Parafrasi Divina Commedia inferno purgatorio e paradiso

Parafrasi Divina Commedia inferno purgatorio e paradiso

 

 

 

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Parafrasi Divina Commedia inferno purgatorio e paradiso

 

La Divina Commedia
di Dante Alighieri

così come interpretata e commentata da Sebastiano Inturri

 

PRIMA CANTICA:

- Inferno -


PRESENTAZIONE, BIBLIOGRAFIA
E AVVERTENZE PER LA CONSULTAZIONE

Sulla Divina Commedia si sono compiuti innumerevoli studi e ricerche, al punto che forse nessun’altra opera di letteratura ha mai suscitato così tanto interesse ed è stata così studiata.
Inoltre di questo poema sono stati scritti moltissimi libri di commento dei versi che lo compongono e sono state redatte tantissime parafrasi.
Pertanto questa mia interpretazione forse non sarà altro che un’inutile ripetizione di quanto è già stato scritto da altri. Tuttavia non volevo che i miei appassionati studi su questo poema, restando limitati nell’ambito della mia sola conoscenza, si potessero disperdere come foglie al vento. Perciò ho deciso di renderli pubblici, fiducioso che possano incontrare almeno un certo interesse nei lettori che si accingeranno a leggere le pagine in cui li ho messi per iscritto e che la lettura di queste possa rappresentare per loro un sia pur piccolo contributo nella comprensione dei versi danteschi.
Per cercare di centrare il bersaglio appena detto, ho cercato di schematizzare il poema dantesco e di rendere piacevole la lettura attraverso un linguaggio il più possibile chiaro, scorrevole e sintetico.
I versi che giudico più belli o significativi li ho scritti con un carattere di maggiori dimensioni e li ho commentati più analiticamente; tutti gli altri versi invece li ho commentati in maniera sintetica. Ho commentato analiticamente per intero solo il primo canto dell’Inferno e l’ultimo del Paradiso, rispettivamente il primo e l’ultimo della Divina Commedia.
Avverto i lettori che non sono né un dottore in lettere né uno studioso professionista. Mi considero invece, semplicemente, un estimatore e uno studioso dilettante di questo grande poema. Mi scuso quindi per eventuali omissioni od inesattezze.
Per realizzare questa composizione, oltre naturalmente alla Divina Commedia, ho letto le opere principali di Dante (la Vita Nuova, Il Convivio, il De Vulgari Eloquentia, il De Monarchia), quelle che, secondo quanto scritto da lui stesso nelle sue opere, Dante lesse con passione (soprattutto la Bibbia, l’Eneide di Virgilio, l’Etica Nicomachea di Aristotele, le Metamorfosi di Ovidio, la Consolazione della Filosofia di Boezio) e ho consultato soprattutto le seguenti opere:
• la Divina Commedia, volume unico, commentata da Giovanni Fallani e
Silvio Zennaro, della Newton & Compton Editori – Roma, aprile 2005;
• la Divina Commedia, in tre volumi, della Fabbri Editori, appartenente alla collana “I grandi classici della letteratura italiana”, commentati da

Claudio Scarpati (Inferno), Antonio Prete e Rosa Ottaviano (Purgatorio), Maria Amalia Camozzi (Paradiso) – Bergamo, 1997;
• Dante, Viaggio nella Divina Commedia, antologia di canti, di Maria Adele
Garavaglia – editrice Mursia – Milano, 1994;
• Vita di Dante, di Giorgio Petrocchi – editori Laterza – Roma-Bari, 1983
• la Parafrasi della Divina Commedia, di Luigi De Bellis, tratta dal sito www.xoomer.alice.it.
Il testo che ho adottato è La Commedia secondo l’antica vulgata, di Giorgio
Petrocchi, così come tratto dal sito www.liberliber.it. Non mi rimane che augurare una buona lettura!

Roma, 17 Novembre 2010

S. I.

 

“Chi vive nel sogno è un essere superiore, chi vive nella realtà, uno schiavo infelice.
Dante fu certamente il maggiore poeta del sogno della vita…”

[Alberto Martini – 1940]


BIOGRAFIA DI DANTE
E INTRODUZIONE ALLA DIVINA COMMEDIA

Dante Alighieri, il “sommo poeta” della letteratura italiana, nacque a Firenze verso la fine di maggio del 1265 (sotto il segno dei Gemelli, che al suo tempo si pensava predisponesse allo studio e alla poesia) da una famiglia appartenente alla piccola nobiltà.
Suo padre, Alighiero, ebbe quattro figli da due matrimoni: dalla prima moglie, di nome Bella, ebbe Durante detto Dante e una figlia di cui non si conosce il nome. Bella morì in giovane età (quando Dante aveva non più di dieci anni di età), e Alighiero si risposò quasi subito, con una donna di nome Lapa, la quale gli diede altri due figli, Francesco e Tana. Dante tace sia del padre sia della madre Bella sia della matrigna Lapa, probabilmente per rispettare una tradizione retorica, secondo cui il poeta deve tacere sui propri prossimi parenti. Si ricorda che la retorica è l’arte del ben parlare.
Alighiero morì verso il 1282, quando il suo primogenito era ancora adolescente. Dante perciò si ritrovò ben presto ad dover assumere i panni di capofamiglia, un ruolo che non gli si addiceva molto, visto il suo scarso senso degli affari. Viceversa il fratellastro Francesco mostrò di aver ereditato il senso pratico del padre, e spesso aiutò finanziariamente Dante nei suoi momenti di difficoltà.
Nella Vita Nuova, opera scritta tra il 1283 e il 1295, Dante dice che lui aveva quasi nove anni quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice. Lei, invece, allora aveva otto anni e
quattro mesi. Questo incontro fu per lui travolgente, tant’è che alla vista di lei il suo cuore cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente (cioè: cominciò a tremare con una tale intensità che anche dove il sangue giunge con minore pressione, ossia nei polsi, il suo forte pulsare era evidentissimo).
Dopo quella volta, il poeta rivide la sua gentilissima (così la chiama nella Vita Nuova) a distanza di ben nove anni.
Dante, nella Vita Nuova, attribuisce un significato mistico alla correlazione tra Beatrice e il numero nove.
Oltre a quanto già detto (e cioè che il suo primo incontro con lei avvenne all’età di nove anni e il secondo nove anni dopo), egli rimarca (nel cap. XXIX di tale opera) che: contando il tempo alla maniera degli Arabi, ella morì il nono giorno del mese; secondo il calendario siriaco, morì nel nono mese dell’anno; secondo il nostro modo di contare il tempo, infine, morì in quell’anno (il 1290) le cui ultime due cifre formano un numero (il 90) che è il

prodotto del numero nove per il numero dieci. Quest’ultimo numero (il dieci) il poeta lo considerava perfetto, perché tale era ritenuto nel Medioevo.
Sempre nel suddetto capitolo della Vita Nuova il poeta evidenzia che secondo la dottrina tolemaica ci sono nove cieli che ruotano, e che il numero nove è collegato a Beatrice per fare intendere che al momento della sua generazione tutti e nove i cieli erano perfettamente accordati tra loro. Inoltre il numero nove è uguale a tre moltiplicato per sé stesso; e siccome il numero tre è il simbolo della Santissima Trinità, quella donna fu associata al numero nove per far capire che ella era un “miracolo” (così lui la definisce), la cui radice non è altro che la mirabile Trinità (infatti la radice quadrata di nove è tre). Occorre aggiungere che nel Medioevo, oltre che il dieci, anche il tre era considerato un numero perfetto.
Gli studiosi identificano Beatrice con Bice, figlia di Folco Portinari e moglie di Simone de’ Bardi, morta di parto nel giugno del 1290 all’età di soli ventiquattro anni.
Dante, invece, si sposò, presumibilmente nel 1285, con Gemma Donati. Da tale matrimonio nacquero, con certezza, tre figli; nell’ordine: Pietro, Jacopo e Antonia (che si fece monaca col nome di Beatrice); oltre a questi, ebbe, forse, come primogenito, un altro figlio, di nome Giovanni; ma probabilmente si tratta del figlio di un omonimo del poeta.
Tra il 1295 e il 1300 Dante ricoprì a Firenze ruoli politici di prestigio. Nel bimestre compreso tra il 15 giugno e il 15 agosto 1300 ricoprì la carica di Priore; i Priori erano in numero di sei, e riuniti in collegio costituivano il massimo organo di governo del comune di Firenze. A tale elezione Dante fece
risalire tutte le proprie sventure d’esule; in un’epistola egli scrisse: «Tutti li mali e l’inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato ebbono cagione e principio». Alla divisione dei Guelfi fiorentini nelle due fazioni dei Bianchi e
dei Neri, lui si schierò dalla parte dei più moderati, ossia i Bianchi, capeggiati dal banchiere Vieri dei Cerchi. Questi ultimi, temporaneamente, ebbero il sopravvento e Corso Donati, capoparte dei Neri, dovette lasciare Firenze. Ma papa Bonifacio VIII, interessato ad espandere i domini della Chiesa anche in Toscana, nel mese di novembre del 1301 inviò a Firenze un proprio legato, Carlo di Valois, il quale favorì il ritorno dei Neri esuli e la loro presa del potere. Nei processi sommari che ne seguirono ai danni dei Bianchi, Dante, che si trovava fuori Firenze, fu giudicato colpevole di baratteria e appropriazione indebita di fondi pubblici, e venne condannato, tra l’altro, a due anni di confino. Egli non si presentò, e una seconda sentenza lo condannò alla pena di morte. Così il poeta fu costretto a vivere in esilio fuori da Firenze per il resto della sua vita.
Nell’ultimo capitolo della Vita Nuova Dante scrive che ebbe una visione soprannaturale, nella quale vide cose che lo indussero a non dire più di questa

benedetta (Beatrice) infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei..... Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono (Dio), che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia (Dio), che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus. Dante, quindi, termina la
composizione della Vita Nuova con l’intenzione di scrivere, sempreché Dio gli conceda ancora un numero di anni di vita sufficiente, un’altra opera nella quale esaltare degnamente la sua amata Beatrice. Inoltre egli esprime il desiderio di raggiungerla in Paradiso (dove lei si trova già e contempla Dio). Per dare corso a questi propositi, intorno al 1304 Dante comincia a scrivere la sua maggiore opera: la Divina Commedia, nella quale descrive un viaggio che prodigiosamente, grazie all’intercessione di Beatrice, egli compie da vivo nei tre regni dell’oltremondo: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Bisogna comunque dire che, anche se il poeta non lo dice esplicitamente, il suo viaggio nell’aldilà non fu reale, ma il frutto di una visione, tant’è che nel corso del poema egli spesso esordisce con le parole Io vidi…, vestendo in tal modo i panni dei
profeti biblici, tra cui, soprattutto, l’autore dell’Apocalisse (l’ultimo libro della
Bibbia), che secondo molti è san Giovanni evangelista. Il viaggio di Dante, come vedremo nella lettura del poema, copre un arco di sette giorni, con palese riferimento ai biblici sette giorni della creazione del mondo (cfr. il Genesi della Bibbia).
Lo scopo per il quale la donna lo chiama a questo viaggio nell’aldilà è quello di fargli vedere la condizione delle anime dei morti, affinché lui ne tragga una lezione morale per sé stesso e per tutti coloro che ascolteranno o leggeranno ciò che lui riferirà quando sarà tornato sulla terra. Nel Paradiso
terrestre lei dirà infatti al poeta: […] in pro del mondo che mal vive, / […] quel che vedi, / ritornato di là, fa che tu scrive (cioè: “Allo scopo di migliorare l’umanità,
che è corrotta, quando sarai tornato sulla terra scrivi le cose che stai vedendo”
- Purgatorio, XXXII, 103-105); Tu nota; e sì come da me son porte, / così queste parole segna a’ vivi (cioè: “Tu osserva; e poi, quando sarai tornato sulla terra, riporta le mie parole ai viventi” - Purgatorio, XXXIII, 52-53). Inoltre compiendo questo viaggio nell’aldilà il poeta potrà coronare il suo sogno di
incontrare la sua amata in Paradiso.
Più o meno contemporaneamente alla Divina Commedia, Dante inizia a scrivere un’altra opera, il Convivio, nella quale (II, 12) egli dice che la morte di Beatrice lo fece precipitare in uno stato di profonda afflizione, dalla quale provò a venire fuori attraverso la lettura dei libri di filosofia. E sì come essere suole che l’uomo va cercando argento e fuori de la ’ntenzione truova oro, egli, che aveva iniziato ad avvicinarsi alla filosofia solo per consolarsi, vi provò tanto gusto sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua

dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero. Tra le opere di filosofia preferite da Dante vi furono l’Etica Nicomachea, la Fisica, la Metafisica e la Retorica di Aristotele (che lui nel Convivio chiama lo maestro de la nostra vita, lo maestro de’ filosofi, e lo Filosofo per antonomasia ), il Timeo di Platone, il De Amicitia e il De officiis di Cicerone, il De Consolatione Philisophiae di Severino Boezio (filosofo che Dante ammirò molto e che nel Convivio chiama, tra l’altro, lo Savio). Oltre alle opere filosofiche Dante studiò i testi sacri, tra cui la Bibbia, Le Confessioni di s. Agostino e la Summa Theologiae di s. Tommaso d’Aquino, e le opere di letteratura classica (greca e latina), tra cui l’Eneide di Virgilio (che nel Convivio lui definisce lo nostro maggiore poeta), le Metamorphoses di Ovidio, la Pharsalia di Lucano. Come si vede, quindi, Dante acquisì, da autodidatta, una vastissima cultura; e per cercare di comprendere
e interpretare adeguatamente i versi della Divina Commedia è necessario prima leggere tutte le opere suddette e altre qui non citate che costituiscono anch’esse le fonti del capolavoro dantesco.
Nelle intenzioni di Dante il Convivio avrebbe dovuto essere composto da quindici trattati; ma dopo aver completato il quarto lo interruppe per dedicarsi completamente alla Divina Commedia.
Quest’ultima è un poema la cui composizione lo impegnò per il resto della sua vita, ossia fino al 1321. Dante chiamò la sua opera Commedia; l’aggettivo “Divina” fu aggiunto da Giovanni Boccaccio (nel suo Trattatello in laude di Dante), e da allora venne considerato parte del titolo in modo definitivo.
In una lettera che inviò a Cangrande della Scala, signore di Verona che lo ospitò tra il 1314 e il 1318, Dante informa della ragione per cui l’ha chiamato “Commedia”: perché appartiene ad un genere letterario (la commedia, appunto) “più leggero e meno elevato” della tragedia, anche perché scritto in lingua volgare (lingua popolare) e non in latino (lingua aulica); e perché, come le commedie, che hanno tutte un lieto fine, è un’opera che inizia
tragicamente ma finisce felicemente (infatti si parte dal dramma dei dannati per giungere alla beatitudine celeste).
Della Divina Commedia esistono circa ottocento codici manoscritti; ma purtroppo non è mai stato trovato l’originale, quello cioè scritto dalla mano di Dante. Ciò nel corso del tempo ha comportato inevitabili fenomeni di corruzione e inquinamento testuali, tanto più accentuati quanto più furono i passaggi di copiatura manuale (all’epoca non esisteva ancora la stampa) da un copista all’altro. Solo di recente Giorgio Petrocchi (Tivoli, 13 agosto 1921 – Roma, 7 febbraio 1989) ha stilato un testo cui è giunto attraverso un meticoloso confronto tra i soli codici più antichi. Pertanto il testo attualmente più largamente accettato è quello intitolato La Commedia secondo l’antica
vulgata, curato appunto da Giorgio Petrocchi, ed è quello adottato anche nella
presente parafrasi.

Si tratta di un’opera realmente grandiosa: oltre 14.000 versi, tutti di undici sillabe (chiamati endecasillabi), scritti rispettando le regole della metrica. Nel De Vulgari Eloquentia, opera scritta in latino tra il 1304 e il 1306 circa, e anch’essa, come il Convivio, lasciata incompiuta, Dante sostiene che L’endecasillabo appare il più splendido dei versi. Nell’ambito di ciascun verso gli accenti cadono in determinate sillabe, generalmente nella 6ª e nella 10ª, nella 4ª, 8ª e 10ª, o nella 4ª, 7ª e 10ª; ma vi sono anche versi “tronchi”, cioè che hanno l’accento anche sull’ultima sillaba (l’11ª). I versi sono riuniti in strofe di tre ciascuna (la c.d. “terzina dantesca”), e la rima è quella detta “incatenata”,
in cui il primo verso rima col terzo, il secondo col quarto e col sesto, il quinto con settimo e il nono e così via.
La lingua usata, come detto, è il volgare, cioè quella parlata dal popolo del suo tempo. Dante dichiarò sempre di amare il volgare, soprattutto perché esso può essere compreso da tutti, a differenza del latino, che solo i dotti sono in grado di capire (perché si apprende solo attraverso un lungo e assiduo studio). Tuttavia nel De Vulgari Eloquentia egli riconosce al latino e alle altre lingue (tra cui il greco) che lui chiama gramatiche, le quali sono basate su regole tassative e universalmente valide, il merito di essere inalterabili nel tempo e nello spazio, a differenza delle lingue volgari che, in quanto soggette alla instabilità e mutevolezza proprie del comune modo di esprimersi umano, cambiano col passare del tempo e con lo spostarsi da un luogo all’altro.
La Divina Commedia è suddivisa in tre cantiche: Inferno, Purgatorio, Paradiso; le ultime due contengono ciascuna 33 canti (la cifra “3” ripetuta due volte); l’Inferno invece ne contiene 34. In totale quindi l’opera è composta di 100 canti (10 moltiplicato per sé stesso). Un canto, il primo dell’Inferno, funge da prologo all’intero poema; escludendo tale canto introduttivo, l’opera è formata da 99 canti (la cifra “9” ripetuta due volte).
Una particolarità che Dante ha voluto conferire alla sua opera è che tutte e tre le cantiche terminino con la parola “stelle”.
La Bibbia attesta esplicitamente l’esistenza di Inferno e Paradiso, mentre quella del Purgatorio è solo sottintesa (lo vedremo nell’introduzione a tale cantica). Nel Vangelo secondo Matteo, al capitolo XXV, versetti 31-46, sta
scritto: “Quando il Figlio dell'uomo [cioè Gesù] verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo

visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?» E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me». Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli [si riferisce agli angeli ribelli a Dio], perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato». Anch'essi allora risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?» Allora egli risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l'avete fatto a me». E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna.”
Tra il 1308 e il 1318 circa (si assume un intervallo di tempo così ampio perché non si conosce l’anno esatto) Dante compose il De Monarchia, un trattato filosofico in latino, nel quale il poeta sostiene che, per il bene di tutti, il mondo debba essere governato da un solo Monarca, e che l’autorità di quest’ultimo debba dipendere direttamente da Dio, e non debba quindi essere concessa dal Pontefice, il quale deve solo esercitare una guida spirituale dell’umanità senza ingerenze nel potere politico.
Gli ultimi tre anni della propria vita Dante li passò a Ravenna, ospite di Guido Novello da Polenta, signore della città; qui, colpito da malaria, il Sommo Poeta morì il 14 settembre 1321.

INTRODUZIONE ALL’INFERNO

Secondo la maggioranza dei critici sembra non esservi alcun dubbio che la fonte principale dell’Inferno dantesco sia costituita dal VI canto dell’Eneide, poema epico scritto dal poeta latino Publio Virgilio Marone. Anzi personalmente ritengo che tale canto abbia offerto a Dante Alighieri lo spunto per la stesura non solamente dell’Inferno, ma gli abbia ispirato l’idea del filo conduttore che sta alla base dell’intera Divina Commedia, che è costituito dal viaggio di un essere umano vivo nel regno dei morti (nel VI canto dell’Eneide il viandante è Enea, nella Divina Commedia è Dante).
Nel VI canto dell’Eneide Enea chiede alla Sibilla cumana di potere scendere con lei agli Inferi (l’Inferno dei pagani) e di essere condotto fino ai Campi Elisi (la parte degli Inferi in cui si trovavano le ombre dei buoni) per cercare l’ombra di suo padre Anchise. Tale richiesta gli è stata suggerita da quest’ultimo, che gli vuole rivelare il futuro della sua stirpe e quello della gloriosa civiltà che da essa derivò, quella romana. La Sibilla acconsente e accompagna Enea attraverso le oscurità del Regno dei morti, la cui entrata si trovava nel buio dei boschi a ridosso del lago d’Averno, presso Cuma (in Campania). Gli antichi credevano che proprio questo lago fosse l’ingresso degli Inferi per via delle sue esalazioni sulfuree e del colore scuro delle sue acque; anzi chiamarono gli stessi Inferi anche con il termine Averno.
Gli Inferi erano preceduti dal “Vestibolo”, che era una zona nella quale si trovavano riunite le rappresentazioni orribili dei mali che affliggono l’umanità: il Lutto, i Rimorsi, le Malattie, la Vecchiaia, la Paura, la Fame, la Povertà, la Morte, la Sofferenza, la Guerra, la Discordia, ecc. Nel Vestibolo si trovavano anche le ombre di tanti mostri: i Centauri, Chimera, l’Idra di Lerna, le Gorgoni, le Arpie, Gerione, ecc.
A fianco del Vestibolo (e sempre all’esterno degli Inferi) si trovavano le ombre degli insepolti (gente che morì senza avere una sepoltura). Agli insepolti non era concesso accedere negli Inferi prima che le loro ossa riposassero in una tomba. Se i loro corpi rimanevano senza sepoltura, le ombre degli insepolti erravano per cento anni nei pressi degli Inferi, dopo di che (seppure prive di sepoltura) finalmente venivano accolte sulla barca di Caronte (del quale parleremo tra poco).
Un terribile fiume fangoso, l’Acheronte, separava gli Inferi dal mondo dei vivi. Per accedere agli Inferi le ombre dei morti dovevano attraversare tale fiume a bordo della barca condotta da un vecchio demonio di nome Caronte. L’Acheronte si gettava in un altro fiume, il Cocito.
Attorno agli Inferi, compiendo nove cerchi a spirale, scorreva lo Stige (o palude Stigia) una palude di acqua torbida.
Guardiano degli Inferi era Cerbero, il terribile cane a tre teste.

Gli Inferi erano divisi in più parti:
• l’Antinferno, dove si trovavano le ombre di coloro che erano morti da bambini, quelle dei condannati ingiustamente e quelle dei suicidi; inoltre nell’Antinferno c’era il Campo degli eroi, ove vivevano le ombre di illustri guerrieri. Nell’Antinferno si trovava pure il giudice degli Inferi, Minosse (re dell’isola di Creta famoso per il suo grande senso della giustizia), il quale interrogava le ombre giunte agli Inferi, ne apprendeva le colpe e la vita, e sulla base di queste assegnava loro la dimora;
• la Reggia nella quale dimorava Dite (altro nome di Plutone), il Re degli Inferi;
• il Tartaro (o Regno dei cattivi), luogo di eterna pena, costituito da un’immensa città circondata da tre cerchi di mura, attorno alle quali scorreva vorticosamente un fiume di fuoco, il Flegetonte, e di cui era giudice Radamanto (fratello di Minosse, e anche lui noto sulla terra per la sua giustizia). Nel Tartaro, ad esempio, stavano le ombre dei fratelli che si odiarono, quelle di coloro che picchiarono i loro padri, i fraudolenti, gli uccisi per adulterio, ecc. Custode del Tartaro era una delle Furie (nome romano delle Erinni), Tisifone, la quale insieme con le due sue sorelle frustava e insultava le ombre là relegate. Nel Tartaro si trovavano pure i Titani e i Giganti, che vi erano stati scaraventati da Zeus;
• i Campi Elisi (o Regno dei buoni), l’ameno luogo dal clima dolce in cui dimoravano felicemente, senza essere oppresse (diversamente da quanto avviene durante la vita) dai desideri e dalle paure, le ombre di coloro che in vita erano stati amati dagli dèi (gli eroi magnanimi, i sacerdoti, i poeti, gli artisti, gli inventori, ecc.), e dove scorreva il fiume Lete. A proposito di questo fiume, Anchise, oltre alle profezie già accennate, spiega ad Enea che le anime, finché sono unite al corpo, si contaminano dei vizi terreni. Per questo, prima di reincarnarsi, devono purificarsi per mille anni nel vento o nel fuoco o nell’acqua; dopo di che, tornate pure, devono bere l’acqua del fiume Lete, che ha il potere di far dimenticare tutte le colpe commesse. Questa concezione si rifà alla teoria della metempsicosi, elaborata da Pitagora, filosofo nato intorno al 570 a.C. nell’isola di Samo (in Grecia), e trasferitosi poi in Italia, prima a Crotone e poi a Metaponto, dove morì.
Come si può notare, quindi, secondo la concezione pagana il Paradiso non era diviso dall’Inferno, ma ne costituiva una parte, i Campi Elisi. Lungo il suo viaggio negli Inferi Enea, prima di incontrare suo padre nei Campi Elisi,

incontra l’anima di qualche suo conoscente, tra cui, nell’Antinferno, quella di Didone, la regina di Cartagine che si era suicidata perché da lui abbandonata.

