondo.»

(Sparti 2007: 38)

La sperimentazione si riflette particolarmente sul linguaggio. Gli schiavi, inseriti in gruppi etnici eterogenei in cui non possono ricorrere alla loro lingua di origine e costretti, sotto la minaccia della pena di morte, a comunicare solo in inglese, inventano un nuovo linguaggio modificando la lingua dei padroni. Giocando con la lingua che è stata loro imposta, arrivano a creare una lingua che si ribella alle regole del padrone, pur facendo finta di rispettarle, una lingua che assomigli a loro e che sia in grado di esprimere la loro storia e le loro condizioni di vita.

Se è nel linguaggio che il padrone ha un’arma insospettata per imprigionare lo schiavo, è nell’uso del linguaggio che quest’ultimo sa ribellarsi. Come spiega Baldwin (1965, pp. 54-55), subendo una lingua che non è stata elaborata pensando a te, devi «costringere la lingua a notarti, se vuoi esistere nel suo ambito – e non hai altra scelta che esistere nel suo ambito».

(Sparti 2007: 44)

L’ordine della lingua riflette l’ordine sociale del mondo, quindi modificare la lingua normativa, metterla sottosopra, rappresenta un atto di ribellione contro quell’ordine sociale che ti esclude. Allo stesso tempo, la lingua serve ad affermare la propria identità, distinguendosi dagli altri, da “quelli che non parlano come te”.
Questa sperimentazione linguistica che, pur non fuoriuscendo dai limiti della lingua inglese, ne sconvolge l’impianto lessicale, sintattico, ma soprattutto l’aspetto prosodico e performativo, si ritrova anche nella musica rap e in tutte le forme simili che lo hanno preceduto prima della nascita dell’hip hop. Le origini del linguaggio rap si ritrovano, infatti, nella cultura orale africana e afroamericana. Nei griots africani, nei giochi e nelle sfide verbali come i dozens e il signifying, nei canti responsoriali e nei sermoni dei predicatori in chiesa, nei minstrel shows, dove attori bianchi con la faccia dipinta di nero (più tardi anche afroamericani, sempre con la faccia dipinta di nero) rappresentavano i neri in maniera caricaturale e stereotipata. E successivamente anche nel linguaggio dei disc jockey radiofonici degli anni ’40 e ’50 che utilizzavano stili di improvvisazione vocale tipici della tradizione afroamericana come lo scat e il jive scat. Nei discorsi di grandi oratori come Martin Luther King, Malcolm X e Stokely Carmichael, nel linguaggio dei toaster giamaicani, dei DJ da discoteca e nelle incitazioni di James Brown (Say it loud, I’m black and I’m proud!).
«Il rap non era dunque nulla di nuovo, era un ritmo presente nell’aria. L’hip hop lo trasformò però in qualcosa di meraviglioso.»
Il linguaggio rap è quindi stato da sempre una forma di comunicazione orale legata alla musica. Tuttavia, fin dai suoi esordi e per molto tempo, il rap è stato accusato di non essere musica. Al rap veniva concesso di essere una forma di comunicazione accettabile in un certo contesto sociale, ma musica proprio no. Scriveva Roc Hillman, dirigente dell’ASCAP, il corrispettivo americano della SIAE, in un articolo del 16 aprile 1989 pubblicato sul Los Angeles Times,

Hilburn's referring to rap as music is completely out of line, and an affront to every musician and lover of real music. It seems that he is unaware of the definition of the word.
Rap is an acceptable communication form in the right context, and a usable and humorous gimmick in commercial promotion. But music it is not. What instrument did Hilburn study?

La musica “vera”, dunque,  sarebbe quella di chi ha “studiato” in conservatorio o in qualche altro luogo approvato; si fa con gli strumenti musicali, non con la voce o addirittura graffiando i dischi; soprattutto, non si può chiamare musica una forma espressiva in cui il ritmo e l’improvvisazione prevalgono sulla melodia e sulla composizione […] Anche in un altro modo il rap mette in discussione la divisione fra musica e non-musica: dissolvendo il confine tra parola detta e parola cantata, ritmi quotidiani del discorso e arte verbale consapevole.

