Ludwig van Beethoven

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Ludwig van Beethoven

Il rivoluzionario di Bonn: Ludwig van Beethoven
La caratteristica che distingue Beethoven da tutti gli altri musicisti che lo precedettero - a parte il genio e la forza senza eguali - fu che egli si considerò un artista e difese i suoi diritti d'artista. Mentre Mozart si mosse alla periferia del mondo aristocratico, battendo ansiosamente alle sue porte ma senza esservi mai ammesso, Beethoven, che aveva solo quattordici anni meno di lui, le spalancò con un calcio, conquistò d'assalto il posto che gli spettava e in quel mondo si senti a casa sua. Era un artista, un creatore, e perciò superiore ai re e ai nobili. Aveva una concezione decisamente rivoluzionaria della società e idee romantiche sulla musica. « Quel che ho nel cuore deve venire fuori e cosí lo scrivo » disse al discepolo Carl Czerny. Mozart non si sarebbe mai sognato di dire una cosa del genere, e neppure Haydn o Bach. La parola « artista » non si legge mai nelle sue lettere. Mozart e i compositori che lo precedettero erano abili artigiani che fornivano un prodotto e ai quali non veniva mai in mente di poter scrivere per la posterità o di fare dell'arte per l'arte. Le lettere e gli appunti di Beethoven sono invece pieni di parole come « arte », « artista ». Era di una razza speciale, e lo sapeva. Sapeva anche di scrivere per l'eternità. E aveva quel che mancò invece al povero Mozart: una personalità possente che riempiva di reverente ammirazione quanti venivano in contatto con lui. « Non ho mai conosciuto un artista di una tale concentrazione e intensità spirituale » scrisse Goethe « di una tale vitalità e magnanimità. Posso ben capire come gli riesca difficile adattarsi al mondo e alle sue usanze. » Goethe non capiva molto Beethoven. Per il maestro di Bonn non si trattava di adattarsi al mondo e alle sue usanze. Come per Wagner piú tardi, erra il mondo che doveva adattare le proprie usanze a lui. Con una personalità ad alto potenziale, che si accoppiava a un genio di potenziale altrettanto alto, poteva imporre le proprie condizioni alla vita in tutto e per tutto, o quasi: la vita lo vinse solo colpendolo con una tragica sordità.
Beethoven riuscí a imporsi nonostante i difetti del carattere e i modi impossibili. Non era mai stato una bellezza: da giovane lo chiamavano Der Spagnol per via della carnagione olivastra. Era basso - non arrivava al metro e sessantacinque - tarchiato e ampio di spalle; aveva una testa massiccia, una massa di capelli ribelli, denti sporgenti, naso piccolo e arrotondato, e usava sputare dappertutto. Goffo nei movimenti, rovesciava e rompeva continuamente gli oggetti che toccava. Maldestro, non imparò mai a danzare, e si tagliava sempre facendosi la barba. Era tetro e sospettoso, suscettibile come un cobra misantropo, convinto che tutti volessero imbrogliarlo; non aveva buone maniere o modi accattivanti, dimenticava sempre tutto, aveva accessi di collera insensata, e con gli editori ebbe a volte rapporti di dubbia correttezza. Scapolo, viveva in una confusione indescrivibile, soprattutto perché non c'erano servitori o governanti disposti a tollerare i suoi nervi. Nel 1809 lo andò a trovare il barone di Trémont; ed ecco come quel degno gentiluomo, sconvolto, descrisse l'appartamento del compositore:
Pensate al posto più buio e piú disordinato che si possa immaginare: macchie di umido coprivano il soffitto; un piano da concerto vecchiotto, sul quale la polvere si disputava lo spazio con fogli di musica stampata e manoscritta; sotto il piano (non esagero) un pitale non vuoto; accanto, un tavolino di noce abituato alle macchie del calamaio che si rovescia continuamente; una quantità di penne incrostate di inchiostro, al confronto delle quali le proverbiali penne da taverna brillerebbero; e ancora musica. Le sedie, quasi tutte di vimini, erano coperte di piatti con i resti della cena della sera prima, di indumenti, ecc.
La descrizione del barone di Trémont è solo una delle tante. Beethoven era disorganizzato in tutto e per tutto, meno che nella sola cosa che veramente contasse per lui: la musica.
Il suo genio fu riconosciuto quasi subito. Provinciale, poiché veniva da Bonn dove era nato il 16 dicembre 1770, era stato educato dal padre, un dissoluto musicista di corte. Bambino prodigio, fu sottoposto a una rigida disciplina che, come spesso succede ai bambini prodigio, condizionò tutta la sua vita. Richard e Edith Sterba, autori di uno studio psichiatrico su Beethoven, hanno scritto: « Una precoce ribellione agli arbitri e alla ingiusta severità del padre gettò le basi della rivolta contro ogni tipo di autorità che in Beethoven si manifesta con una intensità che non può non definirsi altamente insolita ». Il padre sperava che il bambino ripetesse le imprese del piccolo Mozart. Ma non fu cosí. Certo, Ludwig aveva talento a sufficienza, e quando aveva dodici anni uno dei suoi maestri, Christian Gottlob Neefe, disse che se avesse continuato come aveva cominciato, sarebbe diventato « senz'altro un secondo Mozart ». Ma Ludwig era, si, pianista, violinista e organista molto abile, ma era anche qualcosa di piú. Sin dall'inizio fu un creatore, uno di quei talenti naturali pieni di idee e di originalità.
