Musica dell’america latina

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Musica dell’america latina

Definire la popular music non è facile. Non è facile perché è un fenomeno che viviamo e, come tale, non sentiamo il bisogno di definire; perché tutti, quando parliamo di popular music crediamo di sapere a cosa pensiamo, e crediamo che anche i nostri interlocutori lo sappiano. Ma non è esattamente così: conducendo una piccola inchiesta abbiamo chiesto a parenti e amici cosa intendessero per popular music. Le reazioni sono state alquanto differenti, accomunate però da una certa perplessità e imbarazzo del tipo “perché mi fai queste domande? La popular music è…”. Una pausa rivelatrice della forte difficoltà definitoria e dell’imbarazzo nel rabberciare, lì sui due piedi, una definizione accettabile quanto palesemente artificiosa.
Se definire significa circoscrivere semanticamente, è evidente che la difficoltà maggiore sta proprio nel riunire in una frase tendenze, fenomeni, suoni e testi assolutamente disomogenei, dispersi in tempi e aree geografiche molto vaste. Entrano poi in gioco le ambiguità di termini come popular, e il suo pseudo-corrispondente italiano ‘popolare’, o l’aggettivo “leggero”, termini usati e abusati in mille contesti e non sempre in modo neutro.
Nonostante ciò urge definire il concetto, visto che ci occupiamo di un artista e di canzoni che, di fatto, rientrano nella sfera della popular music, e lo faremo proprio mettendo in evidenza le difficoltà (non solo le nostre, come vedremo) di spiegare parole e concetti, a prima vista elementari e comuni, ma in realtà estremamente complessi.
Il lemma popular music è attestato dal 1573 per indicare la musica della ‘gente comune’. In tale accezione il referente immediato di questo tipo di musica è una precisa fascia sociale che si distingue, evidentemente, dall’élite, comprendente a quell’epoca l’aristocrazia, l’alto clero e l’alta borghesia. Certamente si trattava della gente comune di ambito urbano e non rurale (per cui si sarebbe impiegato l’aggettivo folk, country o qualcosa di simile); pertanto si può supporre che l’attestazione cinquecentesca del termine contenga già alcune delle componenti semantiche che formano il senso attuale del lemma: musica tipica del ceto sociale medio urbano e quindi musica “non classica”, non riferibile cioè alla classis, che nella Roma repubblicana, come nelle società moderne, rappresenta i ceti alti. Ma proprio perché tipica della gente comune, non colta (visto che la “cultura” è sempre stata una prerogativa delle classi egemoni) nella popular music vi è l’idea, di “semplice”, di “facile accesso”; ma sembra connotare altresì qualcosa d’uso comune e ampia diffusione, insieme di qualità che, come si è accennato, definiscono ancora oggi il concetto di popular music e del suo pseudo-omologo italiano “musica leggera”.

Queste caratteristiche emergono dalla nostra piccola inchiesta sul significato di popular music. Nelle risposte abbiamo registrato con un certa frequenza, nel tentativo di definire il concetto, l’uso di aggettivi come facile, semplice, memorizzabile, ma anche connotazioni peggiorative come di modeste pretese, commerciale, molto nota ecc.
Ma le definizioni coincidono solo in parte con quelle degli studiosi che partono prevalentemente da considerazioni di tipo socio-economico, comprendendo  la popular music tra quei fenomeni connessi alla nascita e allo sviluppo dell’industria culturale e, per dirla con Benjamin, con la riproducibilità tecnica dell’evento sonoro in nuovi e amplissimi contesti.
Philipp Tagg, uno dei più autorevoli studiosi degli attuali fenomeni musicali, fondatore della IASPM (International Association for the Study of Popular music) basa essenzialmente la sua definizione sull’opposizione del concetto di popular music a quello di folk-music e musica colta.

 

Lo schema , che fornisce una serie utilissima di osservazioni e spunti di riflessione, non ci aiuta a definire la popular music, in quanto molti dei parametri di riferimento non sembrano esclusivi di questo tipo di musica. E se possiamo essere d’accordo sul fatto che “la popular music è concepita per la distribuzione di massa”, non siamo d’accordo sul concetto di distribuzione e mercificazione della musica, che per Tagg è una prerogativa della popular music, visto che anche i quartetti di Beethoven vennero venduti all’editore al miglior prezzo possibile per essere venduti nelle principali città europee al miglior prezzo di mercato. Quartetti che attualmente vengono fruiti da un pubblico eterogeneo (molto più di quello per il quale furono scritti) e magari diffusi negli ascensori o nei supermarket.
Ancora più vaga è la definizione di Roberto Agostini, co-curatore italiano di una fondamentale raccolta di testi di Philipp Tagg, secondo cui “il concetto implica un riferimento al popolare, per indicare quelle attività musicali che al giorno d’oggi sono le più diffuse e comuni ma che non si prestano ad essere definite né colte né folk. In questo senso parlare di popular music significa circoscrivere un campo musicale “popolare” non necessariamente legato ad una particolare tradizione etnica in senso stretto, bensì inserito nel mondo contemporaneo euro occidentale, nella vita metropolitana, nelle comunicazioni di massa, nelle forme di riproduzione sonora”.
Una definizione basata sul principio, alquanto discutibile, del “se non è zuppa”, che considera come  popular music tutto ciò che non rientra nelle categorie di musica colta o di tradizione orale.
Basata su un giudizio di valore, più che sulle dinamiche di produzione/distribuzione appare invece la definizione di Adorno, che lancia i suoi strali sulla musica leggera e tutta quella musica destinata al consumo “direttamente complementare all’ammutolirsi dell’uomo, all’estinguersi del linguaggio inteso come espressione, all’incapacità di comunicazione. Essa alberga nelle brecce del silenzio che si aprono tra gli uomini deformati dall’ansia, dalla routine e dalla cieca obbedienza […]. Questa musica viene percepita solo come uno sfondo sonoro: se nessuno più è in grado di parlare realmente, nessuno è nemmeno più in grado di ascoltare […]. Oggi la potenza del banale si è estesa alla società nel suo insieme.”
Prendendo alla lettera la definizione di Tagg, Paolo Prato passa in rassegna la galassia di generi e sottogeneri musicali che formano la popular music: “rock, pop, blues, jazz, canzone, musica da film, gospel, tango, fado, enka, nueva trova, juju, reggae, disco, country, cabaret, fusion, salsa, skiffle, funk, bossa nova, rap, soul, folk rock, rhythm & blues, canción protesta, bubble gum, musical, rock ‘n’ roll, punk, calypso, heavy metal, liscio, Schlager, muzak, techno ecc.”. Un elenco variegato e disomogeneo  che va dalla musica da film al jazz, ai più effimeri generi balneari, al country, con un emblematico “ecc.” finale che lascia quanto mai aperta la questione. Un pot-pourri “onnicompren­sivo che include tutte quelle esperienze estranee alla musica seria e alla musica di tradizione orale”, uno strano principio classificatorio che invece di spiegare cosa “è” la popular music ci dice piuttosto quello che “non è”. Ma evidentemente non basta.

