Giuseppe Verdi

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Giuseppe Verdi

Il colosso italiano: Giuseppe Verdi
Come quasi tutti i compositori di opere, Giuseppe Verdi ebbe prestissimo il suo primo successo. Nacque il 10 ottobre 1813 alle Roncole (Busseto) circa cinque mesi dopo la nascita di Richard Wagner a Lipsia. Nel 1839 Milano fece buona accoglienza alla sua prima opera, Oberto; nel 1842, la terza, Nabucco, gli dette la fama. Tredici anni dopo, con il Rigoletto, Il Trovatore e La Traviata, era diventato il più popolare operista del mondo, arrivando quasi a superare il favoloso successo delle opere spettacolari di Meyerbeer. Da bravo specialista che forniva al pubblico un determinato prodotto, non si atteggiò mai a musicista erudito. Anche al culmine della fama, ci teneva a dar prova di pragmatismo. In una lettera del 1869 scriveva: « In casa mia non vi è quasi musica, non sono mai andato in una Biblioteca musicale, mai da un editore per esaminare un pezzo. Sto a giorno d'alcune delle migliori opere contemporanee non mai studiandole, ma sentendole qualche volta a teatro... Le ripeto adunque che io sono, tra i maestri passati e presenti, il meno erudito di tutti ». Era la pura verità, non una battuta qualunque. Del resto Verdi non amava parlare del suo lavoro, se non alle persone piú direttamente interessate: l'editore, i maestri direttori, i cantanti. Voleva che fosse la sua musica a parlare e respinse quasi con sdegno il suggerimento di chi gli proponeva di scrivere un'autobiografia. « Mai, mai, acconsentirò a scrivere le mie memorie! »
Certo è che da bambino niente faceva pensare che sarebbe diventato quel colosso della musica italiana che diventò in seguito. Dimostrò di avere del talento, ma non spettacoloso come quello di un Mozart o di un Mendelssohn. Alle Roncole, una frazione di Busseto, nel ducato di Parma, studiò con l'organista del villaggio. Il padre, che era un modesto rivenditore di vino e di cibarie, contentissimo di avere un figlio cosí ben dotato, gli comprò una spinetta usata. Quando Giuseppe ebbe dieci anni lo mandò da un suo amico ciabattino a Busseto. Lí fu notato da Antonio Barezzi, ricco commerciante del luogo e uomo generoso. Barezzi se lo prese in casa come apprendista e si preoccupò di fargli impartire la migliore educazione musicale che Busseto potesse offrire. Non era molto. Verdi si preparò con l'organista, che era anche direttore dell'orchestra locale e che lo nominò ben presto suo vice. Poi Barezzi provvide a mandarlo a Milano, al Conservatorio. Verdi aveva diciotto anni quando ci arrivò: un giovane di bassa statura, ardente, taciturno, capelli, ciglia e barba neri, molto pallido e col volto butterato.
Le sue speranze, ammesso che ne avesse, si dileguarono immediatamente. La preparazione ricevuta a Busseto era troppo poca cosa per essere ammesso al Conservatorio. La sua tecnica pianistica era debole, la sua preparazione teorica insufficiente. Per due anni rimase a Milano, a studiare privatamente. Cominciò addirittura a comporre un'opera, Oberto. Nel 1834 tornò a Busseto e due anni dopo sposò la figlia di Barezzi, Margherita. Fíní l'Oberto, che fu sottoposto al giudizio di Bartolomeo Merelli, impresario della Scala. Merelli accettò di rischiare e tu premiato: Oberto ebbe successo. Dimostrando notevole lungimiranza Merelli offri a Verdi un contratto che lo impegnava a comporre tre opere a intervalli di otto mesi. La prima fu Un giorno di regno: era un'opera comica, e Verdi ci lavorò in un periodo in cui fu colpito dalla perdita di tutti e due i figli e della moglie. Nessuna meraviglia, quindi, se Un giorno di regno fece naufragio. Il fiasco non soltanto lasciò il segno in Verdi ma per poco non mise fine per sempre alla sua carriera. Il giovane pensò seriamente di rinunciare a comporre. È chiaro che aveva perduto ogni fiducia in se stesso. Uomo forte, nascose la delusione provata: ma la ferita continuò a bruciargli per anni e contribuí a definire ii suo rapporto col pubblico. « Sarà certo un'opera cattiva » scrisse, « pure chi sa quante altre non migliori sono state tollerate o forse anche applaudite. Oh allora se il pubblico avesse, non applaudito, ma sopportato in silenzio quell'opera, io non avrei parole sufficienti per ringraziarlo! ... Io non intendo condannarlo: ne ammetto la severità, ne accetto i fischi, alla condizione che nulla mi si richieggia per gli applausi. » Si mantenne fedele a questo principio per tutta la vita.
Fiasco o no, Merelli capiva che c'era qualcosa nel giovane compositore. Gli propose un libretto rifiutato da Otto Nicolai, il promettente compositore tedesco. Verdi si mise a lavorare di malavoglia. Poi, una dopo l'altra, le idee cominciarono a venirgli: in tre mesi il lavoro era finito. Fu presentato al pubblico il 9 marzo 1842: l'Italia salutò con entusiasmo la nascita del nuovo eroe dell'opera.
L'opera era il Nabucco, forma abbreviata di Nabucodonosor. Oggi può sembrare musica di un Verdi non ancora formato, e sotto molti aspetti è cosí. L'opera fa da ponte tra la scuola del bel canto e la nascente scuola drammatica. Vi si avverte l'influenza di Donizetti e anche delle opere serie di Rossini. Ma le vecchie formule prendono nuovo respiro, nuova vita. È difficile riportarsi indietro nel tempo e rendersi conto dell'effetto che fece il Nabucco in quel lontano 1842. Ciò che oggi appare non del tutto originale, fece allora un effetto esplosivo. Durante le prove il teatro fu, secondo quanto riferisce un contemporaneo « messo sottosopra ». Nessuno si era mai sognato una musica come quella. Era « cosí nuova, cosí sconosciuta, lo stile era cosí rapido, cosí insolito, che ciascuno ne fu stupito... Impossibile lavorare dietro le scene mentre si facevano le prove, perché impiegati, operai, pittori, macchinisti. esaltati dalla musica, lasciavano quello che stavano facendo per restare a guardare, a bocca aperta quello che succedeva in scena ».
Le voci correvano e il pubblico milanese moriva dalla voglia di sentire l'opera.
Gli intenditori - e tutti, in città, si consideravano tali - capirono immediatamente che era apparso un talento nuovo e originale. « Con quest'opera » disse Verdi, « si può dire veramente ch'ebbe principio la mia carriera artistica. » E lo capirono anche i concorrenti. Qualcuno era geloso, qualche altro la prese con eleganza. Donizetti fu tra questi. « Il mondo vuole cose nuove » disse. « Dopotutto altri hanno fatto posto a noi, e cosí tocca a noi adesso far posto agli altri... Fa piacere cederlo a una persona di talento come Verdi. » Donizetti predisse che il suo nuovo rivale avrebbe ben presto occupato « uno dei posti piú onorevoli nella coorte dei compositori ».