 

Gli Inferi virgiliani

Molti dei nomi usati nell’Eneide da Virgilio per descrivere gli Inferi sono stati usati da Dante per descrivere l’Inferno della Divina Commedia; tuttavia gli schemi rappresentati da ciascuno dei due poeti differiscono in modo considerevole l’uno dall’altro, soprattutto perché, come già accennato, gli Inferi virgiliani, a differenza dell’Inferno dantesco, includono il Regno dei buoni.
Non possediamo indicazioni sicure né dati certi sulla data di composizione dell’Inferno dantesco. Oggi si accetta comunemente il periodo compreso tra il 1304 e il 1308.
L’Inferno è concepito come luogo di eterna sofferenza, voluto da Dio per realizzare la sua giustizia. Vi sono punite le anime che si ostinarono a peccare, senza mai pentirsi, nemmeno in punto di morte.
Secondo la concezione dantesca, l’Inferno aveva avuto origine nel momento in cui Dio aveva scagliato giù dai cieli Lucifero, il più bello degli angeli, che gli si era ribellato. Le terre si erano ritratte per paura di venire in contatto con il corpo di Lucifero, e in tal modo si era formata una profonda voragine a forma di imbuto, l’Inferno appunto, avente il vertice al centro della Terra. Le terre ritratte erano “sgusciate” fuori dall’altra parte del globo, formando la montagna del Purgatorio. Nel libro della Bibbia intitolato “Apocalisse di
Giovanni”, al cap. XII, vv. 7-9, è scritto: “Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele [che è il capo degli angeli e dell’esercito di Dio] e i suoi angeli combattevano contro il drago [Lucifero]. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli.”
La concezione dell’Inferno dantesco si innesta sulla teoria tolemaica o geocentrica, secondo la quale la terra si trovava, immobile, al centro dell’Universo, mentre intorno ad essa ruotavano il sole e gli altri corpi celesti. Dante riteneva che fosse abitato solo l’emisfero settentrionale, le cui terre avevano come confine il fiume Gange verso Oriente e le colonne d’Ercole verso Occidente. Al centro si trovava Gerusalemme, che aveva assistito al sacrificio sulla croce di Cristo.
Ai lati dell’imbuto sono i “cerchi”, enormi ripiani in cui sono condannate le anime dei dannati a seconda della loro colpa. Quanto più questa è grave tanto più il peccatore è condannato ai cerchi collocati più in basso. Nel punto più basso, al vertice dell’imbuto, si trova, conficcato a testa in giù, il massimo colpevole, colui che ha tradito Dio stesso, cioè Lucifero.
I cerchi sono in numero di nove, cui si aggiunge l’Antinferno, diviso nella “selva oscura” e nel “vestibolo”, di cui parleremo più avanti.

Per la suddivisione delle pene Dante si rifece al settimo dei dieci libri che compongono l’Etica Nicomachea, nel quale Aristotele sostiene che tre sono le specie di comportamento da evitare: incontinenza, bestialità, malizia:
• l’incontinenza è la mollezza con cui si eccede facilmente nel
soddisfacimento dei piaceri della carne o della gola o si cede facilmente agli altri vizi o all’ira;
• la bestialità è caratterizzata dall’indole animalesca con cui si tende alla
violenza;
• la malizia si sostanzia nella volontà pienamente consapevole di compiere il male, e perciò rappresenta il grado maggiore di colpevolezza.
I cerchi dal primo al quinto sono compresi nell’ ”Alto Inferno”.
Il primo cerchio si chiama “Limbo”; qui si trovano i giusti che non ebbero modo di conoscere la rivelazione e i bambini che non ebbero battesimo.
Dal secondo al quinto cerchio vengono puniti coloro che peccarono per incontinenza (lussuriosi, golosi, avari e prodighi, iracondi).
I cerchi dal sesto al nono fanno parte del “Basso Inferno” e sono racchiusi entro le mura della “città di Dite”:
nel sesto e settimo cerchio sono puniti coloro che peccarono per bestialità (eretici e violenti);
nell’ottavo e nono cerchio sono puniti coloro che peccarono per malizia (fraudolenti e traditori).
Un fiume attraversa longitudinalmente l’Inferno: all’inizio si chiama Acheronte, poi si trasforma nella palude Stigia, nel Flegetonte e infine nel ghiacciaio del lago Cocito; parleremo di questi in seguito.
Dante immagina le pene secondo una mentalità cristiana che si avvale della regola del “contrappasso”: […] con quelle stesse cose per cui uno pecca, con esse è poi castigato (A.T., Sapienza, 11, 16). Due sono i tipi di contrappasso riscontrabili:
• il contrappasso per analogia, che implica una pena che esaspera i tormenti della colpa (esempio, i lussuriosi, che vissero nella tempesta della passione, sono tormentati da una “bufera infernale”);
• il contrappasso per contrasto, che implica una pena che ripropone esattamente il contrario della colpa (esempio, gli ignavi, che vissero senza alcun ideale, sono costretti a rincorrere freneticamente una bandiera).

 

Inferno


CANTO I

1-3
Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Rivolgendosi al lettore, Dante inizia il racconto della Divina Commedia:
A metà della vita media di un uomo, mi ritrovai in una selva oscura (è il simbolo dello stato di ignoranza e di corruzione dell’umanità), poiché avevo perso la corretta conduzione morale della mia esistenza.
Nella Bibbia (Salmi, LXXXIX,10) c’è scritto che gli anni della vita di un uomo sono settanta; è da supporre quindi che per “mezzo del cammin di nostra vita” il poeta intenda un’età di 35 anni circa. Peraltro nel Convivio (IV, 23) Dante scrive che la parte centrale dell’ “arco” della vita cade intorno al 35° anno di età: la prima metà dell’arco, cioè quella ascendente, in cui il soggetto gradualmente si forma, va da 0 a 35 anni circa, dopo di che la vita perde sempre più vigore percorrendo la metà dell’arco in discesa, dai 35 ai 70 circa. Pertanto l’età centrale della vita media di un uomo, che cade intorno al 35° anno di età, nel punto superiore dell’arco, è quella in cui l’uomo si trova al massimo delle sue potenzialità psico-fisiche. Convinto di questa tesi, Dante nel Convivio afferma che Gesù scelse per questo di morire intorno al 34° anno di vita; per analogia, il poeta lascia intendere che lui sta per compiere la sua missione umanitaria nell’oltremondo nel suo momento di maggiore potenzialità e all’età che aveva Cristo quando morì; questo concetto sarà spiegato con più precisione da Dante stesso nel canto XV (v. commento ai vv. 22-64 di tale canto).

4-6
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura!
È arduo descrivere questa selva intricata, raccapricciante e difficile da attraversare, che al solo pensarci risveglia il terrore provato!

7-9
Tant’è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

È così orribile questa selva che la morte la supera di poco; tuttavia voglio descriverla, in quanto in essa trovai anche cose positive.

10-12
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, tant’era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai.

Non riesco a dire il modo in cui capitai in questa selva oscura, a causa dello stato di torpore spirituale (causato dal peccato) nel quale mi trovavo dopo che la morte di Beatrice mi aveva privato della guida necessaria a percorrere la via della virtù.

13-18
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto, guardai in alto, e vidi le sue spalle vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Ma allorché giunsi ai piedi di un colle, dove terminava la valle con la selva oscura che mi aveva amareggiato l’animo, rivolsi lo sguardo verso la cima del colle, e vidi che alle sue spalle cominciavano a intravedersi i raggi del sole (raffigurazione simbolica di Dio) che guida tutti per la giusta via.

19-21
Allor fu la paura un poco queta, che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
A questo punto si mitigò la paura, che mi aveva attanagliato la cavità del cuore durante la notte che trascorsi con tanta sofferenza.
All’epoca di Dante si credeva che all’interno del cuore vi sia una cavità piena di sangue, la quale era considerata la parte del corpo in cui hanno origine tutte le sensazioni. Per la paura il sangue rifugge nel profondo del cuore.

22-27
E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata, così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva.

E come colui che con respiro affannoso, riuscito a salvarsi dall’annegamento, uscendo dal mare e arrivando alla riva, volge lo sguardo verso l’acqua minacciosa, così il mio animo, che ancora rifuggiva dal pensiero del pericolo passato, si girò a guardare indietro il passaggio tremendo (la selva, simbolo dell’abisso morale in cui era caduto e da cui disperava ormai di uscire) da cui mai nessuna persona si è salvata.

28-30
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso, ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.
Dopo che ebbi riposato un po’ le mie membra stanche, ripresi il cammino per la valle deserta, in modo tale che il piede fermo era sempre quello più basso.
Se il piede fermo è quello più basso, vuol dire che Dante sta effettuando una salita; infatti, quando si cammina in salita, ad ogni passo che si effettua ci si appoggia sul piede che sta più in basso, mentre l’altro piede si porta avanti verso l’alto.

31-33
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta, una lonza leggiera e presta molto, che di pel macolato era coverta;

Ed ecco, quasi all’inizio della salita, una lonza agile e veloce, che aveva una pelle a macchie. “Lonza” è il nome che gli antichi diedero a un animale non ben determinato, probabilmente alla lince o al leopardo; essa simboleggia la lussuria.

34-36
e non mi si partia dinanzi al volto, anzi ’mpediva tanto il mio cammino,

ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
E questa fiera non mi si toglieva dinanzi, anzi ostacolava tanto il mio cammino che fui tentato a più riprese di tornare indietro.
La lonza che impedisce a Dante di salire sul colle rappresenta allegoricamente la lussuria che ostacola la via verso il pentimento e la conversione.

37-43
Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle ch’eran con lui quando l’amor divino mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione di quella fiera a la gaetta pelle l’ora del tempo e la dolce stagione;
Era l’inizio del mattino (le 6 circa), e il sole sorgeva assieme agli astri con i quali fu creato da Dio. All’epoca di Dante si pensava che quando Dio creò il mondo il sole si trovasse nella costellazione dell’Ariete; quindi è primavera.
L’ora mattutina e la stagione primaverile mi infondevano speranza di superare l’ostacolo rappresentato da quella fiera dal manto screziato.

44-45
ma non sì che paura non mi desse la vista che m’apparve d’un leone.
Ma la mia speranza si tramutò in paura di fronte alla vista di un leone.
Nella letteratura religiosa e morale del Medioevo il leone era simbolo della superbia.

46-48
Questi parea che contra me venesse con la test’alta e con rabbiosa fame, sì che parea che l’aere ne tremesse.

Questo leone sembrava che si avvicinasse minacciosamente a me con la testa alta (segno di superbia) e con rabbiosa fame, tale che persino l’aria sembrava tremasse per la paura.

49-51
Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza, e molte genti fé già viver grame,

Quindi mi apparve una lupa, che per quanto era magra sembrava desiderosa di tutti i piaceri mondani, e che già rese infelice molta gente.
Il significato simbolico della lupa è la “cupidigia” o l’”avarizia”, in cui va inteso non solo il desiderio di denaro, ma anche quello degli onori e degli altri beni terreni.

52-54
questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch’uscia di sua vista, ch’io perdei la speranza de l’altezza.

Questa belva (la lupa) mi arrecò così tanto turbamento per il terrore che sprigionava alla sua vista che io mi sentii perdere la speranza di raggiungere la sommità del colle.
L’ostinazione delle tre fiere e, in particolare, della lupa, che è la più difficile da vincere, rappresentano la tenacia della suggestione del peccato, alla quale non si può opporre l’uomo privo di aiuto e di guida.

55-60
E qual è quei che volentieri acquista, e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutt’i suoi pensier piange e s’attrista; tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco mi ripigneva là dove ’l sol tace.

Come l’avaro si addolora profondamente quando giunge il momento che gli fa perdere tutto ciò che egli con tanta fatica ha accumulato, così quella bestia feroce, avanzando contro di me, mi tormentava, perché un po’ per volta mi costringeva a tornare verso la selva oscura, facendomi perdere il terreno guadagnato.

61-63

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco, dinanzi a li occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parea fioco.

Mentre ero costretto a retrocedere verso la valle, mi apparve una figura umana che mi dava l’impressione di essere diventata evanescente per essere stata molto tempo in silenzio.
Si tratta del poeta Publio Virgilio Marone, che qui personifica la ragione umana. Apparendo sotto questo aspetto, Virgilio simboleggia il fatto che per Dante la voce della ragione, in seguito al suo traviamento, si è indebolita.

64-66
Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!»
Appena vidi costui nella valle deserta, gli gridai: «Abbi pietà di me, chiunque tu sia, spirito o uomo in carne e ossa!»
Contro i tre peccati che ostacolano il pentimento e la conversione, raffigurati allegoricamente nelle tre fiere, Dio manda al peccatore ormai desideroso di redenzione, ma incapace di conseguirla con le sue sole forze, un aiuto.

67-69
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui, e li parenti miei furon lombardi, mantoani per patrïa ambedui.
Lui mi rispose: «Non sono un uomo in carne e ossa, ma un’anima, perché il mio corpo è morto. I miei genitori erano entrambi mantovani.
In effetti Virgilio nacque ad Andes (l’odierna Pietole), vicino Mantova.

70-72
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Nacqui al tempo di Giulio Cesare, ma era ormai tardi per conoscerlo (nel 70 a.C., quando nacque Virgilio, Cesare aveva ormai 30 anni); quindi vissi a Roma al tempo

di Augusto, quando ancora non era arrivato Cristo e la gente credeva nell’esistenza di tanti dèi.
Al tempo di Dante si credeva in un unico Dio, e quindi il poeta definisce gli dèi del paganesimo “falsi e bugiardi”.

73-75
Poeta fui, e cantai di quel giusto figliuol d’Anchise che venne di Troia, poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.
In vita fui poeta, e posi in versi (nell’Eneide) le gesta di quel probo figlio di Anchise
(Enea) che venne da Troia, dopo che la stessa città fu incendiata.

76-78
Ma tu perché ritorni a tanta noia? perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?»
Ma tu perché retrocedi verso questa selva oscura, che è tanto angosciosa? Perché non sali l’allettante colle, che è origine e motivo dell’unica verace gioia, cioè della beatitudine?»

79-81
«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo fiume?» rispuos’io lui con vergognosa fronte.
«Allora sei Virgilio, quella fonte che con le sue parole alimenta un così largo fiume di sapere?» risposi io a lui con la fronte bassa (in segno di riverenza).

82-84
«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore che m’ha fatto cercar lo tuo volume.

«Oh tu che sei l’onore e il punto di riferimento per gli altri poeti, mi sia di giovamento il lungo studio e la grande passione che mi hanno fatto leggere e rileggere le tue opere.

85-87
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore; tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore.
Tu sei il mio maestro e il mio autore preferito; tu sei colui da cui io ricavai lo stile poetico di cui mi onoro.

88-90
Vedi la bestia per cu’ io mi volsi: aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi.»
Vedi la bestia per la quale fui costretto a tornare indietro; aiutami a liberarmi di lei, grande poeta e maestro di vita, poiché lei mi fa tremolare i polsi.» (a causa del battito accelerato del cuore).

91-96
«A te convien tenere altro vïaggio», rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo’ campar d’esto loco selvaggio: ché questa bestia, per la qual tu gride, non lascia altrui passar per la sua via, ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;

«Ti conviene cambiare percorso» rispose dopo che mi vide piangere, «se vuoi sopravvivere in questo luogo selvaggio: perché questa bestia (la lupa), per la quale invochi soccorso, non permette a nessuno di farsi superare, bensì glielo impedisce fino al punto di ucciderlo.

97-99
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia, e dopo ’l pasto ha più fame che pria.

E ha una natura così malvagia e cattiva che non sazia mai la sua bramosa fame (di piaceri mondani), e dopo il pasto ha più fame di prima.

100-102
Molti son li animali a cui s’ammoglia, e più saranno ancora, infin che ’l veltro verrà, che la farà morir con doglia.

Molti sono i vizi che si associano alla lupa, e saranno sempre di più, finché non verrà il veltro, che la farà morire con dolore. Nel significato letterale il veltro è un forte e
veloce cane da caccia, adatto quindi a snidare la lupa da ogni luogo. Nel significato allegorico invece rappresenta la forza capace di sconfiggere avarizia e cupidigia, che sono la causa del disordine civile e religioso. Dante non specifica chi prenderà i panni del veltro; tra le ipotesi di identificazione sono stati proposti vari nomi di personaggi influenti, ed in particolare quello di Arrigo VII (o Enrico VII), re di Lussemburgo, ma potrebbe anche essere il Signore stesso, quando scenderà sulla terra per giudicare i vivi e i morti.

103-105
Questi non ciberà terra né peltro, ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Il veltro non sarà avido né di dominio né di ricchezze (il peltro è una lega formata di piombo e stagno usata in passato per coniare monete), ma si nutrirà di sapienza, amore e virtù, e la sua nascita avverrà da umile stirpe (il feltro è un rozzo panno di lana non tessuta; quindi il veltro vestirà di panni modesti).

106-108
Di quella umile Italia fia salute per cui morì la vergine Cammilla, Eurialo e Turno e Niso di ferute.

Il veltro sarà la salvezza degli strati umili dell’Italia, per il cui costituirsi come nazione molti arrivarono a sacrificare la propria vita.
Turno era il re dei Rutuli (un popolo stanziato nel territorio compreso tra le attuali Ardea e Ariccia, nel Lazio), il principale nemico del troiano Enea e suo rivale in amore per la mano di Lavinia, la figlia di Latino, re di Laurento (città sulla costa a sud di Roma); fu ucciso da Enea in duello. Camilla era una valorosa vergine

guerriera, figlia di Metabo, re di Priverno; a capo di una potente cavalleria si alleò con Turno, ma fu uccisa in combattimento. Eurialo e Niso erano due amici troiani morti in combattimento.

109-111
Questi la caccerà per ogne villa, fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno, là onde ’nvidia prima dipartilla.
Il veltro inseguirà la lupa ovunque, finché non la farà riprecipitare nell’Inferno, da dove la trasse fuori (dipartilla) Lucifero per mandarla a corrompere l’umanità. Lucifero è qui da Dante chiamato la “’nvidia prima”, perché fu la prima creatura che, per l’invidia che provava per Dio, gli si ribellò.

112-117
Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per luogo etterno; ove udirai le disperate strida, vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida;
Quindi per il tuo bene ritengo che tu mi debba seguire; io sarò la tua guida e ti porterò via da qui per condurti attraverso l’Inferno, dove udirai le grida disperate dei dannati, i quali invocano la seconda morte.
La prima morte è quella del corpo, mentre la seconda morte è quella dell’anima; quest’ultima è implorata dai dannati, poiché se muore anche l’anima terminano i loro supplizi.

118-120
e vederai color che son contenti nel foco, perché speran di venire, quando che sia, a le beate genti.
e vedrai le anime del Purgatorio, che accettano volentieri le loro pene perché hanno la speranza, al termine della purificazione, di essere accolti tra i beati.

121-129

A le quai poi se tu vorrai salire, anima fia a ciò più di me degna: con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là sù regna, perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna. In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio: oh felice colui cu’ ivi elegge!»

Se tu poi vorrai salire tra essi (cioè tra i beati), ci sarà un’anima (quella di Beatrice) più degna di me a guidarti; non potrò farlo io perché Dio non mi accetta in Paradiso perché, in quanto pagàno, non fui tra coloro che credettero nella venuta di Cristo.
Dio impera in tutto l’Universo e governa direttamente il Paradiso; qui si trovano la sua sede e il suo trono: fortunato è colui che Egli sceglie per ammetterlo alla beatitudine celeste!»

130-136
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti, acciò ch’io fugga questo male e peggio, che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro e color cui tu fai cotanto mesti.» Allor si mosse, e io li tenni dietro.

E io a lui: «Poeta, io ti chiedo in nome di Dio, che tu non conoscesti perché pagàno, al fine di rifuggire dalla schiavitù del peccato e dalla conseguente dannazione, che tu mi conduca attraverso l’Inferno e il Purgatorio, cosicché io possa vedere la porta di san Pietro e i dannati, che tu rappresenti così dolenti.»
Poiché la porta del Paradiso esiste solo nella fantasia popolare, si potrebbe presupporre che qui per “porta di san Pietro” Dante intenda quella del Purgatorio. Tuttavia, secondo un discorso logico, potrebbe intendersi quella, immaginaria, del Paradiso, perché rappresenta il limite fino a cui sarà concesso a Virgilio di guidare Dante nell’aldilà.
Quindi lui si incamminò, e io lo seguii.

CANTO II


1-6
Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno toglieva li animai che sono in terra da le fatiche loro; e io sol uno

m’apparecchiava a sostener la guerra sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.

Giunto il tramonto, Dante si prepara a sostenere il travaglio sia dell’aspro cammino che lo aspetta sia della pena angosciosa della visione delle anime tormentate.

7-9
O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, qui si parrà la tua nobilitate.

Dopo quella sorta di prologo che è il primo canto, Dante introduce la protasi, cioè la parte introduttiva del poema. Quindi invoca l’ispirazione divina e la virtù del suo intelletto: o Muse, o mio alto ingegno, datemi l’ispirazione; o mente che ponesti in
versi ciò che io vidi nell’oltretomba, ora si mostrerà il tuo valore.
Le Muse erano le nove figlie di Zeus e Mnemosine (la dea della memoria). Apollo le condusse con sé sul monte Elicona, che divenne la loro sede. L’Elicona si trova nella regione montuosa dell’Aonia, corrispondente alla regione greca della Beozia. Si accompagnavano a lui, che era il loro protettore, e ciascuna presiedeva a un ramo delle arti o delle scienze:
• Calliope alla poesia epica. È invocata, tra gli altri, da Virgilio nel primo canto dell’Eneide;
• Clio alla storia;
• Tersicore alla danza;
• Polimnia al mimo;
• Melpomene alla tragedia;
• Erato alla poesia amorosa;
• Euterpe alla poesia lirica;
• Talia alla commedia;
• Urania all’astronomia.

10-12
Io cominciai: «Poeta che mi guidi, guarda la mia virtù s’ell’è possente, prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.

Dante dice a Virgilio: «Poeta che mi guidi, giudica se le mie qualità e forze morali siano sufficienti, prima che mi affidi all’arduo viaggio.


13-30
Tu dici che di Silvïo il parente, corruttibile ancora, ad immortale secolo andò, e fu sensibilmente. Però, se l'avversario d’ogne male cortese i fu, pensando l’alto effetto
ch’uscir dovea di lui, e ‘l chi e ‘l quale non pare indegno ad omo d’intelletto; ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero ne l’empireo ciel per padre eletto:

la quale e ‘l quale, a voler dir lo vero, fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero. Per quest’ andata onde li dai tu vanto, intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto. Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
per recarne conforto a quella fede ch'è principio a la via di salvazione.

Nel libro VI dell’Eneide Virgilio narra la discesa di Enea agli Inferi quando questi era ancora in vita, quindi in carne e ossa. Lo scopo del viaggio di Enea all’aldilà fu l’incontro col padre Anchise, da cui ricevette le profezie della vittoria dei Troiani contro Turno e contro i Rutuli; queste profezie gli furono fondamentali per la creazione dell’impero romano, che avrebbe poi preparato la via alla Roma cristiana. Anche san Paolo di Tarso andò all’aldilà: nel libro della Bibbia intitolato “Seconda lettera ai Corinzi” (XII, 2-4) il Santo racconta quell’eccezionale esperienza; ma per farlo usa la terza persona anziché la prima, e dice: «Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo [il terzo cielo era quello di Dio, dopo l’atmosfera terrestre e il cielo degli
astri]. E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu
rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare.»

31-33
Ma io, perché venirvi? o chi ‘l concede? Io non Enea, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ‘l crede.

Dante domanda a Virgilio lo scopo del viaggio e chi gli possa concedere la grazia per farlo, perché ritiene la sua missione, qualunque essa sia, non all’altezza di quelle che hanno animato Enea e san Paolo.


34-42
Per che, se del venire io m'abbandono, temo che la venuta non sia folle.
Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono».
E qual è quei che disvuol ciò che volle e per novi pensier cangia proposta,

sì che dal cominciar tutto si tolle, tal mi fec' ïo 'n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la 'mpresa che fu nel cominciar cotanto tosta.

Dante teme che la decisione di effettuare il suo viaggio nell’oltretomba possa rivelarsi stolta e temeraria, e chiede a Virgilio, che considera una persona sapiente, di essere giudicato da lui. Il significato allegorico è il seguente: Dante è peccatore; perduto nel buio attende dalla ragione (impersonata da Virgilio) di vincere gli errori e le incertezze.

43-48
«S’i’ ho ben la parola tua intesa,» rispuose del magnanimo quell’ombra,
«l’anima tua è da viltade offesa;
la qual molte fiate l’omo ingombra sì che d’onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand’ombra.

«Se ho ben capito ciò che hai detto», risponde l’anima del magnanimo (Virgilio), «la tua anima è paurosa. Questa debolezza dell’anima e disistima eccessiva di sé spesse volte ostacola il buon proponimento dell’uomo, fino a farlo desistere da un’impresa onorata, così come l’allucinazione fa deviare la bestia quando fa buio.


49-69
Da questa tema acciò che tu ti solve, dirotti perch' io venni e quel ch'io 'ntesi nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi, e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi. Lucevan li occhi suoi più che la stella; e cominciommi a dir soave e piana, con angelica voce, in sua favella:
"O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura, e durerà quanto 'l mondo lontana,

l'amico mio, e non de la ventura, ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt' è per paura; e temo che non sia già sì smarrito, ch'io mi sia tardi al soccorso levata, per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c'ha mestieri al suo campare, l'aiuta sì ch'i' ne sia consolata.

Quindi Virgilio cerca di rassicurare Dante dicendogli il motivo del proprio intervento in suo favore. Gli spiega che è venuto in suo soccorso dal Limbo, dove si trovano le anime di uomini sapienti e virtuosi vissuti prima di Cristo, fuori quindi della vera fede, che non possono né partecipare alla beatitudine celeste in quanto non redenti dalla grazia, né soggiacere alla dannazione dell’Inferno, in quanto non macchiati di colpa grave. Gli dice anche che lo ha mandato in suo aiuto Beatrice.

70-72
I’ son Beatrice che ti faccio andare; vegno del loco ove tornar disio; amor mi mosse, che mi fa parlare.