Era questa originalità a distinguerlo da tutti gli altri. Egli era una forza della natura, e niente poteva fermarlo. Prese lezioni da eminenti compositori del tempo, compresi Haydn e Mozart, ma fu scontento di entrambi questi grandi uomini e non ricavò gran frutto dalle lezioni che non aggiunsero e non tolsero nulla. Non era il tipo di allievo al quale sia facile insegnare. Era troppo sicuro del proprio genio. Una volta fattasi un'idea, sapeva di avere ragione. Guardava sempre con sospetto le «regole dell'armonia. Un amico, una volta, notò una serie di quinte parallele in una sua composizione. Nell'armonia classica, si trattava di un peccato imperdonabile. Beethoven si risenti. E chi proibiva le quinte parallele, volle sapere. L'amico gli citò tutta una serie di nomi autorevoli: Fux, Albrechtsberger e cosí via. Beethoven li liquidò con un gesto sdegnoso della mano. «Io le ammetto» disse. E c'è un taccuino in cui un esercizio d'armonia è svolto diciassette volte per dimostrare che una «regola» era sbagliata. Smentendo tutto soddisfatto la regola, Beethoven aggiunse, un Du Esel - asino! - all'indirizzo dell'autore che aveva enunciato la «regola».
La prima fama se la conquistò come pianista. Nel 1791 un critico, un certo Carl Ludwig junker, lo senti suonare e fece alcune acute osservazioni: « Il suo modo di trattare lo strumento è cosí diverso da quello che si sente di solito da dare l'impressione che abbia raggiunto quella vetta di eccellenza sulla quale si trova ora attraverso un sentiero scoperto da lui ». Quando si stabili a Vienna, nel 1792, il suo stile di pianista fece una enorme impressione. I viennesi erano condizionati dallo stile scorrevole e armonioso di un Mozart o di un Hummel. Ed ecco che arriva questo giovane, questo Beethoven, che leva in alto le mani e fracassa il pianoforte e fa saltare 1e corde, cercando di cavare dallo strumento un tipo di sonorità orchestrale fino allora mai ottenuta. Nella sua ricerca di una sempre maggior forza, Beethoven pregò i fabbricanti di dargli uno strumento migliore del piano leggero viennese, che, diceva lui, aveva il suono di un'arpa. Beethoven fu il piú grande pianista dei tempi suoi, e forse il piú grande improvvisatore mai vissuto. Nella Vienna di quei tempi si esibiva un gruppo di abili pianisti, alcuni residenti stabilmente nella città, altri di passaggio regolarmente: Hummel, l'abate Gelinek, Joseph Wölffl, Daniel Steibelt, Ignaz Moscheles. Chi prima chi dopo, Beethoven li mise tutti in ginocchio. Nessuno reggeva il suo confronto, anche se il mirabile Wölffl, con il suo stile classico, ebbe forte seguito tra i conservatori. Sotto molti aspetti Beethoven fu il primo dei moderni virtuosi di piano. Mentre prima di lui i pianisti blandivano soavemente ed elegantemente il pubblico, Beethoven gli metteva le bombe sotto le poltrone.
Beethoven fu quasi adottato dall'aristocrazia. Per sua fortuna, si trattava di un'aristocrazia liberale, illuminata e amante della musica. Molti nobili stipendiavano orchestre private e quasi tutti tenevano serate musicali nei loro palazzi. Grandi nobili come i principi Lobkowitz, Schwarzenberg e Auersperg, il conte Heinrich von Haugwitz e il conte Batthyanv si facevano addirittura seguire dalle loro orchestre quando viaggiavano. Il principe Grassalkowich aveva una piccola orchestra d'archi. Beethoven si muoveva in questi ambienti e non ne era minimamente impressionato. « È facile andar d'accordo con i nobili, se si ha qualcosa con cui impressionarli. » Haydn e Mozart erano tenuti a pranzare con la servitú. Non Beethoven, che si sentiva gravemente insultato se non lo facevano sedere accanto al padrone di casa.