(Portelli in Adinolfi 1989: 8)

Il rap, e l’hip hop in generale come cultura, si sviluppano nel quadro di una cultura caratterizzata da schemi precostituiti che è la cultura americana di matrice anglo-sassone e puritana, e li sconvolge dall’interno, dal punto di vista musicale e linguistico. Come afferma Davide Sparti, «ogni lingua […] ha un il suo codice fonatorio: alcuni suoni sono ammessi, altri no. Si afferma così un’austerità sonora che si oppone ai suoni “selvaggi”.» E l’hip hop porta sicuramente, e orgogliosamente, suoni selvaggi (“Se il tuo rap è figo, chico, amico / ti dico il mio è veramente selvaggio” ).
Il rap, con il suo recupero di forme musicali e orali della tradizione afroamericana, l’uso del Black English (più precisamente African American Vernacular English, abbreviato in AAVE) e del linguaggio di tutti i giorni estraniato dalla sua quotidianità, si impone come la cultura orale delle periferie delle grandi città. L’avvento dell’hip hop ha significato

pensare ad altri luoghi di formazione della cultura […] immaginare altri soggetti: guardare ai ragazzi del ghetto […] anche come poeti e artisti creativi […] vuol dire pensare alla cultura orale come a qualcosa che non appartiene solo all’età arcaica della poesia omerica o alla società senza scrittura dell’Africa o dell’Amazzonia, ma che fiorisce nel pieno delle metropoli moderne e parla i linguaggi veloci, duri, aggressivi della contemporaneità.

(Portelli in Adinolfi 1989: 6)

Il linguaggio hip hop, anche quando trascritto, è un linguaggio orale e per questo presenta caratteristiche tipiche del contesto orale come «l’uso frequente della lode, della vanteria e dell’attacco verbale senza mezzi termini.» Lanciare sfide verbali tese a surclassare e svilire l’avversario è il corrispettivo rap delle interminabili jam session in cui si sfidavano i musicisti jazz o dei combattimenti di boxe (purtroppo anche delle terribili battles royal, in cui i neri combattevano tra loro per il mero divertimento dei bianchi che lanciavano soldi al vincitore). Gli insulti lanciati all’avversario sono comici e teatrali e, con il loro ampio ricorso a giochi verbali e doppi sensi, rientrano in un aspetto ludico della lingua molto sfruttato nel linguaggio hip hop. Le acrobazie linguistiche provocatorie utilizzate nel rap, dice u.net, sono «tutti atti di trasgressione e ribellione» , così come riempire di graffiti il vagone di una metropolitana o graffiare un vinile, e rispondono al piacere che si prova a “rovinare” la lingua ufficiale. Inoltre, spingersi sempre oltre i limiti già raggiunti, sperimentare con il linguaggio e trovare uno stile originale e inimitabile, fa parte anche dello spirito di competizione e della volontà di imporre il proprio nome e quello della propria crew. Questa volontà si riflette nell’uso dell’epiteto e nella ripetizione frequente del proprio nome. Le ripetizioni in generale sono una caratteristica tipica del linguaggio hip hop. Come in tutti i testi orali, anche nel rap, le ripetizioni aiutano la memorizzazione di vicende e concetti importanti e contribuiscono a tramandare una memoria condivisa dagli appartenenti alla cultura. Questa funzione viene svolta anche dal ricorso a formule fisse.

È la memoria storica del rap che balza fuori dai solchi, il bisogno di ricordare il passato per renderlo sempre attuale; e il rapper lo fa servendosi di formule stabili e classiche come “here’s a little story that you got to be told” […] e le sue varianti. Questi brani servono a rievocare i fatti salienti che hanno scandito l’evoluzione del fenomeno hip-hop.