Virgilio racconta il dialogo tra lui e Beatrice. Lei è scesa apposta al Limbo dal Paradiso (dove chiaramente desidera tornare dopo aver terminato il suo discorso) per chiedergli di intervenire in soccorso di Dante. Gli spiega anche che ciò che l’ha spinta a invocare il suo aiuto è l’amore che prova per Dante, dove per amore si intende sia l’amore cortese sia l’amore cristiano. Beatrice personifica la teologia, ma di questo ne parleremo in seguito.


73-87
Quando sarò dinanzi al segnor mio, di te mi loderò sovente a lui".
Tacette allora, e poi comincia' io: "O donna di virtù sola per cui l'umana spezie eccede ogne contento di quel ciel c'ha minor li cerchi sui,
tanto m'aggrada il tuo comandamento, che l'ubidir, se già fosse, m'è tardi;
più non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento.

Ma dimmi la cagion che non ti guardi de lo scender qua giuso in questo centro de l'ampio loco ove tornar tu ardi". "Da che tu vuo' saver cotanto a dentro, dirotti brievemente", mi rispuose, "perch' i' non temo di venir qua entro.

Virgilio domanda a Beatrice per quale motivo lei non ha avuto paura di scendere dal Paradiso all’Inferno (dove si trova lui).

88-90
Temer si dee di sole quelle cose ch’hanno potenza di fare altrui male; de l’altre no, ché non son paurose.

Beatrice risponde che si devono temere solo le cose che possono arrecare male al prossimo.


91-114
I' son fatta da Dio, sua mercé, tale, che la vostra miseria non mi tange,
né fiamma d'esto 'ncendio non m'assale. Donna è gentil nel ciel che si compiange di questo 'mpedimento ov' io ti mando, sì che duro giudicio là sù frange.

Questa chiese Lucia in suo dimando e disse: ”Or ha bisogno il tuo fedele di te, e io a te lo raccomando.” Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov' i' era, che mi sedea con l'antica Rachele.

Disse: “ Beatrice, loda di Dio vera, ché non soccorri quei che t'amò tanto, ch'uscì per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto, non vedi tu la morte che 'l combatte
su la fiumana ove 'l mar non ha vanto?”

Al mondo non fur mai persone ratte a far lor pro o a fuggir lor danno, com' io, dopo cotai parole fatte, venni qua giù del mio beato scanno, fidandomi del tuo parlare onesto, ch'onora te e quei ch'udito l'hanno.»

Beatrice spiega a Virgilio che la pena dei dannati non viene a turbare la beatitudine delle anime del Paradiso. Dice inoltre che è stata la Madonna, per prima, che ha avuto compassione dei mali di Dante. La rigida giustizia di Dio è resa meno severa, per la forza dell’intercessione della Vergine. Quest’ultima incaricò s. Lucia di andare da Beatrice a chiederle di soccorrere Dante.
Nata a Siracusa nel 238, la giovane Lucia fu denunciata come cristiana dal fidanzato alle autorità durante le persecuzioni ordinate dall’imperatore Diocleziano. Fu condannata alla prostituzione e poi alla morte sul rogo ma, uscita indenne dal fuoco, fu decapitata. La leggenda racconta che prima della morte le fossero stati strappati gli occhi. Nella Lucia della Divina Commedia taluni critici hanno voluto scorgere il simbolo della grazia illuminante, che guida Dante nei momenti cruciali della sua esperienza ultraterrena.


115-120
Poscia che m'ebbe ragionato questo, li occhi lucenti lagrimando volse, per che mi fece del venir più presto.

E venni a te così com' ella volse: d'inanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar ti tolse.

Virgilio riferisce a Dante che non appena Beatrice gli rivolse la sua esortazione ad aiutarlo, lui si precipitò nella selva oscura e lo liberò dall’ostacolo rappresentato dalla lupa.

121-126
Dunque: che è? Perché, perché restai, perché tanta viltà nel core allette, perché ardire e franchezza non hai, poscia che tai tre donne benedette curan di te ne la corte del cielo,
e ‘l mio parlar tanto ben ti promette?»
Virgilio dice a Dante: «Perché indugi a muoverti? Perché nel cuore tuo c’è tanta viltà? Perché non hai ardimento e disinvoltura, dopo che le tre donne benedette di cui ti ho parlato (la Madonna, s. Lucia e Beatrice) in cielo si prendono cura della tua salvezza e dopo che io ti rivolgo tante parole rassicuranti?»

127-140
Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ‘l sol li ‘mbianca, si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec’io di mia virtude stanca, e tanto buono ardire al cor mi corse, ch’i’ cominciai come persona franca:
«Oh pietosa colei che mi soccorse! e te cortese ch’ubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!
Tu m’hai con disiderio il cor disposto sì al venir con le parole tue,
ch’i’ son tornato nel primo proposto. Or va, ch’un sol volere è d’ambedue: tu duca, tu segnore e tu maestro.»

Come i fiori dei prati, dopo essere rimasti curvati verso terra e chiusi per il freddo della notte, si raddrizzano e si aprono quando il sole li illumina, così si risollevò il mio stato d’animo che fino a quel momento era avvilito per i dubbi e le difficoltà, e mi rincuorai, dicendo: «Oh come fu misericordiosa colei (Beatrice) che mi soccorse! E tu benigno che acconsentisti subito alla sua richiesta di aiutarmi! Tu mi hai suscitato così tanto entusiasmo e coraggio che io sono tornato al mio iniziale proponimento di intraprendere il viaggio nell’aldilà. Adesso comincia pure il cammino, ché le nostre volontà coincidono: tu sei la mia guida, il mio signore (per il tuo potere di agire sulla mia volontà) e il mio maestro (per il tuo potere di agire sul mio intelletto).

141-142
Così li dissi; e poi che mosso fue, intrai per lo cammino alto e silvestro.
Così gli dissi; e dopo che fece il primo passo, cominciai il cammino difficile e arduo.

CANTO III

1-9
PER ME SI VA NE LA CITTA’ DOLENTE, PER ME SI VA NE L’ETTERNO DOLORE, PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE. GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE; FECEMI LA DIVINA PODESTATE,
LA SOMMA SAPIENZA E ‘L PRIMO AMORE. DINANZI A ME NON FUOR COSE CREATE SE NON ETTERNE, E IO ETTERNA DURO.
LASCIATE OGNE SPERANZA, VOI CH’INTRATE.

Virgilio e Dante giungono davanti alla porta dell’Inferno, che reca una minacciosa scritta: “Attraverso me si va nel luogo del dolore, dell’eterna sofferenza, tra i dannati. Fui creata per una ragione di giustizia. A proposito della giustizia divina, si riporta un passo della Bibbia (Seconda lettera ai Tessalonicesi, I, 6-10): “È proprio della giustizia di Dio rendere afflizione a quelli che vi affliggono e a voi, che ora siete afflitti, sollievo insieme a noi, quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo con gli angeli della sua potenza in fuoco ardente, a far vendetta di quanti non conoscono Dio e non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. Costoro saranno castigati con una rovina eterna, lontano dalla faccia del Signore e dalla gloria della sua potenza, quando egli verrà per esser glorificato…”
Fui creata dalla Trinità, vista nei suoi attributi di somma potenza del Padre, di somma sapienza del Figlio e di somma carità dello Spirito Santo. Le cose create prima di me sono solo quelle eterne (cioè angeli, cieli, materia pura), e io duro in eterno (l’Inferno fu creato prima dell’uomo, al momento della caduta di Lucifero). Perdete qualunque speranza voi che entrate (la vera pena dei dannati è la loro assoluta impossibilità di sperare nella salvezza della loro anima).


10-50
Queste parole di colore oscuro
vid' ïo scritte al sommo d'una porta;
per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro». Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto; ogne viltà convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov' i' t'ho detto che tu vedrai le genti dolorose
c'hanno perduto il ben de l'intelletto».

E poi che la sua mano a la mia puose con lieto volto, ond' io mi confortai, mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai risonavan per l'aere sanza stelle, per ch'io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d'ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle

facevano un tumulto, il qual s'aggira sempre in quell' aura sanza tempo tinta, come la rena quando turbo spira.
E io ch'avea d'error la testa cinta, dissi: «Maestro, che è quel ch'i' odo?
e che gent' è che par nel duol sì vinta?» Ed elli a me: «Questo misero modo tegnon l'anime triste di coloro
che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.

Caccianli i ciel per non esser men belli, né lo profondo inferno li riceve, ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli».
E io: «Maestro, che è tanto greve a lor che lamentar li fa sì forte?» Rispuose: «Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte, e la lor cieca vita è tanto bassa,
che 'nvidïosi son d'ogne altra sorte. Fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna:

Dante rimane terrorizzato da questa scritta difficile a comprendersi; quindi ne chiede spiegazione a Virgilio, il quale lo esorta ad abbandonare qualunque paura e viltà d’animo e lo conduce al di là della porta.
Così i due poeti si trovano all’interno del “Vestibolo” (siamo ancora nell’Antinferno). Qui Dante comincia a udire sospiri, pianti, urli che paurosamente risuonano in un’atmosfera di tenebre. Dante domanda che cosa sia tutto ciò che sta ascoltando e chi sono quelle anime sofferenti. Virgilio gli risponde che si tratta degli
ignavi, i quali in vita rifiutarono ogni responsabilità, vivendo “sanza ‘nfamia e sanza lodo”, cioè senza ottenere dagli altri né biasimo né lode, quindi da vili. Gli ignavi
sono collocati nel Vestibolo assieme a quegli angeli che nella grande battaglia avvenuta in cielo non si schierarono dalla parte di Lucifero, ma rimasero comunque imbelli, abulici, dubbiosi; questi angeli imbelli sono respinti sia dai cieli, che non vogliono perdere la loro bellezza accogliendo genti vili, sia dall’Inferno, perché i dannati proverebbero compiacimento per essere stati meno vili di loro. Proprio perché nella vita non presero mai una posizione, gli ignavi sono indegni sia delle pene dell’Inferno sia della misericordia di Dio.

51
non ragioniam di lor, ma guarda e passa.»

A conclusione della sua spiegazione a Dante sulla natura e la condizione degli ignavi, Virgilio gli pronuncia questa frase che è uno dei versi più celebri della Divina Commedia. In questo verso si avverte il disprezzo di Dante per i vili, gente che non ebbe personalità alcuna e che non fu mai viva.


52-69
E io, che riguardai, vidi una 'nsegna che girando correva tanto ratta,
che d'ogne posa mi parea indegna;

e dietro le venìa sì lunga tratta di gente, ch'i' non averei creduto
che morte tanta n'avesse disfatta.

Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l'ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto. Incontanente intesi e certo fui che questa era la setta d'i cattivi, a Dio spiacenti e a' nemici sui.

Questi sciaurati, che mai non fur vivi, erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch'eran ivi. Elle rigavan lor di sangue il volto, che, mischiato di lagrime, a' lor piedi da fastidiosi vermi era ricolto.

Dante vede che gli ignavi, che sono numerosissimi, sono costretti a correre, nudi, dietro a una bandiera (essi che in vita non ne seguirono mai una), mentre sono soggetti a una stimolazione fisica delle punture di mosconi e vespe (loro che in vita non vollero cedere ad alcuno stimolo, né nel bene né nel male). Il sangue, mischiato a lacrime, riga il volto di questi condannati, che poi è raccolto dai vermi (che sono il contrappasso della viltà).
Tra essi Dante vede e riconosce l’anima “di colui che fece per viltade il gran rifiuto”. La
maggior parte dei commentatori ritengono che si tratti di Pietro di Morrone. Nato a Isernia nel 1215, sentì profondamente la vocazione eremitica e si ritirò sul monte Morrone e sul massiccio della Maiella, in Abruzzo. Grazie alla creazione di un ordine religioso (i Frati Celestiniani) e attraverso la sua austera ed esemplare esistenza in una grotta della Maiella, ma soprattutto per il compimento di numerosi miracoli, era considerato un santo. Alla morte di papa Nicolò IV (4 aprile 1292), dopo due anni di inutili discussioni ed altrettanti conclavi, il 5 luglio 1294 ci fu la tanto attesa fumata bianca: Pietro di Morrone era il nuovo Papa, col nome di Celestino V. L’incoronazione con la tiara papale avvenne però a L’Aquila il 29 agosto dello stesso anno, davanti a una leggendaria moltitudine di fedeli accorsi da tutta l’Europa, tra i quali anche il giovane Dante Alighieri. Lo spirito ingenuo del Papa eremita mal si conciliava con quello della Curia romana, corrotta e litigiosa. Riservato e privo della sufficiente energia, Celestino V si trovò al centro di aspre contese senza riuscire a dominarle. Sempre più spesso arrivò a meditare l’idea di rinunciare al pontificato e finalmente indisse un Concistoro per il 13 dicembre 1294, durante il quale annunciò il suo atto di rinuncia, dopo soli cinque mesi di pontificato. Al suo posto fu eletto papa il cardinale Benedetto Cajetani, di Anagni (FR), che prese il nome di Bonifacio VIII. Quest’ultimo considerò l’esistenza di Pietro di Morrone una minaccia per il suo stesso pontificato; perciò lo fece rinchiudere nel castello di Fumone (FR), dove il 19 maggio 1296 moriva dopo dieci mesi di prigionia. Nel 1327 i Monaci Celestiniani riuscirono a portare la salma di Pietro di Morrone a L’Aquila, all’interno della Basilica di santa Maria di Collemaggio, dove tuttora si trova.


70-136
E poi ch'a riguardar oltre mi diedi, vidi genti a la riva d'un gran fiume; per ch'io dissi: «Maestro, or mi concedi

ch'i' sappia quali sono, e qual costume le fa di trapassar parer sì pronte,
com' i' discerno per lo fioco lume».

Ed elli a me: «Le cose ti fier conte quando noi fermerem li nostri passi su la trista riviera d'Acheronte».
Allor con li occhi vergognosi e bassi, temendo no 'l mio dir li fosse grave, infino al fiume del parlar mi trassi.
Ed ecco verso noi venir per nave un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave! Non isperate mai veder lo cielo:
i' vegno per menarvi a l'altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo. E tu che se' costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch'io non mi partiva, disse: «Per altra via, per altri porti verrai a piaggia, non qui, per passare: più lieve legno convien che ti porti».
E 'l duca lui: «Caron, non ti crucciare: vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Quinci fuor quete le lanose gote al nocchier de la livida palude,
che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote. Ma quell' anime, ch'eran lasse e nude, cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che 'nteser le parole crude. Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme di lor semenza e di lor nascimenti.

Poi si ritrasser tutte quante insieme, forte piangendo, a la riva malvagia
ch'attende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimonio, con occhi di bragia loro accennando, tutte le raccoglie; batte col remo qualunque s'adagia.
Come d'autunno si levan le foglie
l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo vede a la terra tutte le sue spoglie, similemente il mal seme d'Adamo gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo. Così sen vanno su per l'onda bruna,
e avanti che sien di là discese, anche di qua nuova schiera s'auna.
«Figliuol mio», disse 'l maestro cortese,
«quelli che muoion ne l'ira di Dio tutti convegnon qui d'ogne paese; e pronti sono a trapassar lo rio, ché la divina giustizia li sprona, sì che la tema si volve in disio.
Quinci non passa mai anima buona; e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona».
Finito questo, la buia campagna tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna. La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento; e caddi come l'uom cui sonno piglia.

Quindi Dante nota, poco più oltre, la presenza di un fiume. Si tratta dell’Acheronte, che circonda interamente il primo cerchio. Le anime dei dannati che giungono all’Inferno devono oltrepassare questo fiume nella barca di Caronte, che è un demone pagano che ha il compito di traghettare le anime dei dannati. Costui, accorgendosi che Dante è ancora in vita, si rifiuta di traghettarlo, ma Virgilio gli spiega che il suo discepolo attraverserà ugualmente il fiume, perché questo è il volere divino. All’improvviso un terremoto scuote la terra e lo segue un lampo; Dante perde i sensi e, misteriosamente, varca il fiume infernale.

CANTO IV


1-45
Ruppemi l'alto sonno ne la testa
un greve truono, sì ch'io mi riscossi come persona ch'è per forza desta;
e l'occhio riposato intorno mossi, dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov' io fossi. Vero è che 'n su la proda mi trovai de la valle d'abisso dolorosa
che 'ntrono accoglie d'infiniti guai. Oscura e profonda era e nebulosa tanto che, per ficcar lo viso a fondo, io non vi discernea alcuna cosa.
«Or discendiam qua giù nel cieco mondo», cominciò il poeta tutto smorto.
«Io sarò primo, e tu sarai secondo». E io, che del color mi fui accorto, dissi: «Come verrò, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto?».
Ed elli a me: «L'angoscia de le genti che son qua giù, nel viso mi dipigne quella pietà che tu per tema senti.
Andiam, ché la via lunga ne sospigne».
Così si mise e così mi fé intrare
nel primo cerchio che l'abisso cigne.

Quivi, secondo che per ascoltare, non avea pianto mai che di sospiri che l'aura etterna facevan tremare; ciò avvenia di duol sanza martìri,
ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi, d'infanti e di femmine e di viri.
Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo' che sappi, innanzi che più andi, ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi, non basta, perché non ebber battesmo, ch'è porta de la fede che tu credi;
e s'e' furon dinanzi al cristianesmo, non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo. Per tai difetti, non per altro rio, semo perduti, e sol di tanto offesi che sanza speme vivemo in disio».
Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi, però che gente di molto valore
conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.

Un forte tuono risveglia Dante, che comprende di aver attraversato, privo di sensi, l’Acheronte. Qui inizia l’Inferno vero e proprio, con il primo cerchio, che è chiamato “Limbo”. In questo cerchio sono collocate le anime, tra cui quella di Virgilio, di coloro che, pur senza colpe, sono morti senza battesimo o sono vissuti senza credere nel Cristo venturo. Nel Vangelo secondo Marco, cap. XVI, v. 16, sta scritto: Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato.
Le anime del Limbo non subiscono, come le altre dell’Inferno, la pena fisica; soffrono invece la lontananza da Dio, che è pena morale; per questo motivo non emettono lamenti, ma sospiri che seguono il desiderio di Dio, consapevoli che questo desiderio non sarà mai appagato.


46-63
«Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore», comincia' io per volere esser certo
di quella fede che vince ogne errore:

«uscicci mai alcuno, o per suo merto o per altrui, che poi fosse beato?»
E quei che 'ntese il mio parlar coverto,

rispuose: «Io era nuovo in questo stato, quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato. Trasseci l'ombra del primo parente, d'Abèl suo figlio e quella di Noè,
di Moïsè legista e ubidente;

Abraàm patrïarca e Davìd re, Israèl con lo padre e co' suoi nati e con Rachele, per cui tanto fé,
e altri molti, e feceli beati.
E vo' che sappi che, dinanzi ad essi, spiriti umani non eran salvati».

Dante domanda se mai qualcuno riuscì a uscire dal Limbo per essere accolto tra i beati. Virgilio gli risponde che una volta Cristo, nell’intervallo di tempo trascorso tra la morte e la resurrezione, scese nel Limbo e liberò le anime degli antichi Ebrei credenti nel Cristo venturo: Adamo, Abele, Noè, Mosè, Abramo, David, Giacobbe con suo padre Isacco, i dodici figli e la moglie Rebecca.


64-93
Non lasciavam l'andar perch’ ei dicessi, ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.
Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand' io vidi un foco ch'emisperio di tenebre vincia.
Di lungi n'eravamo ancora un poco, ma non sì ch'io non discernessi in parte ch'orrevol gente possedea quel loco.
«O tu ch'onori scïenzïa e arte,
questi chi son c'hanno cotanta onranza, che dal modo de li altri li diparte?»
E quelli a me: «L'onrata nominanza che di lor suona sù ne la tua vita, grazïa acquista in ciel che sì li avanza».

Intanto voce fu per me udita:
«Onorate l'altissimo poeta;
l'ombra sua torna, ch'era dipartita». Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand'ombre a noi venire: sembianz' avevan né trista né lieta.
Lo buon maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano, che vien dinanzi ai tre sì come sire: quelli è Omero poeta sovrano;
l'altro è Orazio satiro che vene; Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo Lucano. Però che ciascun meco si convene nel nome che sonò la voce sola, fannomi onore, e di ciò fanno bene».

A un certo punto Dante scorge un gruppo di quattro anime che sembrano possedere un onore particolare che le distingue dalle altre anime. Queste anime appaiono in un aspetto grave e calmo, come si addice ai cultori della sapienza. Queste quattro anime, a differenza delle altre del Limbo, non sembrano sospirare, ma neppure sono liete, perché sono comunque prive della speranza e della visione beatifica. In testa ai quattro è Omero, che è rappresentato con la spada in mano, perché cantore delle armi; gli altri sono Orazio, Ovidio e Lucano (sono quelli che nel Medioevo venivano considerati, oltre a Virgilio, i quattro maggiori poeti dell’antichità).

94-102
Così vid’i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto che sovra li altri com’aquila vola .

Da ch’ebber ragionato insieme alquanto, volsersi a me con salutevol cenno,
e ‘l mio maestro sorrise di tanto;
e più d’onore ancora assai mi fenno, ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.

Così vidi radunarsi la bella compagnia capeggiata da Omero (che Dante considera il signore dei poeti, e che come tale vola sopra tutti gli altri come fa l’aquila, che vola più alta degli altri uccelli). Dopo che ebbero un po’ ragionato tra di loro, si volsero verso di me con un cenno di saluto (come a loro collega), e Virgilio sorrise di ciò; e mi resero l’onore di farmi entrare nel loro gruppo (quello dei grandi poeti), cosicché io fui il sesto appartenente a tale schiera (dopo il gruppo dei quattro e Virgilio).
Questa appartenenza di Dante al gruppo dei grandi poeti esprime l’alta coscienza che lui ebbe della sua missione: allontanare l’umanità dallo stato di miseria in cui vive e condurla ad uno stato di felicità. Per intraprendere questa alta missione di cui si sente investito da Dio, Dante parte dall’individuo, dalla sua personale condizione di peccatore che aspira ad uscire dalla “selva oscura” del peccato e procedere, con l’aiuto della ragione, alla conquista della verità e della salvezza.


103-151
Così andammo infino a la lumera, parlando cose che 'l tacere è bello, sì com' era 'l parlar colà dov' era.
Venimmo al piè d'un nobile castello, sette volte cerchiato d'alte mura, difeso intorno d'un bel fiumicello.
Questo passammo come terra dura; per sette porte intrai con questi savi: giugnemmo in prato di fresca verdura. Genti v'eran con occhi tardi e gravi, di grande autorità ne' lor sembianti: parlavan rado, con voci soavi.
Traemmoci così da l'un de' canti, in loco aperto, luminoso e alto,
sì che veder si potien tutti quanti. Colà diritto, sovra 'l verde smalto, mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m'essalto. I' vidi Eletra con molti compagni, tra ' quai conobbi Ettòr ed Enea, Cesare armato con li occhi grifagni.

Vidi Cammilla e la Pantasilea; da l'altra parte vidi 'l re Latino che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino, Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia; e solo, in parte, vidi 'l Saladino.
Poi ch'innalzai un poco più le ciglia, vidi 'l maestro di color che sanno seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno: quivi vid' ïo Socrate e Platone,
che 'nnanzi a li altri più presso li stanno; Democrito che 'l mondo a caso pone, Dïogenès, Anassagora e Tale, Empedoclès, Eraclito e Zenone;
e vidi il buono accoglitor del quale, Dïascoride dico; e vidi Orfeo, Tulïo e Lino e Seneca morale; Euclide geomètra e Tolomeo, Ipocràte, Avicenna e Galïeno, Averoìs, che 'l gran comento feo.

Io non posso ritrar di tutti a pieno, però che sì mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.

La sesta compagnia in due si scema: per altra via mi mena il savio duca, fuor de la queta, ne l'aura che trema. E vegno in parte ove non è che luca.

Mentre parlano, i poeti camminano e giungono davanti a un castello che si trova vicino a un fuoco che vince parzialmente le tenebre (il fuoco sottolinea la particolare condizione privilegiata delle anime che si trovano nel castello, rispetto alle altre anime del Limbo). Questo castello è circondato da sette mura di cinta ed è difeso da un fiumicello. Il castello del Limbo è simbolo della filosofia. Le sette mura possono significare le sette parti della filosofia: fisica, metafisica, etica, politica, economia, matematica, dialettica. Il valore simbolico del fiumicello è incerto; alcuni vi vedono il simbolo delle ricchezze e degli onori mondani (come le limpide e allettanti acque del fiumicello), i quali all’inizio sembrano bellissimi, ma alla lunga nocciono all’ingegno e all’intelletto, e che quindi bisogna superare per giungere ai piaceri dell’intelletto. I poeti attraversano questo fiume come se fosse terra asciutta: significa che essi non hanno più ostacoli verso la conquista della saggezza umana. Dopo aver superato sette porte, che sono simbolo delle sette arti liberali del trivio (grammatica, dialettica e retorica) e del quadrivio (musica, aritmetica, geometria e astronomia), i poeti giungono in un prato verde, dove vi sono anime di aspetto contegnoso e autorevole, che parlano con tono misurato e delicato (come è proprio dei saggi). Queste anime sono gli Spiriti Magni, tra cui rientrano:
• personaggi troiani e romani, della storia o del mito, che hanno combattuto per la costruzione di Roma e dell’Impero (Ettore, Enea, Cesare, Lavinia, ecc.);
• donne simbolo di romana virtù (Lucrezia, Giulia, Marzia, Cornelia);
• filosofi, scienziati e letterati del mondo greco-romano, tra cui Aristotele (che come già detto nella parte introduttiva Dante considerò il maestro dei filosofi), Socrate, Platone, Democrito, Diogene, Talete, Zenone, Cicerone, Seneca, Euclide, Tolomeo, Ippocrate, Averroè; quest’ultimo ebbe il grande
merito di tradurre e commentare le opere di Aristotele ('l gran comento feo);
• personaggi di rilievo morale e scientifico del mondo medievale musulmano (tra cui il Saladino, che fu liberale verso i Cristiani).