Sul vago si mantiene anche Augusto Pasquali nella voce “Pop Music” del Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti (DEUMM), termine “normalmente usato nei paesi anglosassoni per indicare un’ibrida ed estremamente varia produzione che non è né diretta espressione di un gruppo etnico né appartenente alla musica di tradizione colta; in tal senso è da considerarsi il corrispettivo anglosassone del nostro termine musica leggera”. Ma, mentre ribadisce il suo non essere né colta né popolare, aggiunge che “risulta impossibile dare una definizione esaustiva della popular music in quanto essa sfugge ad ogni rigorosa analisi e classificazione, variando di volta in volta i generi e le culture musicali da cui deriva, i gruppi sociali verso cui è indirizzata, gli scopi e le volontà dei suoi musicisti e infine il rapporto che si instaura fra essa e l’ordine stabilito.” Interessante, infine, rimarcare l’equazione, non del tutto scontata, pop music = popular music = musica leggera, una omologia che genera ulteriori perplessità e confusione. Senza voler entrare nel merito della questione, siamo d’accordo nel considerare la pop music come il corrispettivo anglossassone della nostra musica leggera, mentre siamo portati ad attribuire al termine popular music un’estensione ben più vasta che, ovviamente, comprende il genere pop/leggero ma non solo. La prova è data dal fatto che elencando i vari generi sia la gente comune, sia gli specialisti sono portati a mettere in alternativa il pop con il rock con il country o la musica celtica e così via, e non piuttosto a comprendere questi ultimi nel primo. Il termine popular music appare, infatti, nel linguaggio corrente, come un termine quasi “specialistico”, usato da critici e musicologi che ha perso ormai la sua originaria corrispondenza con la sua amichevole abbreviazione pop music.
Lo prova il fatto che nella sesta edizione del prestigioso The new Grove Dictionary of Music & Musicians troviamo una voce molto estesa che illustra la storia e i protagonisti della popular music e una voce più ridotta, nello stesso volume, riguardante la pop music, categoria di popular music che, analogamente alla pop art, è legata ai fenomeni di consumo giovanile e di massa cominciati alla fine degli anni ’50.