(Adinolfi 1989: 33)

Un’altra caratteristica tipica dell’oralità che si ritrova nel linguaggio hip hop è la presenza di voci di risposta tipiche del canto responsoriale o delle assemblee di fedeli che fanno da antifona alle parole del ministro della cerimonia liturgica. Queste voci di risposta spesso sono solo frasi di approvazione come “uh-huh” o “that’s right”.
Inoltre, l’importanza della prosodia e un senso strettamente legato ad essa, con unità prosodiche-intonazionali che non sempre corrispondono a unità grammaticali, è un’altra peculiarità del linguaggio hip hop collegata al suo carattere di lingua orale.
Il linguaggio hip hop si avvale di un linguaggio gergale. Negli Stati Uniti, questo gergo corrisponde all’African American Vernacular English, un linguaggio con caratteristiche particolari dal punto di vista della fonetica, dell’uso dei tempi e dei modi verbali, della negazione e con un suo lessico peculiare. La lingua vernacolare afroamericana è stata sempre al centro di controversie, soprattutto per come debba essere considerata in seno al sistema educativo, ed è stata spesso considerata come segno di ignoranza.

Il grande merito del rap è stato quello di aver reso “poetico” un dialetto considerato un prodotto dell’ignoranza e dell’arretratezza culturale, confermando che i neri hanno una loro lingua caratteristica, in cui le parole, come dice Julius Lester, musicista di colore, “possono essere inglesi ma il modo in cui il nero le abbina e il significato che conferisce loro riescono a creare un linguaggio a sé.

(Adinolfi 1989: 84)

            Una critica che è stata spesso mossa al rap è stata quella di contribuire a perpetuare lo stereotipo del negro pigro e ignorante che si accontenta di fare una musica che mai potrà essere socialmente o politicamente rilevante. In realtà, sia i testi (come nell’esempio di It’s tricky del gruppo newyorchese dei RUN-DMC riportato da Francesco Adinolfi in Suoni dal ghetto) che gli atteggiamenti della comunità hip hop, come ad esempio l’abitudine di Flavor Flav dei Public Enemy di portare una sveglia al collo, possono essere interpretati secondo due livelli di lettura. In base ad un primo livello più superficiale, gli esponenti della comunità hip hop rispondono perfettamente, con le loro parole e i loro atteggiamenti, allo stereotipo con cui la cultura dominante li dipinge. Sono ignoranti, banali, semplicistici, per non parlare di quanto siano violenti, misogini ed eccessivi nell’ostentare i frutti della loro nuova ricchezza. Ad un secondo e più profondo livello di lettura, vediamo però che tutte queste caratteristiche altro non sono che un’esagerazione ironica della realtà, una “maschera” dietro la quale si cela una sottile critica alla società dominante.

L’ironia, così come l’uso di una “maschera”, sono strumenti di resistenza usati da sempre dal nero per confrontarsi con la cultura dominante. Essi sono inevitabilmente confluiti nello hip hop, marchiando a fuoco l’immaginario lirico degli artisti. […] Così, attraverso l’uso ironico della “maschera”, i RUN-DMC divertono il neofita che si ferma ad un superficiale ascolto dei brani, ma costruiscono nelle loro canzoni un universo linguistico e tematico che può essere compreso a fondo solo dalla comunità hip-hop. Il rapper […] si rivolge a tutti, racconta esperienze che, con le ovvie variazioni ambientali, sono spesso comuni a tutti gli strati oppressi della società capitalistica.

(Adinolfi 1989: 82)

È anche per questo motivo che l’hip hop è partito dai ghetti del South Bronx e si è diffuso in tutto il mondo, cominciando proprio laddove erano presenti sacche di emarginazione ed oppressione che, più di altri, potevano capire il messaggio e il linguaggio di questa cultura.
L’hip hop potrà anche essere tacciato di volgarità, violenza, misoginia e materialismo ma dobbiamo ricordarci che questi aspetti sono strettamente legati alle condizioni di vita dei luoghi dove si è sviluppato. L’hip hop non fa altro che rispecchiare la società che lo circonda e, se da un lato ne è irrimediabilmente contagiato, dall’altro, cerca una via creativa e pacifica per non soccombere al nichilismo e al degrado dell’ambiente urbano circostante. Che fossero writer, b-boy o rapper, i primi seguaci dell’hip hop erano

innocenti creatori di arte di strada [che, simbolicamente o meno,] si infilavano in buchi delle recinzioni per illuminare il decadente sistema urbano […] È la storia di ragazzi che non avevano niente ma trovarono significato attraverso le loro opere, trasmettendo all’acciaio anonimo le proprie storie e identità individuali, scoprendo una libertà che trascende l’oppressione, usando forme e colori come medicina per una comunità ammalata.
(u. net 2008: 45)