CANTO V


1-15
Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia e tanto più dolor, che punge a guaio. Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia.
Dico che quando l'anima mal nata li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata

vede qual loco d'inferno è da essa; cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa. Sempre dinanzi a lui ne stanno molte: vanno a vicenda ciascuna al giudizio, dicono e odono e poi son giù volte.

Dante scende dal primo al secondo cerchio, che è meno esteso (ciò è dovuto al fatto che l’Inferno, avendo una forma di imbuto, si restringe man mano che si scende); qui la pena è più grave e tormenta le anime con maggiore durezza di quella cui sono sottoposte le anime del primo cerchio.
All’ingresso del secondo cerchio sta Minosse, rappresentante della giustizia divina, il quale prende in esame le colpe dei dannati che giungono all’Inferno; conosciute le colpe, egli stabilisce il cerchio cui ciascuna anima è destinata, e lo fa attorcigliando la coda al proprio corpo per un numero di volte che equivale al cerchio assegnato.
Minosse è rappresentato da Dante come un demonio di orribile aspetto; mitico figlio di Zeus ed Europa, fu re di Creta. La tradizione mitologica lo colloca come giudice dei morti per la sua figura di saggio legislatore. Anche Virgilio, nell’Eneide, lo rappresenta come giudice infernale. Ma, anche se Dante qui non lo esplicita, Minosse è solo l’esecutore delle sentenze pronunciate dal vero giudice, che è Dio.


16-24
«O tu che vieni al doloroso ospizio», disse Minòs a me quando mi vide, lasciando l'atto di cotanto offizio,
«guarda com' entri e di cui tu ti fide; non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!». E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride?

Non impedir lo suo fatale andare: vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».

Accortosi di Dante, Minosse cerca di scalzargli la fiducia in Virgilio e la sicurezza con cui è entrato per l’ampia porta infernale, una porta spaziosa che conduce alla perdizione. Virgilio gli risponde, come già a Caronte, che il viaggio di Dante è stato voluto dal cielo.
A proposito del fatto che la porta dell’Inferno è molto spaziosa (in confronto a quella del Paradiso, che è invece stretta), il Vangelo (Mt, VII, 13-14) recita: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che

conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!” Sempre su questo tema, nel II libro dell’Etica Nicomachea Aristotele afferma che si è buoni in un solo modo, cattivi in molte e svariate maniere; perciò le persone virtuose sono poche, e quelle non virtuose sono molte.


25-45
Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote. Io venni in loco d'ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina, quivi le strida, il compianto, il lamento; bestemmian quivi la virtù divina.

Intesi ch'a così fatto tormento enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l'ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena, così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena; nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena.

Così i poeti entrano nel buio del secondo cerchio, dove sono condannate le anime di coloro che morirono, per mano propria o altrui, di morte violenta a causa della passione sfrenata, che anteposero sempre alla ragione. Queste anime sono sottoposte a una bufera incessante. Per la legge del contrappasso, come in vita queste anime non seppero far prevalere la ragione sulla violenza delle passioni, così nell’Inferno la violenza del vento non dà loro pace.


46-72
E come i gru van cantando lor lai, faccendo in aere di sé lunga riga, così vid' io venir, traendo guai, ombre portate da la detta briga;
per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle genti che l'aura nera sì gastiga?»
«La prima di color di cui novelle
tu vuo' saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle. A vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell' è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa: tenne la terra che 'l Soldan corregge.

L'altra è colei che s'ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussurïosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi 'l grande Achille, che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille ombre mostrommi e nominommi a dito, ch'amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito nomar le donne antiche e ' cavalieri, pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.

Dante vede avvicinarsi una lunga fila di anime che emettono gemiti, e domanda chi siano. Virgilio menziona l’identità di alcune di esse:

• Semiramide, regina degli Assiri (sec. XIV a.C.), nota nel Medioevo per la sua leggendaria lussuria. Nelle sue leggi dichiarò lecito ciò che a ciascuno piacesse, per cancellare le sue stesse licenziosità;
• Didone, moglie di Sicheo, regina e fondatrice di Cartagine. Benché avesse promesso di restare vedova, si innamorò di Enea, venendo meno così al suo giuramento. Tuttavia l’eroe troiano l’abbandonò ed ella si uccise;
• Cleopatra, regina d’Egitto. Fu amante di Cesare e di Antonio. Si uccise con un aspide (serpente velonoso) per non cadere prigioniera di Ottaviano;
• Elena, moglie di Menelao, re di Sparta, rapita da Paride, figlio del re di Troia Priamo. Tale rapimento fu la causa della guerra di Troia;
• Achille, figlio di Peleo e della dea Teti. Fu vinto dall’amore di Polissena, figlia di Priamo, e fu ucciso da Paride, che lo colpì con una freccia al tallone;
• Tristano, cavaliere della Tavola Rotonda amante di Isotta, moglie di suo zio Marco, re di Cornovaglia. Tristano fu ucciso da suo zio con un dardo avvelenato.

73-78
I’ cominciai: «Poeta, volontieri parlerei a quei due che ‘nsieme vanno, e paion sì al vento esser leggieri».
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».

A un certo punto Dante vede due anime che vanno in coppia. Si tratta di Paolo e Francesca. Questa era figlia di Guido da Polenta il Vecchio, il signore di Ravenna che ospitò il poeta negli ultimi tre anni della sua vita. Nel 1276 fu data in sposa, per ragioni politiche, al deforme Giovanni Malatesta, detto anche Gianciotto Malatesta, signore di Rimini. Secondo la tradizione ella sarebbe stata vittima di un inganno, perché le si sarebbe fatto credere che lo sposo fosse Paolo, fratello di Gianciotto, bellissimo uomo e già ammogliato. Innamoratasi del cognato, furono sorpresi e uccisi assieme dal marito tradito.
Dante esprime a Virgilio il desiderio di parlare con Paolo e Francesca, che, essendo anime, gli appaiono come entità leggere, tant’è che sembrano opporre poca resistenza al vento.

79-81
Sì tosto come il vento a noi li piega, mossi la voce: «O anime affannate, venite a noi parlar, s’altri nol niega!»

Non appena il vento impetuoso del cerchio dei lussuriosi volge Paolo e Francesca in direzione dei due poeti, Dante esclama: «Oh anime tormentate, venite a parlare qui con noi, se Dio (altri) non ve lo impedisce!»

82-87
Quali colombe dal disio chiamate con l’ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l’aere, dal voler portate; cotali uscir de la schiera ov’è Dido, a noi venendo per l’aere maligno, sì forte fu l’affettüoso grido.

Come colombe, richiamate dal desiderio e sospinte dalla volontà, volano verso il loro nido con le ali aperte e ferme, così Paolo e Francesca escono dalla fila delle anime nella quale si trova Didone (Dido) e si avvicinano ai due poeti attraverso l’aria maligna dell’Inferno, per soddisfare l’animosa richiesta di Dante.

88-108
«O animal grazïoso e benigno che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno, se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace, poi c’hai pietà del nostro mal perverso. Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a vui,
mentre che ‘l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ‘l Po discende per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende. Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte. Caina attende chi a vita ci spense.» Queste parole da lor ci fuor porte.

Francesca, rivolta a Dante, inizia a parlare: «Oh uomo cortese e benevolo, che in questo luogo così tetro e oscuro ti stai degnando di interessarti al dramma di noi due, che macchiammo la terra col nostro sangue (fuoriuscito dalle ferite mortali loro inferte da Gianciotto), se Dio ci fosse amico, gli rivolgeremmo preghiere per il tuo bene, per riconoscenza della sensibilità che stai dimostrando nel prenderti cura della nostra misera condizione di dannati. Di tutto ciò che volete ascoltare da noi e
di tutto ciò di cui volete parlare a noi, (rispettivamente) noi parleremo a voi o ascolteremo da voi, approfittando del fatto che, come in questo momento, la bufera infernale ci concede una tregua. Io nacqui nella costa adriatica, dove il fiume Po e i suoi affluenti (seguaci sui) terminano placidamente la discesa del loro corso. L’amore, che fa subito presa sul cuore gentile e nobile, fece innamorare costui (Paolo) della bellezza del mio corpo, di cui venni privata (venendo uccisa), e il modo brutale (in cui ne venni privata) mi sgomenta tuttora; l’amore, che non permette a nessuno (nullo) che è amato di non riamare a sua volta, mi rapì del piacere di costui con un’intensità tale che, come vedi, ancora non mi abbandona; l’amore condusse
noi due alla morte comune. Chi ci uccise (Gianciotto) sarà punito nella Caina (questa è la prima delle quattro zone in cui è diviso il nono cerchio, dove sono puniti i traditori dei parenti)».

109-114
Quand’io intesi quell’anime offense, china’ il viso, e tanto il tenni basso, fin che ‘l poeta mi disse: «Che pense?»
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!»

Ascoltando le parole sofferenti di Francesca, Dante rimane turbato, tanto da tenere lo sguardo abbassato. Virgilio gli domanda: «A cosa pensi?»
Il poeta risponde: «Ohimè, quanti teneri pensieri, quanto romantico desiderio condusse costoro a peccare!»

115-120
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri a lagrimar mi fanno tristo e pio.

Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?»

Poi il poeta si rivolge ai due amanti e dice: «Francesca, le tue sofferenze mi impietosiscono fino al punto di farmi piangere. Ma dimmi: quando ancora il vostro amore non era manifesto e si limitava ai dolci sospiri, a quali indizi e in che maniera l’amore permise che ciascuno di voi due scoprisse i reciproci desideri nascosti?»

121-138
E quella a me: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per più fïate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disïato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».

Francesca risponde: «Non c’è dolore più grande che ricordarsi dei momenti felici quando si sta vivendo un periodo triste, e questo il tuo maestro lo sa bene. Ma se hai così tanto affettuoso interesse a conoscere l’origine del nostro amore, parlerò come chi parla piangendo. Ebbene, un giorno io e Paolo leggevano insieme per
diletto il romanzo nel quale viene rappresentato l’amore che accese Lancillotto (uno dei cavalieri della Tavola Rotonda, che si innamorò della regina Ginevra, moglie di re Artù).
Mentre leggevamo questo romanzo eravamo soli, ma senza alcuna intenzione peccaminosa. Più di una volta quella lettura spinse i nostri sguardi a incontrarsi, facendoli impallidire. Ma solo un punto fu quello che ci fece perdere ogni facoltà di

resistere alla passione: quando leggemmo il passo in cui Lancillotto bacia la desiderata bocca della sua amante (Ginevra), Paolo baciò, tutto trepidante, la mia bocca. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse (come Galeotto ― un personaggio del romanzo
— aveva favorito l’amore tra Lancillotto e Ginevra, così la lettura di quel libro ed il suo autore avevano costituito il tramite che aveva collegato e acceso di desiderio i cuori di Paolo e Francesca e che aveva vinto ogni freno inibitorio tra di loro). Quel giorno non
proseguimmo oltre nella lettura».

139-142
Mentre che l’uno spirto questo disse, l’altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse. E caddi come corpo morto cade.

Mentre Francesca (l’uno spirto) raccontava la loro dolorosa storia d’amore, Paolo (l’altro) piangeva, tanto che Dante, sopraffatto da un forte sentimento di pietà, sviene.
[Probabilmente Dante ha tratto quest’espressione dal libro Daniele dell’Antico Testamento; nel cap. 8 di tale libro, al v. 17, il profeta Daniele, dopo che ha avuto una visione, ha paura e cade con la faccia a terra; nel successivo v. 18, egli cade svenuto con la faccia a terra; dopo un’altra visione, egli cade stordito con la faccia a terra (cfr. Daniele, 10, 9; Apocalisse, 1, 17)].

CANTO VI


1-21
Al tornar de la mente, che si chiuse dinanzi a la pietà d'i due cognati, che di trestizia tutto mi confuse, novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch'io mi mova e ch'io mi volga, e come che io guati.
Io sono al terzo cerchio, de la piova etterna, maladetta, fredda e greve; regola e qualità mai non l'è nova. Grandine grossa, acqua tinta e neve per l'aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.

Cerbero, fiera crudele e diversa, con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, e 'l ventre largo, e unghiate le mani; graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.
Urlar li fa la pioggia come cani;
de l'un de' lati fanno a l'altro schermo; volgonsi spesso i miseri profani.

Ripresi i sensi, Dante si accorge di essere giunto nel terzo cerchio, dove sono puniti i golosi. Una pioggia incessante di acqua sudicia, grandine e neve in un’atmosfera tenebrosa forma una fanghiglia maleodorante. Per la legge del contrappasso, come in vita i golosi non seppero frenare con la ragione la loro smisurata ingordigia, così ora essi sono distesi nella fanghiglia maleodorante, in una miseria non solo materiale ma anche morale. Il custode del terzo cerchio è Cerbero, mitico mostro a forma di cane, con tre teste, già guardiano dell’Inferno pagano. Nell’Inferno dantesco questo mostro è rappresentato con gli occhi rossastri (in arte il demoniaco è contrassegnato dal fuoco delle pupille), la barba unta e nera (per la fanghiglia e il pasto), le mani unghiate, con cui graffia, scuoia e squarta i dannati.


22-33
E 'l duca mio distese le sue spanne, prese la terra, e con piene le pugna la gittò dentro a le bramose canne.
Qual è quel cane ch'abbaiando agugna, e si racqueta poi che 'l pasto morde, ché solo a divorarlo intende e pugna,

cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che 'ntrona l'anime sì, ch'esser vorrebber sorde.

Appena Cerbero scorge i due poeti, cerca di opporsi al loro passaggio; ma Virgilio lancia un manciata di fango nelle gole del mostro, che così smette di latrare e si placa. Così i due poeti possono riprendere il loro cammino.


34-93
Noi passavam su per l'ombre che adona la greve pioggia, e ponavam le piante sovra lor vanità che par persona.

Elle giacean per terra tutte quante, fuor d'una ch'a seder si levò, ratto ch'ella ci vide passarsi davante.

«O tu che se' per questo 'nferno tratto», mi disse, «riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto». E io a lui: «L'angoscia che tu hai forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par ch'i' ti vedessi mai. Ma dimmi chi tu se' che 'n sì dolente loco se' messo, e hai sì fatta pena,
che, s'altra è maggio, nulla è sì spiacente». Ed elli a me: «La tua città, ch'è piena d'invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena. Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco. E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno per simil colpa». E più non fé parola. Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno mi pesa sì, ch'a lagrimar mi 'nvita; ma dimmi, se tu sai, a che verranno li cittadin de la città partita;
s'alcun v'è giusto; e dimmi la cagione per che l'ha tanta discordia assalita».
E quelli a me: «Dopo lunga tencione verranno al sangue, e la parte selvaggia caccerà l'altra con molta offensione.

Poi appresso convien che questa caggia infra tre soli, e che l'altra sormonti con la forza di tal che testé piaggia.
Alte terrà lungo tempo le fronti, tenendo l'altra sotto gravi pesi, come che di ciò pianga o che n'aonti. Giusti son due, e non vi sono intesi; superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c'hanno i cuori accesi». Qui puose fine al lagrimabil suono. E io a lui: «Ancor vo' che mi 'nsegni e che di più parlar mi facci dono.
Farinata e 'l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca
e li altri ch'a ben far puoser li 'ngegni, dimmi ove sono e fa ch'io li conosca; ché gran disio mi stringe di savere
se 'l ciel li addolcia o lo 'nferno li attosca». E quelli: «Ei son tra l'anime più nere; diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere. Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch'a la mente altrui mi rechi: più non ti dico e più non ti rispondo». Li diritti occhi torse allora in biechi; guardommi un poco e poi chinò la testa: cadde con essa a par de li altri ciechi.

Una delle anime, non appena vede i due poeti, si leva a sedere e invita Dante a riconoscerla. Si tratta di Ciacco: secondo alcuni diminutivo di Iacopo; secondo altri soprannome dispregiativo, che significherebbe “porco”. Personaggio fiorentino del XIII secolo del quale non si hanno che poche ed incerte notizie.
Dante gli chiede di predire il futuro politico di Firenze. All’epoca i Guelfi fiorentini erano divisi nei due partiti dei Bianchi (capitanati da Vieri dei Cerchi) e dei Neri (guidati da Corso Donati). Ciacco dice che tra queste due fazioni ci saranno tensioni, e i Bianchi (chiamati da Dante “la parte selvaggia” perché erano rustici e provenivano dal contado) priveranno i Neri degli uffici civili e li espelleranno dalla città (ciò accadde realmente nel giugno del 1301). Ciacco dice anche che entro tre anni da questa sua profezia i Bianchi cadranno, e i Neri prevarranno grazie all’aiuto di papa Bonifacio VIII. Questi inviò a Firenze Carlo di Valois, apparentemente come paciere, in realtà col preciso compito di appoggiare i Neri suoi alleati e di bandire dalla città i Bianchi che ostacolavano la sua politica espansionistica; il legato pontificio si impadronì della città il 4 novembre 1301; ai Neri furono restituiti i diritti e il governo del Comune, mentre i Bianchi, tra cui Dante, furono esiliati.
Quanto alle cause che avrebbero indotto Firenze alla discordia, Ciacco cita la superbia, l’invidia e l’avarizia.
Quindi Ciacco ricade nella fanghiglia maleodorante.


94-111
E 'l duca disse a me: «Più non si desta di qua dal suon de l'angelica tromba, quando verrà la nimica podesta: ciascun rivederà la trista tomba, ripiglierà sua carne e sua figura, udirà quel ch'in etterno rimbomba».
Sì trapassammo per sozza mistura
de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti, toccando un poco la vita futura;

per ch'io dissi: «Maestro, esti tormenti crescerann' ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?». Ed elli a me: «Ritorna a tua scïenza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta, più senta il bene, e così la doglienza.
Tutto che questa gente maladetta in vera perfezion già mai non vada, di là più che di qua essere aspetta».

Virgilio spiega a Dante che Ciacco si rialzerà solo nel giorno del Giudizio Universale, quando al suono delle trombe degli angeli i morti risorgeranno con un corpo incorruttibile e immortale, mentre il corpo di coloro che in quel momento sono ancora vivi sarà trasformato per diventare glorioso come quello dei morti che saranno risuscitati. In quel giorno Gesù Cristo scenderà dal cielo e tutti, sia i vivi sia i morti risuscitati, riceveranno da Lui una sentenza che avrà valore per l’eternità (cfr. Prima lettera ai Corinzi, XV, 51-58; Prima lettera ai Tessalonicesi, III, 13-18).
Dante, notando che le anime dei dannati hanno un corpo “fittizio”, vuol sapere se l’anima, quando sarà rivestita della “sua” carne, dopo il Giudizio Universale, sentirà una pena maggiore, minore o uguale a quella che soffre ora. Virgilio gli spiega che, secondo la filosofia aristotelica, l’unione dell’anima e del corpo determina una maggiore perfezione e quindi una maggiore sensibilità alla letizia o al dolore.


112-115
Noi aggirammo a tondo quella strada, parlando più assai ch'i' non ridico; venimmo al punto dove si digrada:

quivi trovammo Pluto, il gran nemico.

Camminando, i due poeti scendono al quarto cerchio e giungono davanti a Pluto (del quale parleremo nel prossimo canto).

CANTO VII


1-15
«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!», cominciò Pluto con la voce chioccia; e quel savio gentil, che tutto seppe, disse per confortarmi: «Non ti noccia la tua paura; ché, poder ch'elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia». Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia,
e disse: «Taci, maladetto lupo! consuma dentro te con la tua rabbia.

Non è sanza cagion l'andare al cupo: vuolsi ne l'alto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo strupo». Quali dal vento le gonfiate vele caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca, tal cadde a terra la fiera crudele.

Pluto è il custode del quarto cerchio. Secondo la mitologia, era il dio della ricchezza, figlio di Giasone e di Cerere (da non confondere con Plutone, figlio di Saturno).
Non appena scorge i due poeti, Pluto pronuncia una frase minacciosa ed oscura, ma Virgilio ne doma la rabbia, spiegando a quel guardiano che il loro viaggio nell’Inferno è stato voluto nel cielo, dove l’arcangelo Michele, che scacciò Lucifero dal Paradiso, vendicò la ribellione a Dio.


16-60
Così scendemmo ne la quarta lacca, pigliando più de la dolente ripa
che 'l mal de l'universo tutto insacca. Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa nove travaglie e pene quant' io viddi? e perché nostra colpa sì ne scipa?
Come fa l'onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s'intoppa, così convien che qui la gente riddi.
Qui vid' i' gente più ch'altrove troppa, e d'una parte e d'altra, con grand' urli, voltando pesi per forza di poppa.
Percotëansi 'ncontro; e poscia pur lì si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?»
Così tornavan per lo cerchio tetro da ogne mano a l'opposito punto, gridandosi anche loro ontoso metro;
poi si volgea ciascun, quand' era giunto, per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra. E io, ch'avea lo cor quasi compunto,

dissi: «Maestro mio, or mi dimostra che gente è questa, e se tutti fuor cherci questi chercuti a la sinistra nostra».
Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci. Assai la voce lor chiaro l'abbaia,
quando vegnono a' due punti del cerchio dove colpa contraria li dispaia.
Questi fuor cherci, che non han coperchio piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio». E io: «Maestro, tra questi cotali dovre' io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali». Ed elli a me: «Vano pensiero aduni: la sconoscente vita che i fé sozzi,
ad ogne conoscenza or li fa bruni. In etterno verranno a li due cozzi: questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.

Mal dare e mal tener lo mondo pulcro ha tolto loro, e posti a questa zuffa:

qual ella sia, parole non ci appulcro.

Quindi i due poeti entrano nel quarto cerchio, dove sono puniti gli avari e i prodighi. Questi dannati sono considerati i più numerosi dell’Inferno. Dante inoltre constata come molti dei dannati siano uomini di chiesa. Nel semicerchio di sinistra gli avari, in quello di destra i prodighi, si muovono velocemente e in tondo, tanto da sembrare ballare la ridda (un ballo dal ritmo vorticoso), spingendo col petto un masso pesante, scontrandosi gli uni con gli altri. Giunte al punto di incontro le due schiere di peccatori si rinfacciano vicendevolmente il loro peccato: «Perché trattieni il denaro?», «Perché lo sperperi?»; poi si volgono indietro, riprendendo a spingere il loro masso fino all’opposto punto d’incontro.
Fra questi dannati Dante non riesce a riconoscere alcun volto; la conoscenza, infatti, cui gli avari e i prodighi hanno rinunciato con una vita senza misura (accaparrando troppo per gli avari e sperperando troppo per i prodighi), per contrappasso ora li rende irriconoscibili, affannati a portare avanti un inutile peso.


61-66
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa d'i ben che son commessi a la fortuna, per che l'umana gente si rabuffa;

ché tutto l'oro ch'è sotto la luna
e che già fu, di quest' anime stanche non poterebbe farne posare una».

A questo punto Dante, per bocca di Virgilio, introduce uno dei problemi più largamente dibattuti e sviluppati del pensiero medievale, quello della Fortuna (trattato, tra gli altri, da Severino Boezio nel II libro dell’opera intitolata De Consolatione Philosophiae).

67-69
«Maestro mio», diss’io, «or mi dì anche: questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?»
Dante domanda: «Maestro mio, ora dimmi anche: questa fortuna di cui mi fai accenno, che cosa è mai, per tenere tra le sue grinfie i beni del mondo?»

70-71
E quelli a me: «Oh creature sciocche, quanta ignoranza è quella che v’offende!

Virgilio gli risponde: «Oh uomini ingenui, quanto grande è l’ignoranza che vi affligge!

Il non sapere le cose che si devono sapere (ignoranza) reca danno (offende) all’intelligenza.

72
Or vo’ che tu mia sentenza ne ‘mbocche.
Adesso voglio che tu (Dante) assimili bene la mia spiegazione: te la imbocco come si imbocca il cibo a un bambino.

73-76
Colui lo cui saver tutto trascende, fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende, distribuendo igualmente la luce.

Colui che supera tutti i limiti della conoscenza (Dio), creò i cieli e stabilì chi li dovesse governare (cioè i cori angelici), cosicché allo splendore di ogni cielo corrisponde un coro angelico.

77-78
Similmente a li splendor mondani ordinò general ministra e duce

Allo stesso modo, ai beni del mondo (ricchezze, fama, potenza, doti fisiche) prepose la Fortuna, che quindi amministra e guida i beni terreni come fanno i cori angelici rispetto ai cieli loro assegnati.

79-81
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue, oltre la difension d’i senni umani;

Dio fece sì che la Fortuna trasferisse di tanto in tanto i beni terreni (li ben vani) da un popolo all’altro e da una famiglia all’altra, senza che la forza umana potesse opporvisi.

82-84

per ch’una gente impera e l’altra langue, seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue.
La Fortuna si muove ed agisce con un criterio che è nascosto all’uomo, così come rimane invisibile il serpente in mezzo all’erba.

85-87
Vostro saver non ha contrasto a lei: questa provede, giudica, e persegue suo regno come il loro li altri dèi.

La conoscenza umana non può opporsi alla Fortuna, la quale prevede, giudica e adempie all’ufficio assegnatole da Dio come perseguono il loro regno le intelligenze angeliche.

88-90
Le sue permutazion non hanno triegue: necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.
I cambiamenti operati dalla Fortuna sono senza sosta: la necessità di eseguire l’ordine divino la induce a muoversi velocemente; perciò accade di frequente che a qualcuno tocchi a turno di cambiare la propria situazione.