Richard Middleton, fra i più grandi studiosi di questo argomento, nonché fondatore del periodico “Popular music”, analizzando i fenomeni e gli studi legati alla popular music negli ultimi quarant’anni, critica le definizioni troppo schematiche e onnicomprensive, prospettando la necessità di definire caso per caso le caratteristiche di un genere e quindi la sua eventuale classificazione. Analizza le varie definizioni di popular music (gradita, popolare, della gente comune, favorita, apprezzata) evidenziandone volta per volta le incongruenze e i limiti. In particolare prende in considerazione quattro categorie di definizioni: definizioni normative (popular music come tipo di musica inferiore); definizioni negative (musica che non rientra in certi generi); definizioni sociologiche (connessa a un particolare gruppo sociale); definizioni tecnologico-economiche (diffusa dai mass media e/o in un mercato di massa). Egli le smonta una per una ritenendole insufficienti in quanto legate a interessi specifici: la prima si basa su criteri arbitrari e troppo soggettivi. La seconda è insufficiente e vaga perché è impossibile stabilire netti confini tra “folk” e “popular” e “seria” e “popular”; ad esempio la musica seria è comunemente considerata complessa, difficile, impegnativa; la popular music dovrebbe quindi essere definita come semplice, accessibile, facile. In realtà molti brani di musica colta appaiono estremamente semplici; per contro ci sono musiche popular per niente facili o accessibili. La terza categoria è inadeguata perché le pratiche e i generi musicali, anche quelli legati alle minoranze estreme, non potranno mai essere limitati a particolari contesti sociali. La quarta è anch’essa incongruente in quanto lo sviluppo dei mezzi di diffusione di massa ha condizionato tutte le forme di fruizione musicali e tutte le musiche possono essere considerate oggetto di consumo; inoltre tutte le forme di quella che viene generalmente considerata popular music possono per principio essere diffuse con metodi diretti (per esempio concerti) e non attraverso i mass media, e tutte possono essere gratuite.
Inoltre Middelton è convinto che criteri di valutazione basati sull’opposizione meglio/peggio, élite/massa, aristocratico/plebeo rischiano “di dare una definizione oltremodo rigida, spesso fondata sull’incapacità di riconoscere l’insieme dei presupposti che stanno alla base di ciascuna distinzione”. Non si può in questo ambito ragionare in termini assoluti: “la popular music può essere inquadrata opportunamente soltanto come fenomeno mutevole all’interno dell’intero campo musicale, e questo campo, insieme ai suoi rapporti interni, non è mai immobile, è sempre in movimento”. Bisogna dunque individuare le categorie musicali topograficamente, storicamente e contestualmente.
Concordando con obbiezioni di Middleton mosse alle definizioni di tipo normativo negazionista e sociologico, riteniamo invece di trovare una soluzione per definire il concetto di popular music proprio a partire dai meccanismi di produzione e diffusione della musica, o piuttosto dai condizionamenti che questi possono esercitare sulla creazione di un certo tipo di musiche, quelle appunto popular.
Se consideriamo la musica “eurocolta” e quella di tradizione orale, notiamo che esse esistono e vivono a prescindere da una loro diffusione mass-mediatica. È evidente che possono diventare prodotto di scambio nel moderno mercato della musica, ed essere diffuse in forma di dischi, cd, trasmissioni radiofoniche e quant’altro ad un pubblico planetario; ma ciò può essere considerato come un fattore accidentale (benché produttore di cospicui redditi) rispetto a quelle musiche nate per altri ambienti e per altre funzioni. Una sinfonia di Beethoven vive indipendentemente dalle centinaia di incisioni discografiche, e difficilmente si può pensare che la sua forma subisca variazioni dettate dal mercato (se si escludono i rari e un po’ demodé arrangiamenti nel genere definito pop-classic), lo stesso si può dire delle composizioni di musica colta contemporanea che nascono essenzialmente per il teatro o la sala da concerto e la cui, rara, incisione discografica o diffusione radiofonica appare ancora come un surrogato del concerto, considerato ancora l’occasione ottimale d’ascolto. Lo stesso può dirsi per i repertori tradizionali che continuano ad essere tramandati all’interno della comunità; anche se possono essere, come la musica colta, ri-prodotti e inseriti nel mercato discografico. In questo, notiamo però una maggiore predisposizione rispetto alla musica colta (mancando il supporto scritto) ad eventuali ri-adattamenti commerciali. Le incisioni di brani per launeddas, per fare un esempio, presentano tempi notevolmente contratti, rispetto all’uso solito, per rispettare gli standard di durata delle tracce del disco o del cd.
La popular music, viceversa, viene pensata ormai dagli anni ’40 per essere distribuita su larga scala, viene concepita, in sostanza, come prodotto mass-mediatico. La pop-star pensa anzitutto a produrre dischi, il suo successo viene valutato in migliaia di dischi venduti, gli indici di gradimento e i rendiconti dei distributori servono per compilare le hit parade e per assegnare i vari dischi d’oro o di platino. Le musiche vengono registrate principalmente in studio. I concerti, sapientemente limitati (e sostituiti nella loro fisicità e corporeità sempre più spesso da artificiali esibizioni in videoclip), servono il più delle volte per lanciare l’album. Il disco viene confezionato per essere venduto, e anche gli artisti duri e puri devono fare i conti con il mercato, o perlomeno con il loro produttore, interessato a far fruttare il più possibile il capitale investito. L’industria discografica, insomma, ha condizionato nel secondo Novecento e condiziona, in maniera più o meno determinante, la popular music attuale.
Rimane il problema di generi quali il jazz o il rock, che trovano nel concerto il luogo ideale di esecuzione e che in realtà potrebbero essere estranei alla popular music, proprio in virtù di questa prerogativa.
Si può infatti ricondurre quanto detto finora al seguente schema:

Questo schema può essere ulteriormente semplificato riportandolo alla consueta tripartizione dei generi popular, colto e tradizionale includendo nel primo il jazz e il rock proprio in considerazione della loro sostanziale “connivenza” con l’industria culturale.

Possiamo definire, pertanto, la popular music come l’insieme dei generi musicali concepiti per essere diffusi su larga scala, o che in ogni caso possono essere inseriti in un mercato che condiziona il processo di creazione e/o ri-elaborazione del prodotto.  La musica classica e quella tradizionale possono essere, e di fatto lo sono, diffusi dai mass media, ma difficilmente ne sono condizionate, o perché si tratta prevalentemente di musica di repertorio, scritta da compositori morti da un pezzo, o perché, nel caso delle produzioni contemporanee, il compositore continua a pensare per la sala da concerto o il teatro musicale; a meno che non si tratti di compositori di confine (come Brian Eno o Michael Nyman) che confermano la regola in quanto la loro “eccentricità” rispetto al genere colto è misurata proprio perché concepiscono discograficamente le loro musiche, secondo strategie comuni, appunto, alla popular music; e sono apprezzati (ma anche odiati), proprio per questo, dagli amanti della popular music e della classica.
Lo stesso si può dire della musica tradizionale, specie dopo l’esplosione del fenomeno World Music, e anche in questo caso nel momento stesso in cui la musica etnica viene diffusa e condizionata dai mass media, perdendo progressivamente le sue connotazioni locali, defunzionalizzandosi e adattandosi al gusto dei possibili acquirenti cessa di essere musica etnica per diventare a  tutti gli effetti musica popular. È questo il caso del fado o della musica celtica.
Da tutto ciò ne consegue che non può esistere un confine netto tra i diversi generi e che il criterio di classificazione appena esposto ha un valore puramente indicativo, che ammette una gamma infinita di possibilità intermedie tra i generi colto/tradizionale da una parte e la popular music dall’altra.
In Italia un termine che approssimativamente indica la popular music così come l’abbiamo definita nelle precedenti pagine è “musica leggera”. Ma anche in questo caso le ambiguità non mancano, comprendendo nella musica leggera  un insieme di diversi generi (canzonetta, musica da rivista, musica pubblicitaria, commenti sonori, musica per danza) prodotti in epoca borghese per intrattenimento e svago indipendentemente da gerarchie di genere e valutazioni estetiche. Per certi versi questa accezione  coincide con quella di popular music, ma esclude tutti quei generi che esulano dalla cultura anglosassone, ad esempio la musica francese, o quella latino-americana e inoltre non pone l’accento sul sistema di produzione commerciale. Una particolarità che, come si è visto, porta a differenziare nel DEUMM i lemmi Pop music e musica leggera.