Non solo si muoveva in questa società, ma intrecciava addirittura amori con le gentildonne, anche se il capitolo dei suoi rapporti con le donne è ancora in gran parte da scoprire. I contemporanei gli attribuirono conquiste che non avrebbe fatto un Adone, e sembra che per tutta la vita abbia avuto amori, uno dopo l'altro. Ma non ci sono prove che fossero sempre coronati da un successo fisico. Gli Sterba sostengono addirittura che odiasse le donne; che pur continuando a ripetere che voleva prendere moglie, rifuggisse nell'inconscio dall'idea stessa del matrimonio. Per questo si sarebbe innamorato solo di donne che in nessun caso lo avrebbero sposato: donne che avevano già marito o erano molto superiori a lui come rango sociale. Nondimeno ci restan di lui lettere ardenti indirizzate a questa o quella signora, compresa la famosa lettera alla misteriosa Amata Immortale, chiunque essa sia stata. «Angelo mio, mio tutto, mio stesso io ... Puoi cambiare il fatto che non sei completamente mia, io non sono completamente tuo ... Ah, dovunque io sono, là sei anche tu ... Per quanto tu possa amarmi, io ti amo di piú ... Non è il nostro amore una costruzione celeste, salda anche come la volta del Paradiso ...» Pare esclusa ogni possibilità di identificare questa donna, cosí com'è escluso che si possa identificare la Dama Nera dei Sonetti, benché generazioni e generazioni di studiosi si siano lambiccati il cervello su queste nebulose figure della vita di Beethoven e di Shakespeare. George Marek, tuttavia, nella biografia di Beethoven (1969), ha trovato nuove prove che fanno pensare a Dorothea von Ertmann. Costei era moglie di un ufficiale dell'esercito austriaco pianista dotata. Beethoven, dal canto suo, era molto austero. Trovava addirittura da ridire sulla trama del Don Giovanni, che gli pareva immorale.
E' troppo semplice affermare, come fanno alcuni storici della musica, che Beethoven si fece strada senza mecenati. Probabilmente avrebbe potuto, ma è un fatto che già nel 1801 il principe Lichnowsky gli dette del denaro. Poi, quando gli fu offerto un posto alla corte di Westfalia, l'arciduca Rodolfo, il principe Lobkowitz e il principe Kinsky raccolsero 4000 gulden per non farlo partire da Vienna. Questo succedeva nel 1808. La svalutazione del 1811 fece dileguare quella rendita. Poi Kinsky rimase ucciso in un incidente e Lobkowitz falli. Ciò nonostante i due nobili e i curatori di Kinsky compensarono la differenza e dal 1815 fino alla morte Beethoven ebbe 3400 fiorini all'anno. Non lo imbarazzava affatto ricevere quel denaro. Al contrario. Andò addirittura a corte per indurre gli eredi Kinsky a osservare gli impegni. Non chiedeva denaro, lo pretendeva. Non dubitava che gli fosse dovuto.
I primi anni a Vienna furono rosei. Il mondo era ai suoi piedi. Era applaudito, onorato, ammirato. Aveva fatto il vuoto intorno a sé come pianista, e le sue composizioni cominciavano ad affermarsi. Poteva vantare come allievi alcuni dei nomi piú famosi di Vienna. Finanziariamente stava benissimo. « Le composizioni mi rendono parec¬chio » scrisse a Frank Wegeler, un vecchio amico di Bonn, nel 1801 « e posso dire che mi vengono offerte piú commissioni di quante io possa soddisfare. Inoltre, per ogni composizione posso contare su sei o sette editori e anche di piú, se voglio. La gente non mercanteggia piú con me. Io faccio il mio prezzo e loro pagano.
Ma stava succedendo una cosa terribile: cominciava a perdere l'udito.
« Le orecchie mi ronzano continuamente, notte e giorno » scrisse a Wegeler. « Posso dire che vivo una vita infelice perché è impossibile dire alla gente: " Sono sordo „ ... Per darti un'idea di questa mia singolare sordità, ti dirò che a teatro devo andare vicinissimo all'orchestra per capire gli attori. Se sono un po' troppo lontano non sento le note alte degli strumenti e dei cantanti, e se sono un po' piú indietro non sento niente del tutto. Spesso mi riesce di percepire una conversazione fatta a voce bassa, ma senza capire le parole, e appena tutti cominciano a gridare diventa intollerabile. »
Tentò di tutto per arrestare il deterioramento dell'udito. Provò addirittura una cura galvanica e si rivolse ai ciarlatani.
Naturalmente fu un'esperienza traumatica, e il famoso Testamento di Heiligenstadt, scritto nel 1802 e indirizzato ai fratelli per essere letto dopo la sua morte è un vero cri de coeur: «Oh, voi che pensate o dite che sono malvagio, testardo o misantropo, che grande torto mi fate! Non conoscete la causa segreta che mi rende ciò che sembro a voi ... Ah, come potrei ammettere un'infermità proprio in quello, tra i sensi che dovrebbe essere in me piú perfetto che in altri, un senso nel quale una volta ho goduto della massima perfezione, una perfezione quale pochi, nella mia professione, hanno o hanno avuto...». Ci sono pagine e pagine di lamenti.