91-93
Quest’è colei ch’è tanto posta in croce pur da color che le dovrien dar lode, dandole biasmo a torto o mala voce;
Gli uomini maledicono, biasimano e diffamano la Fortuna, anche quelli che (per aver ricevuto i suoi benefici) dovrebbero lodarla.

94-96
ma ella s’è beata e ciò non ode: con l’altre prime creature lieta volve sua spera e beata si gode.

Ma ella (la Fortuna) è beata e non si fa fuorviare dalle lagnanze umane: insieme alle intelligenze, imperturbabile, fa girare la sua sfera (cioè esegue il comando divino), beata nella sua attività.


97-126
Or discendiamo omai a maggior pieta; già ogne stella cade che saliva
quand' io mi mossi, e 'l troppo star si vieta».
Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva sovr' una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva. L'acqua era buia assai più che persa; e noi, in compagnia de l'onde bige, intrammo giù per una via diversa. In la palude va c'ha nome Stige questo tristo ruscel, quand' è disceso al piè de le maligne piagge grige.
E io, che di mirare stava inteso, vidi genti fangose in quel pantano, ignude tutte, con sembiante offeso.

Queste si percotean non pur con mano, ma con la testa e col petto e coi piedi, troncandosi co' denti a brano a brano. Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi l'anime di color cui vinse l'ira;
e anche vo' che tu per certo credi che sotto l'acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest' acqua al summo, come l'occhio ti dice, u' che s'aggira.
Fitti nel limo dicon: "Tristi fummo ne l'aere dolce che dal sol s'allegra, portando dentro accidïoso fummo: or ci attristiam ne la belletta negra".
Quest' inno si gorgoglian ne la strozza, ché dir nol posson con parola integra».

È mezzanotte, e Virgilio fa notare a Dante che dal momento in cui si mosse dal Limbo per soccorrerlo nella selva oscura sono passate già dodici ore, e che devono riprendere subito il cammino, per non perdere tempo inutilmente.
I due poeti attraversano il quarto cerchio fino al margine opposto, all’altezza di una sorgente dalle acque torbide, che pullula e scorre in un fossato, fino a sboccare nella palude che si chiama Stige. Qui ha sede il quinto cerchio, dove sono puniti gli iracondi, i quali sono di due tipi:
a) i “pronti all’ira”, la cui ira è violenta ma di breve durata. Questi dannati, immersi nella palude Stigia, si colpiscono e si mordono ferocemente l’un l’altro;
b) i “tristi” (tra cui gli accidiosi, gli invidiosi e i superbi), i quali covano la loro ira a lungo, come un pensiero fisso; essi meditano la vendetta in continuo, ma non passano a compierla. Completamente immersi nella melma, con i loro sospiri e le loro parole fanno gorgogliare la superficie della palude.


127-130
Così girammo de la lorda pozza
grand' arco, tra la ripa secca e 'l mézzo, con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.

Venimmo al piè d'una torre al da sezzo.

Poi i due poeti compiono un ampio giro lungo la riva e giungono ai piedi di una torre (di cui parleremo nel prossimo canto).

CANTO VIII


1-30
Io dico, seguitando, ch'assai prima che noi fossimo al piè de l'alta torre, li occhi nostri n'andar suso a la cima
per due fiammette che i vedemmo porre, e un'altra da lungi render cenno,
tanto ch'a pena il potea l'occhio tòrre. E io mi volsi al mar di tutto 'l senno; dissi: «Questo che dice? e che risponde
quell' altro foco? e chi son quei che 'l fenno?»
Ed elli a me: «Su per le sucide onde già scorgere puoi quello che s'aspetta,
se 'l fummo del pantan nol ti nasconde».
Corda non pinse mai da sé saetta che sì corresse via per l'aere snella, com' io vidi una nave piccioletta

venir per l'acqua verso noi in quella, sotto 'l governo d'un sol galeoto,
che gridava: «Or se' giunta, anima fella!»
«Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto», disse lo mio segnore, «a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto». Qual è colui che grande inganno ascolta che li sia fatto, e poi se ne rammarca, fecesi Flegïàs ne l'ira accolta.
Lo duca mio discese ne la barca, e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand' io fui dentro parve carca. Tosto che 'l duca e io nel legno fui, segando se ne va l'antica prora
de l'acqua più che non suol con altrui.

Una barca si avvicina verso i due poeti. A condurla è Flegiàs, personaggio mitologico cui Dante attribuisce la funzione di nocchiero dello Stige (un fiume paludoso e melmoso che circonda la città di Dite, della quale parleremo tra poco) e di custode del cerchio degli iracondi.
Flegiàs era figlio di Ares (nome greco di Marte). Il dio Apollo gli oltraggiò la figlia, e lui, accecato dall’ira, incendiò il tempio del dio a Delfi, onde gli dèi lo condannarono al Tartaro alla pena di avere sospeso sopra la testa un enorme macigno, che sempre minacciava di schiacciarlo.
Flegiàs rivolge parole minacciose all’indirizzo di Dante, ma Virgilio lo zittisce e lo costringe a traghettarli sulla palude melmosa.


31-63
Mentre noi corravam la morta gora, dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se' tu che vieni anzi ora?» E io a lui: «S'i' vegno, non rimango; ma tu chi se', che sì se' fatto brutto?»
Rispuose: «Vedi che son un che piango». E io a lui: «Con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani;
ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto». Allor distese al legno ambo le mani; per che 'l maestro accorto lo sospinse, dicendo: «Via costà con li altri cani!».

Lo collo poi con le braccia mi cinse; basciommi 'l volto e disse: «Alma sdegnosa, benedetta colei che 'n te s'incinse!
Quei fu al mondo persona orgogliosa; bontà non è che sua memoria fregi: così s'è l'ombra sua qui furïosa.
Quanti si tegnon or là sù gran regi che qui staranno come porci in brago, di sé lasciando orribili dispregi!»
E io: «Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda prima che noi uscissimo del lago».

Ed elli a me: «Avante che la proda ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disïo convien che tu goda». Dopo ciò poco vid' io quello strazio far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.

Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»; e 'l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co' denti.

Uno degli iracondi, immerso nella palude, domanda a Dante chi sia, rifiutando però di rivelare il proprio nome. Il poeta tuttavia lo riconosce: si tratta del fiorentino Filippo Argenti, uomo superbo e arrogante, appartenente a una delle più ricche e potenti famiglie del tempo di Dante.


64-130
Quivi il lasciammo, che più non ne narro; ma ne l'orecchie mi percosse un duolo, per ch'io avante l'occhio intento sbarro.
Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo, s'appressa la città c'ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo».
E io: «Maestro, già le sue meschite là entro certe ne la valle cerno, vermiglie come se di foco uscite
fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno ch'entro l'affoca le dimostra rosse, come tu vedi in questo basso inferno».
Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse. Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
«Usciteci», gridò: «qui è l'intrata».
Io vidi più di mille in su le porte da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte va per lo regno de la morta gente?»
E 'l savio mio maestro fece segno di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada: pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai, che li ha' iscorta sì buia contrada». Pensa, lettor, se io mi sconfortai nel suon de le parole maladette, ché non credetti ritornarci mai.

«O caro duca mio, che più di sette volte m'hai sicurtà renduta e tratto d'alto periglio che 'ncontra mi stette, non mi lasciar», diss' io, «così disfatto; e se 'l passar più oltre ci è negato, ritroviam l'orme nostre insieme ratto». E quel segnor che lì m'avea menato,
mi disse: «Non temer; ché 'l nostro passo non ci può tòrre alcun: da tal n'è dato.
Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso conforta e ciba di speranza buona, ch'i' non ti lascerò nel mondo basso».
Così sen va, e quivi m'abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse, che sì e no nel capo mi tenciona.
Udir non potti quello ch'a lor porse; ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse. Chiuser le porte que' nostri avversari nel petto al mio segnor, che fuor rimase e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri:
«Chi m'ha negate le dolenti case!» E a me disse: «Tu, perch' io m'adiri,
non sbigottir, ch'io vincerò la prova, qual ch'a la difension dentro s'aggiri. Questa lor tracotanza non è nova; ché già l'usaro a men segreta porta, la qual sanza serrame ancor si trova. Sovr' essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l'erta, passando per li cerchi sanza scorta, tal che per lui ne fia la terra aperta».

Quindi i due poeti giungono davanti alle mura della “città di Dite”, che contiene i cerchi dal sesto al nono, quelli in cui sono puniti i peccati più gravi, quelli cioè commessi con violenza o con malizia (v. Introduzione all’Inferno). I cerchi dal sesto al nono sono compresi nel “Basso Inferno”.
Questa parte dell’Inferno prende il nome da Dite, nome latino di Ade, custode del Regno degli Inferi presso i pagani. Qui Dite si identifica con Lucifero.
La struttura della città di Dite somiglia a un castello medievale, con mura di difesa, fossati, torri. Davanti alle porte di Dite tantissimi diavoli (angeli cacciati dal cielo perché si ribellarono) impediscono l’entrata ai due poeti. I diavoli chiamano in disparte Virgilio, e gli manifestano il loro rifiuto di farli entrare nella città.

CANTO IX


1-33
Quel color che viltà di fuor mi pinse veggendo il duca mio tornare in volta, più tosto dentro il suo novo ristrinse. Attento si fermò com' uom ch'ascolta; ché l'occhio nol potea menare a lunga per l'aere nero e per la nebbia folta.
«Pur a noi converrà vincer la punga», cominciò el, «se non... Tal ne s'offerse.
Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!»
I' vidi ben sì com' ei ricoperse
lo cominciar con l'altro che poi venne, che fur parole a le prime diverse;
ma nondimen paura il suo dir dienne, perch' io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.
«In questo fondo de la trista conca discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?»

Questa question fec' io; e quei «Di rado incontra», mi rispuose, «che di noi
faccia il cammino alcun per qual io vado. Ver è ch'altra fïata qua giù fui, congiurato da quella Eritón cruda
che richiamava l'ombre a' corpi sui. Di poco era di me la carne nuda,
ch'ella mi fece intrar dentr' a quel muro, per trarne un spirto del cerchio di Giuda. Quell' è 'l più basso loco e 'l più oscuro, e 'l più lontan dal ciel che tutto gira:
ben so 'l cammin; però ti fa sicuro. Questa palude che 'l gran puzzo spira cigne dintorno la città dolente,
u' non potemo intrare omai sanz' ira».

Per un po’ Virgilio rimane addolorato per essergli stato negato l’accesso alla città di Dite; ma poi egli cancella tale stato d’animo, mostrandosi sereno e ottimista agli occhi di Dante, per non peggiorare il suo turbamento.
Dante desidera sapere se alcuno mai abbia varcato la porta della città di Dite, per ricavare un certo conforto da un’esperienza precedentemente tentata con esito positivo. Non chiede direttamente a Virgilio se abbia compiuto altra volta questo viaggio, ma pone la sua domanda in maniera generica, per non mostrare sfiducia verso il maestro.
Virgilio gli risponde che già un’altra volta, poco dopo la propria morte, lui venne qui, essendo stato scongiurato da Eritone, crudele maga che aveva il potere di far tornare le anime ai loro corpi; il motivo di quel viaggio era quello di prelevare uno spirito che scontava la sua pena nella parte più bassa dell’Inferno.


34-60
E altro disse, ma non l'ho a mente; però che l'occhio m'avea tutto tratto ver' l'alta torre a la cima rovente, dove in un punto furon dritte ratto tre furïe infernal di sangue tinte, che membra feminine avieno e atto, e con idre verdissime eran cinte; serpentelli e ceraste avien per crine, onde le fiere tempie erano avvinte.

E quei, che ben conobbe le meschine de la regina de l'etterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine. Quest' è Megera dal sinistro canto; quella che piange dal destro è Aletto; Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto. Con l'unghie si fendea ciascuna il petto; battiensi a palme e gridavan sì alto, ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto.

«Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto», dicevan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Tesëo l'assalto».
«Volgiti 'n dietro e tien lo viso chiuso; ché se 'l Gorgón si mostra e tu 'l vedessi, nulla sarebbe di tornar mai suso».

Così disse 'l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani, che con le sue ancor non mi chiudessi.

A un certo punto si drizzano improvvisamente le tre “Furie”, nome romano delle Erinni della mitologia greca, che l’antica leggenda immaginò sorelle. Queste hanno arti e atteggiamenti da donna, serpenti verdissimi fanno loro da cintura, serpenti piccoli e grossi formano i capelli. Le Erinni erano serve di Proserpina, moglie di Plutone (altro nome romano di Ade) e sovrana dell’Inferno pagano. Secondo alcuni commentatori esse simboleggiano i tre mali che ancora i due poeti devono visitare: la matta bestialità (VII cerchio), la frode (VIII cerchio), il tradimento (IX cerchio).
Le tre Furie si graffiano il petto, si percuotono con le palme delle mani e gridano fortemente. In coro dicono: «Venga Medusa, così lo faremo pietrificare (riferendosi a Dante)».
Medusa era una delle tre Gorgoni, figlie del dio marino Forco. Fu uccisa da Perseo, che le tagliò il capo, col quale, anche dopo morta, pietrificava chiunque la guardasse. Medusa rappresenterebbe secondo alcuni il terrore, poiché Dante è impedito soprattutto dal terrore di procedere nel cammino, che rende l’uomo come di pietra, incapace di agire.
Virgilio avverte il suo discepolo di coprirsi gli occhi con le mani per non guardare Medusa e, non nutrendo completa fiducia che Dante esegua l’ordine impartito, vi sovrappone anche le proprie mani. Questo gesto allegorico significa che la ragione non è sufficiente da sola a penetrare nell’ordine soprannaturale, ma è necessario il dono della grazia, indicata nel simbolismo del Messo celeste (che tra poco vedremo).

61-63
O voi c’avete li ‘ntelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto ‘l velame de li versi strani.

In questa terzina Dante si rivolge ai lettori della Divina Commedia che non hanno l’intelletto traviato dall’errore, avvertendoli che devono riuscire a cogliere non tanto il significato letterale dei versi che lui scrive, quanto quello morale, che è velato perché i versi contengono allegorie e quindi possono apparire a prima vista misteriosi (strani).

64-133

E già venìa su per le torbide onde
un fracasso d'un suon, pien di spavento, per cui tremavano amendue le sponde, non altrimenti fatto che d'un vento impetüoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz' alcun rattento li rami schianta, abbatte e porta fori; dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo». Come le rane innanzi a la nimica biscia per l'acqua si dileguan tutte,
fin ch'a la terra ciascuna s'abbica, vid' io più di mille anime distrutte fuggir così dinanzi ad un ch'al passo passava Stige con le piante asciutte. Dal volto rimovea quell' aere grasso, menando la sinistra innanzi spesso; e sol di quell' angoscia parea lasso.
Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo, e volsimi al maestro; e quei fé segno ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso. Ahi quanto mi parea pien di disdegno! Venne a la porta e con una verghetta l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno.
«O cacciati del ciel, gente dispetta», cominciò elli in su l'orribil soglia,
«ond' esta oltracotanza in voi s'alletta?
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo, e che più volte v'ha cresciuta doglia? Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo».

Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante d'omo cui altra cura stringa e morda che quella di colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver' la terra, sicuri appresso le parole sante.
Dentro li 'ntrammo sanz' alcuna guerra; e io, ch'avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,
com' io fui dentro, l'occhio intorno invio: e veggio ad ogne man grande campagna, piena di duolo e di tormento rio.
Sì come ad Arli, ove Rodano stagna, sì com' a Pola, presso del Carnaro ch'Italia chiude e suoi termini bagna, fanno i sepulcri tutt' il loco varo, così facevan quivi d'ogne parte,
salvo che 'l modo v'era più amaro; ché tra li avelli fiamme erano sparte, per le quali eran sì del tutto accesi, che ferro più non chiede verun' arte. Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor n'uscivan sì duri lamenti, che ben parean di miseri e d'offesi.
E io: «Maestro, quai son quelle genti che, seppellite dentro da quell' arche, si fan sentir coi sospiri dolenti?»
E quelli a me: «Qui son li eresïarche con lor seguaci, d'ogne setta, e molto più che non credi son le tombe carche. Simile qui con simile è sepolto,
e i monimenti son più e men caldi». E poi ch'a la man destra si fu vòlto,
passammo tra i martìri e li alti spaldi.

Quindi appare il Messo celeste (un angelo), il quale cammina sulla palude Stigia sfiorando l’acqua, come se camminasse sulla terra, senza bagnarsi: questo è un segno dell’intervento prodigioso.
Costui con uno scettro (segno di autorità) apre la porta della città di Dite senza alcuna resistenza, cosicché i due poeti possono entrare.
Ai loro occhi si presenta un grande spazio in cui sono disseminate tante tombe, ciascuna circondata dalle fiamme: siamo nel sesto cerchio, dove sono puniti i capi di sette eretiche e i loro seguaci.
Per “eresia” si intende una dottrina contraria alle verità fondamentali proposte dalla Chiesa cattolica.

Ad ogni setta è assegnato un luogo. I sepolcri, secondo la gravità dell’eresia, sono più o meno infuocati. I sepolcri sono aperti, e ne fuoriescono i duri lamenti dei dannati che vi giacciono dentro.

CANTO X


1-12
Ora sen va per un secreto calle, tra 'l muro de la terra e li martìri, lo mio maestro, e io dopo le spalle.
«O virtù somma, che per li empi giri mi volvi», cominciai, «com' a te piace, parlami, e sodisfammi a' miei disiri.

La gente che per li sepolcri giace potrebbesi veder? già son levati
tutt' i coperchi, e nessun guardia face». E quelli a me: «Tutti saran serrati quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati.

Virgilio spiega a Dante che i sepolcri degli eretici saranno chiusi per sempre quando le anime torneranno con i loro corpi dalla Valle di Giosafat (a Gerusalemme), dove avverrà il Giudizio Universale.
Nel libro del Vecchio Testamento intitolato Gioele (IV, 1-2) è scritto: [Parola del Signore, rivolta a Gioele]… “Poiché, ecco, in quei giorni e in quel tempo (cioè nei giorni del Giudizio Universale), quando avrò fatto tornare i prigionieri di Giuda e Gerusalemme, riunirò tutte le nazioni e le farò scendere nella valle di Giòsafat, e là verrò a giudizio con loro…”
In lingua ebraica “Giosafat” significa “Dio giudicherà”. Secondo una credenza nata nel IV secolo d.C., da un’estremità all’altra della valle appariranno due ponti, uno di ferro e uno di carta, e in base al giudizio di Dio ogni persona (esclusi gli eretici e, come vedremo nel XIII canto, i suicidi) verrà indirizzata verso uno dei due: il ponte di ferro crollerà, e tutte le persone che lo attraverseranno moriranno nel crollo, mentre il ponte di carta reggerà e coloro che lo attraverseranno saranno avviati alla vita eterna.
La chiusura definitiva dei sepolcri degli eretici impedirà a questi di riunire il corpo all’anima.


13-21
Suo cimitero da questa parte hanno con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l'anima col corpo morta fanno. Però a la dimanda che mi faci quinc' entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci».

E io: «Buon duca, non tegno riposto a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m'hai non pur mo a ciò disposto».

I due poeti stanno attraversando la parte del sesto cerchio occupata dai sepolcri degli Epicurei, che rappresentano una delle sette degli eretici.
Epicuro era un filosofo greco del IV secolo a.C. Egli ritenne che l’anima, “una sostanza corporea composta di sottili particelle, diffusa per tutto l’organismo”, essendo materiale è mortale come il corpo. Secondo Epicuro la felicità è possibile se si assume come positivo canone di vita il piacere, nel suo senso fisiologico. Il piacere risulta soprattutto una soppressione del dolore, che si ottiene innanzi tutto

soddisfacendo gli stimoli primari come la fame e la sete. Se il piacere è eliminazione dello stimolo, vivere nel piacere, cioè essere felici, significa soprattutto eliminare quei bisogni che non possono essere soddisfatti e vincere quei timori che impediscono un sereno godimento del piacere. Uno di questi timori da sopprimere è quello della morte. Secondo Epicuro la morte non esiste, è un’assenza pura: non è una malattia, ma è la fine di ogni malattia, così come di ogni piacere, del resto.
Dante considera la dottrina di Epicuro tra le più degne dell’antichità; la sua condanna riguarda solo la parte di questa dottrina che nega l’immortalità dell’anima.

22-51
«O Tosco che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto, piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto». Subitamente questo suono uscìo d'una de l'arche; però m'accostai, temendo, un poco più al duca mio. Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai? Vedi là Farinata che s'è dritto:
da la cintola in sù tutto 'l vedrai». Io avea già il mio viso nel suo fitto; ed el s'ergea col petto e con la fronte
com' avesse l'inferno a gran dispitto. E l'animose man del duca e pronte mi pinser tra le sepulture a lui, dicendo: «Le parole tue sien conte». Com' io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?»
Io ch'era d'ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel' apersi; ond' ei levò le ciglia un poco in suso; poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte, sì che per due fïate li dispersi».

«S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte», rispuos' io lui, «l'una e l'altra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell' arte».

Una voce esce da un sepolcro chiedendo a Dante di fermarsi perché dall’accento l’ha riconosciuto come fiorentino. La voce è quella di Farinata degli Uberti. Questi fu capo politico e militare dei Ghibellini fiorentini. Nel 1248 cacciò di città i Guelfi, che però tre anni dopo ritornarono, cacciando a loro volta in esilio i Ghibellini. Farinata, con l’appoggio soprattutto di Manfredi (re di Sicilia), dei Senesi e dei Pisani, mosse contro la lega guelfa (che comprendeva, oltre a Firenze, altre città del Centro-Nord Italia) e nella sanguinosa battaglia di Montaperti (1260), presso il fiume Arbia, li sconfisse. I vincitori si riunirono nella Dieta di Empoli, dove Farinata fu il solo che si oppose alla proposta di chi, per sancire la vittoria definitiva su Firenze, voleva che ne fosse decretata la distruzione. Dopo che Firenze tornò in mano ai Guelfi, Farinata e i suoi alleati subirono un processo postumo e furono condannati per eresia.


52-72
Allor surse a la vista scoperchiata un'ombra, lungo questa, infino al mento: credo che s'era in ginocchie levata.
Dintorno mi guardò, come talento avesse di veder s'altri era meco;
e poi che 'l sospecciar fu tutto spento, piangendo disse: «Se per questo cieco carcere vai per altezza d'ingegno,
mio figlio ov' è? e perché non è teco?» E io a lui: «Da me stesso non vegno: colui ch'attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».

Le sue parole e 'l modo de la pena m'avean di costui già letto il nome; però fu la risposta così piena.
Di sùbito drizzato gridò: «Come? dicesti "elli ebbe"? non viv' elli ancora? non fiere li occhi suoi lo dolce lume?» Quando s'accorse d'alcuna dimora ch'io facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.

Un altro dannato (anche lui epicureo) si solleva dal suo sepolcro: è Cavalcante de’ Cavalcanti che, riconosciuto in Dante l’amico di suo figlio Guido (pure lui poeta), domanda perché anche a suo figlio, che non è da meno di Dante nell’ingegno, non sia stato concesso il privilegio del viaggio nell’aldilà.
Dante non fornisce una pronta risposta: questo indugio è interpretato da Cavalcante come la conferma al proprio dubbio, e cioè che Guido è morto. Così Cavalcante ricade nel sepolcro vinto dal dolore per la sua errata convinzione.


73-120
Ma quell' altro magnanimo, a cui posta restato m'era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa;

e sé continüando al primo detto,
«S'elli han quell' arte», disse, «male appresa, ciò mi tormenta più che questo letto.

Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia de la donna che qui regge, che tu saprai quanto quell' arte pesa. E se tu mai nel dolce mondo regge, dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr' a' miei in ciascuna sua legge?» Ond' io a lui: «Lo strazio e 'l grande scempio che fece l'Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio». Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso,
«A ciò non fu' io sol», disse, «né certo sanza cagion con li altri sarei mosso.
Ma fu' io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto».
«Deh, se riposi mai vostra semenza», prega' io lui, «solvetemi quel nodo che qui ha 'nviluppata mia sentenza. El par che voi veggiate, se ben odo, dinanzi quel che 'l tempo seco adduce, e nel presente tenete altro modo».

«Noi veggiam, come quei c'ha mala luce, le cose», disse, «che ne son lontano; cotanto ancor ne splende il sommo duce. Quando s'appressano o son, tutto è vano nostro intelletto; e s'altri non ci apporta, nulla sapem di vostro stato umano.
Però comprender puoi che tutta morta fia nostra conoscenza da quel punto che del futuro fia chiusa la porta».
Allor, come di mia colpa compunto, dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che 'l suo nato è co' vivi ancor congiunto; e s'i' fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che 'l fei perché pensava già ne l'error che m'avete soluto». E già 'l maestro mio mi richiamava; per ch'i' pregai lo spirto più avaccio che mi dicesse chi con lu' istava.
Dissemi: «Qui con più di mille giaccio: qua dentro è 'l secondo Federico
e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio».

Ripresa la parola, Farinata predice a Dante che entro cinquanta mesi anche lui conoscerà la desolazione dell’esilio.
A Dante allora sorge un dubbio: se Farinata conosce il futuro di Dante, e cioè il suo esilio, perché Cavalcante ignora il presente (se cioè suo figlio Guido sia o no ancora vivo)?
Farinata gli spiega che i dannati sono come i presbiti, che vedono da lontano, ma non riescono a vedere da vicino; quindi i dannati sono in grado di vedere i fatti che accadranno tra molto tempo, ma non quelli che sono sul punto di accedere né quelli presenti.


121-136
Indi s'ascose; e io inver' l'antico poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico. Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: «Perché se' tu sì smarrito?» E io li sodisfeci al suo dimando.
«La mente tua conservi quel ch'udito hai contra te», mi comandò quel saggio;
«e ora attendi qui», e drizzò 'l dito:

«quando sarai dinanzi al dolce raggio di quella il cui bell' occhio tutto vede, da lei saprai di tua vita il vïaggio».
Appresso mosse a man sinistra il piede: lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo per un sentier ch'a una valle fiede,
che 'nfin là sù facea spiacer suo lezzo.