La popular music, per concludere, attira sempre più l’attenzione del mondo scientifico e accademico; una disciplina che pur entrando, non senza qualche opposizione, nel novero di quelle che formano la moderna musicologia, diventa oggetto di corsi e attività universitarie. Una disciplina che certamente deve acquisire un suo metodo d’indagine e di ricerca, considerando il differente ambito di applicazione che sfocia nella sociologia e nella antropologia urbana, ma anche, come si vedrà nel corso di questa tesi, nelle complesse problematiche della cultura e della comunicazione post-moderna. Una specificità di metodo e di obiettivi che non deve, a nostro parere, relegarla in una posizione secondaria ma che, al contrario, le conferisce pieno diritto di cittadinanza e azione nella storia della musica e nella musicologia sistematica e applicata del XX secolo e del nuovo millennio, come, d’altronde, la vasta produzione scientifica sulla popular music inequivocabilmente conferma.


1.2    Il mito dell’America Latina  e delle
sue musiche nella cultura europea

Orizzonte mitico e lontano, terra di fuoco, di feste e vita semplice, esplosione di suoni e colori, l’America Latina da sempre ci appare come un mondo “diverso”, ricettacolo di umanità, ombelico del mondo, patria di vitalità e leggerezza.
Dai tempi di Colombo la nostra cultura, italiana ed europea, ha sempre subito il fascino di quelle terre sognate e sognanti. Un fascino che nasceva proprio perché quel mondo era “Nuovo”, e dunque diverso, selvaggio, incontaminato, privo dei nostri schemi culturali, delle nostre leggi morali e civili, dei nostri condizionamenti sociali; in una sola parola “libero” (certo, si fa per dire, visto che, dal “nostro” arrivo, di lotte per la libertà l’America Latina ne ha vissuto parecchie): il mondo della non convenzionalità, dove tutto è consentito, anche il proibito, fino all’eccesso. La patria della spensieratezza, del divertimento, del carnevale, della gioia assoluta, l’isola felice di idilliaci orizzonti.
E così, rapiti dall’irresistibile attrazione per quei mondi lontani, abbiamo cominciato a sognarli, a idealizzarli, a costruire nel nostro immaginario collettivo un luogo utopico, un luogo “altro”, sede della diversità, della libertà, della giovialità, della festa, dell’amore.
Ognuno di noi in fondo si costruisce il suo mito, il suo spazio ideale, la sua vita immaginaria oltreoceanica: per alcuni l’America Latina rappresenta autenticità, spiritualità, dimensione umana; per altri rappresenta invece il luogo del “bengodi”, della “cuccagna”, del divertimento sfrenato; o ancora può essere vista come la culla di antiche civiltà da riscoprire, di culture e tradizioni; o come il luogo dell’amore, della bellezza, dell’edonismo, delle spiagge immacolate, della fuga dal quotidiano, una dimensione paradisiaca, insomma.
Un mito costruito e nutrito da racconti di viaggiatori impavidi, di emigrati, da storie vere o presunte, parole di narratori e poeti, immagini e dipinti, che nel tempo hanno contribuito a delineare i contorni di quel mondo nuovo. Ma è soprattutto la musica, spesso legata alla danza che ad essa si accompagna, l’elemento che più rievoca quei luoghi, con tutta la vita che li anima: ritmi sincopati, melodie strazianti, passi lenti, giravolte, movimenti che risveglino nei nostri spiriti la vertigine della sensualità, della gioiosa vitalità, di tutto ciò che esula dallo scandire della nostra quotidianità. La musica in primo luogo perché essa è per i latino-americani sangue e respiro, è il ritmo della vita, e proprio per questo motivo, trasmessa con maggior energia rispetto ad altre forme di espressione; la musica perché è il mezzo più diretto, più diffuso, più accessibile, e perché è immediata, comunicando sensazioni concrete, materialità, onde energetiche che arrivano dirette alla nostra percezione, facendoci vibrare.
Miti, immagini, archetipi, che si configurano dunque nei ritmi delle danze languide e vitali che da tempi lontanissimi animano la vita dell’America Latina, governano il tempo quotidiano, scandiscono le ore e gli eventi. Così si riverberano in noi, risvegliando le passioni dimenticate e sepolte nei più remoti anfratti delle nostre coscienze. Ed ecco che si destano sopite memorie, assopiti palpiti vitali, che pur fanno parte del nostro sangue latino, di quel filo che da sempre ci lega alle terre d’oltreoceano, ma che a volte, presi dal ritmo tecnologico della modernità, obliamo o nascondiamo. Entrare in quel mondo, essere per un momento abitanti di quel mito, significa riappropriarsi di questa vitalità latente, riaprire le stanze socchiuse ove si celano e conservano i segreti nascosti dello spirito e del corpo.
L’America Latina è intrisa di musica in ogni aspetto della vita: la musica è nei rituali delle popolazioni indigene, dai tempi precolombiani, la musica è nelle strade delle grandi città, nei locali, nei cortili; una musica da sempre espressione e affermazione orgogliosa della propria identità, radicata indissolubilmente alla cultura, eppure sempre aperta al rinnovamento. La ricerca musicale latino-americana si è infatti estesa dalla musica da ballo al rock, al jazz, alla canzone, al rap, e ha a sua volta influenzato, anche col suo stile e il suo modo di essere, la popular music internazionale, contribuendo alla sua diffusione nel mondo.
Terra di conquista, da sempre approdo di rotte transoceaniche, crogiuolo di etnie, laboratorio culturale, l’America Latina ha sempre lottato per non perdere  le proprie radici, che sono profondamente legate alla musica; e forse proprio per questo la musica latino-americana rappresenta “la forza vitale della musica del mondo”. “È un altro modo di fare musica”, sempre attuale, brillante, innovativo, eppure ancora “legato alla manualità, al rapporto fisico con gli strumenti, a quel tipo di energia che solo il corpo umano riesce a produrre e a imbrigliare in un ritmo”.
Le musiche e le danze latino-americane sono ibridi derivati dalla fusione di elementi della tradizione autoctona, con la sovrapposizione di quelli africani ed europei. Musica e danza, espressioni favorite in tutte le società afro, sono indissociabili perchè nascono come balli e insieme come generi musicali, espressioni ancestrali e vivifiche dell’interiorità umana.
La danza in primo luogo è infatti “la madre delle arti”, è vita, espressione e affermazione del corpo e della mente: “tutto è presente nella danza, il corpo, che nell’estasi viene trasceso e dimenticato per diventare ricettacolo della sovrumana potenza dell’anima; l’anima, che trae una felicità e una gioia divina dall’accresciuto movimento del corpo liberato d’ogni peso”.
“Data la profonda e larga sfera di azione della danza, nulla possiede uguale valore nella vita delle civiltà primitive”, come anche, in un certo modo, in quelle moderne. La danza è festa, è rito, è spettacolo, è gioco e libertà.
E alla danza è indissolubilmente legata la musica, l’elemento ritmico, il suono. Per questo non possiamo parlare dell’influenza della musica latino-americana nel nostro continente prescindendo dall’elemento corporeo e motorio; dopotutto bisogna tenere in considerazione il fatto che la maggior parte di quelle musiche latino-americane sono giunte a noi insieme alle danze ad esse relative.
Caratteristiche fondamentali delle musiche e dei balli latino-americani, sono la pulsazione ritmica accentuata , il ritmo coinvolgente, la valenza erotico-sensuale, la passionalità, i movimenti allusivi, la schematicità dei passi, la malinconia che spesso si cela dietro l’apparente allegria.
“Le musiche latino-americane attingono la loro vitalità dal loro continuo oscillare tra tradizione e tempi moderni. Sempre in contatto con le antiche correnti madre e sempre disposte ad accogliere nuove idee, rimangono una fonte feconda alla quale il mondo odierno, a volte stanco della musica anglosassone, torna e ritorna ad abbeverarsi.”
Così arrivano a noi, con tutta la loro potenza e intensità. E così le desideriamo e ricerchiamo, da secoli e secoli, coltivando quel filo diretto che dalle Americhe ci trasmette tutto quel bagaglio di suoni e gesti, alimentando quel mito e continuando a farci ballare e sognare.