Quasi dieci anni dopo il Civil Rights Act (1964) che sanciva l’illegalità della segregazione razziale, la comunità afroamericana si ritrovava ancora a vivere in quartieri-ghetto, ai margini delle grandi metropoli, privata di servizi ed assistenza sociale. Questi ghetti non erano sorti come un fenomeno spontaneo ma erano spesso previsti dalle politiche di pianificazione urbanistica. È questo il caso del South Bronx, la culla dell’hip hop.

Nei primi anni Settanta, fu attuato un progetto che prevedeva il trasferimento nel South Bronx di numerose famiglie di colore di diversa provenienza ed economicamente fragili. La trasformazione sociale e etnica del quartiere non fu un passaggio graduale al quale le istituzioni comunitarie potevano essere in grado di rispondere. Si trattò, invece, di un drastico processo di distruzione e riallocamento operato da funzionari municipali guidati da Robert Moses. […] Nel 1959, le autorità federali, statali e cittadine iniziarono i lavori della Cross-Bronx Expressway per cui fu necessario distruggere, e senza remore, quartieri densamente popolati e comunità fortemente caratterizzate. […] Nonostante il percorso della superstrada potesse essere modificato per evitare eccessive devastazioni, Moses decise di attuare il progetto originario che avrebbe comportato la distruzione di centinaia di edifici commerciali e di case popolari. […]  Tra il 1960 e il 1970, le case disabitate nella sezione meridionale del Bronx dove le demolizioni erano all’ordine del giorno, aumentarono in maniera esponenziale. […] I cittadini neri e latini riallocati nel South Bronx, si trovarono senza risorse, privi di legami comunitari e servizi sociali […]

(u.net 2006: 23-25)

Tuttavia, la ghettizzazione di alcune aree e la loro netta separazione dal mondo circostante hanno portato alla nascita di diverse forme di aggregazione, soprattutto giovanile. Se il resto del mondo ti ignora e i punti di riferimento vengono a mancare, bisogna crearsi una società parallela con regole e codici propri che sappia darti protezione, senso di appartenenza e un’identità. Il fenomeno delle gang che esplose nel Bronx e nelle zone limitrofe tra il 1968 e il 1973, raggiungendo dimensioni e picchi di violenza tali da spingere il dipartimento di polizia a creare la Bronx Youth Gang Task Force, un’unità speciale per monitorare e gestire l’attività delle gang giovanili, rispondeva a questo bisogno di aggregazione. Come sostiene il sociologo francese Loïc Wacquant che ha studiato approfonditamente i ghetti nel South Side di Chicago e le banlieues parigine, il ghetto stabilisce un rapporto asimmetrico con il resto della società. «[…] per via dell’ostilità esterna, il ghetto esclude. Ma proprio perché separa, genera affinità interna, garantendo un’area di integrazione lontana dal contatto con i dominanti».
A metà anni ’70, l’hip hop si propone come forma di aggregazione alternativa alle gang. Quando l’influenza delle gang che si spartivano il controllo dei territori del quartiere ha iniziato ad affievolirsi, esse sono state gradualmente sostituite dalle crew hip hop che organizzavano feste di quartiere (block parties) all’insegna dell’unità e del divertimento. Nelle crew si continuavano a riconoscere alcuni tratti della cultura delle gang come l’importanza del territorio e del “rispetto di strada” e lo spirito di appartenenza ad un gruppo, ma questi obiettivi venivano perseguiti in maniera pacifica e creativa e la notorietà ed il rispetto erano legati non più alla violenza, bensì all’originalità del proprio stile. I graffiti, ad esempio, continuano sì ad essere simboli di appartenenza e modi per marcare il territorio con il proprio nome ma diventano anche espressioni di individualità per esistere in una società in cui sei invisibile.
Anche il ballo, il b-boying, diventa una «trasfigurazione positiva delle lotte tra gang». Molti giovani si esibivano in una danza di strada conosciuta con il nome di uprock, nata proprio nel contesto delle gang come sfida per determinare chi avrebbe deciso dove sarebbe avvenuto uno scontro tra bande rivali. L’uprock era «una sorta di pantomima volta a emulare “le azioni e i gesti che un individuo avrebbe rivolto al suo avversario, quello che i membri di una gang avrebbero fatto alla gang rivale”. Nell’uprock ogni mossa è tesa a insultare l’avversario.» Allo stesso modo, le battaglie di freestyle, rap improvvisato, erano un modo per incanalare l’aggressività e per sublimare in espressione artistica la violenza e la frustrazione di vivere in un ambiente isolato e degradato. Finalmente si era trovata una via per innalzarsi al di sopra della desolazione circostante, una via che andasse oltre l’annichilimento e l’autodistruzione, «una medicina che avrebbe salvato molte vite» e che avrebbe dato voce a chi ne era privo, una via che ancora una volta nella storia afroamericana coincideva con la musica.