Rifiutò di piegarsi alla calamità, anche se peggiorò anno per anno. Nel 1817 era ormai quasi completamente sordo, anche se aveva giorni buoni in cui poteva sentire un po' di musica o di parole senza cornetto acustico. La causa del male non è stata accertata. Forse fu conseguenza di un attacco di tifo. Secondo alcuni specialisti potrebbe essere derivato da una sifilide congenita o acquisita. La battaglia di Beethoven con la sordità fu eroica, epica. Continuò a suonare il piano e insistette per continuare a dirigere la sua musica anche se i suoi gesti sconclusionati, accompagnati dall'incapacità di sentire bene, mettevano completamente fuori strada l'orchestra I suonatori impararono a non guardarlo e a fare invece attenzione al primo violinista. Tuttavia, essendo quel musicista che era, Beethoven poteva effettivamente sostituire la vista all'udito. Joseph Böhm, che era a capo di un quartetto d'archi, ci ha lasciato una descrizione di Beethoven al lavoro, ed è una descrizione straziante. Nel 1825 Böhm lavorava al Quartetto in mi bemolle op. 127, alla presenza del compositore. « Il quartetto fu studiato con molta cura e provato spesso sotto gli occhi dello stesso Beethoven: ho detto intenzionalmente occhi, perché l'infelice era talmente sordo da non poter piú sentire il suono celeste delle sue composizioni. Eppure, provare in sua presenza non era facile. Seguiva attentamente con gli occhi gli archetti ed era cosí in grado di giudicare le minime imperfezioni nel tempo o nel ritmo e di correggerle immediatamente. »
Chi non è musicista non riesce a immaginarsi un compositore sordo. Ma nei musicisti di talento non comune, la sordità riguarda solo i suoni esterni, e non quelli interiori. Beethoven aveva una intonazione perfetta, la capacità di sentire ogni nota o combinazione di note e di dire all'istante di quali note si trattasse; o, viceversa, la capacità di cantare esattamente ogni nota senza aiuti artificiali di piano o diapason. Questa abilità non è particolarmente rara. Ogni buon musicista, ogni persona portata per la musica anche senza essere professionista, è in grado di leggere una partitura, « sentendo » ciò che vi è scritto. Un buon compositore non ha bisogno di piano per lavorare. Beethoven, anzi, una volta raccomandò a un allievo inglese, Cipriani Potter, di non comporre mai in una stanza in cui ci fosse un piano, per resistere alla tentazione di consultare lo strumento. Per molti non musicisti questa capacità appare quasi magica ma per i professionisti è cosa del tutto naturale. Perciò Beethoven, con il suo incredibile spirito musicale, non aveva difficoltà, come non ne avrebbero avute un Bach o un Mozart, a scrivere musica con la sola guida dei suoni che echeggiavano nel suo orecchio interiore.
Al culmine della depressione, Beethoven stava lavorando alla sinfonia Eroica, eseguita per la prima volta nel 1805. L'Eroica è una delle pietre miliari della storia musicale. Fino a quel momento Beethoven era stato un compositore radicato nel diciottesimo secolo. Certo, la sua musica era piú austera di quella di Haydn o di Mozart. I sei Quartetti dell'op. 18 avevano una forza, un vigore che suggerivano, ma suggerivano soltanto, un nuovo mondo. Le prime due sinfonie avevano portato la sinfonia classica a nuova ampiezza, sia per la durata sia per le dimensioni dell'orchestra. Le prime sonate per piano, particolarmente la Patetica, la Sonata Al chiaro di luna (il nome non le fu dato da Beethoven) la Sonata in re minore, andarono ben oltre la musica per pianoforte di Mozart o di Haydn nella massiccia sonorità, nell'espressività romantica e in un virtuosismo di nuovo tipo. Nondimeno, nel complesso, la musica che precedette l'Eroica è pur sempre nel linguaggio dei grandi predecessori di Beethoven. Poi venne l'Eroica e la musica non fu mai piú la stessa. Con uno spasimo convulso, entrò nel diciannovesimo secolo.
La storia dell'Eroica è nota. Beethoven cominciò a lavorare a questa sinfonia nel 1803, intendendo rendere omaggio a Bonaparte. Quando Bonaparte si proclamò imperatore, la leggenda vuole che Beethoven, che predicava una sorta di democrazia, strappasse la pagina del titolo con la dedica. Nel maggio 1804 la sinfonia era completata: la prima esecuzione ebbe luogo il 7 aprile 1805 al Theater ari der Wien. La storia tace sulla qualità dell'esecuzione. La gigantesca partitura dovette causare difficoltà senza precedenti ai musicisti, che molto probabilmente suonarono in modo non uniforme e fuori tono. Ci si chiede anche che cosa passasse per la mente del pubblico in quell'occasione storica. Si trovava di fronte a una sinfonia colossale, piú lunga di qualsiasi altra e dall'orchestrazione molto piú pesante; una sinfonia con armonie complesse; una sinfonia di forza titanica; una sinfonia di violente dissonanze; una sinfonia con una marcia funebre che è di una intensità paralizzante.
Gli ascoltatori sensibili si resero conto di essere in presenza di qualcosa di monumentale. I critici erano in agitazione. Si rendevano conto della forza dell'Eroica, ma pochissimi erano in grado di coglierne la logica e la struttura rigorose. «Questa lunga composizione » scrisse il critico dell’”Allgemeine Musikalische Zeitung” « d'esecuzione quanto mai difficile, è in realtà una fantasia enormemente dilatata, audace e sfrenata. Non le manca niente quanto a passaggi sconvolgenti e belli, nei quali si deve riconoscere l'energico e geniale compositore; ma spesso si perde nella sua arbitrarietà ... Chi scrive fa parte della schiera dei piú sinceri ammiratori del signor Beethoven, ma in questa composizione deve confessare che trova molte cose abbaglianti e bizzarre le quali impediscono di cogliere l'insieme, e il senso dell'unità va quasi completamente perduto.» La Vienna musicale era divisa sui meriti dell'Eroica. Per alcuni era il capolavoro di Beethoven; per altri era semplicemente un tentativo di mostrarsi originale a tutti i costi, e per di piú non riuscito. In questi ambienti si pensava che Beethoven non dovesse continuare per quella strada ma tornare a scrivere musica sul genere del celebre Settimino e delle prime due sinfonie. Quest'ultima fazione superava, nel numero, quella degli ammiratori dell'Eroica. Alla prima il pubblico non reagì come l'autore avrebbe voluto; Beethoven ne soffri, ma non volle cambiare neppure una nota. « Scritta da me, una sinfonia che dura un'ora sembrerà corta » si vuole che abbia detto. Come unica concessione suggerí di eseguire l'Eroica nella prima parte del programma, prima che il pubblico fosse troppo stanco. L'Eroica dura una cinquantina di minuti, e anche di piú se si eseguono tutti i ritornelli. Poche sinfonie di Mozart o di Haydn durano piú di mezz'ora: forse addirittura nessuna.