Ciò che Verdi fece nel Nabucco, e che colpi tanto l'Italia musicale, fu ampliare l'opera costruita sulla formula del bel canto. Il compositore utilizzò un'orchestra piú numerosa, con di conseguenza una maggiore energia timbrica. La musica stessa ha piú vasto respiro e piú forza di qualunque opera del bel canto, ed ha una comunicazione più diretta. Niente indugi su sfofifii vocali privi di contenuto. Ci sono, certo, molte pirotecnie vocali, ma sempre per esprimere un sentimento e non per puro esibizionismo. La parte di Abigaille è una delle piú difficili di tutto il repertorio; ha bisogno di un soprano di tipo drammatico con una capacità da mezzo soprano nel prendere note di petto e nell'imprimervi una cruda drammaticità: la drammaticità del personaggio e quella della scrittura verdiana. In tutto il Nabucco si sente la presenza di una personalità imponente. Anche quando Verdi ebbe qualche indulgenza per le convenzioni e i manierismi del bel canto, li fece risuonar piú grandiosi e piú forti. Egli si ritrovò in quest'opera, e la musica contiene molte anticipazioni del Verdi ancora da venire. L'aria « D'Egitto là sui lidi » di Zaccaria anticipa le arie di papà Germont nella Traviata, cosí come il duetto del terzo atto tra Nabucco e Abigaille richiama i duetti Aida-Amonastro.
Per di piú, nel Nabucco c'erano dei sottintesi politici: Verdi diventò il simbolo della resistenza alla dominazione austriaca. Il coro « Va pensiero », che esprime la nostalgia degli esuli ebrei per la patria, fu sentito da tutti gli italiani come l'espressione della loro stessa ardente aspirazione alla libertà. Non si sa se Verdi dette deliberatamente tono politico al coro. Era un appassionato nazionalista anche lui, amante dell'Italia quanto Wagner lo era della Germania. La sua speranza piú fervida era che si realizzasse l'unità d'Italia e visse abbastanza per vedere realizzato il sogno. In ogni modo, quel coro fu immediatamente cantato in tutt'Italia come simbolo della resistenza. Per molti italiani lo stesso Verdi simboleggiava quello spirito; e qualche anno dopo si ricavò un acrostico dal suo nome: Vittorio Emanuele Re d'Italia.
Al Nabucco seguirono altri due successi: I Lombardi alla prima crociata nel 1843 e l'Ernani nel 1844. Quest'ultima opera lo fece conoscere anche fuori d'Italia. A Parigi fu rappresentata al Théàtre des Italiens, e Verdi ne curò personalmente la messinscena. Adesso che era in condizioni di esigere grossi compensi, non esitò a farlo. Era un bravo uomo d'affari, deciso a ottenere sempre i contratti migliori. All'Ernani seguirono diversi successi minori e perfino qualche fiasco: poi, nel 1847, venne il Macbeth. Verdi, che avrebbe concluso la sua carriera musicando due opere di Shakespeare, si applicò con particolare fervore al 1hlacbeth, dato in prima rappresentazione a Firenze. Voleva far risaltare tutta la drammaticità della trama, e anche se i librettisti manomisero Shakespeare, lui si sforzò al massimo di rendere il terrore e la pietà dell'originale. È un'opera strana, cupa e malinconica, anticonvenzionale e spesso difettosa. Ma contiene la « scena del sonnambulismo », un episodio che va annoverato tra i piú grandi delle opere della maturità. Quando scrisse Macbeth, Verdi si era affrancato quasi completamente dalle convenzioni del melodramma italiano. Rifiutò perfino il bel canto. Voleva che il canto fosse sussidiario alla situazione drammatica; voleva che i suoni espressi dai cantanti riflettessero il tumulto e la tensione interiori. Erano concezioni inaudite per l'opera, a quel tempo. Nel 1848, quando si mise in prova il Macbeth a Parigi, il compositore scrisse una lunga lettera al direttore. È un documento rivelatore, che ci dice molte cose delle sue intenzioni e dei suoi propositi:
So che state concertando il Macbeth, e siccome è un'opera a cui mi interesso piú che alle altre, cosí permettete che ve ne dica alcune parole. Si è data alla Tadolini la parte di Lady Macbeth ed io resto sorpreso come Ella abbia accondisceso a fare questa parte. Voi sapete quanta stima ho della Tadolini ed Ella stessa lo sa; ma nell'interesse comune io credo necessario farvi alcune riflessioni. La Tadolini ha troppo grandi qualità per fare quella parte! Vi parrà questo un assurdo forse!! ... La Tadolini ha una figura bella e buona e io vorrei Lady Macbeth brutta e cattiva. La Tadolini canta alla perfezione, e io vorrei che Lady non cantasse. La Tadolini ha una voce stupenda, chiara, limpida, potente, e io vorrei in Lady una voce soffocata, cupa. La voce della Tadolini ha dell'angelico. La voce di Lady vorrei che avesse del diabolico...
Il fatto è che Verdi, a modo suo, si stava muovendo in direzione del dramma in musica. La differenza tra la sua impostazione e quella di Wagner è, considerazioni musicali a parte, la stessa che passa tra melodramma e dramma. Molte opere di Verdi sono decisamente melodrammi, di qualità letteraria scadente: studi in bianco e nero.. con una caratterizzazione ridotta al minimo. Le persone di gusti sofisticati arricciano il naso davanti ai libretti di cui si servi. La questione dei libretti verdiani è piuttosto interessante. Verdi non era un raffinato né un intellettuale (anche se non era meno intelligente e sensato di altri compositori della storia della musica), e fino alla fine della sua carriera non parve preoccuparsi molto delle qualità letterarie dei libretti. Per dirla senza mezzi termini, mise in musica della roba ridicola. O si deve dire forse che la scelta dei libretti era condizionata in lui dal gusto del pubblico? Fu sempre attento all'opinione del pubblico. « In teatro, gli spettatori sopportano tutto tranne la noia » disse. Non pretese mai di essere altro che un artigiano, che dà alla gente ciò che la gente chiede. Forse credeva di poter musicare soltanto storie esagitatamente drammatiche. In ogni modo, troppo spesso utilizzò libretti che non depongono a favore del suo buon gusto. C'è chi non li trova poi tanto male; « funzionerebbero », in quanto esprimono sentimenti primordiali con grandi pennellate di colori violenti: amore, odio, vendetta, brama di potere. Ma è tutto materiale melodrammatico, e non si può dire certo che la forma letteraria sia raffinata. Per fortuna, l'abilità di compositore di Verdi era tale che gli permetteva di prendere una situazione melodrammatica e di ricavarne una musica indimenticabile, capace di farci dimenticare la convenzionalità e la mediocrità delle parole. A considerarli spassionatamente, molti di questi testi sono soltanto robaccia, dal punto di vista letterario. Non importa. Le opere continuano a vivere perché hanno un'autentica qualità drammatica, non importa quanto primitiva, e soprattutto perché hanno una musica grande.