Lo facevamo per l’amore verso il DJing, nella competizione, nel divertimento. Siamo stati in grado di creare una cultura che è diventata mondiale. Facevamo ballare e stare bene la gente. (JC)

(u.net 2008: 146)


4.1 Le schede degli artisti

Asher Kuno

Giovanni Mei (Milano, 27 settembre 1983) è un rapper italiano membro del collettivo Spregiudicati. The Fottamaker del 2004 è il suo primo album solista.

Bassi Maestro
Davide Bassi (Milano, 3 agosto 1973) è un rapper, disc jockey e beatmaker. Attivo fin dal 1988, vanta ben 13 album in studio all’attivo, nonché numerosi mixtape e collaborazioni con altri importanti artisti della scena.

Clementino
Clemente Maccaro (Camposano, NA, 21 dicembre 1982) è un rapper italiano. Particolarmente abile nel freestyle, si è fatto conoscere in manifestazioni       quali Tecniche Perfette, Da Bomb e 2TheBeat. Il suo primo album, Napolimanicomio, cantato sia in italiano che dialetto napoletano, esce nel 2006. Attualmente collabora con Fabri Fibra nel duo musicale Rapstar.

Club Dogo
I Club Dogo sono un gruppo hip hop milanese composto dai rapper Jake La Furia (Francesco Vigorelli) e Guè Pequeño (Cosimo Fini) e dal beatmaker Don Joe (Luigi Florio). Il loro primo album, Mi fist, risale al 2003. Dal 2007 sono sotto contratto con una major (prima Virgin e poi Universal). Il loro ultimo album come gruppo intitolato Che bello essere noi è uscito nel 2010.

Colle der Fomento
I Colle der Fomento sono un gruppo hip hop italiano nato a Roma nel 1994.
Inizialmente era formato dai rapper Danno (Simone Eleuteri) e Masito (Massimo Piluzzi) e dal disc jockey e beatmaker Ice One (Sebastiano Ruocco), sostituito nel 1999 da DJ Baro. Hanno pubblicato tre album: Odio Pieno (1996), considerato un classico dell’hip hop italiano, Scienza Doppia H (1999) e Anima e ghiaccio (2007).

Cor Veleno
I Cor Veleno sono un gruppo hip hop originario di Roma, costituito dai rapper Primo (David Berardi), Grandi Numeri (Giorgio Cinini) e dal DJ e beatmaker Squarta (Francesco Saverio Caligiuri). Il loro primo album Sotto assedio risale al 1999. Nel 2006 hanno firmato un contratto discografico con la Sony.