I sette, otto anni seguenti videro tutta una serie di capolavori: la prima versione del Fidelio nel 1805 (ebbe successo solo nel 1814, dopo la revisione), i tre Quartetti Razumovsky, il Concerto per violino, i concerti per piano n. 4 in sol e n. 5 in mi bemolle, le sinfonie dalla n. 4 alla n. 8, diverse sonate per piano tra le piú famose
comprese la Waldstein e l'Appassionata). Ma intorno al 1811 ci fu un calo di produzione. Accaddero diverse cose. Diventato completamente sordo, Beethoven si ritirò sempre di piú nel suo mondo interiore. Fu un periodo di gestazione dal quale sarebbero venuti la Missa solemnis, gli ultimi quartetti e le sonate per piano: creazioni gigantesche, misteriose, mistiche. Beethoven sapeva di trovarsi in pieno processo di concepimento anche se la penna restava inoperosa. « Ho avuto sempre una norma: Nulla dies sine linea » disse a Wegeler « e se lascio dormire la Musa è solo perché possa ridestarsi piú forte. » Per di piú, non era in buona salute. Aveva disturbi di fegato e di intestino. Ma il fatto che piú pesò sulla sua vita, quello che gli portò via gran parte del suo tempo e che si può pensare abbia privato il mondo di qualche capolavoro, furono i rapporti con il nipote Karl.
Nel 1815 moriva Kaspar, uno dei fratelli di Beethoven. Il testamento nominò la moglie Johanna e Ludwig tutori del figlio di nove anni. Già prima Beethoven aveva una mediocre opinione della cognata, e per portarle via Karl ricorse ai tribunali, si agitò come un matto e l'accusò di difetti vari e di immoralità. Riuscí a ottenere che la tutela del figlio le venisse tolta, ma la donna contrattaccò e nel 1819 riportò vittoria. Beethoven si rivolse alla corte suprema e nel 1820 vinse definitivamente la causa. Pare che Karl fosse un ragazzo brillante e ricettivo, ma non avrebbe potuto trovare tutore peggiore di quello zio Ludwig che lo adorava ed era cosí pieno di buone intenzioni ma si comportava ora con troppa severità e ora con troppa tolleranza. Karl si guastò. Imparò ad aggirare l'ostacolo e a lusingare lo zio, ma non servi a niente. Trovò amici di dubbia moralità, cercò di fuggire, senza riuscirci, e finalmente nel 1826 tentò di uccidersi. Una pallottola andò a vuoto, l'altra gli scalfi il cuoio capelluto. Guarito dichiarò che voleva che lo zio si tenesse alla larga da lui. « Perché non la smette di infastidirmi? » Alla polizia disse che Beethoven lo tormentava. Beethoven la prese molto male e gli amici dissero che in quelle settimane era invecchiato di vent'anni. Alla fine Karl, un personaggio su cui si sono fatte delle insinuazioni e che è stato frainteso, entrò nell'esercito. Dette le dimissioni nel 1832, si sposò, ereditò i beni dello zio Johann (un altro fratello di Beethoven) e mori nel 1858.
Grazie agli interminabili litigi per Karl e alla determinazione psicopatica con cui lottò contro la cognata, tra il 1815 e il 1820 Beethoven fece pochissima musica: sei opere importanti in sei anni. Fra queste si contano le ultime due Sonate per violoncello, il ciclo di lieder An die ferve Geliebte, e le Sonate per piano in la (op. 101), si bemolle (op. 106) e mi (op. 109). Quella in si bemolle è la Hammerklavier, la piú lunga, grandiosa e difficile sonata della storia della musica, con un ultimo movimento che consiste di una fuga quasi impossibile a eseguirsi. Avrebbe composto un movimento cosí micidiale (tecnicamente) se non fosse stato sordo? Dal 1818 fu occupato dalla Missa solemnis e dalla Nona Sinfonia, finendo la prima nel 1823 e la seconda l'anno dopo. La Nona Sinfonia fu presentata al pubblico il 7 maggio 1824, dopo appena due prove! Dovette essere una catastrofe. Il coro non riusciva a cantare quella musica e implorava che le note alte venissero abbassate, e anche il contralto solista, Caroline Unger, chiedeva modifiche. Beethoven rifiutò. Al concerto, i cantanti che non arrivavano alle note alte le saltarono tranquillamente. Lo « scherzo », però, fece un'impressione enorme, e la Unger fece girare Beethoven perché vedesse quell'applauso che non poteva sentire. Come l'Eroica fu una svolta nella musica del diciannovesimo secolo cosí la Nona Sinfonia fu l'opera di Beethoven che piú di ogni altra conquistò l'immaginazione dei romantici. L'ultimo suo grande contributo alla musica furono cinque quartetti per archi e una fuga, sempre per archi, la Grosse Fuge, in origine destinata come ultimo movimento al Quartetto in si bemolle (op. 130).