A Macbeth segui una serie di opere che, a parte la Luisa Miller (1849), non si rappresentano piú. Poi, nel 1851-53, vennero le prime tre opere della maturità: Rigoletto (1851) Il Trovatore e La Traviata (tutt'e due del 1853). Fecero epoca e grazie a loro Verdi diventò il solo compositore di opere che si avvicinasse alla popolarità di Meyerbeer. Sembrava che il pubblico non si stancasse mai di sentirle. Un esempio: il Théàtre des Italiens a Parigi dette, nella stagione 1856-57, ottantasette rappresentazioni. Di queste, cinquantaquattro furono riservate alle tre opere verdiane. A Londra il successo fu cosí clamoroso e quelle opere furono date cosí spesso che il “Punch” protestò:
Tre Traviate in posti diversi,
tre Rigoletti che ammazzano le figlie,
tre Trovatori che decapitano i fratelli.
per le mene astute di tre madri zingare.
Il londinese “Musical World” si occupò del fenomeno nel 1855 prospettando un'interpretazione piú ponderata di quelle che erano in genere disposte a dare le altre riviste di critica musicale. Verdi, diceva l'articolo « ha rivoluzionato la scena musicale del suo paese; le sue opere hanno fatto dimenticare tutte le altre. Col tempo si è fatto un nome anche oltr'Alpe. Altre folle sono state prese dall'entusiasmo, che si è propagato da un regno all'altro, finché nuovi paesi sono stati invasi e conquistati, e l'idolo delle folle di un paese è diventato l'idolo delle folle di tutte. È o non è questo il segreto della carriera del signor Verdi? Avrebbe potuto avverarsi tutto ciò senza talento? È egli davvero quella nullità che dicono i musicisti? ».
I cantanti si schierarono entusiasticamente con il pubblico. Marie Wieck, sorella di Clara Schumann e anche lei illustre pianista, espresse il suo giudizio nel 1855. Descrisse le glorie del bel canto nei suoi esponenti di un tempo, Sontag, Lind e altri, e aggiunse: « Questo modo di cantare si incontra di rado... I giovani, vigorosi cantanti di oggi hanno solo un nome sulle labbra, ed è quello di Verdi. Sulle sue opere riposa tutta l'arte della musica - per il presente come per il futuro - e per queste motivo molti cantanti, in certe circostanze, sacrificano ciò che resta della loro voce, e qualche volta perfino la salute e la costituzione. Tutti ambiscono soltanto ad essere chiamati cantanti verdiani, e ostentano il titolo con glorioso orgoglio ». La Wieck, discutendo delle opere di Verdi in rapporto al canto, fu piú equanime di tanti critici. Nei primi tempi Verdi e Wagner furono messi nello stesso fascio e accusati di essere creatori irresponsabili ai cui piedi giaceva il cadavere insanguinato della Musa del Canto. I tradizionalisti rimpiangevano i bei tempi di Bellini quando, santo cielo, un cantante era un cantante e non un mantice. Meyerbeer era stato attaccato per la parte che aveva avuto nella fine del bel canto, ma quegli attacchi non erano niente al confronto dell'artiglieria usata contro Verdi e Wagner. In Inghilterra Henry Fothergill Chorley scrisse velenosamente degli « anni in cui la musica dei cantanti veniva calpestata e ridotta a ciarpame dai Wagner della Nuova Germania e portata a una distruzione prematura dai Verdi di una Italia invasata ».
É interessante osservare che mentre il pubblico impazziva per le opere di Verdi e i cantanti facevano a gomitate per prodursi in una bella e succulenta parte verdiana, i conservatori e i critici si sentivano assai a disagio. Erano abituati alle vecchie convenzioni e l'impeto furibondo e drammatico del movimento verdiano li disorientava. Erano anche abituati a vedere sulla scena dell'opera personaggi della mitologia e della storia, e non buffoni gobbi, cortigiane tubercolotiche e sporche zingare. Chorley faceva dello spirito: « La tisi per una che deve cantare! Un balletto con una silfide zoppa avrebbe altrettanto senso ». Certe delicate sensibilità furono offese. A New York, nel 1855, due signori intentarono causa all'impresario Max Maretzek. Pretendevano di impedire la rappresentazione del Rigoletto, adducendo come motivo che si trattava di un'opera indecente e licenziosa e che « con il canto, la trama e la recitazione » dava uno spettacolo al quale « nessun rispettabile membro del gentil sesso potrebbe assistere senza sacrificare il buon gusto e la modestia ». A Boston, dove La Traviata fu data nel 1857, John S. Dwight l'attaccò per motivi di moralità concludendo che in ogni modo l'opera non era valida neppure dal punto di vista musicale: « ... I vecchi effetti sono continuamente ripetuti, quasi l'autore fosse incapace, come in un incubo, di procedere oltre. Mai, in nessun punto del canto o della strumentazione, l'opera aggiunge qualcosa a ciò che già sappiamo di Verdi. L'invenzione sembra esaurita, e resta solo una smania grandissima di essere rappresentato ». Ma i giovani compositori europei ne sapevano piú di lui, e Bizet colse bene la qualità essenziale di Verdi: « Ha meravigliosi scoppi di passione. La sua è una passione brutale, vera, ma è meglio essere appassionati in questo modo che non esserlo affatto. La sua musica può essere a volte esasperante ma mai noiosa ».
Se l'ex-pastore unitariano John S. Dwight fosse stato al corrente della vita privata dell'italiano, avrebbe visto avvalorati i suoi piú neri sospetti. Negli anni in cui scrisse le tre grandi opere - gli anni, cioè, che vanno dal 1851 al 1853 - Verdi visse con Giuseppina Strepponi. Era un soprano e la conosceva dal 1839, quando aveva cantato nella sua prima opera, l'Oberto. Di due anni più giovane del compositore, nel ventennio 1830-49 fu riconosciuta come una delle migliori cantanti d'Italia: soprano dalla voce pura, limpida, buona attrice e musicista sensibile. Aveva diviso il trionfo del maestro nel Nabucco, sostenendo la parte di Abigaille alla prima; poi cantò in altre sue opere, lo consigliò nelle questioni contrattuali e finanziarie e nel 1848 andò a vivere con lui. Tre anni dopo si trasferirono in una casa nuova vicino a Busseto. Verdi aveva comperato laggiú delle proprietà, si era fatta costruire una casa e l'aveva battezzata Villa Sant'Agata. Ci furono recriminazioni e accuse, e scoppiò lo scandalo. A Busseto, nel 1851, non si conviveva apertamente senza essere sposati. Verdi fu profondamente ferito dai pettegolezzi. Scrisse una lettera al vecchio amico ed ex-suocero Antonio Barezzi, che rivela intero l'uomo indipendente, forte, pronto a battersi e sprezzante delle convenzioni. In sostanza, disse a Barezzi e a tutti i compaesani di Busseto di badare agli affari loro. « In casa mia vive una Signora libera, indipendente, amante come me della vita solitaria, con una fortuna che la mette al coperto di ogni bisogno. Né io né Lei dobbiamo a chicchesia conto delle nostre azioni. » E ancora: « A Lei, in mia casa, si deve pari anzi maggior rispetto che non si deve a me, e che a nessuno è permesso mancarvi sotto qualsiasi titolo ». E poi: « Con questa lunga chiaccherata non ho inteso dire altro che io reclamo la mia libertà d'azione, perché tutti gli uomini ne hanno diritto, e perché la mia natura è ribelle a fare a modo altrui ». Secondo alcuni autori la sfida alle convenzioni di Verdi era dovuta a due motivi. Uno era il suo fiero anticlericalismo. Chi era la Chiesa per dire a lui ciò che doveva fare? Verdi non era credente; Frank Valker, anzi, che con le sue ricerche sulla vita di Verdi ha aperto nuovi orizzonti, piú di tanti suoi predecessori, dice esplicitamente che era ateo. L'altro motivo fu forse un certo ritegno da parte di Giuseppina. Il suo passato non era senza macchia, e qualcuno ha azzardato l'ipotesi che l'idea del matrimonio le procurasse un certo senso di colpa.