 


1.3    I ritmi e le sonorità dell’America Latina
nella musica europea e nella popular music

Vogliamo dunque ripercorrere brevemente quelli che nel tempo sono stati gli influssi della musica latino-americana in Europa e nella popular music internazionale.
La  “colonizzazione musicale” – e in particolare quella che interessa l’influenza della musica latino-americana nella nostra cultura – è un fenomeno che dura da secoli e continua tuttora, anche se spesso non tutti siamo consapevoli di quali siano i meccanismi che lo attivano, quali le rotte di trasmissione, quali le forme di ricezione; tuttavia è un evento molto importante che ha condizionato nello spazio e nel tempo la storia e la geografia musicale mondiale.
Le influenze tra musica latino americana ed europea iniziarono già ai tempi della conquista del nuovo continente. Dapprima fu infatti l’Europa a portare all’America le sue conoscenze musicali, quando, per evangelizzare le popolazioni indigene, i gesuiti integravano musica e dottrina. Quando i conquistadores arrivarono a colonizzare il Nuovo Mondo, trovarono popolazioni che avevano forti tradizioni musicali, essendo per loro la musica una importantissima forma di comunicazione primaria. Musica e danza erano già allora profondamente legate e parte integrante e fondamentale della loro cultura.
Le prime testimonianze di danze e musiche latino-americane nel nostro continente risalgono al 1517, appena venticinque anni dopo la prima impresa di Colombo. È il poeta spagnolo Torres Navarro a citare una danza che poi si scoprirà di origine ispanoamericana: la ciaccona. Poco dopo, in un intermezzo di Simon Aguado, El platillo, composto nel 1529 per celebrare le nozze dell’Infante don Filippo, figlio di Carlo V si legge:
Chiqui, chiqui, morena mia,
si es de noche o si es de dia.
Vamonos, vida a Tampico
antes que lo entienda el mico
que alguien mira la chacona
que ha de quedar echo una mona