Nella sua Vienna Beethoven fu un personaggio famoso come nessun altro, universalmente riconosciuto come il piú grande compositore del mondo, piú grande perfino del pianista-compositore Johann Nepomuk Hummel. I viennesi lo ammiravano anche per le sue eccentricità. Ovviamente, la sua fama era universale e veniva a trovarlo gente da tutto il continente, Inghilterra compresa. Riceveva tutti. Era un personaggio ben noto nelle taverne e nei caffè, dove pontificava su ogni argomento. Autodidatta, non era quello che si dice un intellettuale, e al di fuori della musica i suoi processi mentali erano tutt'altro che rimarchevoli. Lo si vede dalle lettere, quelle lettere che mandano su tutte le furie lo studioso di Beethoven e che riguardano quasi esclusivamente le trattative con gli editori o sono brevi biglietti per invitare gli amici a cena: tutto, insomma, tranne le cose che noi vorremmo sapere, e cioè che cosa ne pensava della musica, dei contemporanei, della vita. Le lettere di Mozart sono rivelatrici e testimoniano di una mente acuta e pronta, di una personalità affettuosa, anche se debole. Le lettere di Beethoven (ci sono però delle eccezioni) dicono poco o niente di lui.
Mori il 27 marzo 1827, dopo una lunga malattia. Se bisogna credere ai racconti dei contemporanei, si vide un lampo, si senti un tuono e il morente levò il pugno contro il cielo. Il particolare sembra troppo fatto su misura, sa troppo di invenzione romantica, per essere vero: ma si vorrebbe che lo fosse. Beethoven visse sfidando tutto e tutti. Perché, alla fine di quella lotta, non sfidare anche gli elementi e perfino Dio? Si racconta che ii funerale fosse seguito da circa ventimila persone.
Questo l'uomo che è stato il più formidabile pensatore musicale. Molti hanno voluto vedere in lui il ponte tra il periodo classico e quello romantico, ma è soltanto una etichetta di comodo, e neppure troppo esatta. In realtà nella sua musica c'è ben poco di romantico; molto meno, in ogni caso, che nell'opera di un Weber o di uno Schubert, due compositori attivi ai tempi suoi (Weber mori nel 1826, Schubert nel 1828), e molto meno, anche, che nell'opera di alcune figure minori, come Ludwig Spohr e Jan Ladislav Dussek. Si possono ricordare certe eccezioni nella sua musica. Il lento della Sonata per pianoforte in mi maggiore (op. 109), per esempio, con la sua melodia quasi chopiniana ha qualcosa di romantico. Ma in ogni caso Beethoven non parlò il linguaggio dei romantici. Aveva cominciato col comporre nella tradizione classica e poi era andato al di là del tempo e dello spazio, usando un linguaggio che lui stesso aveva forgiato. Un linguaggio compresso, enigmatico ed esplosivo, espresso in forme escogitate da lui.
Beethoven lavorava molto lentamente. Quello che Mozart faceva in qualche giorno o in qualche settimana, lui, Beethoven, lo faceva in mesi o anni. Mozart compose le sue tre piú grandi sinfonie in sei settimane, nell'estate del 1788. Beethoven impiegò almeno tre anni a limare e a riscrivere, prima di giudicare pronti per la pubblicazione i suoi tre Trii per pianoforte, l'op. 1. Rimuginava un'idea a lungo, e poi cominciava la lotta per metterla sulla carta. I taccuini rivelano che limava e limava, cambiando una frase nota per nota finché non aveva acquistato quella precisa qualità che noi riconosciamo come beethoveniana. Il tema del lento nella Quinta Sinfonia deve essere passato attraverso una dozzina almeno di trasformazioni, prima di acquistare forma definitiva. La maturità non portò a un rilassamento della tensione. Via via che la visione musicale di Beethoven si sviluppava, cresceva anche la fatica materiale della composizione.