In ogni caso, dopo aver chiarito il suo punto di vista, Verdi fini per sposarla, nel 1859. Fu un matrimonio felice, anche se non ebbero figli. A compensare la mancanza di bambini c'erano gli animali: gatti, cani, pappagalli, pavoni e l'indiscusso sovrano di Sant'Agata, lo spaniel maltese Lulú.
Dopo la trilogia del 1.851-53, le opere verdiane cominciarono a cambiare stile. Diventarono piú ampie, piú ricche di sonorità, piú lunghe, piú ambiziose. Invece di sfornare un'opera all'anno, Verdi si prese molto piú tempo. Scomparve quell'accompagnamento orchestrale alla « chitarra » che divertiva tanto i tedeschi. Verdi si avviava a qualche cosa di piú grande, e faceva i suoi esperimenti in questo senso. Nel 1855 vennero composti, per Parigi, I Vespri siciliani, un'opera alla Meyerbeer. Il Simon Boccanegra, composto per Venezia nel 1857, fu un fiasco. Il libretto, disarticolato in maniera impossibile, non giovò certo al compositore. Pure, il Simon Boccanegra ha un certo carattere meditativo e degli effetti di insieme di una affascinante sensualità, che Verdi non aveva mai ottenuto prima. L'anno 1859 vide Un Ballo in maschera, presentato per la prima volta a Roma. Era un'opera veramente canora, piena di idee spumeggianti: uno dei piú sostenuti voli lirici dell'intero stile verdiano. La Forza del Destino; composta per San Pietroburgo, è del 1862. E si rivelò una delle piú popolari di Verdi, con tutto il mediocre libretto.
Altrettanto confuso è il libretto del Don Carlos (Parigi 1867). Verdi lavorò per anni a quest'opera. Non è mai stata una delle piú popolari e solo dopo la seconda guerra mondiale è entrata in repertorio con una certa regolarità. Ma è un capolavoro. Un senso di tragico destino incombe su tutta l'opera, dominata non da un eroe ma dal tormentato Filippo di Spagna. La scena dell'autodafé ha una intensità senza uguali e perfino un tipo di cromatismo raro per Verdi. Quando entrano quei tromboni violenti, a ritmo di marcia, minacciosi, è come se sulle spalle degli ascoltatori gravasse con tutto il suo peso l'Inquisizione. La scena, giustamente ammirata, dell'Inquisitore, che viene subito dopo, con il grande « Dormirò sol » per Filippo, il confronto con l'Inquisitore cieco e l'aria « O don fatale » di Eboli è al livello delle cose piú belle composte da Verdi. Don Carlos vortica intorno alla Spagna e ai Paesi Bassi, e pur tenendo conto di tutte le differenze esistenti tra le due opere, ha dei punti in comune con il Boris Godunov di Musorgskij (composto solo qualche anno dopo). Entrambe le opere hanno come tema le responsabilità del governo, l'aspirazione alla libertà, le divisioni di un paese. Entrambe sono epiche.
Don Carlos è senz'altro piú imponente e originale dell'Aida, che è del 1871. Composta per il Cairo nel quadro dei festeggiamenti per l'apertura del Canale di Suez, l'Aida rappresenta per certi aspetti un passo indietro. Può essere la piú popolare delle opere verdiane ed è quella alla quale generalmente si pensa quando si usa il termine grand opéra, ma l'armatura meyerbeeriana dei primi due atti contiene pagine tra le piú deboli mai scritte da Verdi, e le marce e il balletto del secondo atto oggi possono essere ascoltati al massimo con indulgenza. Solo con la « scena del Nilo » Verdi dimostra ciò che sa fare, e da quel momento in poi l'opera è un capolavoro. Musorgskij, per fare un esempio, si innamorò dell'Aida e andò in estasi per il compositore italiano: « Ecco uno che si fa avanti alla grande; questo innovatore non ha timidezze. Tutta la sua Aida... supera di gran lunga ogni altro, perfino lo stesso Verdi. Egli ha battuto il Trovatore, Mendelssohn, Wagner ».
Anche quell'arci-teutone ché fu Hans von Bülow fini col cedere le armi. Dapprincipio aveva avuto scarsa considerazione per Verdi. Quando senti il Requiem nel 1874 - il Requiem sarebbe stata la composizione piú importante venuta dopo l'Aida - lo definí una porcheria. Ma poco dopo mandò a Verdi una lettera isterica in cui recitò il mea culpa (non faceva mai le cose a metà), si sparse il capo di cenere, si picchiò il petto e chiese perdono. Adesso si era convinto che il Requiem era una delle cose più grandi del secolo.
Bülow non scrisse mai niente di piú vero. Verdi compose il Requiem in onore di Alessandro Manzoni, che era per lui sullo stesso piano dell'altra « gloria d'Italia », Rossini. Alla morte di Rossini, avvenuta nel 1868, Verdi propose che i piú importanti compositori italiani, lui compreso, scrivessero insieme un Requiem in suo onore. Non se ne fece niente, anche se lui contribuí col « Libera me ». Morto Manzoni nel maggio del 1873 decise di comporre una Messa da requiem da presentare a Milano, dove Manzoni era sepolto, nel primo anniversario della morte. Per quest'opera utilizzò - o si dice che utilizzasse (alcuni autori ne dubitano) - il « Libera me » composto per Rossini. Il lungo Requiem si rivelò tutta passione incandescente: opera colossale, dalla sonorità maestosa. Alcuni lo giudicarono eccessivamente teatrale, e anche oggi c'è chi resta perplesso davanti alla sua scoperta drammaticità che fa pensare più a un'opera che a un sentimento religioso. Giuseppina scattò subito a difendere Verdi:
Parlano tanto dello spirito piú o meno religioso di Mozart, Cherubini e altri. lo dico che un uomo come Verdi deve scrivere come Verdi, e cioè secondo il suo modo di sentire e interpretare il testo Lo spirito religioso e la maniera in cui viene espresso deve portare l'impronta del tempo e della personalità dell'autore. Rifiuterei la paternità di una messa di Verdi che fosse modellata alla maniera di A, di B o di C.