Dante è rattristato dalla profezia di Farinata, ma Virgilio lo conforta dicendogli che solo Beatrice (in quanto scienza teologica) potrà risolvergli ogni dubbio e spiegargli il corso della sua vita.

Così i due poeti riprendono il cammino e si dirigono verso il settimo cerchio.

CANTO XI


1-21
In su l'estremità d'un'alta ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio, venimmo sopra più crudele stipa;
e quivi, per l'orribile soperchio
del puzzo che 'l profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio d'un grand' avello, ov' io vidi una scritta che dicea: 'Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de la via dritta'.
«Lo nostro scender conviene esser tardo, sì che s'ausi un poco in prima il senso al tristo fiato; e poi no i fia riguardo».

Così 'l maestro; e io «Alcun compenso», dissi lui, «trova che 'l tempo non passi perduto». Ed elli: «Vedi ch'a ciò penso».
«Figliuol mio, dentro da cotesti sassi», cominciò poi a dir, «son tre cerchietti di grado in grado, come que' che lassi. Tutti son pien di spirti maladetti;
ma perché poi ti basti pur la vista, intendi come e perché son costretti.

I due poeti si trovano sulla sommità dell’argine circolare tra il sesto e il settimo cerchio, quando li investe un enorme puzzo che sale dalla parte inferiore dell’Inferno. Virgilio decide così di indugiare un po’ prima di scendere al settimo cerchio, affinché l’olfatto si abitui al fetore. Dante chiede al maestro che il tempo di questa attesa venga utilmente speso: nella sua vita reale Dante ha sempre attribuito al tempo un grande significato.
D’accordo con la richiesta del suo discepolo, Virgilio sfrutta quella pausa per cominciare a spiegargli la suddivisione dei tre cerchi rimanenti, quelli cioè dal settimo al nono.

22-27
D’ogne malizia, ch’odio in cielo acquista ingiuria è ‘l fine, ed ogne fin cotale
o con forza o con frode altrui contrista. Ma perché frode è de l’uom proprio male, più spiace a Dio; e però stan di sutto
li frodolenti, e più dolor li assale.

Il fine di ogni peccato commesso con malizia, che procura al suo autore il risentimento di Dio, è l’ingiustizia, la quale arreca danno o con la violenza o con la frode. Ma poiché la frode è una malvagità propria dell’uomo (in quanto richiede l’uso della ragione) è maggiormente disapprovata da Dio; e perciò i fraudolenti sono considerati i più gravi peccatori, e come tali condannati nel punto più basso dell’Inferno.

Questo concetto è tratto dal De officiis di Cicerone (I, 13): In due modi si può recare offesa: con la violenza e con la frode […]; indegnissime l’una e l’altra dell’uomo, ma la frode è assai più odiosa […]


28-51
Di vïolenti il primo cerchio è tutto; ma perché si fa forza a tre persone, in tre gironi è distinto e costrutto.
A Dio, a sé, al prossimo si pòne far forza, dico in loro e in lor cose, come udirai con aperta ragione.
Morte per forza e ferute dogliose
nel prossimo si danno, e nel suo avere ruine, incendi e tollette dannose; onde omicide e ciascun che mal fiere, guastatori e predon, tutti tormenta
lo giron primo per diverse schiere.

Puote omo avere in sé man vïolenta e ne' suoi beni; e però nel secondo giron convien che sanza pro si penta
qualunque priva sé del vostro mondo, biscazza e fonde la sua facultade,
e piange là dov' esser de' giocondo. Puossi far forza ne la deïtade,
col cor negando e bestemmiando quella, e spregiando natura e sua bontade;
e però lo minor giron suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella.

Nel settimo cerchio sono puniti i violenti. Questo cerchio è diviso in tre gironi: nel primo girone stanno i violenti contro il prossimo, nel secondo i violenti contro se stessi e nel terzo i violenti contro Dio.
Agiscono contro il prossimo coloro che commettono omicidio o feriscono gravemente gli altri o ne distruggono i beni o commettono ruberie ed estorsioni.
L’uomo può agire contro se stesso o con il suicidio o scialacquando i propri beni; l’elemento che distingue questi peccatori dai prodighi è la violenza con cui distruggono i propri beni.
I violenti contro Dio agiscono o direttamente contro di Lui oppure indirettamente, agendo contro la natura (che è opera Sua). Fanno violenza diretta contro Dio coloro che lo negano nel loro cuore e coloro che non riconoscendone la superiorità lo maledicono. Fanno violenza contro la natura, e quindi indirettamente verso Dio, i sodomiti e gli usurai. I sodomiti sono i peccatori di lussuria contro natura; il nome deriva dalla città di Sodoma, che sorgeva presso il Mar Morto e che fu distrutta dal fuoco celeste per punirne gli abominevoli vizi (cfr. Genesi, XIX).


52-66
La frode, ond' ogne coscïenza è morsa, può l'omo usare in colui che 'n lui fida e in quel che fidanza non imborsa.
Questo modo di retro par ch'incida pur lo vinco d'amor che fa natura; onde nel cerchio secondo s'annida ipocresia, lusinghe e chi affattura, falsità, ladroneccio e simonia, ruffian, baratti e simile lordura.

Per l'altro modo quell' amor s'oblia che fa natura, e quel ch'è poi aggiunto, di che la fede spezïal si cria;
onde nel cerchio minore, ov' è 'l punto de l'universo in su che Dite siede, qualunque trade in etterno è consunto».

Negli ultimi due cerchi dell’Inferno (l’ottavo e il nono) sono puniti coloro che hanno commesso il peccato della frode. Questa si può esercitare o contro chi non si fida oppure contro chi si fida; in quest’ultimo caso la frode si trasforma in un peccato ancora più grave, il tradimento.
Coloro che frodano le persone che non si fidano sono i fraudolenti veri e propri, e sono puniti nel secondo dei tre cerchi di cui si sta trattando (l’ottavo dell’Inferno). Questo cerchio è diviso in dieci bolge (che vedremo una per una nei prossimi canti). Coloro che invece frodano le persone che nutrono fiducia in loro sono i traditori, e sono puniti nel cerchio rimanente (il nono dell’Inferno).


67-90
E io: «Maestro, assai chiara procede la tua ragione, e assai ben distingue
questo baràtro e 'l popol ch'e' possiede. Ma dimmi: quei de la palude pingue, che mena il vento, e che batte la pioggia, e che s'incontran con sì aspre lingue, perché non dentro da la città roggia sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
e se non li ha, perché sono a tal foggia?» Ed elli a me «Perché tanto delira», disse, «lo 'ngegno tuo da quel che sòle? o ver la mente dove altrove mira?

Non ti rimembra di quelle parole con le quai la tua Etica pertratta
le tre disposizion che 'l ciel non vole, incontenenza, malizia e la matta bestialitade? e come incontenenza
men Dio offende e men biasimo accatta? Se tu riguardi ben questa sentenza,
e rechiti a la mente chi son quelli che sù di fuor sostegnon penitenza, tu vedrai ben perché da questi felli
sien dipartiti, e perché men crucciata la divina vendetta li martelli».

A questo punto Dante domanda al maestro per quale motivo coloro che in vita peccarono di incontinenza (lussuriosi, golosi, avari e prodighi, iracondi, accidiosi) sono condannati fuori della città di Dite, con pene meno dure. Virgilio rimane meravigliato di questa domanda, in quanto Dante dovrebbe conoscere bene il motivo di questa suddivisione delle pene nell’Inferno, perché ha letto e appreso bene la filosofia di Aristotele. Quest’ultimo nella sua Etica, infatti, tratta delle tre disposizioni che Dio non tollera: l’incontinenza, la matta bestialità e la malizia. Dante al posto della matta bestialità usa il termine “violenza”, e al posto della malizia usa il termine “frode”. Pertanto per Dante le tre disposizioni che Dio non tollera sono: l’incontinenza, la violenza e la frode. L’incontinenza è la forma di colpa meno grave, perché è solo frutto della passione e si limita a un abuso delle facoltà possedute. Invece i peccati di violenza e, soprattutto, i peccati di frode sono più gravi, perché commessi con la partecipazione della volontà e della conoscenza dell’atto peccaminoso.

91-93
«O sol che sani ogne vista turbata, tu mi contenti sì quando tu solvi,

che, non men che saver, dubbiar m’aggrata.

Dante si rivolge a Virgilio con parole di devozione: lo chiama “Sole” che raddrizza ogni giudizio (vista) errato, e gli esprime la propria gioia nell’ascoltare le sue spiegazioni; questa gioia è tale che il non sapere le cose gli è gradito come il saperle, appunto per il piacere di ascoltare da lui le spiegazioni delle cose che non sa.


94-111
Ancora in dietro un poco ti rivolvi», diss' io, «là dove di' ch'usura offende la divina bontade, e 'l groppo solvi».
«Filosofia», mi disse, «a chi la 'ntende, nota, non pure in una sola parte,
come natura lo suo corso prende dal divino 'ntelletto e da sua arte; e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte,

che l'arte vostra quella, quanto pote, segue, come 'l maestro fa 'l discente; sì che vostr' arte a Dio quasi è nepote. Da queste due, se tu ti rechi a mente lo Genesì dal principio, convene prender sua vita e avanzar la gente;
e perché l'usuriere altra via tene, per sé natura e per la sua seguace
dispregia, poi ch'in altro pon la spene.

Infine Dante domanda al maestro per quale motivo gli usurai sono considerati violenti contro Dio e non piuttosto violenti contro il prossimo. Per rispondere a questa domanda Virgilio fa ricorso ancora una volta alla filosofia di Aristotele, ed esattamente alla Fisica, nella quale si sostiene che l’uomo deve ricavare i mezzi per vivere solo dalla natura e dal suo lavoro. «Tra l’altro», dice Virgilio, «nel Genesi della Bibbia (III, 19) Dio assegna all’uomo il compito di lavorare (Con il sudore del tuo volto mangerai il pane…). Gli usurai offendono la divina bontà perché ricavano il loro sostentamento né dalla natura né dal lavoro, bensì lo traggono dal danaro, contravvenendo così all’ordine predisposto da Dio.»


112-115
Ma seguimi oramai che 'l gir mi piace; ché i Pesci guizzan su per l'orizzonta, e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace,

e 'l balzo via là oltra si dismonta».

Sono le tre di notte e Virgilio invita Dante a riprendere il cammino.

CANTO XII


1-21
Era lo loco ov' a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v'er' anco, tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva.
Qual è quella ruina che nel fianco di qua da Trento l'Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco, che da cima del monte, onde si mosse, al piano è sì la roccia discoscesa, ch'alcuna via darebbe a chi sù fosse: cotal di quel burrato era la scesa;
e 'n su la punta de la rotta lacca l'infamïa di Creti era distesa

che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse, sì come quei cui l'ira dentro fiacca. Lo savio mio inver' lui gridò: «Forse tu credi che qui sia 'l duca d'Atene, che sù nel mondo la morte ti porse? Pàrtiti, bestia, ché questi non vene ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene».

I due poeti giungono davanti al settimo cerchio, il cui guardiano è il Minotauro. Nella mitologia greca questo era un mostro metà uomo e metà toro. Era nato dal mostruoso amore di Pasifae, regina di Creta e moglie di Minosse, per un toro. Secondo il mito, il Minotauro era rinchiuso nel Labirinto, un palazzo formato da un inestricabile susseguirsi di camere, corridoi, sale, finti ingressi e finte porte, in modo tale che al suo interno era inevitabile perdersi, e quindi impossibile uscirne. Il re degli Ateniesi, Egeo, aveva ucciso Androgeo, figlio di Minosse; per vendetta quest’ultimo obbligò gli Ateniesi a consegnare una volta all’anno quattordici giovani, sette maschi e sette femmine, da dare in pasto al Minotauro. Il figlio di Egeo, Teseo, si recò a Creta per liberare la sua patria da questo tributo annuale, entrò nel Labirinto e uccise il Minotauro; Teseo poté poi uscire dal Labirinto grazie a un filo datogli da Arianna, figlia di Minosse, che si era innamorata di lui.
Qui il Minotauro, vinto da un istinto che non riesce a domare, morde se stesso. Questo mostro raffigura la violenza, che offuscando la ragione riduce l’uomo simile a bestia.


22-48
Qual è quel toro che si slaccia in quella c'ha ricevuto già 'l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella, vid' io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: «Corri al varco; mentre ch'e' 'nfuria, è buon che tu ti cale».
Così prendemmo via giù per lo scarco di quelle pietre, che spesso moviensi sotto i miei piedi per lo novo carco.

Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi forse a questa ruina, ch'è guardata
da quell' ira bestial ch'i' ora spensi.
Or vo' che sappi che l'altra fïata
ch'i' discesi qua giù nel basso inferno, questa roccia non era ancor cascata.
Ma certo poco pria, se ben discerno, che venisse colui che la gran preda levò a Dite del cerchio superno,

da tutte parti l'alta valle feda
tremò sì, ch'i' pensai che l'universo sentisse amor, per lo qual è chi creda più volte il mondo in caòsso converso; e in quel punto questa vecchia roccia, qui e altrove, tal fece riverso.

Ma ficca li occhi a valle, ché s'approccia la riviera del sangue in la qual bolle qual che per vïolenza in altrui noccia».

Approfittando di un momento in cui il Minotauro si allontana dal suo posto di guardia in preda alla furia dovuta alla loro presenza, i due poeti attraversano il varco ed entrano nel primo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i violenti contro il prossimo e le sue cose.
Virgilio dice che la prima volta che lui scese all’Inferno (cfr. Inf., IX) le pareti rocciose che cingono il settimo cerchio erano ancora integre, mentre ora appaiono spaccate in seguito al violento terremoto che scosse l’Inferno al momento della morte di Cristo.

49-51
Oh cieca cupidigia e ira folle, che sì ci sproni ne la vita corta,
e ne l’etterna poi sì mal c’immolle!

Dante vede il raccapricciante spettacolo dei dannati immersi nel Flegetonte, il fiume di sangue bollente, e dentro di sé esclama: «Oh insaziabile cupidigia dei beni materiali e animalesca violenza, che nella vita terrena tentate noi uomini in modo così intenso, ma nella vita ultraterrena poi ci riducete a una condizione così misera e dolorosa di dannati immersi nel fiume di sangue bollente!»


52-75
Io vidi un'ampia fossa in arco torta, come quella che tutto 'l piano abbraccia, secondo ch'avea detto la mia scorta;
e tra 'l piè de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri, armati di saette, come solien nel mondo andare a caccia. Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;
e l'un gridò da lungi: «A qual martiro venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, l'arco tiro».

Lo mio maestro disse: «La risposta farem noi a Chirón costà di presso: mal fu la voglia tua sempre sì tosta». Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso, che morì per la bella Deianira,
e fé di sé la vendetta elli stesso.
E quel di mezzo, ch'al petto si mira,
è il gran Chirón, il qual nodrì Achille; quell' altro è Folo, che fu sì pien d'ira. Dintorno al fosso vanno a mille a mille, saettando qual anima si svelle
del sangue più che sua colpa sortille».

Per la legge del contrappasso, come in vita questi dannati furono assetati di sangue, così ora nel sangue sono immersi. I guardiani di questo girone del settimo cerchio

sono i Centauri, i quali colpiscono con i dardi quei dannati che per trovar sollievo al loro tormento tentano di trarsi fuori dal fiume bollente.
I Centauri erano mostri mitologici dai costumi rozzi e brutali, con la parte superiore del corpo di uomo e la restante parte di cavallo. Un centauro, Chirone, a differenza degli altri, era molto amico degli uomini, saggio e benevolo; educò Achille e altri eroi e semidèi, come i Dioscuri e Teseo. Forse per questa sua natura Dante lo pone a capo dei centauri dell’Inferno.
Qui i Centauri simboleggiano i soldati e i mercenari, che sono gli strumenti delle violenze dei tiranni.


76-99
Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: Chirón prese uno strale, e con la cocca fece la barba in dietro a le mascelle.
Quando s'ebbe scoperta la gran bocca, disse a' compagni: «Siete voi accorti che quel di retro move ciò ch'el tocca? Così non soglion far li piè d'i morti».
E 'l mio buon duca, che già li er' al petto, dove le due nature son consorti, rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto mostrar li mi convien la valle buia; necessità 'l ci 'nduce, e non diletto.

Tal si partì da cantare alleluia
che mi commise quest' officio novo: non è ladron, né io anima fuia.
Ma per quella virtù per cu' io movo li passi miei per sì selvaggia strada,
danne un de' tuoi, a cui noi siamo a provo, e che ne mostri là dove si guada,
e che porti costui in su la groppa, ché non è spirto che per l'aere vada». Chirón si volse in su la destra poppa, e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida,
e fa cansar s'altra schiera v'intoppa».

Chirone nota che sotto i piedi di Dante i sassi rotolano: da ciò egli deduce che il poeta è vivo. Virgilio gli spiega che l’incarico di guidare Dante vivo tra i morti gli fu ordinato da Beatrice, venuta apposta dal Paradiso, dove si canta l’”alleluia”. Questa parola deriva dall’ebraico, ed è composta dal verbo hallelu (=lodate) e dall’abbreviazione Iah per Iahweh (= il Signore).
Su richiesta di Virgilio, Chirone incarica Nesso (altro famoso centauro della mitologia classica, il quale fu ucciso da Eracle perché aveva tentato di rapire sua moglie Deianira) di guidarli e di portare Dante (che non essendo un’anima non vola) sulla groppa.

100-102
Or ci movemmo con la scorta fida lungo la proda del bollor vermiglio, dove i bolliti facieno alte strida.

Guidati da Nesso i due poeti si muovono lungo la riva del fiume di sangue bollente, nel quale i dannati che vi sono immersi lanciano forti urla di dolore.

103-139
Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e 'l gran centauro disse: «E' son tiranni che dier nel sangue e ne l'aver di piglio. Quivi si piangon li spietati danni;
quivi è Alessandro, e Dïonisio fero che fé Cicilia aver dolorosi anni.
E quella fronte c'ha 'l pel così nero,
è Azzolino; e quell' altro ch'è biondo, è Opizzo da Esti, il qual per vero
fu spento dal figliastro sù nel mondo». Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
«Questi ti sia or primo, e io secondo». Poco più oltre il centauro s'affisse sovr' una gente che 'nfino a la gola parea che di quel bulicame uscisse.
Mostrocci un'ombra da l'un canto sola, dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola».

Poi vidi gente che di fuor del rio tenean la testa e ancor tutto 'l casso; e di costoro assai riconobb' io.
Così a più a più si facea basso
quel sangue, sì che cocea pur li piedi; e quindi fu del fosso il nostro passo.
«Sì come tu da questa parte vedi lo bulicame che sempre si scema»,
disse 'l centauro, «voglio che tu credi che da quest' altra a più a più giù prema lo fondo suo, infin ch'el si raggiunge ove la tirannia convien che gema.
La divina giustizia di qua punge quell' Attila che fu flagello in terra, e Pirro e Sesto; e in etterno munge le lagrime, che col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, che fecero a le strade tanta guerra». Poi si rivolse e ripassossi 'l guazzo.

Durante il percorso, Nesso fa notare ai due poeti che i dannati sono più o meno immersi nel Flegetonte, a seconda delle loro colpe. Questo tipo di pena a Dante fu probabilmente ispirato dalla lettura della Visio sancti Pauli, opera letteraria di autore anonimo.
Più si è immersi, più la colpa è considerata grave:
• immersi sino agli occhi sono i tiranni, che fecero violenza ai loro sudditi uccidendoli e spogliandoli della loro roba;
• immersi sino alla gola sono gli altri omicidi;
• immersi sino alla cintola sono i feritori, i devastatori e i predoni.
Giunti nel punto in cui il livello del Flegetonte è talmente basso che può essere guadato a piedi, Nesso lascia i due poeti e torna indietro.

CANTO XIII


1-21
Non era ancor di là Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato.
Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti; non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco. Non han sì aspri sterpi né sì folti quelle fiere selvagge che 'n odio hanno tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani con tristo annunzio di futuro danno.

Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre; fanno lamenti in su li alberi strani.
E 'l buon maestro «Prima che più entre, sappi che se' nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre che tu verrai ne l'orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone».

Guadato il fiume Flegetonte, Dante e Virgilio si incamminano in un bosco impervio, nel quale gli alberi hanno rami secchi, nodosi e contorti, e anziché frutti commestibili hanno spine velenose. Siamo nel secondo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i violenti contro se stessi e le proprie cose. I guardiani di questo girone sono le Arpìe, che secondo la tradizione mitologica sono in numero di tre. Esse hanno volto di donna e corpo di uccelli rapaci, con grandi ali e artigli ai piedi; hanno i loro nidi tra questi alberi ed emettono strani lamenti.


22-69
Io sentia d'ogne parte trarre guai e non vedea persona che 'l facesse;
per ch'io tutto smarrito m'arrestai.
Cred' ïo ch'ei credette ch'io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi, da gente che per noi si nascondesse.
Però disse 'l maestro: «Se tu tronchi qualche fraschetta d'una d'este piante, li pensier c'hai si faran tutti monchi».
Allor porsi la mano un poco avante e colsi un ramicel da un gran pruno;
e 'l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?» Da che fatto fu poi di sangue bruno, ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno? Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebb' esser la tua man più pia, se state fossimo anime di serpi».

Come d'un stizzo verde ch'arso sia da l'un de' capi, che da l'altro geme e cigola per vento che va via,
sì de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ond' io lasciai la cima cadere, e stetti come l'uom che teme.
«S'elli avesse potuto creder prima», rispuose 'l savio mio, «anima lesa, ciò c'ha veduto pur con la mia rima, non averebbe in te la man distesa; ma la cosa incredibile mi fece indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.
Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece d'alcun' ammenda tua fama rinfreschi nel mondo sù, dove tornar li lece».
E 'l tronco: «Sì col dolce dir m'adeschi, ch'i' non posso tacere; e voi non gravi perch' ïo un poco a ragionar m'inveschi.

Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ogn' uom tolsi; fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.

La meretrice che mai da l'ospizio di Cesare non torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio, infiammò contra me li animi tutti;
e li 'nfiammati infiammar sì Augusto, che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.

Dante sente dei gemiti umani, ma non vede intorno anime che possano emetterli. Virgilio allora lo invita a spezzare da uno degli alberi un ramoscello; ma appena lo fa, dal tronco interessato comincia a sgorgare sangue e sente un grido di dolore. Dall’albero esce una voce: è quella di Pier delle Vigne, oratore e scrittore appartenente alla scuola poetica siciliana sviluppatasi alla corte di Federico II di Svevia. Quest’ultimo lo nominò gran cancelliere imperiale. Sotto l’accusa di tradimento, Piero fu arrestato e trasportato a San Miniato, presso Pisa, dove nel 1249 si uccise.
Pier delle Vigne proclama ai due poeti di non aver mancato alla fede prestata nell’incarico più degno e onorato della corte, e attribuisce la sua rovina all’invidia dei cortigiani, i quali suscitarono a tal punto la diffidenza dell’imperatore Federico nei suoi confronti che gli onori si tramutarono in sospetti e persecuzioni.

70-72
L’animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto.

Chi parla è sempre Pier delle Vigne, il quale dice che il proprio animo, mosso da uno spirito di amara ribellione, illudendosi di sfuggire con la morte all’ingiusto disprezzo e all’ira del sovrano e dell’opinione pubblica, lo indusse a peccare commettendo ingiuria contro se stesso (con il suicidio), lui che fino ad allora era stato la vittima innocente della calunnia.


73-108
Per le nove radici d'esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede al mio segnor, che fu d'onor sì degno. E se di voi alcun nel mondo riede, conforti la memoria mia, che giace ancor del colpo che 'nvidia le diede».
Un poco attese, e poi «Da ch'el si tace», disse 'l poeta a me, «non perder l'ora; ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».

Ond' ïo a lui: «Domandal tu ancora di quel che credi ch'a me satisfaccia;
ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora». Perciò ricominciò: «Se l'om ti faccia liberamente ciò che 'l tuo dir priega, spirito incarcerato, ancor ti piaccia
di dirne come l'anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, s'alcuna mai di tai membra si spiega».

Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi.
Quando si parte l'anima feroce
dal corpo ond' ella stessa s'è disvelta, Minòs la manda a la settima foce.
Cade in la selva, e non l'è parte scelta; ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.

Surge in vermena e in pianta silvestra: l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie, fanno dolore, e al dolor fenestra.
Come l'altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch'alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie. Qui le strascineremo, e per la mesta selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l'ombra sua molesta».

La morte non era stata una soluzione giovevole all’innocenza di Piero: gli avversari ne avevano tratto motivo di implicita confessione e di vergogna.
A un certo punto Piero spiega come i suicidi si trasformino in piante: dopo il giudizio di Minosse che, come già detto, è il giudice infernale, i colpevoli di violenza contro se stessi sono scagliati a caso, come semi, nella selva del secondo girone del settimo cerchio, dove subito crescono come spinose piante selvatiche. Le Arpìe tormentano i dannati nutrendosi delle loro foglie, provocando così loro ferite e dolori.
Per contrappasso, questi dannati, avendo infranto con il suicidio l’unità di corpo e anima voluta da Dio, sono privati del corpo umano e rivestono un corpo di natura inferiore, cioè quello vegetale. Dopo il Giudizio Universale la pena per i suicidi sarà ancora più dura: essi torneranno come tutti gli altri dannati dalla Valle di Giosafat con il loro corpo, ma invece di rivestirlo lo dovranno appendere ai rami del proprio albero. Proprio in ciò consiste l’aggravarsi della pena per i suicidi: l’impossibilità di riprendere il proprio corpo (pena condivisa con gli eretici: cfr. commento ai vv. 1-12 del X canto). Il motivo di questa condanna è che l’uomo non è l’autore della propria vita, e perciò non ha il diritto di togliersela. Pertanto l’uomo, piuttosto che scegliere la via del suicidio, deve seguire il valore umano e cristiano della sofferenza.