Il protagonista di questi versi invita dunque la sua “morena” ad accompagnarlo a Tampico, in Messico, per ballare la ciaccona. Già in questi versi è esplicito il carattere erotico e sensuale di questa danza d’origine americana, la quale è generalmente associata alla bal­doria, alla gioia sfrenata e al piacere dei sensi. Nel Romancero General, risalente alla metà del Cinquecento, la ciaccona è diventata ormai il sinonimo di “Cuccagna”, di isola felice. Il romance n° 1347, intitolato appunto La isla de la Chacona spiega:
Esta tierra, amigos mios,
es la Isla de Chacona,
por otro nombre Cucaña,
che de ambos modos se nombra
In tutte le testimonianze rimasteci si evidenzia il carattere erotico della ciaccona, e si percepisce come già da allora musiche e danze latino-americane fossero sinonimo di gioia, vitalità, divertimento.
Subito dopo la ciaccona compaiono altri balli di origine “amerindia”: Guineo, Paracumbé, Zambapalo, Zarambeque, Sarabanda, tutti accomunati dal denominatore comune della sensualità.
Ed è proprio la sensualità, e l’erotismo che pervade queste danze la ragione per cui le autorità, e in primo luogo quelle ecclesiastiche, si erano opposte fermamente all’introduzione di queste danze in Europa: repressioni testimoniate da innumerevoli bandi rimastici.
Divieti destinati però a cadere nel vuoto, visto che non solo i balli latino-americani continuarono a imperversare, ma nel 1593 troviamo addirittura la sarabanda tra i balli che accompagnavano i festeggiamenti del Corpus Domini organizzati dal capitolo della cattedrale di Siviglia.
Forse anche a causa di questi vincoli morali la ciaccona ed altri balli, dopo un certo periodo di permanenza in Europa, persero la componente mali­ziosa e sensuale, tanto che risulta difficile pensare che la ciaccona della seconda partita per violino solo di Bach o quella che conclude la Quarta sinfonia di Brahms abbiano un’origine così ribalda. Già nella Chacona di Antonio Martìn y Coll, compositore spagnolo della seconda metà del Seicento, la ciaccona è una musica “seria”, lenta nel suo incedere ternario su un severo basso ostinato.
Intanto, col passare del tempo, sempre nuovi bailes arrivavano dal Nuovo Mondo, come l’habanera (danza originaria dell’Avana) o il paso doble.
Nel 1789 il francese Moreau de Saint-Méry scrive un trattato sulla danza delle Antille francesi e nel 1820 il famoso maestro di danza parigino Charles Blasis riserva un capitolo del suo trattato alla descrizione delle danze negroamericane.
Durante i secoli XVIII e XIX la composta società borghese nei confronti del Nuovo Mondo si limitò perlopiù all’ammirazione delle sue espressioni, nel frattempo che si esaurivano lentamente le risorse della danza europea.
Curt Sachs, padre dell’etnomusicologia, descrive infatti “la crisi di passione e partecipazione in cui precipitano i balli da sala nell’Europa della fine del XIX secolo. Essendo il ballo uno specchio sempre fedele del vivere sociale, il suo impoverimento diventa inevitabile, in una società artificiosa come quella”. Svuotate di senso e di emozione le danze europee trovano nel terreno fertile della musica latino-americana, nuova linfa cui attingere. “Un mondo intero si svela, aprendo il campo ad una dimensione liberatoria”. “Irrompe la seduzione collettiva: alla ricerca dell’espressività perduta, tutti si fanno conquistare”.
A fine Ottocento irrompono con tutta la loro energia, la loro varietà, la loro libertà di movimento, le nuove danze d’oltreoceano, a liberare finalmente dalla monotonia della danza europea: arriva la maxime brasiliana, nel 1910 il tango argentino, negli anni Venti la rumba cubana, poco dopo il danzón (nato dal bolero spagnolo). Caratteristica comune è sempre il carattere erotico molto marcato, accompagnato da  ritmi brillanti e coinvolgenti.
Il tango soprattutto arriva sotto forma di delirio per la danza, coinvolgendo persone di ogni età e ceto sociale: “la follia del tango testimonia che l’uomo dell’età delle macchine, con il suo orologio da polso dall’ora incalzante, con il suo cervello in continua azione per preoccupazioni e calcoli, prova la stessa necessità di danzare proprio come l’uomo primitivo”.
“Pensiero triste che si balla”, il tango è fatto di solitudine, sconforto, sentimenti melodrammatici, passionalità totale. Censurato negli anni ’30 e ’40, per questa sua natura passionale e le sue allusioni erotiche, il tango ritrova nuova linfa più tardi, influenzato anche dal jazz, e poi negli anni ’60 con Astor Piazzolla, che rivoluzionerà il genere introducendo il tango da concerto.
Siamo passati dunque al secolo scorso, senza dubbio quello “dell’esplosione latino-americana”: è infatti durante tutto il ’900, anche grazie all’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione – come il grammofono e la radio e più tardi con i mezzi di comunicazione di massa – che la diffusione delle danze latino americane si sviluppò più intensamente, dapprima negli Stati Uniti e poi in tutta Europa, che si infervorò subito per la sensualità di rumba, conga, mambo e biguine. Insieme alle altre danze latino-americane arrivavarono anche gli scatenati blues, charleston, fox trot, ragtime: “non si potrebbe immaginare un contrasto più grande rispetto alla monotonia dei passi e delle melodie della fine del secolo XIX”. “Il XX secolo ha riscoperto il corpo; mai dall’antichità esso è stato così amato, così sentito, venerato”.
Alla fine degli anni ’30 nasce il latin-jazz dall’incontro di musicisti cubani con quelli afro-americani (Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Thelonious Monk) ormai stanchi del swing. Si uniscono così i ritmi delle percussioni sfrenate di cuba, alle soluzioni armoniche del be-pop. Prima  è il jazz a entrare in un’ orchestra cubana (The Afro-Cubans); è Gillespie che incorpora invece, per la prima volta nella storia del jazz, i tamburi latini in una big-band americana.