Le riserve espresse dopo la prima del Requiem - si giudicava la musica troppo appariscente, sensazionale, di cattivo gusto, areligiosa, irreligiosa, melodrammatica - rappresentano bene l'atteggiamento critico di fronte al quale si trovò Verdi per gran parte della sua esistenza. Le sue opere furono oggetto di attacchi senza precedenti, soprattutto in Inghilterra e in America. Molti critici non lo presero neppure sul serio come compositore. Piú il pubblico amava la sua musica più i critici strillavano e sdottoreggiavano sulla « ovvietà » della sua scrittura, sulla sua caratteristica « mancanza di vocalità », sull'orchestrazione « primitiva ». Si giuravano l'un l'altro, e giuravano al pubblico, che quella musica aveva solo un fascino effimero, che non avrebbe resistito. Il critico del " London Telegraph fu costretto a prendere atto delle accoglienze entusiastiche ricevute dal Requiem alla prima milanese. Ma, spiegò con sussiego, tutto questo non aveva niente a che vedere con la musica. C'era stata un'ovazione ma perché Verdi era amatissimo come uomo, per Manzoni, perché gli italiani erano fierissimi della fama del compositore. « Ora che la Penisola è uno stato ogni abitante della piú lontana regione è fiero di partecipare dell'onore reso a una celebrità italiana. » Al critico non veniva affatto in mente che la musica del Requiem poteva anche essere in causa parte nel successo ottenuto. Da troppi anni subiva il lavaggio del cervello.
Verdi non era turbato dalle reazioni negative. È stato, pare, il solo compositore che si curasse sinceramente molto poco di quello che dicevano i critici. Affrontava con serenità fiaschi e successi. « Avete avuto torto » scrisse a un amico, « di difendere il Ballo in Maschera contro gli attacchi dei giornali. Dovevate fare come io feci sempre: non leggerli, oppure lasciarli cantare nel tono che volevano! Del resto la que¬stione è questa: l'opera è cattiva o buona? Se cattiva, ed i giornalisti ne hanno parlato male, avevano ragione; se buona, e non hanno voluto giudicarla tale per conto delle passioncelle proprie ed altrui o per qualsiasi altro fine, bisognava lasciarli dire e non curarli. » E altrove: « Quanto ai giornali, chi ti costringe a leggerli? ... Il giorno della giustizia verrà, e per l'artista è un grande piacere, un piacere supremo, poter dire: Imbecilli, avevate torto! " ».
Dal Requiem alla prossima opera importante passarono quattordici anni. Verdi trascorse un certo periodo di tempo a Vienna, Parigi e Londra, curando la messinscena delle sue opere, poi tornò al ritiro di Sant'Agata. Certi avvenimenti dovettero rallegrarlo. L'Italia era ormai unita. Nel 1861 era stato proclamato il Regno d'Italia, Venezia era stata restituita dopo la sconfitta dell'Austria ad opera della Prussia nel 1866, Garibaldi aveva liberato la Sicilia e Napoli. Roma diventò italiana nel 1870. E Verdi, che aveva sempre sognato l'indipendenza dell'Italia, era felice. Per qualche anno sedette addirittura in Parlamento come deputato di Busseto. Dapprima, nel 1861, prese sul serio la cosa e partecipò a tutte le sedute, a Torino. Non intervenne nei dibattiti ma cercò di fare approvare un progetto di sovvenzioni governative ai teatri lirici e ai conservatori. Ma la mentalità dei politici lo infastidiva e gli uomini cori i quali era costretto a trovarsi in continuo contatto non gli piacevano. Una volta, durante una seduta, si diverti a mettere in musica un paio di tumulti parlamentari. Non si conosce la sorte del manoscritto. Sarebbe divertente leggerlo.
Nel ritiro di Sant'Agata Verdi poteva anche seguire la scena musicale italiana e rendersi conto del posto che vi occupava. Mai, nella storia della musica, un'epoca e un paese sono stati dominati in egual misura da un uomo. Wagner, che era nel suo paese quello che Verdi era in Italia, ebbe almeno un contrappeso in Brahms. Verdi non ebbe nessuno. Tra la morte di Donizetti e la comparsa di Amilcare Ponchielli, nel decennio 1870-79, in Italia ci fu un compositore importante soltanto e questi fu Verdi (Boito, nel 1868, scrisse l'imponente Mefistofele, ma non è ricordato per nessun'altra composizione importante). Non sopravvive altra musica italiana. Ogni anno ì teatri lirici della penisola mettevano in scena opere nuove, implacabilmente dimenticate dopo qualche rappresentazione. Si prenda il 1869; in quell'anno furono date novità di Sampieri, Mancini, Ricci, Monti, Petrella, Morales, Vera, Montuoro, Marchetti, Perelli, Vezzosi, Battista, Germano, Alberti, Seneke, Zecchini, Tancioni, Libani e Grondona, e altri ancora. Nessuno di questi compositori merita neppure una nota a piè di pagina nella storia della musica. No, per quasi trent'anni in Italia ci fu un gigante soltanto, e nessun altro: nessuno.
Nel suo ritiro Verdi meditò forse anche sulla sua posizione nei confronti di Wagner. Certo doveva aver saputo del suo trionfale successo nella sua prima stagione a Bayreuth, nel 1876, È strano che i due non si incontrassero mai, perché viaggiarono molto e vissero a lungo; e furono i compositori d'opera più importanti e famosi del tempo. Ma Wagner ebbe nei confronti dell'italiano un atteggiamento di assoluta indifferenza: un leone che non può prestare attenzione a una zanzara. Dovette per forza sentire qualche sua opera, ma in tutta la sua enorme corrispondenza non vi accenna mai, se si eccettua qualche vaga allusione espressa con un distacco divertito, da divinità dell'Olimpo. Verdi fu piú generoso. Sembra che non avesse mai sentito neppure una nota wagneriana fino al 1865, l'anno in cui senti l'Ouverture del Tannhäuser (che non gli piacque poi tanto). In seguito ebbe parole di lode per Wagner, benché detestasse il wagnerismo e fosse infastidito dalle teorie dello sviluppo sinfonico costruite sulle opere di Wagner. « L'opera è l'opera » diceva « e la sinfonia è la sinfonia. »
Quello che irritava moltissimo Verdi era sentirsi accusare di wagnerismo, cosa che accadde sempre piú spesso via via che le sue opere diventavano piú lunghe, più potentemente orchestrate e piú accortamente costruite. Ammoniva che il temperamento italiano era l'opposto del temperamento tedesco, e vedeva con rammarico dei giovani come Arrigo Boito tentare uno stile di composizione che si rifaceva al wagnerismo. Secondo lui, essi imitavano la struttura, l'armonia e l'uso del leitmotiv propri di Wagner senza sapere bene quello che facevano. « Se i tedeschi, partendo da Bach sono arrivati a Wagner, fanno opera di buoni tedeschi, e sta bene. Ma noi, discendenti di Palestrina, imitando Wagner commettiamo un delitto musicale, e facciamo opera inutile, anzi dannosa. Noi non possiamo, dirò anzi, non dovremmo scrivere come i tedeschi, né i tedeschi come noi... Che si rinunci per moda, per smania di novità, per affettazione di scienza, si rinneghi l'arte nostra, il nostro istinto, quel nostro fare sicuro naturale spontaneo sensibile abbagliante di luce, è assurdo e stupido.