109-151
Noi eravamo ancora al tronco attesi, credendo ch'altro ne volesse dire, quando noi fummo d'un romor sorpresi, similemente a colui che venire
sente 'l porco e la caccia a la sua posta, ch'ode le bestie, e le frasche stormire. Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte, che de la selva rompieno ogne rosta.
Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!» E l'altro, cui pareva tardar troppo, gridava: «Lano, sì non furo accorte
le gambe tue a le giostre dal Toppo!» E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d'un cespuglio fece un groppo.

Di rietro a loro era la selva piena di nere cagne, bramose e correnti come veltri ch'uscisser di catena.
In quel che s'appiattò miser li denti, e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti. Presemi allor la mia scorta per mano, e menommi al cespuglio che piangea per le rotture sanguinenti in vano.
«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea, che t'è giovato di me fare schermo? che colpa ho io de la tua vita rea?» Quando 'l maestro fu sovr' esso fermo, disse: «Chi fosti, che per tante punte soffi con sangue doloroso sermo?»

Ed elli a noi: «O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto
c'ha le mie fronde sì da me disgiunte, raccoglietele al piè del tristo cesto.
I' fui de la città che nel Batista
mutò 'l primo padrone; ond' ei per questo

sempre con l'arte sua la farà trista;
e se non fosse che 'n sul passo d'Arno rimane ancor di lui alcuna vista,
que' cittadin che poi la rifondarno sovra 'l cener che d'Attila rimase, avrebber fatto lavorare indarno.
Io fei gibetto a me de le mie case».

Mentre ancora stanno dialogando con Pier delle Vigne, i due poeti sono sorpresi da un violento rumore di corsa e latrati di cani. Ai loro occhi appaiono i violenti contro le proprie cose (gli scialacquatori) che fuggono nudi nella selva, inseguiti da cagne nere e fameliche. Nel fare questo gli scialacquatori graffiano se stessi e spezzano i rami delle piante, provocando sofferenza ai suicidi. Le cagne fameliche raggiungono gli scialacquatori e li sbranano senza sosta; gli animali disperdono poi le loro membra, come loro smembrarono e distrussero i propri beni.

CANTO XIV


1-15
Poi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte e rende'le a colui, ch'era già fioco. Indi venimmo al fine ove si parte lo secondo giron dal terzo, e dove si vede di giustizia orribil arte.
A ben manifestar le cose nove, dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove.

La dolorosa selva l'è ghirlanda intorno, come 'l fosso tristo ad essa;
quivi fermammo i passi a randa a randa. Lo spazzo era una rena arida e spessa, non d'altra foggia fatta che colei
che fu da' piè di Caton già soppressa.

I due poeti giungono a una pianura sabbiosa e priva di piante, la quale è la sede del terzo girone del settimo cerchio, in cui sono puniti i violenti contro Dio. Questa pianura è circondata tutt’intorno dalla selva dei suicidi.

16-18
O vendetta di Dio, quanto tu dei esser temuta da ciascun che legge ciò che fu manifesto a li occhi mei!

Per “vendetta di Dio” Dante intende la giustizia divina, che punisce i peccatori. Il poeta in questa terzina dice: “Chi legge questi versi che descrivono ciò che io vidi (cioè la penosa condizione dei dannati di questo girone) proverà sicuramente un grande timore di te, oh giustizia divina!” Con questi richiami (si ricordi anche quello fatto con i versi 49-51 del canto XII) Dante, rivolgendosi al lettore, adempie ad uno dei fini del poema, quello esortativo.


19-72
D'anime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente, e parea posta lor diversa legge.
Supin giacea in terra alcuna gente, alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continüamente.
Quella che giva 'ntorno era più molta, e quella men che giacëa al tormento, ma più al duolo avea la lingua sciolta.
Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento, piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.

Quali Alessandro in quelle parti calde d'Indïa vide sopra 'l süo stuolo fiamme cadere infino a terra salde, per ch'ei provide a scalpitar lo suolo con le sue schiere, acciò che lo vapore mei si stingueva mentre ch'era solo: tale scendeva l'etternale ardore;
onde la rena s'accendea, com' esca sotto focile, a doppiar lo dolore.
Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci escotendo da sé l'arsura fresca.

I' cominciai: «Maestro, tu che vinci tutte le cose, fuor che ' demon duri
ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci, chi è quel grande che non par che curi
lo 'ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che 'l marturi?»
E quel medesmo, che si fu accorto ch'io domandava il mio duca di lui, gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto. Se Giove stanchi 'l suo fabbro da cui crucciato prese la folgore aguta
onde l'ultimo dì percosso fui;
o s'elli stanchi li altri a muta a muta in Mongibello a la focina negra,
chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”,

sì com' el fece a la pugna di Flegra, e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra».
Allora il duca mio parlò di forza tanto, ch'i' non l'avea sì forte udito:
«O Capaneo, in ciò che non s'ammorza la tua superbia, se' tu più punito; nullo martiro, fuor che la tua rabbia, sarebbe al tuo furor dolor compito».
Poi si rivolse a me con miglior labbia, dicendo: «Quei fu l'un d'i sette regi ch'assiser Tebe; ed ebbe e par ch'elli abbia Dio in disdegno, e poco par che 'l pregi; ma, com' io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi.

Dopo l’esortazione rivolta ai lettori della Divina Commedia, il poeta descrive lo stato dei dannati di questo girone, che sono tutti nudi, piangenti ed esposti ad una pioggia di fuoco che, cadendo, incendia anche la distesa di sabbia.
Il terzo girone del settimo cerchio ha una triplice suddivisione:
• i bestemmiatori (che fanno violenza diretta contro Dio), i quali sono distesi supini; essi sono considerati, dei tre gruppi, i maggiori colpevoli e sono anche quelli meno numerosi;
• i sodomiti (che fanno violenza alla natura, e quindi violenza indiretta contro Dio), i quali sono costretti a camminare senza mai fermarsi e sono i più numerosi;
• gli usurai (che fanno violenza alla natura e all’arte, e quindi violenza indiretta a Dio), i quali stanno seduti raccolti in se stessi per offrire meno bersaglio alla pioggia di fuoco (infatti la loro colpa è considerata meno grave di quella dei bestemmiatori).
Le fiamme cadono lente e larghe come fiocchi di neve: il contrasto con una refrigerante nevicata risulta più efficace e terribile; inoltre, la lentezza con cui le fiamme cadono, contribuisce a renderle più larghe e quindi più infuocate. La pioggia di fuoco è stata suggerita a Dante dal ricordo del Genesi della Bibbia, in cui è narrata la fine delle due città viziose di Sodoma e Gomorra, distrutte dalle fiamme lanciate da Dio.


73-142
Or mi vien dietro, e guarda che non metti, ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien li piedi stretti».
Tacendo divenimmo là 've spiccia fuor de la selva un picciol fiumicello, lo cui rossore ancor mi raccapriccia.

Quale del Bulicame esce ruscello che parton poi tra lor le peccatrici, tal per la rena giù sen giva quello.
Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt' era 'n pietra, e ' margini da lato; per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici.

«Tra tutto l'altro ch'i' t'ho dimostrato, poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno è negato, cosa non fu da li tuoi occhi scorta notabile com' è 'l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta». Queste parole fuor del duca mio;
per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto di cui largito m'avëa il disio.
«In mezzo mar siede un paese guasto», diss' elli allora, «che s'appella Creta, sotto 'l cui rege fu già 'l mondo casto. Una montagna v'è che già fu lieta d'acqua e di fronde, che si chiamò Ida; or è diserta come cosa vieta.
Rëa la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio, quando piangea, vi facea far le grida. Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, che tien volte le spalle inver' Dammiata
e Roma guarda come süo speglio. La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e 'l petto, poi è di rame infino a la forcata;
da indi in giuso è tutto ferro eletto, salvo che 'l destro piede è terra cotta;
e sta 'n su quel, più che 'n su l'altro, eretto. Ciascuna parte, fuor che l'oro, è rotta d'una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran quella grotta.

Lor corso in questa valle si diroccia; fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia, infin, là dove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno tu lo vedrai, però qui non si conta».
E io a lui: «Se 'l presente rigagno si diriva così dal nostro mondo,
perché ci appar pur a questo vivagno?» Ed elli a me: «Tu sai che 'l loco è tondo; e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo, non se' ancor per tutto 'l cerchio vòlto; per che, se cosa n'apparisce nova,
non de' addur maraviglia al tuo volto». E io ancor: «Maestro, ove si trova Flegetonta e Letè? ché de l'un taci,
e l'altro di' che si fa d'esta piova».
«In tutte tue question certo mi piaci», rispuose, «ma 'l bollor de l'acqua rossa dovea ben solver l'una che tu faci.
Letè vedrai, ma fuor di questa fossa, là dove vanno l'anime a lavarsi quando la colpa pentuta è rimossa». Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi dal bosco; fa che di retro a me vegne: li margini fan via, che non son arsi,
e sopra loro ogne vapor si spegne».

A un certo punto Virgilio invita Dante a riprendere il cammino, facendo attenzione a non mettere i piedi sulla distesa di sabbia infuocata, tenendosi il più possibile vicino alla selva.
I due poeti giungono alla fonte del Flegetonte. Virgilio spiega a Dante che nell’isola di Creta c’è un monte, di nome Ida, sul quale nacque Zeus. La leggenda narra che il titano Crono (nome greco di Saturno) sposò Rea, una delle sue sorelle titanesse. Poiché però gli era stato profetizzato che sarebbe stato spodestato da uno dei suoi figli, Crono li divorava man mano che questi venivano alla luce. Rea però salvò Zeus dalla brutale pratica: in attesa di questo figlio, infatti, ella si rifugiò in una grotta del monte Ida per dare alla luce il piccolo. Quindi dette in pasto a Crono una grossa pietra, avvolta in una coperta, facendogli credere che dentro ci fosse il bambino. Dentro al monte Ida c’è una statua di un vecchio di gigantesche dimensioni, chiamato “Veglio di Creta”. Nella concezione dantesca questa statua simboleggia l’uomo dopo il peccato originale. Questa statua è composta di diversi metalli, per indicare le diverse età del mondo che seguirono la fine del Paradiso terrestre: ha la testa d’oro, le braccia e il petto d’argento, la vita e il bacino di rame,

le gambe di ferro. Ma uno dei due piedi è di terracotta, ed è proprio su quello che grava la maggior parte del peso della statua; probabilmente il piede di terracotta è il simbolo della Chiesa nel suo stato di corruzione e di decadenza. Ciascuna parte della statua, ad eccezione della testa, è attraversata da una crepa: ciò sta a indicare che nell’età dell’oro, e quindi prima del peccato originale, l’umanità era incorrotta. Dalle crepe scendono lacrime: queste sono il simbolo della natura umana che piange, perché spiritualmente malata. Queste lacrime scendendo di roccia in roccia nella valle dell’Inferno si raccolgono in un unico fiume, che prende nomi diversi man mano che scende: all’inizio si chiama Acheronte, ed è composto di acqua; poi prende il nome di Stige, ed è fangoso; quindi diventa il Flegetonte, ed è di sangue; infine assume il nome di Cocito, ed è di ghiaccio. Questa statua, che Dante chiama “Veglio di Creta”, è trattata pure nel II capitolo del Libro del profeta Daniele (appartenente al Vecchio Testamento).
Dante poi domanda al maestro per quale motivo lui ha nominato il Flegetonte, ma non ha nominato il Letè (che è il fiume dell’oblio). Virgilio gli risponde che tale fiume lo incontrerà sulla vetta del Purgatorio, nel Paradiso terrestre, dove le anime vanno a bagnarsi della sua acqua perché questo fiume ha il potere di fare dimenticare le colpe commesse. Invece i dannati non dimenticano la loro colpa, anzi la presenza del ricordo acuisce la pena; per questo il Letè non lo si può incontrare nei cerchi infernali.

CANTO XV


1-21
Ora cen porta l'un de' duri margini;
e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia, sì che dal foco salva l'acqua e li argini.
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, temendo 'l fiotto che 'nver' lor s'avventa, fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia;
e quali Padoan lungo la Brenta, per difender lor ville e lor castelli, anzi che Carentana il caldo senta: a tale imagine eran fatti quelli, tutto che né sì alti né sì grossi, qual che si fosse, lo maestro félli.

Già eravam da la selva rimossi tanto, ch'i' non avrei visto dov' era, perch' io in dietro rivolto mi fossi,
quando incontrammo d'anime una schiera che venian lungo l'argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera guardare uno altro sotto nuova luna; e sì ver' noi aguzzavan le ciglia come 'l vecchio sartor fa ne la cruna.

Proseguendo lungo gli argini del Flegetonte, i due poeti si allontanano sempre più dalla selva dei suicidi. Ad un certo punto incontrano una schiera di anime che percorrono anche loro l’argine del fiume. Questa è una schiera di sodomiti.


22-64
Così adocchiato da cotal famiglia, fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!» E io, quando 'l suo braccio a me distese, ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che 'l viso abbrusciato non difese la conoscenza süa al mio 'ntelletto; e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?»
E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco
ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia». I' dissi lui: «Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m'asseggia, faròl, se piace a costui che vo seco».
«O figliuol», disse, «qual di questa greggia s'arresta punto, giace poi cent' anni
sanz' arrostarsi quando 'l foco il feggia. Però va oltre: i' ti verrò a' panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni».

Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma 'l capo chino tenea com' uom che reverente vada. El cominciò: «Qual fortuna o destino anzi l'ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra 'l cammino?»
«Là sù di sopra, in la vita serena», rispuos' io lui, «mi smarri' in una valle, avanti che l'età mia fosse piena.
Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m'apparve, tornand' ïo in quella, e reducemi a ca per questo calle».
Ed elli a me: «Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m'accorsi ne la vita bella;
e s'io non fossi sì per tempo morto, veggendo il cielo a te così benigno, dato t'avrei a l'opera conforto.
Ma quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno, ti si farà, per tuo ben far, nimico;

Uno di loro, riconosciuto Dante, lo tira per il lembo della veste. Nonostante il viso del dannato sia bruciato dalla pioggia di fuoco, Dante lo riconosce: è Brunetto Latini, nato a Firenze verso il 1220 e mortovi nel 1293-4. Fu di parte guelfa. A Firenze occupò alte cariche ed esercitò l’arte del notaio. Fu maestro di Dante nella filosofia.
Dante vorrebbe sedersi un po’ a parlare con Brunetto, ma questi gli risponde che i sodomiti sono condannati a muoversi continuamente: chi, anche solo per un momento, si ferma, è costretto poi a giacere sulla sabbia infuocata per cento anni. Perciò Brunetto invita il poeta a parlare durante il cammino.
Dante illustra al suo ex maestro il motivo del suo viaggio nell’oltretomba, e gli dice:
«Ieri mi smarrii in una valle avanti che l’età mia fosse piena […]». Ciò significa che Dante si è smarrito nella selva oscura prima di aver raggiunto il culmine dell’arco della vita, che come detto nel commento ai primi tre versi del canto I cade verso i trentacinque anni di età: con ogni probabilità egli vuole lasciare intendere che sta effettuando il suo viaggio ultraterreno all’età di trentaquattro anni, che come vedremo nel commento ai versi 106-139 del canto XXI è l’età in cui morì Cristo.
Poi Brunetto, conoscitore ed esperto di astrologia, conferma a Dante che, se l’opinione che si fece di lui nella vita terrestre è corretta, e cioè quella di un uomo di elevate doti d’animo e di ingegno, il suo cammino verso la fama eterna non potrà fallire; a patto però che si mantenga sempre fedele all’influsso della costellazione dei Gemelli, sotto cui Dante nacque. Al tempo di Dante, infatti, chi nasceva sotto tale segno zodiacale era considerato predisposto allo studio, alle scienze, alle lettere e alla poesia.
Brunetto tuttavia avverte il poeta che proprio la sua onestà di condotta volta soltanto al bene della patria gli attirerà l’invidia del maligno, ingrato e rozzo popolo fiorentino.

65-66
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.

Brunetto sostiene che in fondo Dante ci guadagna a essere maltrattato dai Fiorentini, perché non conviene che il dolce albero del fico (Dante) fruttifichi fra i sorbi aspri e cattivi al gusto (i Fiorentini). Il sorbo è un albero che produce frutti aspri e duri, che occorre fare maturare prima che diventino dolci.


67-87
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gent' è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.

La tua fortuna tanto onor ti serba, che l'una parte e l'altra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco l'erba.

Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta, s'alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di que' Roman che vi rimaser quando fu fatto il nido di malizia tanta».
«Se fosse tutto pieno il mio dimando», rispuos' io lui, «voi non sareste ancora de l'umana natura posto in bando;

ché 'n la mente m'è fitta, e or m'accora, la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora m'insegnavate come l'uom s'etterna:
e quant' io l'abbia in grado, mentr' io vivo convien che ne la mia lingua si scerna.

Brunetto continua a consigliare Dante, perché cerchi di mantenersi immune e puro dai biasimevoli costumi dei Fiorentini, che sono un popolo di avari, invidiosi e superbi.
Brunetto aggiunge che tanto i Guelfi bianchi (per un’impresa fallita) quanto i Guelfi neri (per eseguire le condanne a suo tempo pronunziate contro di lui) vorranno “divorare” Dante; ma “l’erba sarà lontana dal capro che vorrà cibarsene” (lungi fia dal becco l’erba), cioè Dante sarà sfuggito all’odio di entrambe le fazioni, allontanandosi da Firenze.


88-96
Ciò che narrate di mio corso scrivo, e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s'a lei arrivo. Tanto vogl' io che vi sia manifesto, pur che mia coscïenza non mi garra, ch'a la Fortuna, come vuol, son presto.

Non è nuova a li orecchi miei tal arra: però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e 'l villan la sua marra».

Dante risponde a Brunetto che sia la sua profezia sia quella fattagli da Farinata (cfr. Inf., X) le conserverà nella memoria e le farà poi interpretare da Beatrice. Inoltre il poeta si dice pronto a sopportare i colpi dell’avversa fortuna.


97-124
Lo mio maestro allora in su la gota destra si volse in dietro e riguardommi; poi disse: «Bene ascolta chi la nota».
Né per tanto di men parlando vommi con ser Brunetto, e dimando chi sono li suoi compagni più noti e più sommi. Ed elli a me: «Saper d'alcuno è buono; de li altri fia laudabile tacerci,
ché 'l tempo saria corto a tanto suono.
In somma sappi che tutti fur cherci e litterati grandi e di gran fama,
d'un peccato medesmo al mondo lerci.

Priscian sen va con quella turba grama, e Francesco d'Accorso anche; e vedervi, s'avessi avuto di tal tigna brama,
colui potei che dal servo de' servi
fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione, dove lasciò li mal protesi nervi.
Di più direi; ma 'l venire e 'l sermone
più lungo esser non può, però ch'i' veggio là surger nuovo fummo del sabbione.
Gente vien con la quale esser non deggio. Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio».

Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde

per la campagna; e parve di costoro quelli che vince, non colui che perde.

Poi Dante vorrebbe sapere da Brunetto i più noti dannati del suo gruppo, ma lui gli risponde che la lista di nomi sarebbe troppo lunga, e che comunque furono tutti vescovi, sacerdoti e letterati.

CANTO XVI


1-136
Già era in loco onde s'udia 'l rimbombo de l'acqua che cadea ne l'altro giro, simile a quel che l'arnie fanno rombo, quando tre ombre insieme si partiro, correndo, d'una torma che passava sotto la pioggia de l'aspro martiro.
Venian ver' noi, e ciascuna gridava:
«Sòstati tu ch'a l'abito ne sembri essere alcun di nostra terra prava». Ahimè, che piaghe vidi ne' lor membri, ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri. A le lor grida il mio dottor s'attese;
volse 'l viso ver' me, e «Or aspetta», disse, «a costor si vuole esser cortese.
E se non fosse il foco che saetta la natura del loco, i' dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta». Ricominciar, come noi restammo, ei l'antico verso; e quando a noi fuor giunti, fenno una rota di sé tutti e trei.
Qual sogliono i campion far nudi e unti, avvisando lor presa e lor vantaggio, prima che sien tra lor battuti e punti, così rotando, ciascuno il visaggio drizzava a me, sì che 'n contraro il collo faceva ai piè continüo vïaggio.
E «Se miseria d'esto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghi», cominciò l'uno, «e 'l tinto aspetto e brollo, la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se', che i vivi piedi così sicuro per lo 'nferno freghi. Questi, l'orme di cui pestar mi vedi, tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi: nepote fu de la buona Gualdrada; Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita fece col senno assai e con la spada.
L'altro, ch'appresso me la rena trita, è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce nel mondo sù dovria esser gradita.

E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie più ch'altro mi nuoce». S'i' fossi stato dal foco coperto, gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che 'l dottor l'avria sofferto; ma perch' io mi sarei brusciato e cotto, vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto. Poi cominciai: «Non dispetto, ma doglia la vostra condizion dentro mi fisse, tanta che tardi tutta si dispoglia,
tosto che questo mio segnor mi disse parole per le quali i' mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse. Di vostra terra sono, e sempre mai l'ovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai. Lascio lo fele e vo per dolci pomi promessi a me per lo verace duca;
ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi».
«Se lungamente l'anima conduca
le membra tue», rispuose quelli ancora,
«e se la fama tua dopo te luca, cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole, o se del tutto se n'è gita fora;
ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole con noi per poco e va là coi compagni, assai ne cruccia con le sue parole».
«La gente nuova e i sùbiti guadagni orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni». Così gridai con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta, guardar l'un l'altro com' al ver si guata.
«Se l'altre volte sì poco ti costa», rispuoser tutti, «il satisfare altrui, felice te se sì parli a tua posta!
Però, se campi d'esti luoghi bui e torni a riveder le belle stelle, quando ti gioverà dicere "I' fui",

fa che di noi a la gente favelle». Indi rupper la rota, e a fuggirsi ali sembiar le gambe loro isnelle. Un amen non saria possuto dirsi tosto così com' e' fuoro spariti;
per ch'al maestro parve di partirsi. Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che 'l suon de l'acqua n'era sì vicino, che per parlar saremmo a pena uditi. Come quel fiume c'ha proprio cammino prima dal Monte Viso 'nver' levante, da la sinistra costa d'Apennino,
che si chiama Acquacheta suso, avante che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante, rimbomba là sovra San Benedetto de l'Alpe per cadere ad una scesa ove dovea per mille esser recetto; così, giù d'una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell' acqua tinta,
sì che 'n poc' ora avria l'orecchia offesa. Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta prender la lonza a la pelle dipinta. Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta, sì come 'l duca m'avea comandato, porsila a lui aggroppata e ravvolta.

Ond' ei si volse inver' lo destro lato, e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell' alto burrato.
«E' pur convien che novità risponda», dicea fra me medesmo, «al novo cenno che 'l maestro con l'occhio sì seconda». Ahi quanto cauti li uomini esser dienno presso a color che non veggion pur l'ovra, ma per entro i pensier miran col senno!
El disse a me: «Tosto verrà di sovra
ciò ch'io attendo e che il tuo pensier sogna; tosto convien ch'al tuo viso si scovra».
Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote, però che sanza colpa fa vergogna;
ma qui tacer nol posso; e per le note di questa comedìa, lettor, ti giuro, s'elle non sien di lunga grazia vòte,
ch'i' vidi per quell' aere grosso e scuro venir notando una figura in suso, maravigliosa ad ogne cor sicuro,
sì come torna colui che va giuso talora a solver l'àncora ch'aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso, che 'n sù si stende e da piè si rattrappa.

Sempre nel terzo girone del settimo cerchio i due poeti incontrano un’altra schiera di sodomiti, ma a differenza dell’altra, che comprendeva i chierici e i letterati, questa è composta di gente di corte, militari, politici e uomini di governo.
Virgilio esorta Dante a comportarsi in modo cortese con questa schiera, in quanto questi dannati in vita ebbero una grande responsabilità istituzionale e la sostennero con onore: la colpa della vita privata non deve annullare il ricordo del comportamento esemplare tenuto nella vita pubblica.
Quindi i due poeti giungono laddove l’acqua del Flegeronte, precipitando nell’ottavo cerchio, forma una cascata che produce un rumore assordante.
A questo punto Dante vede apparire da lontano la sconcertante figura di Gerione, un mostro di cui parleremo nel prossimo canto.

CANTO XVII

1-15
«Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e l'armi! Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!» Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda, vicino al fin d'i passeggiati marmi.
E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e 'l busto, ma 'n su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era d’uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d’un serpente tutto l’altro fusto;
due branche avea pilose insin l’ascelle; lo dosso e ‘l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle.
Alla vista di Gerione, Virgilio esordisce così: «Ecco la bestia dalla coda acuminata, che oltrepassa i monti, abbatte i muri e vince le armi (cioè supera tutti gli ostacoli che le si frappongono)! Ecco colei che ammorba tutto il mondo!»
Secondo la mitologia, Gerione era un enorme mostro dotato, dalla vita in su, di tre corpi, sei braccia e tre teste, il quale fu ucciso da Eracle (nome greco di Ercole) in una delle sue dodici fatiche. Dante invece lo raffigura come mostro di un solo corpo, nel quale sono congiunte tre nature, di uomo, di serpente e di scorpione, facendone il simbolo della frode.
Poi Virgilio dice alla bestia (cioè a Gerione) di avvicinarsi, e lei, che Dante chiama “imagine di froda” (cioè simbolo della frode), affiora solo con la testa (che è di uomo) e con il busto (che è di serpente), ma non mostra la sua coda (che è di scorpione), tenendola al di sotto dell’argine del fiume Flegetonte.
La faccia di Gerione sembra quella di una persona onesta (per ispirare fiducia in coloro che vuole ingannare). Anche il suo aspetto è benevolo e delicato (per nascondere la sua natura ingannatrice). Tutto il resto del corpo è di serpente; le zampe, dotate di artigli, sono ricoperte di pelo fino alle ascelle. Il dorso, il petto e i fianchi sono dipinti di segni complicati e di cerchietti (simbolo dei raggiri di cui
l’ingannatore si serve per adescare il prossimo). La biforcuta coda velenosa invece la tiene nascosta, per poter colpire a tradimento le sue ignare vittime.