Si possono distinguere tre periodi nella musica di Beethoven. Dapprincipio egli lavorò soprattutto nelle forme del tempo. Nella prima ventina di composizioni saggiò le vecchie forme, le ampliò, preannunciando la forza esplosiva che sarebbe venuta poi. Ma già in quelle si rivelavano l'aspro umore e l'alto grado di espressività che avrebbero caratterizzato il Beethoven della maturità. Il minuetto galoppante della Prima Sinfonia apre la strada ai potenti Scherzi delle sinfonie posteriori. Il lento, cosí intenso e bello, della Sonata per pianoforte in re maggiore (op. 10. n. 3) è un poema sinfonico in miniatura. Beethoven era un poeta del suono e c'è una qualità personale in questo tipo di scrittura, una diretta partecipazione emotiva, un genere di melodia quasi romantica che sono nuovi nella musica. La differenza che passa tra il primo movimento della Patetica e l'altrettanto grande potente Fantasia in do minore (K. 475) di Mozart è la stessa che esiste tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo: la differenza, cioè, tra una società dominata dall'idea di aristocrazia e una società dominata dal principio di individualità. Nella musica beethoveniana le concezioni annunciate dalla rivoluzione francese e dalla rivoluzione industriale foggiano il destino dell'uomo e dell'arte. La musica di Beethoven ha una qualità molto piú personale di quella di Mozart. Lo interessano di piú gli stati interiori dell'essere e il desiderio di esprimere il proprio io. Mozart si attiene a una castigatezza classica, mentre Beethoven mette a nudo l'anima perché tutti la vedano.
Dopo la svolta dell'Eroica, comincia il secondo periodo. Beethoven era sicuro di sé, padrone della forma, con una mente fertile e una personalità che impone le proprie regole. Sotto la sua penna la forma-sonata subisce una metamorfosi. Beethoven raccoglie la forma-sonata di Haydn e di Mozart, e la maggioranza delle sue grandi composizioni - le sinfonie, i concerti, i quartetti, le sonate per pianoforte e per violino, i trii e altra musica da camera - sono espresse in forma-sonata, la sua forma-sonata, non quella dei manuali. I compositori minori suoi contemporanei si servirono della forma-sonata piú o meno come un costruttore si serve di un progetto architettonico standard per una casa prefabbricata, e il risultato ha piú o meno la stessa personalità: tema A, tema B, uno sviluppo normale e meccanico (che non viola le norme e non si serve di armonie non convenzionali), ripresa. Ma Beethoven piegò e torse la forma-sonata in modo da adattarla a se stesso e al suo materiale. L'inventività e le risorse non gli vennero mai meno. Nella Quinta Sinfonia fu capace di costruire un intero edificio su quattro note: colpi di maglio, piú un motivo che un tema. Nella Sonata Appassionata creò una composizione che infrange tutte le regole classiche ed erompe sfrenata su tutta la tastiera. Mancando del senso armonico super-raffinato di un Mozart, poteva portare e portò qualcosa di diverso nella musica: un tipo di ritmo propulsivo, un allargamento di tutte le strutture musicali, un tipo di sviluppo che spreme fino in fondo il materiale, un tipo di accentazione, spesso fuori della battuta, che getta la musica in un modello metrico difficile e imprevisto, indipendenza pura. La musica di Beethoven non è garbata. Egli presentava, cosa che nessun compositore aveva fatto prima di lui o fece dopo, un senso del dramma, del conflitto e della risolutezza. Ma è un conflitto espresso esclusivamente in termini musicali. Beethoven pensò esclusivamente in termini di suoni, di architettura musicale. Disprezzava la musica descrittiva. Componendo la Sinfonia Pastorale meditò sul problema e mise sulla carta alcune osservazioni: « Tutta la pittura, nella musica strumentale, si perde, se viene spinta troppo oltre ... Chiunque abbia una idea della vita dei campi può capire le intenzioni del compositore senza molti titoli ... Inoltre, senza titoli, il tutto sarà riconosciuto come materia piú di sentimento che di pittura nei suoni ».
Perciò, quale che sia lo stato d'animo che una partitura di Beethoven suggerisce, è esclusivamente la logica musicale a tenerla insieme, sono le idee del compositore in fatto di sviluppo, contrasto, legamenti tematici e ritmo. La musica può essere un grido di vera esultanza, come nell'ultimo movimento del Quartetto in do maggiore o in gran parte della Settima Sinfonia; oppure può essere ruvida ed ermetica, come nella curiosa Sonata per pianoforte in fa diesis, o può essere una combinazione di virtuosismo elettrico e di puro lirismo come nel Concerto L'imperatore; o può essere dal principio alla fine lirismo affascinante, come nel Concerto in sol maggiore per pianoforte. Qualunque cosa sia, è musica governata dalla logica inesorabile di un grande tecnico e di un pensatore musicale.
Poi viene il periodo dell'inattività, seguito da quello delle ultime opere: gli ultimi cinque quartetti per archi e le sonate per pianoforte, le Variazioni Diabelli, la Missa solemnis, la Nona Sinfonia. Siamo su un piano musicale estremamente rarefatto. Non era mai stata composta prima e non sarà mai più composta musica come questa. È la musica di un uomo che ha visto tutto e provato tutto, un uomo immerso nel suo mondo di silenzio e sofferenza, che non scrive piú per piacere agli altri ma solo per giustificare la propria esistenza artistica e intellettuale. Di fronte a queste composizioni si è tentati di leggervi in una sorta di esegesi metafisica. La musica non è soltanto bella, o soltanto affascinante. È semplicemente sublime. In questa fase della sua vita sembra che Beethoven si occupi dei concetti e dei simboli non meno che delle note. I temi possono essere nitidi e improvvisi o, in certe opere come la Cavatina del Quartetto in si bemolle maggiore, una lunga, interminabile effusione. Anche il silenzio ha una sua funzione. Improvvisamente il trillo assume un peso e una dimensione minacciosi. La musica dell'ultimo periodo è piena di lunghi, bizzarri trilli che per il compositore dovevano avere un significato che non era più musicale soltanto. La forma adesso non è quella che impongono i professori o l'età, ma quella che impone la musica. La Sonata in do minore per pianoforte (op. i 11) ha solo due movimenti, e il secondo è costituito da una serie di variazioni che si concludono con una catena di trilli sostenuti, soffocati, misteriosi. Il Quartetto in do diesis minore ha sette movimenti, chiaramente definiti, suonati senza soluzione di continuità. La Nona Sinfonia ha un movimento finale che utilizza un coro e dei cantanti solisti. Questa è tutta musica interiorizzata, musica dello spirito, musica di estremo soggettivismo e di grandezza straordinaria.