Ma quando ebbe la notizia della morte di Wagner, nel 1883, scrisse al suo editore: « Triste. Triste. Triste. Wagner è morto! Leggendone ieri il dispaccio ne fui, sto per dire, atterrito! Non discutiamo. È una grande individualità che sparisce! Un nome che lascia un'impronta potentissima nella Storia dell'Arte ».
Dopo il Requiem ci fu chi credette che Verdi avesse finito ormai di comporre. Il compositore stesso annunciò al mondo che non avrebbe mai piú scritto per la scena. E forse avrebbe mantenuto la parola se non avesse conosciuto Arrigo Boito.
Boito (24 febbraio 1842 - 10 giugno 1918) era letterato e compositore. Alla maggioranza dei musicofili non italiani è noto come colui che forni a Verdi i libretti dell'Otello e del Falstaff. Altri lo conoscono come compositore del Mefistofele, l'unica sua opera musicale di una certa importanza. Ma poco piú che ventenne, intorno al 1865, era stato uno dei « Giovani Turchi » della musica italiana, pur non avendo composto quasi niente. Sempre conteso tra letteratura e musica, restò incerto tra le due arti per molti anni. Mefistofele, composto nel 1868 e riveduto e corretto sette anni dopo, fu la sua sola opera completa. Lavorò a un'altra, l'Orestiade, ma non la sottopose mai al giudizio del pubblico. Una terza, Ero e Leandro, non andò mai oltre il libretto. Resta il Nerone, al quale cominciò a pensare nel 1862. Ci lavorò per tutta la vita, eppure la lasciò incompiuta alla sua morte, nel 1918.
Pure Boito ebbe un immenso talento, forse del genio. Era la strapotenza di Verdi a trattenerlo? I due si conobbero al principio del decennio 1860-69. A vent'anni, fresco degli studi fatti al conservatorio di Milano (dove si aspettavano da lui grandi cose), Boito scrisse il testo per l'Inno delle Nazioni di Verdi. Ma i loro rapporti rimasero incerti per un pezzo. Verdi era notoriamente suscettibile e si era fatta l'idea che Boito gli fosse nemico.
Senza dubbio questa convinzione nasceva dagli scritti critici di Boito, che si batteva per la riforma dell'opera italiana. Boito era un intellettuale e uno dei pochissimi italiani che facessero propaganda, allora, a Beethoven, Wagner e alla musica tedesca. Scrisse parecchio sulla necessità di una « vera forma » nell'opera. Cosí come la si faceva in Italia, diceva, l'opera era semplicemente una formula. « È venuta l'ora di un cambiamento nello stile. La forma, che si è largamente sviluppata nelle altre arti, deve svilupparsi anche nella nostra. » Boito pensava a una forma operistica di tipo wagneriano e questo per Verdi era un vero e proprio tradimento. Lo spirito italiano, secondo lui, non avrebbe mai potuto adattarsi alla forma e alla metafisica tedesche. E siccome Verdi fu in effetti il solo compositore d'opere italiane importante dalla morte di Donizetti all'ultimo decennio del secolo, anche un personaggio meno suscettibile avrebbe pensato che gli attacchi di Boito erano indirizzati alla sua persona. Al suo editore, Tito Ricordi, scrisse irritato: « Se anch'io tra gli altri ho sporcato l'altare egli [Boito] lo netti ed io sarò il primo a venire ad accendere un moccolo ».
Cosí, quando il Mefistofele fu presentato alla Scala, nel 1868, ammiratori e avversari di Boito si azzuffarono. Ci furono urla e fischi, pugilati in teatro e dimostrazioni nelle strade. Dopo la seconda rappresentazione il prefetto di polizia proibí ulteriori repliche per non compromettere l'ordine pubblico. Verdi senti l'opera solo oltre die
ci anni dopo. Nel 1879 assistette a una rappresentazione a Genova, e se ne usci in qualche osservazione acida: « Aveva sempre sentito dire e letto che il Prologo in Cielo era una cosa di getto, di genio ... ed io nel sentire che le armonie di quel pezzo appoggiavano quasi sempre sulle dissonanti mi pareva di essere ... non in cielo certamente ».
Ma era ingiusto. Anche per quel tempo le armonie del Mefistofele non erano poi tanto azzardate, sebbene il prologo riveli una concezione assolutamente originale. Boito cercava di fare meglio di quanto non avesse fatto Gounod con il suo Faust alla saccarina del 1859. Gounod si era rifatto alla formula francese mentre Boito, fedele ai suoi principi, mirava a una sorta di sintesi intellettuale che unisse entrambe le parti della tragedia di Goethe. Il Diavolo di Boito non è la solita personificazione del male. E’ una forza elementare che affronta con dignità il suo Avversario. Preoccupato soprattutto delle nuove forme dell'opera, Boito anticipò certi aspetti della composizione di un'epoca ancora di là da venire. Il Prologo, per esempio, è in forma classica, e vi predominano uno scherzo e un trio. (Molto piú in là, nel Wozzeck, Alban Berg avrebbe fatto delle forme classiche - variazione, sonata, suite, passacaglia, invenzione - la base sulla quale è costruita l'intera opera.) Tutta l'impostazione di Boito era diversa da quella di Verdi, e considerando che aveva solo ventisei anni al tempo del Mefistofele, si sarebbe indotti a pensare che l'avvenire fosse suo e che il grande Verdi sarebbe stato costretto ad affrontare una preoccupante concorrenza. Ma non sarebbe stato cosí. Boito, che a giudicare dall'imponente risultato ottenuto in cosí giovane età avrebbe dovuto raggiungere l'eccellenza, in sostanza depose la penna, come compositore. Collaborò a varie riviste, insegnò, diventò direttore del Conservatorio di Parma, scrisse libretti (La Gioconda, per Ponchielli, è suo, anche se firmò con uno pseudonimo), si occupò del Nerone. Qualcosa, dentro di lui, soffocò la creatività musicale, ed è il caso piú strano di blocco psicologico di tutta la storia della musica. Non fu piú capace di comporre, e negli ultimi anni non riuscí neppure a scrivere una semplice lettera.