Don Diegoh
Diego Lechiara (Crotone, 6 dicembre 1984) è un rapper italiano che si è fatto notare grazie alle sue capacità di fare freestyle. I suoi album Storie di tutti i giorni (2007) e Double Deck (2008) raccontano il vissuto odierno con un linguaggio hip hop semplice e diretto.

Fabri Fibra
Fabrizio Tarducci (Senigallia, 17 ottobre 1976) è un rapper e produttore discografico italiano. Il suo primo disco solista Turbe giovanili esce nel 2002. Dopo un album molto controverso (Mr Simpatia del 2004), nel 2006 firma un contratto con l’Universal per la quale pubblica 4 album. Attualmente è impegnato con Clementino in un duo hip hop chiamato Rapstar.

Fritz da Cat

Alessandro Civitelli, in arte Fritz da Cat, è un disc jockey, beatmaker e rapper italiano. I suoi album Fritz da Cat e Novecinquanta hanno riscosso un grande successo nella scena hip hop underground italiana di fine anni ’90.

Ghemon

Gianluca Picariello (Avellino, 1 aprile 1982) è un rapper italiano. Il suo primo album ufficiale, La rivincita dei buoni, esce nel 2007. Ghemon si distingue per uno stile che si ispira alla musica soul e per dei testi profondi e molto curati lessicalmente.

Il lato oscuro della costa

Gruppo hip hop italiano formatosi a Ravenna nel 2003. Il gruppo è formato da i rapper Penombra, Tesuan, Polly e Moder e dal DJ e beatmaker Nada.

Inoki

Fabiano Ballarin (Ostia, 2 ottobre 1979) è un rapper italiano. Dopo aver vissuto ad Imperia i primi anni della sua vita, nel 1995 si trasferisce a Bologna dove, ancora giovanissimo, collabora con Joe Cassano, DJ Lugi e Fritz da Cat. Il suo primo album solista 5° Dan esce nel 2001. Dopo un album uscito per una major (Nobiltà di strada del 2007), nel 2011 pubblica un altro album indipendente dal titolo Flusso di coscienza.

Joe Cassano

Giovanni Cassano (Bologna, 25 novembre 1973 – Bologna, 3 aprile 1999) è stato un rapper italiano. Italo-americano di origine, durante l’adolescenza vive per alcuni periodi a New York. Appassionato di arti marziali e hip hop, a fine anni ’90 inizia a muovere i primi passi nel circuito hip hop underground collaborando con Fritz da Cat, Inoki e il collettivo Uomimi di Mare. Il suo unico album (Dio lodato) esce nel 1999 dopo la sua morte causata da un’overdose di eroina.

Kaos One

Marco Fiorito (Caserta, 1971) è un rapper, beatmaker, writer e breaker italiano, considerato uno dei maggiori esponenti hip hop del paese. Inizia la sua carriera già nel 1985 e alcuni dei suoi brani, come Cose preziose (1999), sono considerati dei classici dell’hip hop italiano.

Kiave

Mirko Filice (Cosenza, 2 marzo 1981) è un rapper italiano. Dopo varie esperienze con i gruppi Dietro le Quinte, Migliori Colori e collaborazioni con Macro Marco, nel 2005 esce il suo primo lavoro solista (Dietro le cinque tracce). Seguono altri 3 album.

La Pina

Orsola Branzi (Firenze, 20 giugno 1970) è stata una rapper ed è una conduttrice radiofonica italiana. Ha fatto parte del gruppo Otierre e nel 1995 ha fatto uscire il suo primo disco solita (Il disco della Pina). Attualmente conduce Pinocchio, il programma preserale di Radio DeeJay.

Marracash

Fabio Rizzo (Nicosia, 22 maggio 1979) è un rapper italiano che fa parte dell’entourage dei Club Dogo (Dogo Gang). Nel 2005 ha pubblicato il disco autoprodotto Roccia Music. Nel 2008 ha pubblicato il primo disco ufficiale sotto etichetta Universal Music.