Ancora oggi gli ultimi quartetti presentano dei problemi. Coloro che non vogliono o non possono entrare nel mondo di Beethoven li trovano incolori, freddi e incomprensibili, soprattutto la grande triade, le op. 130 in si bemolle, 131 in do diesis minore e 132 in la minore. In un certo senso questi tre quartetti per archi possono essere considerati come un unico super-quartetto. Hanno dei terni in comune, hanno in comune linguaggio e sentimento, sono reciprocamente in rapporto nel tessuto e nell'armonia. Sono molto lunghi (mentre le ultime tre sonate per pianoforte sono relativamente brevi) e sono tutti al di là di ogni possibilità di descrizione. Sono uno stato d'animo mistico, oltre che una musica. I loro sviluppi organici, le convulsioni della Grosse Fuge, l'ineffabile svolgimento del lento in modo lidio del Quartetto in la minore, l'introduzione fugata del Quartetto in do diesis minore, la Cavatina di quello in si bemolle: tutte queste composizioni ed altre ancora portano la musica a un'altezza alla quale essa sembra trascendere se stessa.
Il trascendentalismo musicale beethoveniano fu forse avvertito già quando il compositore era ancora vivo, e certamente i musicisti del periodo romantico vi si rifecero. Nel 1859 uno studioso, Adolf Bernhard Marx scrisse su Beethoven un libro che introduceva il concetto di Idealmusik, secondo il quale la musica del compositore di Bonn ha a che fare con l'etica non meno che con i suoni. La musica come rivelazione; la musica come forza ideale (nel senso platonico); la musica come manifestazione del Divino. I romantici abbracciarono con entusiasmo l'idea. Gli ultimi cinque quartetti non significavano molto per loro, e fu il ventesimo secolo ad appropriarseli. Ma per i romantici la Nona Sinfonia fu un faro splendente. Rappresentava tutto ciò che ritenevano essere l'essenza di Beethoven: sfida alla forma, esortazione alla fratellanza, esplosione titanica, esperienza spirituale. La Nona fu l'opera di Beethoven che piú influenzò Berlioz e Wagner, e restò l'ideale irraggiungibile di Brahms, Bruckner e Mahler. Per i romantici e per molti ancora oggi, la Nona è qualcosa di piú che musica soltanto. È ethos, e Debussy non aveva torto quando diceva che la grande partitura era diventata un « incubo universale ». Pesò troppo sulla musica del secolo. Solo in quest'ultima generazione c'è stato chi ha osato criticare l'ultimo movimento; ma anche questi critici, per gli altri tre movimenti non hanno che profonda, reverente ammirazione. E in realtà la Coda del primo movimento, con quel suo basso cromatico evanescente e, sopra, quei terribili gemiti, resta un'esperienza paralizzante. È cosí che il mondo finisce. È, pura musica, ma rappresenta chiaramente una lotta, ed è difficile ascoltare un grido di angoscia cosí monumentale senza leggervi dentro qualcosa. Il guaio è che, di fronte a una musica come questa, tutti noi tendiamo a diventare sentimentali e a leggervi il messaggio sbagliato.
Forse la vera interpretazione extra-musicale di una qualsiasi delle composizioni di Beethoven è molto lontana da quella che credono quasi tutti gli ascoltatori. Potrebbe non essere altro che la risoluta, addirittura arrogante riflessione di un intelletto musicale fenomenale spinto dalla malattia e dalla sofferenza spirituale a chiudersi completamente nel proprio inondo, un mondo di silenzio, col risultato di un puro e semplice solipsismo ben lontano dagli elevati ideali che gli attribuirono i posteri. Beethoven aveva vaghe idee di fratellanza universale e di società perfetta, ma quando si trattava di lui queste astrazioni non contavano piú. « Non voglio saper niente del vostro sistema etico » scrisse a un amico. « La forza è la morale dell'uomo che si distingue dagli altri, ed è anche la mia. » Sono parole che fanno paura: è una dichiarazione pericolosa, minacciosa, profetica. Ma l'uomo fu riscattato dalla sua musica, e il corpo della sua opera è il piú possente che sia mai stato creato da un solo compositore.
Harold C. Schonberg (da I GRANDI MUSICISTI, traduzione di Vittorio Di Giuro, ed. Mondadori, 1972)

 

Fonte: http://www.resmusica.it/doc/Il%20rivoluzionario%20di%20Bonn.doc

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