Il jazz è stato il primo genere musicale ad essere fortemente influenzato dalle componenti latino-americane, in particolare da quelle brasiliane. La musica brasiliana e il jazz hanno difatti una lunga storia che li unisce, che ha radici nella loro comune origine africana. Nel tempo i due generi si sono reciprocamente influenzati, tanto da aver creato una tradizione che unisce samba e bossa nova al jazz: il jazz samba. Così la bossa nova ha contagiato l’intero mondo jazz, che in quel genere trovò nuova linfa vitale, dando inizio a un processo di infiltrazione della musica brasiliana in quella americana (soprattutto negli anni ’60 , ’70 e ’80). Protagonisti di questa “brasilian invasion” furono tra i tanti Baden Powel, Sergio Mendez, Herbie Hancock, Chick Corea, fino ad arrivare alle più moderne contaminazioni di musicisti come Egberto Gismondi, che hanno contribuito ad allargare la moderna concezione del jazz.
Tornando agli anni ’40 e’50, in cui queste contaminazioni diventavano sempre più importanti, l’impulso del latin-jazz in Europa coincide con la moda della rumba, del mambo (incontro di danzón e jazz) e del cha cha chá (mambo più strutturato, con uno stacco caratteristico sul terzo tempo). E ancora negli anni ’50 impazzano  biguine, mambo, e il calypso di Harry Belafonte.
Tutte queste danze non sono state assimilate dagli europei in modo integrale, sono invece sempre state adattate alla nostra civiltà, misurate, ridimensionate: si tratta appunto di influenze, contaminazioni, emulazioni. Non era possibile infatti che la società borghese europea riprendesse le movenze ardite del tango, o il ritmo concitato del samba senza assimilarli alla propria tradizione, alle proprie abitudini. È questione non solo di mentalità e cultura, ma anche di sangue: nessun europeo può appropriarsi di una danza latino-americana e padroneggiarla come farebbe un nativo dell’America Latina, non la sentirebbe e non la interpreterebbe mai allo stesso modo, poiché non ha uno spirito né un fisico di un habanero o di un carioca.
Per capire questo concetto basti pensare, non solo alla già citata ciaccona, che col tempo assunse caratteristiche ben diverse dalla sua versione originale, ma anche per esempio agli anni ’60, periodo del boom economico, quando i grandi interpreti italiani si cimentavano in biguine, mambo, rumba riadattandoli nei vari Abbronzatissima, e Cha Cha Cha della segretaria, conservando dai modelli originali solo il lato divertente, obliando totalmente quello sociale e ogni volta diluendo quegli stilemi musicali con la matrice melodica nostrana.
In quello stesso periodo in Italia ebbe notevole influenza anche l’avvento della bossa nova (Tom Jobim, João Gilberto, Toquinho, Vinicius de Moraes) che sedusse cantautori e  interpreti come Sergio Endrigo, Mina e Ornella Vanoni, anche se la tendenza era quella di rifare, più che quella di produrre materiale originale.
L’influenza dei ritmi e dei musicisti nella musica leggera in Italia era anche quella del carnevalesco samba di Carmen Miranda, e  del nuovo tango argentino rappresentato da Astor Piazzolla.
Negli anni ’70, complici il sole delle riviere e l’esplosione dei juke-box, si diffondono sempre più i ritmi d’oltreoceano, che diventano colonne sonore del divertimento e dei balli. Ma c’è anche un altro versante musicale che assume notevole importanza: quello  della canción protesta, formata da creatori uniti dalla stessa passione per la musica e dallo stesso ideale per la libertà, scaturita da una situazione politica repressiva e dalla conseguente lotta per l’edificazione di una società di giustizia. In Italia particolarmente significativa fu la presenza degli Inti Illimani, musicisti cileni costretti ad emigrare per le repressioni e le censure che intorno al ’68 colpirono molti paesi latino-americani. Molti altri furono i musicisti di diversi paesi dell’America Latina costretti all’esilio per poter esprimere la loro arte: in Italia ricordiamo ancora i brasiliani Vinicius de Moraes, Toquinho, Chico Buarque.
Tutti questi modelli daranno luce a varie tendenze di emulazione e imitazione da parte di molti artisti italiani, come Fabrizio De Andrè (da Creuza de ma, devoto alla tecnica raffinata dei chitarristi brasiliani), il già citato Endrigo, e ancora Ivano Fossati (che come vedremo in seguito attinge a piene mani dal serbatoio musicale latino-americano), Paolo Conte, Vinicio Capossela, per non parlare dell’impulso che ha avuto nel tempo la musica reggae.
Il reggae si diffonde nel mondo negli anni ’70 con Jimmi Cliff e soprattutto con Bob Marley: cantanti che si esprimono in creolo giamaicano e rivendicano le radici popolari, denunciano la povertà, l’ingiustizia, la violenza, diffondendo l’ideologia rasta.
Da questo impulso in Italia sono nati moltissimi gruppi reggae, tra cui Africa Unite, Pitura Freska, Rebbae National Ticket, Almamegretta.
Negli anni ’80 queste tendenze latino-americane sono un po’ adombrate dall’imperare della disco-music, ma tornano negli anni ’90, con le musiche leggere e ballabili come lambada, soca, macarena, e i ritmi andini e cileni dei panflutes.
Ma naturalmente non è stata solo la musica italiana ad essere influenzata da ritmi, melodie, stilemi di tutta la musica latino-americana. Come abbiamo visto infatti già dal ’500  troviamo segni di questa “colonizzazione musicale”, fino ad arrivare ai giorni nostri in cui si assiste a un continuo attingere da quelle musiche, soprattutto nella popular music: dalla musica ballabile, alla canzone d’autore, al rock, al jazz, il nostro universo musicale non smette di riverberare la passionalità, la sensualità, l’intensità, la vitalità che l’America Latina da ormai cinquecento anni infonde, trasmette e contagia nella sua inconfondibile musica.