Mistaman

Alessandro Gomiero (Treviso, 11 settembre 1976) è un rapper italiano. Dopo i primi lavori con i Centro13, nel 2001 fa uscire l’album Colpi in Aria in collaborazione con DJ Shocca. Seguono i più famosi Parole (2005) e Anni senza fine (2008).

Otierre

Gli Otierre, o OTR, erano un gruppo hip hop formatosi a Varese nel 1991. Ne facevano parte gli MC Esa, Polare, Torrido, Azza, Intruso e Limite e i DJ Fede, Vigor, Vez, Irmu e Nitro. Il loro album Dalla Sede (1997) è considerato un classico dell’hip hop italiano.

Royal Medhi

Marco Sanzari (Roma, 1983) è un rapper italo-marocchino. A 15 anni si trasferisce in Marocco, per poi tornare in Italia e stabilirsi a Bologna. Collabora regolarmente con Inoki e LamaIslam, membri della crew bolognese Porzione Massiccia (PMC).

Sangue Misto

I Sangue Misto sono stati un gruppo di hip hop italiano formatosi nel 1993. Il gruppo era composto dagli MC Neffa (Giovanni Pellino) e Deda (Andrea Visani) e dal beat maker dj Gruff (Sandro Orrù). Il loro album SXM (1994) è considerato uno dei classici dell’hip hop italiano.

Sottotono

I Sottotono sono stati un gruppo musicale hip hop italiano, formatosi nel 1994 e scioltosi nel 2001.
La band inizialmente è formata da quattro membri: i rapper Nega e Tormento, il beatmaker Fish ed il turntablist DJ Irmu. Dopo il primo album Nega e DJ Irmu lasciano il gruppo, che si riduce a due membri. Hanno pubblicato 4 album, il primo per la Vox Pop, e gli altri tre per la Warner.

Stokka & Madbuddy

Stokka & MadBuddy, conosciuti anche come Tasters, sono un duo hip hop di Palermo composto dagli MCs Stokka (Francesco Romito) e MadBuddy (Marco Gorgone). Il loro demo d’esordio, Palermo centrale, esce nel 2001, seguito da La cura del microfono (2002) e da Block notes (2005).

Zampa

Alessandro Zampini (Verona, 22 maggio 1979) è un rapper italiano. Dopo un primo periodo con il collettivo Osteria Lirica, nel 2001 esce il suo primo lavoro solista, Gorilla Guerriglia. Il suo ultimo album è uscito nel 2009 e si intitola La lunga e tumultuosa via per Bisanzio.

Sparti, D. (2007) Musica in nero. Torino: Bollati Boringhieri: 25

Ibidem, 37

u.net (2008) Renegades of funk. Milano: Agenzia X: 152

http://articles.latimes.com/1989-04-16/entertainment/ca-2336_1_woodland-hills-music-rap [visitato: 12.02.2012]

Sparti, D. (2007) Il corpo sonoro. Bologna: Il Mulino: 16

Dal testo di Bologna by night di Inoki e Royal Medhi, contenuta nell’album 60hz di DJ Shocca (2004)

Adinolfi, F. (1989) Suoni dal ghetto. Genova: Costa & Nolan: 26

u.net (2008) Renegades of funk. Milano: Agenzia X: 82

Per un maggior approfondimento, si veda Adinolfi (1989: 78 e segg)

Sparti, D. (2007) Musica in nero. Torino: Bollari Boringhieri: 54

u.net (2008) Renegades of funk. Milano: Agenzia X: 76

Ibidem, 78

De Rienzo, N. (2004) Hip hop. Parole di una cultura di strada. Milano: Zelig Editore: 19

 

Fonte: tratto da https://www.researchgate.net/profile/Margherita_Angelucci/publication/263468324_Spinge_sempre_grezzo_Le_parole_del_rap_italiano_come_esperimento_per_tradurre_letteratura_e_cinema_del_ghetto/links/00b4953afd32bcd3bd000000

Sito web da visitare: https://www.researchgate.net/

Autore del testo: Margherita Angelucci

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