Questo era l'uomo che diventò l'incomparabile librettista di Verdi. L'idea dell'Otello venne nel 1879. A una cena alla quale si trovavano presenti anche Verdi e Boito, Giulio Ricordi (che era successo al padre Tito alla testa della casa editrice), portò il discorso sulla tragedia di Shakespeare, e Verdi reagí proprio come l'editore aveva sperato. Si mise a discutere con Boito della possibilità di scrivere un'opera sull'Otello. Diede l'impressione di caldeggiare la cosa e Boito lasciò perdere tutto il resto per preparargli il libretto. Glielo consegnò in quello stesso anno e Verdi lo les¬se e lo mise da parte. Poi lo riprese, lo rilesse, avanzò dei suggerimenti, ricevette un libretto nuovo e mise da parte anche questo. Finalmente si mise al lavoro, nel 1884, a settant'anni. Tutte le persone interessate al progetto trattenevano il respiro per non disturbarlo. Boito scrisse a Ricordi: « Ho una buona notizia da darti, ma per carità non dirla a nessuno! non dirla neanche a casa tua, non dirla neanche a te medesimo, temo già di commettere una indelicatezza. Il Maestro scrive, anzi ha già scritto una buona parte del principio del primo atto e mi sembra infervorato ». Non mancarono gli intoppi. Boito dovette scrivere e riscrivere. Ci fu uno sciocco malinteso che dovette essere chiarito. Finalmente l'opera andò in scena, alla Scala, il 5 febbraio 1887 e il compositore settantatreenne divise gli applausi con il suo librettista.
Nell'Otello, la piú grande delle sue opere tragiche, Verdi riuscí a fondere tutte le cose che aveva appreso nel corso della sua esistenza. Ebbe il miglior libretto che mai gli fosse stato sottoposto, e vi riversò una combinazione di drammaticità, estasi e pietà senza precedenti perfino per uno come lui. Nell'Otello non c'è un passaggio debole, non c'è un gesto falso, non c'è che una fusione di parola, azione e musica. Anche certi episodi normalmente melodrammatici come il « Credo » di Jago o il duetto di Otello e Jago « Sí, pel ciel » rientrano con tutta naturalezza nell'andamento della tragedia. L'istinto musicale di Verdi si era approfondito e arricchito. Il duetto d'amore del primo atto è tutto ardore e sensualità espressi in una musica che è l'essenza stessa del desiderio. Non è musica esultante di giovani innamorati. È piuttosto la musica calda e radiosa dell'amor coniugale. Quella di Jago è una musica a due facce, ora cordiale e franca, ora sottile, insinuante, velenosa. L'ultimo atto, con il « Salice, salice » soffocato di Desdemona e l'« Ave Maria », è tutta catastrofe imminente suggerita col piú semplice dei mezzi. L'Otello è molto piú che una raccolta di arie e di pezzi d'assieme. È un'opera che elimina le forme chiuse e nella quale ogni elemento è attentamente articolato con gli altri a comporre una unità. Né Verdi si era mai dimostrato cosí padrone dell'orchestra. Essa non si limita ad accompagnare i cantanti: sottolinea l'azione, suggerisce la tragedia che sta per venire, descrive ciò che pensano e sentono i personaggi. Spesso ci sono motti melodici e figurazioni ritmiche invece di temi. L'Otello è per l'opera italiana ciò che il Tristano è per quella tedesca.
Nondimeno l'Otello è la logica continuazione di ciò che Verdi aveva fatto dal Nabucco alla Traviata, al Don Carlos, all'Aida. Con quest'ultima opera entra qualcosa di nuovo nel quadro. Falstaff è quasi un mostro, è ciò che in biologia si chiama specie anomala. Nessuno si aspettava che Verdi componesse un'altra opera. E, ammesso che potesse essercene un'altra, chi si aspettava mai che fosse una commedia, la cosa piú atipica che Verdi scrivesse mai?
Falstaff ha sempre fatto parte del repertorio corrente, ma non ne ha mai rappresentato una parte integrale. I musicisti continuano a esaltarlo. Il termine usato costantemente per esso è « miracolo ». Eppure non ha mai conquistato del tutto l'immaginazione del pubblico, come l'Otello e le altre. Gli spettatori, in generale, ascoltano con cortese attenzione aspettando che succeda qualcosa, aspettando le grandi arie che non arrivano mai. Insomma, è sempre stato piú un successo di stima che altro, perfino in Italia dove Verdi è un dio.
Bisogna ammettere che Falstaff non ha l'immediato fascino emotivo dell'Otello o dell'Aida. La moglie di Verdi, Giuseppina, lo definí « una combinazione nuova di poesia e di musica ». Ed era davvero una novità. Mai si era avuta analoga condensazione di parole e musica cosí intimamente intrecciate. Quel che l'Otello aveva appena accennato il Falstaff lo realizza in pieno. Scomparse le arie in cui il tenore avanza alla ribalta, domina con lo sguardo il pubblico e lo sbalordisce con un do di petto. Niente piú canovaccio buttato giú alla meglio. Niente piú melodrammi. Niente piú colori senza sfumature. Tutto è sottile, tutto si muove rapidamente, pieno di ammiccamenti, di risate beffarde, di alta comicità. Falstaff è un commento alla vita, è il riassunto di una esistenza, uno scherzo - e quanto civile! - con un sottofondo di malinconia. Verdi sapeva che era la sua ultima opera. « Tutto è finito. Va, va, vecchio John... »
Era stato Boito a convincerlo ad affrontare l'impresa, dopo il successo dell'Otello. Nel 1889 i due uomini erano impegnati a fondo dalla commedia di Shakespeare. Il fiasco dell'unica opera comica di Verdi Un giorno di regno, nel 1840, era rimasto come un punto nero nella vita del compositore. Forse affrontò il Falstaff per far dimenticare quell'insuccesso. E, nel profondo, può darsi anche che lo facesse per dimostrare al mondo che Wagner non aveva il monopolio del dramma in musica, che un altro compositore poteva scrivere un'opera con melodia infinita e uno sviluppo interiore: ma alla maniera italiana e non a quella tedesca. In ogni modo, lavorò al Falstaft con grande gioia. Finse di non darvi troppa importanza, sostenendo che ci lavorava soltanto per passare il tempo. Quasi ottantenne, non poteva dedicare piú di due ore al giorno alla composizione. Ma questo non significa che affrontasse il lavoro con minor rigore del solito. Sin dall'inizio si preparò diligentemente. Prima di esaminare la prima stesura di Boito lesse i tre Enrico e Le allegre comari di Windsor. Poi studiò attentamente il libretto, preoccupandosi per l'ultimo atto, che « nonostante il tocco di fantasia sarà banale ». Ci fu uno scambio di lettere con Boito in cui Verdi si concesse addirittura qualche civetteria, fingendo di resistere all'idea di scrivere un'altra opera. Non era troppo vecchio per un lavoro del genere? Sarebbe vissuto abbastanza per portarlo a termine? Boito respinse ogni obiezione dicendo che non erano « valide e non erano d'ostacolo a un nuovo lavoro ».