Prato 1999: 121

Tagg 1994: 48

Per lui la popular music è “possibile solo in un’economia monetaria industriale, dove diviene una merce, e nelle società capitaliste dove è soggetta alle leggi della libera impresa”. Tagg 1994, p.49

Agostini 1994: 9-10

Adorno 1974: 10-15, in Middleton 2001: 59

Prato 1999: 121

Pasquali 1984: 692

Lamb-Hamm 1980: 86-120

Middleton 2001: 19-21

Middleton 2001: 24

Prima della diffusione, su larga scala, dei grammofoni e apparecchi radiofonici, la popular music era effettivamente quella musica né colta, né tradizionale, espressione del ceto medio ur­bano e con evidenti finalità di entertaining.

Dalmonte 1983: 672

Dalmonte 1983 e  Pasquali 1984

  Vedi a questo proposito il polemico saggio di Franco Fabbri, (Fabbri 2002) che stigmatizza la falsa amicizia di certo mondo accademico nei confronti degli studi di popular music che se da una parte sembra accogliere con “sufficiente” benevolenza questo indirizzo di studi, d’altra parte è pronto a porre steccati e compilare graduatorie d’importanza e merito tra le discipline musico­logiche che si occupano di fatti alti e quelle invece riguardanti i fenomeni “bassi”.

  Sul valore scientifico degli studi di popular music cfr. l’ampia trattazione che ne fa Middleton nel capitolo “Popular music e musicologia” del suo libro Studiare la popular music (Middleton  2001),  l’inserimento della voce musica leggera nella recente storia della musica (Prato 1999), e soprattutto l’apertura di sempre più numerosi corsi di popular music all’interno dei dipartimenti di musicologia e storia della musica nelle università di tutto il mondo.

Laymarie 1997: 128-137

Sachs 1996: 22

Sachs 1996: 23

Basti pensare alla famosa lambada che, come vedremo in maniera più approfondita in seguito, dietro una musica accesa e brillante e movimenti eroticamente “spinti”, nasconde una storia d’amore triste e dolorosa.

Laymarie 1997

Gian Nicola Spanu: “La Isla de la Chacona”. Riflessioni sulla muscia della Vecchia e Nuova Spagna, intervento al seminario di studi dal titolo Suoni Immagini Sapori, la vita intorno al 1492, organizzato dal dipartimento di Storia dell’Università degli Studi di Cagliari il 18 dicembre 1992.

Tra cui: Luis Briceño (Método...para tañer la guitarra a lo español, pubblicato nel 1626); Lope de Vega  (El amante agradecido, del 1618); Quevedo (Genealogía de los bailes); Miguel de Cervantes (La Ilustre Fregona).

Citiamo a questo proposito uno dei più noti, Actas de la sala de Alcades de Casa y Corte de su Magestad, 3 agosto 1583: “Che nessuno osi cantare né recitare a casa né per la strada né in qual­siasi altro luogo il canto che chiamano Zarabanda, né simili, sotto pena di 200 frustate a ciascuno contravventore, agli uomini sei anni nelle galere, alle donne l’esilio dal regno”.

Le censure non mancarono neanche in tempi più moderni: il Manifesto dell’8 agosto 1990 ri­porta una notizia diffusa socondo la quale le autorità governative del Vietnam, mettendo in atto un progetto di radicale moralizzazione della società, proibivano in tutto il paese il ballo della lambada.

Gian Nicola Spanu: “La Isla de la Chacona”. Riflessioni sulla muscia della Vecchia e Nuova Spagna, intervento al seminario di studi dal titolo Suoni Immagini Sapori, la vita intorno al 1492, organizzato dal dipartimento di Storia dell’Università degli Studi di Cagliari il 18 dicembre 1992.

Sachs 1966: 479

Laymarie 1997

Il Tango: nasce intorno al 1870 dall’habanera (originaria di Cuba), caratterizzato da un melo­dia sincopata del basso, da una tecnica difficile, densità sonora, fraseggio cadenzato, lamento lancinante, passionale. A inizio 900 compaiono i primi trii (clarinetto o flauto, violono,  chitarra o arpa), e i quartetti forniti di bandoneon che, sostituendo il flauto, diventerà lo strumento chiave del tango. Poi l’orchestrà tipica sarà formata da violino, flauto, chitarra o piano, bandoneon, per poi passare al Sexteto: due violini, due bandoneon, piano, contrabbasso. Verso il 1905 si diffonde in tutta l’America Latina e anche in Europa e Stati Uniti. Col tempo assume caratteristiche più complesse, adotta la battuta in 4 tempi, ma mantiene i ritmi del candombe e della milonga.

Da “Il baile che risveglia la passione” di Leonetta Bentivoglio, in Laymarie 1997: 132-135.

Sachs 1966: 480-481

Enrique Santos Discepolo, noto paroliere e musicista argentino della prima metà del 900. In Laymarie 1996: 106.

Laymarie 1997:  16-21

Sachs 1966: 479

Sachs 1966: 481

Da “La musica brasiliana e il jazz” di Paolo Biamonte, in www. terrabrasilis. org/bossaejazz. html.

Laymarie 1997

La bossa nova (“nuova moda”, “nuovo stile”) nasce a Rio de Janeiro prendendo il posto del samba-canção: sobria e discreta, con il tipico canto sussurrato (canto falado, parlato), attinge spunti ar­monici al cool jazz. Nel 1958 João Gilberto usa un nuovo modo di suonare: a ritmo di batida, sfalsato rispetto al canto. Lo stesso ritmo con cui poco tempo dopo Antonio Carlos Jobim com­porrà le celebri Chega de saudade e Desafinado. Jobim compone con un sottile equilibrio tra ritmo, armonia, melodia, parole. Vinícius de Moraes è “o poeta” che “crede alla musica della po­esia”, come Jobim “crede alla poesia della musica”. Di Jobim è Garota de Ipanema hit mon­diale della bossa nova che veniva definita allora come  il “nuovo jazz brasiliano”.

Confronta a tal  proposito Meri Franco-Lao, Basta. Storia rivoluzionaria dell’America Latina attraverso la canzone (Franco-Lao 1970).

Nel reggae l’aspetto tecnico è secondario rispetto a quello spirituale, più importante. L’obiettivo della fi­losofia reggae è infatti “conivolgere le anime dei fratelli emigrati e senza meta nel lungo pelle­grinaggio che porta a Jah (il dio rasta), alla madre Africa, alla terra pro­messa dove tutti potranno tornare senza temere giudizio”. Roberto Mancinelli , in Laymarie 1997: 138-141.

Laymarie 1997: 150-155

 

Fonte: http://www.ivanofossati.net/images/Tesi%20CRIS_word.doc

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Autore del testo: CRISTINA MASTINU

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