É interessante una lettera di Verdi a Boito del 1889. « Voi lavorate, spero? Il piú strano si è che lavoro anch'io. Mi sto divertendo a fare delle fughe ... Sì signore, una fuga ... e una fuga buffa. » Questo deve riferirsi alla conclusione dell'opera. Così Verdi, vecchio furbacchione, aveva già in mente la fine del Falstaff . Nel marzo 1891 era ormai prigioniero del grasso vecchio. « Il Pancione è sulla strada che conduce alla pazzia. Vi sono dei giorni che non si muove, dorme ed è di cattivo umore; altre volte grida, corre, salta, fa il diavolo a quattro ... Io lo lascio un po' sbizzarrire; ma se continua gli metterò la museruola e la camicia di forza. »
La prima mondiale ebbe luogo il 9 febbraio 1893 alla Scala. Naturalmente fu un successo. Verdi era circondato da tale reverenza, ormai, che qualsiasi opera sua sarebbe stata accolta con entusiasmo. Era un Vecchio Maestro, ed erano passati da un pezzo i tempi in cui i critici lo attaccavano. Notabili di tutta l'Europa presenziarono alla prima milanese e a quella romana, data subito dopo. I critici scrissero dotte recensioni. Molti si chiesero se un'opera che concedeva cosí poco alla melodia nettamente disegnata avrebbe potuto mai attirare il pubblico. Ma i critici erano anche affascinati dalla translucidità della scrittura, dall'umorismo della musica, dalla padronanza tecnica che si rivelava in ogni misura. Si invocarono, e si invocano ancora oggi, le ombre di Mozart (Figaro) e di Wagner (Meistersinger). Falstaff infatti è terzo in quella triade di grandi opere comiche, e non è assolutamente inferiore né all'una né all'altra.
Nel 1893 George Bernard Shaw, allora critico musicale del " World — di Londra, esaminò lo spartito del Falstaff ed ebbe a fare qualche osservazione:
Ho notato un paio di esclamazioni di sorpresa alla presunta rivelazione, nel Falstaff, di una forza comica del vecchio compositore tragico « prima insospettata ». Dev'essere la conseguenza dell'enorme popolarità che si sono guadagnati in questo paese Il Trovatore e l'Aida, Ammetto che queste opere sono assolutamente scevre da parentesi comiche; ma che dire di Un ballo in maschera con quello « t scherzo od è follia » cosí squisitamente spensierato, e il finale del terzo atto, in cui Renato viene sarcasticamenre complimentato per la sua virtù domestica?... Per quanto stupidamente siano stati fraintesi sulle nostre squallide scene liriche quel quartetto tragicomico e il coro, non capisco come le persone preparate possano negare a Verdi la dote dell'umorismo drammatico.
Shaw poteva anche non sorprendersi per l'umorismo del Falstaff ma il pubblico rimase perplesso. Falstaff ha arie e pezzi d'assieme, ma guizzano cosí rapidi che appena lo spettatore comincia a goderseli sono già finiti. Il « Quand'ero paggio » di Falstaff dura trenta secondi. Il duetto tra Nannetta e Fenton prende un minuto e mezzo (anche se poi viene ripetuto). Splendide ispirazioni melodiche vengono dimenticate, si direbbe, subito dopo essere state prospettate. L come se Verdi scrivesse in una sorta di stenografia musicale. Cosí il Falstaff dà a molti spettatori l'impressione di un'opera senza sviluppo, senza niente da afferrare e ricordare.
Lo spettatore però si rende conto che l'opera non solo è piena di melodia dal principio alla fine, ma è piena di melodia coerente. Ci sono continui legamenti tematici, ed è questo che le conferisce la sua straordinaria unità. Quando, alla prima uscita, Alice canta « Escivo appunto », l'aria è accompagnata da un piccolo motto di sei note che viene immediatamente lasciato cadere, ma solo per ritornare in evidenza dopo un atto quando si usano le parole « Dalle due alle tre ». Basta approfondire la conoscenza dell'opera perché questi e altri legamenti analoghi saltino subito agli occhi.
L'orchestra ha in Falstaff una funzione più importante che in ogni altra opera di Verdi, Otello compreso. La linea vocale dell'Otello è principalmente canto; nel Falstaff è un misto di canto e di parlato. Ma quando i personaggi del Falstaff, usano il parlato, l'orchestra raccoglie la melodia o riesce in qualche modo a integrare l'azione. Non ne abbiamo esempio migliore che nel monologo dell'« Onore » di Falstaff. Cantante e orchestra sono una cosa sola. Quando Falstaff arriva a « Che ciancia! Che baia! » l'orchestra ride con un trillo: tutti gli archi e i fiati minori. Poi, come se si svegliassero all'improvviso, oboe, clarinetti e fagotti cominciano improvvisamente a trillare anch'essi; da soli. L'effetto, se si afferra ciò che sta succedendo, è spiritosissimo. Alla fine dell'atto, quando Falstaff toglie di mezzo i suoi preziosi guardiani, l'orchestra interviene di nuovo. Di nuovo un trillo, ma che trillo! Uno scortese nitrito, una pernacchia musicale, mentre l'orchestra prende in giro Falstaff e il mondo intero.
Ci sono continuamente sorprese, nel Falstaff, e la piú grossa viene per ultima. L'opera si conclude con una fuga. Verdi ci arriva a poco a poco, costruendola per tutta l'opera. L'Aida, per esempio, ha un'eccezionale quantità di polifonia. Ma in nessun'altra opera verdiana c'è una fuga in piena regola, e c'è qualcosa di simbolico nel fatto che Verdi, ormai vecchio, completasse la piú grande e la piú rivoluzionaria delle opere sue con una delle piú antiche e severe forme musicali. Solo che in questa fuga non c'è niente di severo. « Tutto è burla » cantano i personaggi, e le voci si alzano sempre di piú finché si interrompono bruscamente. Verdi aveva giocato il suo piccolo tiro.
Se Falstaff completò il ciclo delle opere, Verdi non depose del tutto la penna. Compose un Te Deum e fini quattro brani di musica sacra (due dei quali scritti prima del Falstaff ), pubblicati in seguito col titolo di Quattro pezzi sacri. Boito continuava a insistere perché scrivesse un'altra opera shakespeariana. Antonio e Cleopatra? Re Lear? Per tutta la vita Verdi si era baloccato con l'idea di mettere in musica il Re Lear. Giuseppina cercava di difenderlo da tutte quelle preghiere ed esortazioni. « Verdi è troppo vecchio, troppo stanco. » E anche lei era vecchia e stanca: mori nel 1897. Quando fu data la notizia a Verdi egli rimase in piedi, muto, rifiutando di sedersi. Trascorse i suoi ultimi anni quasi sempre a Sant'Agata; solo di quando in quando si recava a Milano per essere vicino a Boito e ad altri vecchi amici. Quando venne la morte si trovava a Milano. Ebbe un colpo apoplettico. Rimase incosciente per una settimana e mori il 27 gennaio 1901. Vari mesi dopo Boito descrisse a un amico le ultime ore di Verdi. « Povero Maestro, com'è stato coraggioso e bello fino all'ultimo momento! Non importa; la vecchia mietitrice è venuta con la sua falce. Ora è tutto finito. Ora dorme come un re di Spagna nel suo Escoriale, sotto una lastra di bronzo che lo copre tutto. »
Harold C. Schonberg (da I GRANDI MUSICISTI, traduzione di Vittorio Di Giuro, ed. Mondadori, 1972)

 

Fonte: http://www.resmusica.it/doc/Il%20colosso%20italiano.doc

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