16-42
Con più color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari né Turchi, né fuor tai tele per Aragne imposte.
Come talvolta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, e come là tra li Tedeschi lurchi
lo bivero s'assetta a far sua guerra, così la fiera pessima si stava
su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra. Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in sù la venenosa forca
ch'a guisa di scorpion la punta armava. Lo duca disse: «Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella bestia malvagia che colà si corca».

Però scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo, per ben cessar la rena e la fiammella.
E quando noi a lei venuti semo, poco più oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo.
Quivi 'l maestro «Acciò che tutta piena esperïenza d'esto giron porti»,
mi disse, «va, e vedi la lor mena. Li tuoi ragionamenti sian là corti;
mentre che torni, parlerò con questa, che ne conceda i suoi omeri forti».

Lungo l’orlo estremo della pianura sabbiosa e infuocata Dante scorge il gruppo dei violenti contro natura e arte (indirettamente violenti contro Dio): gli usurai.
Virgilio invita Dante ad avvicinarsi a tale gruppo, affinché si possa rendere conto della loro condizione; nel frattempo lui cercherà di convincere Gerione a trasportarli fino all’ottavo cerchio. Virgilio tuttavia avverte Dante di trattenersi con gli usurai il meno possibile e parlare poco con loro. La ragione di questo ammonimento è la brevità del tempo e il dispregio per questa classe di persone, del tutto immeritevoli di stima.


43-75
Così ancor su per la strema testa di quel settimo cerchio tutto solo andai, dove sedea la gente mesta.
Per li occhi fora scoppiava lor duolo; di qua, di là soccorrien con le mani
quando a' vapori, e quando al caldo suolo: non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani.
Poi che nel viso a certi li occhi porsi, ne' quali 'l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi che dal collo a ciascun pendea una tasca ch'avea certo colore e certo segno,
e quindi par che 'l loro occhio si pasca. E com' io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro
che d'un leone avea faccia e contegno.

Poi, procedendo di mio sguardo il curro, vidine un'altra come sangue rossa, mostrando un'oca bianca più che burro. E un che d'una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: «Che fai tu in questa fossa? Or te ne va; e perché se' vivo anco, sappi che 'l mio vicin Vitalïano sederà qui dal mio sinistro fianco.
Con questi Fiorentin son padoano: spesse fïate mi 'ntronan li orecchi gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano, che recherà la tasca con tre becchi!"» Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che 'l naso lecchi.

Così Dante raggiunge da solo gli usurai. Il dolore provocato dalla punizione eterna del fuoco che scende dall’alto e della sabbia rovente spinge gli usurai a un pianto violento e disperato e a un tentativo inutile di attenuare il castigo riparandosi dalle fiamme con le mani. Sulle mani di questi dannati, che maneggiarono illecitamente denaro, cade la pena del contrappasso. Le mani nell’agitarsi hanno qualcosa di bestiale, che rafforza l’idea di disprezzo che caratterizza questi peccatori, che ricorda i cani quando tentano di difendersi, come possono, con il muso e le zampe dai morsi delle pulci e degli altri insetti. Gli usurai portano, appesa alla cintura, una borsa ornata e dipinta con lo stemma della loro casata, in modo che lo scherno non investa solo la loro persona, ma l’intera famiglia.


76-136
E io, temendo no 'l più star crucciasse lui che di poco star m'avea 'mmonito, torna'mi in dietro da l'anime lasse.
Trova' il duca mio ch'era salito già su la groppa del fiero animale, e disse a me: «Or sie forte e ardito. Omai si scende per sì fatte scale;
monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo, sì che la coda non possa far male».
Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo de la quartana, c'ha già l'unghie smorte, e triema tutto pur guardando 'l rezzo, tal divenn' io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte. I' m'assettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com' io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'.
Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne ad altro forse, tosto ch'i' montai
con le braccia m'avvinse e mi sostenne; e disse: «Gerïon, moviti omai:
le rote larghe, e lo scender sia poco; pensa la nova soma che tu hai».
Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse; e poi ch'al tutto si sentì a gioco,
là 'v' era 'l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse, e con le branche l'aere a sé raccolse.

Maggior paura non credo che fosse quando Fetonte abbandonò li freni,
per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse; né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera, gridando il padre a lui «Mala via tieni!», che fu la mia, quando vidi ch'i' era
ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta ogne veduta fuor che de la fera.
Ella sen va notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me n'accorgo se non che al viso e di sotto mi venta. Io sentia già da la man destra il gorgo far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi 'n giù la testa sporgo. Allor fu' io più timido a lo stoscio,
però ch'i' vidi fuochi e senti' pianti; ond' io tremando tutto mi raccoscio. E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e 'l girar per li gran mali che s'appressavan da diversi canti. Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali, che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere «Omè, tu cali!», discende lasso onde si move isnello, per cento rote, e da lunge si pone dal suo maestro, disdegnoso e fello; così ne puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca, e, discarcate le nostre persone, si dileguò come da corda cocca.

Obbedendo all’ammonimento di Virgilio, Dante abbandona il gruppo degli usurai senza rivolgere loro neanche una parola. Appena torna, trova il maestro già in groppa a Gerione. Virgilio dice a Dante di salire davanti, in modo che Virgilio si trovi tra Dante e la coda del mostro; ciò ha un doppio significato: rassicurare il discepolo del volo sulla schiena di Gerione e difenderlo dall’insidia della frode, rappresentata dalla coda del mostro.
Montato in groppa, Dante viene abbracciato dal maestro: allegoricamente, l’abbraccio di Virgilio rappresenta la sapienza necessaria a Dante per entrare nel mondo della frode.
Così Gerione porta in volo i due poeti all’ottavo cerchio e, dopo averli scaricati, se ne torna indietro.

CANTO XVIII


1-21
Luogo è in inferno detto Malebolge, tutto di pietra di color ferrigno, come la cerchia che dintorno il volge.
Nel dritto mezzo del campo maligno vaneggia un pozzo assai largo e profondo, di cui suo loco dicerò l'ordigno.
Quel cinghio che rimane adunque è tondo tra 'l pozzo e 'l piè de l'alta ripa dura,
e ha distinto in dieci valli il fondo. Quale, dove per guardia de le mura più e più fossi cingon li castelli,
la parte dove son rende figura,

tale imagine quivi facean quelli; e come a tai fortezze da' lor sogli a la ripa di fuor son ponticelli, così da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e ' fossi infino al pozzo che i tronca e raccogli. In questo luogo, de la schiena scossi di Gerïon, trovammoci; e 'l poeta tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.

Il canto XVIII si apre con la descrizione dell’ottavo cerchio, dove sono punite le colpe della frode attuata nei confronti di persone che non si fidano dell’autore della frode stessa. Questo cerchio è una voragine, detta “Malebolge”, che converge in basso verso un pozzo profondo, che è la sede del nono cerchio.
L’ottavo cerchio è diviso in dieci valli concentriche, dette “bolge”, che ricordano i fossati che circondano i castelli; e come dalle soglie dei castelli si dipartono i ponti levatoi, così le dieci bolge sono solcate per traverso da scogli equidistanti l’uno dall’altro, che terminano al pozzo centrale. Questi scogli visti dall’alto sono come i raggi di una ruota, che attraversano le dieci valli circolari concentriche e si fermano al pozzo centrale; quest’ultimo pertanto ricorda il mozzo di una ruota.


22-41
A la man destra vidi nova pieta, novo tormento e novi frustatori, di che la prima bolgia era repleta.
Nel fondo erano ignudi i peccatori;
dal mezzo in qua ci venien verso 'l volto, di là con noi, ma con passi maggiori, come i Roman per l'essercito molto, l'anno del giubileo, su per lo ponte hanno a passar la gente modo colto,

che da l'un lato tutti hanno la fronte verso 'l castello e vanno a Santo Pietro, da l'altra sponda vanno verso 'l monte.
Di qua, di là, su per lo sasso tetro vidi demon cornuti con gran ferze, che li battien crudelmente di retro. Ahi come facean lor levar le berze a le prime percosse! già nessuno
le seconde aspettava né le terze. Mentr' io andava, li occhi miei in uno furo scontrati; e io sì tosto dissi:

Nella prima bolgia sono puniti i ruffiani e i seduttori. La colpa di questi dannati consiste nell’indurre altre persone alla prostituzione: i seduttori mettono in atto la loro colpa al fine di compiacere se stessi; i ruffiani invece traggono dalla loro colpa

un vantaggio indiretto, frapponendosi come mezzani negli amori altrui a scopo di denaro o altri guadagni.
I seduttori si differenziano dai lussuriosi in quanto questi ultimi sono trascinati dalla passione, mentre i seduttori si servono dell’inganno per trascinare il prossimo a commettere il peccato dei sensi.
Divisi in due schiere, i ruffiani e i seduttori corrono nudi in due opposte direzioni percossi alle spalle da demoni armati di fruste. La pena per questi dannati è più mortificante che dolorosa, e forse deriva dalla suggestione di taluni statuti comunali che prevedevano per i ruffiani la pubblica fustigazione.

42
«Già di veder costui non son digiuno».

Nella schiera dei ruffiani Dante dice a Virgilio di aver riconosciuto uno dei dannati.


43-66
Per ch'ïo a figurarlo i piedi affissi; e 'l dolce duca meco si ristette,
e assentio ch'alquanto in dietro gissi. E quel frustato celar si credette bassando 'l viso; ma poco li valse,
ch'io dissi: «O tu che l'occhio a terra gette, se le fazion che porti non son false, Venedico se' tu Caccianemico.
Ma che ti mena a sì pungenti salse?» Ed elli a me: «Mal volontier lo dico; ma sforzami la tua chiara favella,
che mi fa sovvenir del mondo antico.

I' fui colui che la Ghisolabella condussi a far la voglia del marchese, come che suoni la sconcia novella.
E non pur io qui piango bolognese; anzi n'è questo loco tanto pieno,
che tante lingue non son ora apprese a dicer 'sipa' tra Sàvena e Reno;
e se di ciò vuoi fede o testimonio, rècati a mente il nostro avaro seno». Così parlando il percosse un demonio de la sua scurïada, e disse: «Via,
ruffian! qui non son femmine da conio».

Il dannato per la vergogna abbassa la testa sperando di non essere riconosciuto. Ma ormai Dante lo ha riconosciuto: è Venedico Caccianemico, nobile guelfo di Bologna, nato verso il 1228, di cui corse voce che, per motivi politici, avesse costretto la propria sorella Ghisolabella a cedere alle voglie del marchese di Ferrara. Venedico, per scusare il proprio peccato, lo attribuisce ad una usanza del luogo, e dice che ci sono più bolognesi nella prima bolgia dell’ottavo cerchio di quanti cittadini vivano a Bologna.


67-99
I' mi raggiunsi con la scorta mia; poscia con pochi passi divenimmo là 'v' uno scoglio de la ripa uscia.

Assai leggeramente quel salimmo;
e vòlti a destra su per la sua scheggia, da quelle cerchie etterne ci partimmo.

Quando noi fummo là dov' el vaneggia di sotto per dar passo a li sferzati,
lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia lo viso in te di quest' altri mal nati,
ai quali ancor non vedesti la faccia però che son con noi insieme andati».
Del vecchio ponte guardavam la traccia che venìa verso noi da l'altra banda,
e che la ferza similmente scaccia.
E 'l buon maestro, sanza mia dimanda, mi disse: «Guarda quel grande che vene, e per dolor non par lagrime spanda: quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno li Colchi del monton privati féne.

Ello passò per l'isola di Lenno poi che l'ardite femmine spietate
tutti li maschi loro a morte dienno. Ivi con segni e con parole ornate Isifile ingannò, la giovinetta
che prima avea tutte l'altre ingannate. Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui condanna; e anche di Medea si fa vendetta.
Con lui sen va chi da tal parte inganna; e questo basti de la prima valle
sapere e di color che 'n sé assanna».

I due poeti si allontanano dalla schiera dei ruffiani e raggiungono quella dei seduttori, tra i quali Virgilio indica Giasone. Questi era figlio di Esone, re di Tessaglia. Lo zio di Giasone, Pelia, usurpò il regno a Esone. Giasone reclamò il potere sul suo Paese, che Pelia si impegnò a restituirgli dopo che avrebbe portato il vello d’oro dell’ariete che aveva trasportato un giovane di nome Frisso in salvo. Il vello era custodito nella Colchide da un drago. Pelia era convinto che Giasone sarebbe morto nell’impresa. Giasone chiese aiuto ad Argo, il quale costruì appositamente una nave che prese il suo stesso nome. Così Giasone, con una cinquantina di compagni, che dal nome della nave furono chiamati “Argonauti”, partirono per la spedizione, toccando terre diverse, attraverso svariate avventure. In una di queste, gli Argonauti approdarono nell’isola di Lemno, dove Giasone sedusse la giovinetta Isifile, che poi abbandonò gravida. Quando finalmente raggiunsero la Colchide, il re Eete subordinò la consegna del vello alla condizione che Giasone riuscisse a domare due tori dagli zoccoli di bronzo, che soffiavano fuoco dalle narici, e arasse un campo seminandovi i denti di un drago. La figlia del re, Medea, esperta di arti magiche, sedotta da Giasone, gli offrì il suo aiuto, purché lui la portasse con sé in Grecia. Giasone superò le prove, con i sortilegi di Medea riuscì a far addormentare il drago e fuggì con lei e il vello. Dopo varie peripezie Giasone rientrò nella patria e, consegnato il vello d’oro, ottenne il regno, ma ripudiò Medea per unirsi a Glauce, figlia del re Creonte.
La leggenda di Giasone e gli Argonauti è narrata nelle Argonautiche, poema epico
scritto nel III secolo a.C. da Apollonio Rodio.


100-136
Già eravam là 've lo stretto calle con l'argine secondo s'incrocicchia, e fa di quello ad un altr' arco spalle.

Quindi sentimmo gente che si nicchia ne l'altra bolgia e che col muso scuffa, e sé medesma con le palme picchia.

Le ripe eran grommate d'una muffa, per l'alito di giù che vi s'appasta, che con li occhi e col naso facea zuffa. Lo fondo è cupo sì, che non ci basta loco a veder sanza montare al dosso de l'arco, ove lo scoglio più sovrasta.
Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso vidi gente attuffata in uno sterco
che da li uman privadi parea mosso.
E mentre ch'io là giù con l'occhio cerco, vidi un col capo sì di merda lordo,
che non parëa s'era laico o cherco.
Quei mi sgridò: «Perché se' tu sì gordo di riguardar più me che li altri brutti?» E io a lui: «Perché, se ben ricordo,

già t'ho veduto coi capelli asciutti, e se' Alessio Interminei da Lucca:
però t'adocchio più che li altri tutti». Ed elli allor, battendosi la zucca:
«Qua giù m'hanno sommerso le lusinghe ond' io non ebbi mai la lingua stucca».
Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe», mi disse, «il viso un poco più avante,
sì che la faccia ben con l'occhio attinghe di quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con l'unghie merdose, e or s'accoscia e ora è in piedi stante.
Taïde è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse "Ho io grazie grandi apo te?": "Anzi maravigliose!" E quinci sian le nostre viste sazie».

Attraversato un ponte, i due poeti giungono sull’argine della seconda bolgia, la quale fa schifo alla vista (per la presenza di muffa che ricopre le sue pareti) e all’olfatto (per la puzza di fogna che emana). Qui sono puniti gli adulatori, i quali si dibattono come maiali nello sterco umano, e ciascuno di loro picchia e graffia se stesso con le mani imbrattate di feci.
La pena per gli adulatori è più ripugnante che dolorosa, per esplicitare il disprezzo profondo verso questo gruppo di dannati, i quali come in vita non esitarono a umiliarsi pur di raggiungere i loro scopi con le lusinghe (anziché col merito, come sarebbe stato giusto), così ora essi sono costretti a strisciare nello sterco, che è sterco umano per significare che il loro servilismo lo diressero verso uomini (cioè verso gli uomini da cui speravano di ottenere favori), e si umiliano ancora di più picchiandosi e graffiandosi con le mani insozzate di merda.

CANTO XIX


1-30
O Simon mago, o miseri seguaci che le cose di Dio, che di bontate deon essere spose, e voi rapaci per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba, però che ne la terza bolgia state.
Già eravamo, a la seguente tomba, montati de lo scoglio in quella parte ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba.
O somma sapïenza, quanta è l'arte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, e quanto giusto tua virtù comparte!
Io vidi per le coste e per lo fondo piena la pietra livida di fóri,
d'un largo tutti e ciascun era tondo.

Non mi parean men ampi né maggiori
che que' che son nel mio bel San Giovanni, fatti per loco d'i battezzatori;
l'un de li quali, ancor non è molt' anni, rupp' io per un che dentro v'annegava: e questo sia suggel ch'ogn' omo sganni. Fuor de la bocca a ciascun soperchiava d'un peccator li piedi e de le gambe infino al grosso, e l'altro dentro stava. Le piante erano a tutti accese intrambe; per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe. Qual suole il fiammeggiar de le cose unte muoversi pur su per la strema buccia,
tal era lì dai calcagni a le punte.

Giunto alla sommità del ponte, Dante osserva, sotto di sé, la terza bolgia dell’ottavo cerchio: le pareti e il fondo sono costellati di buche circolari. Dentro a queste buche sono conficcati, a testa in giù, i simoniaci. Dalle buche emergono solo i piedi e le gambe fino al ginocchio; una fiamma corre lungo la pianta dei piedi, facendo guizzare le articolazioni del ginocchio con grande energia. Allorquando un nuovo dannato giunge in questa bolgia, spinge il dannato che lo ha preceduto più in giù nella buca.
Il peccato di simonia consiste nel vendere o comprare cose sacre o spirituali. Il nome deriva da “Simon mago”, di cui si parla negli Atti degli Apostoli (VIII, 9-25): nella città di Samaria vi era un mago di nome Simone; costui vide che coloro ai quali gli apostoli Pietro e Giovanni imponevano le mani, ricevevano lo Spirito Santo. Simone offrì del denaro ai due apostoli per ottenere anche lui questo loro potere; ma Pietro gli rispose: «Il tuo denaro vada con te in perdizione, perché hai osato
pensare di acquistare con denaro il dono di Dio […]»
Per la legge del contrappasso, i simoniaci, capovolgitori dei doni di Dio, sono loro stessi capovolti; nati per il cielo, vollero la terra: ora la terra li divora.


31-72
«Chi è colui, maestro, che si cruccia guizzando più che li altri suoi consorti», diss' io, «e cui più roggia fiamma succia?»
Ed elli a me: «Se tu vuo' ch'i' ti porti là giù per quella ripa che più giace, da lui saprai di sé e de' suoi torti».

E io: «Tanto m'è bel, quanto a te piace: tu se' segnore, e sai ch'i' non mi parto dal tuo volere, e sai quel che si tace».
Allor venimmo in su l'argine quarto; volgemmo e discendemmo a mano stanca là giù nel fondo foracchiato e arto.

Lo buon maestro ancor de la sua anca non mi dipuose, sì mi giunse al rotto di quel che si piangeva con la zanca.
«O qual che se' che 'l di sù tien di sotto, anima trista come pal commessa», comincia' io a dir, «se puoi, fa motto».
Io stava come 'l frate che confessa
lo perfido assessin, che, poi ch'è fitto, richiama lui per che la morte cessa. Ed el gridò: «Se' tu già costì ritto, se' tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.
Se' tu sì tosto di quell' aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a 'nganno la bella donna, e poi di farne strazio?»

Tal mi fec' io, quai son color che stanno, per non intender ciò ch'è lor risposto, quasi scornati, e risponder non sanno. Allor Virgilio disse: «Dilli tosto:
"Non son colui, non son colui che credi"»; e io rispuosi come a me fu imposto.
Per che lo spirto tutti storse i piedi; poi, sospirando e con voce di pianto, mi disse: «Dunque che a me richiedi? Se di saper ch'i' sia ti cal cotanto, che tu abbi però la ripa corsa,
sappi ch'i' fui vestito del gran manto; e veramente fui figliuol de l'orsa, cupido sì per avanzar li orsatti,
che sù l'avere e qui me misi in borsa.

Dante vede un paio di gambe agitarsi più delle altre sotto una fiamma più ardente, e chiede a Virgilio a chi appartengano; il maestro gli risponde di scendere nella bolgia e di domandare lui stesso al dannato la sua identità. Così i due poeti si avvicinano e Dante domanda al dannato il proprio nome. Quest’ultimo scambia Dante per Benedetto Caetani e si meraviglia che questi sia giunto all’Inferno tre anni prima del previsto; infatti siamo nel 1300, mentre l’anno della morte di Benedetto, che il dannato sa per la facoltà che tutti i dannati hanno di vedere nel futuro, è il 1303.
Il dannato che parla è Giovanni Gaetano Orsini, papa col nome di Niccolò III dal 1277 al 1280, il quale praticò simonia per arricchire i suoi nipoti. Dante chiarisce a Niccolò III di non essere il dannato che lui credeva.
Benedetto Caetani fu papa dal 1294 al 1303 con il nome di Bonifacio VIII. Dante lo additò come il suo grande nemico, avendo egli favorito, per le sue mire espansionistiche, la presa del potere dei Guelfi neri a Firenze (Dante, lo ricordiamo, era un guelfo bianco); tale ritorno dei Neri fu, tra l’altro, la causa dell’esilio del poeta. Dante, non potendo incontrare Bonifacio VIII nell’Inferno perché nell’aprile del 1300 (in cui si svolge l’immaginario viaggio del poeta nell’oltretomba) è ancora vivo, preannuncia, con sarcastica ironia, che già per lui è preparata la buca fra i simoniaci.


73-123
Di sotto al capo mio son li altri tratti che precedetter me simoneggiando, per le fessure de la pietra piatti.
Là giù cascherò io altresì quando verrà colui ch'i' credea che tu fossi, allor ch'i' feci 'l sùbito dimando.

Ma più è 'l tempo già che i piè mi cossi e ch'i' son stato così sottosopra,
ch'el non starà piantato coi piè rossi: ché dopo lui verrà di più laida opra,
di ver' ponente, un pastor sanza legge, tal che convien che lui e me ricuopra.

Nuovo Iasón sarà, di cui si legge
ne' Maccabei; e come a quel fu molle suo re, così fia lui chi Francia regge». Io non so s'i' mi fui qui troppo folle, ch'i' pur rispuosi lui a questo metro:
«Deh, or mi dì: quanto tesoro volle Nostro Segnore in prima da san Pietro ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non "Viemmi retro".
Né Pier né li altri tolsero a Matia oro od argento, quando fu sortito al loco che perdé l'anima ria.
Però ti sta, ché tu se' ben punito; e guarda ben la mal tolta moneta
ch'esser ti fece contra Carlo ardito. E se non fosse ch'ancor lo mi vieta la reverenza de le somme chiavi che tu tenesti ne la vita lieta,
io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista, calcando i buoni e sollevando i pravi.

Di voi pastor s'accorse il Vangelista, quando colei che siede sopra l'acque puttaneggiar coi regi a lui fu vista; quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento, fin che virtute al suo marito piacque. Fatto v'avete dio d'oro e d'argento;
e che altro è da voi a l'idolatre,
se non ch'elli uno, e voi ne orate cento? Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!»
E mentr' io li cantava cotai note, o ira o coscïenza che 'l mordesse, forte spingava con ambo le piote.
I' credo ben ch'al mio duca piacesse, con sì contenta labbia sempre attese lo suon de le parole vere espresse.

Niccolò III aggiunge che sotto la sua testa sono conficcati coloro che lo precedettero nel peccato di simonia, e che dopo di lui verranno prima, come detto, papa Bonifacio VIII, e dopo Bertrand de Got, il quale farà sprofondare più giù papa Bonifacio VIII e ne prenderà il posto alla sommità della fossa.
Originario della Guascogna, Bertrand de Got fu eletto pontefice nel 1305, col nome di Clemente V, grazie agli intrighi del re di Francia Filippo il Bello, ai cui voleri fu poi completamente sottomesso. Questo papa commise forse il più grave peccato di simonia possibile: vendette l’intera Chiesa cattolica, con il trasferimento della sede apostolica da Roma ad Avignone (in Francia).
Dante allora prorompe in una violenta critica contro la corruzione dei papi, individuando nella donazione di Costantino l’origine di questa corruzione: l’imperatore Costantino, infatti, con la sua donazione, avvenuta nel 313 d.C., di terre a papa Silvestro I diede inizio al potere temporale dei papi, che secondo quanto il poeta sostiene nella sua opera intitolata Monarchia deve appartenere, per il bene dell’umanità, solo al Monarca; la Chiesa invece, sempre secondo Dante, deve esercitare solo il potere spirituale. In realtà però il potere temporale della Chiesa ebbe inizio nel 728, quando il re longobardo Liutprando avanzò verso Roma con l’intenzione di occuparla. Allora papa Gregorio II andò subito incontro al re e lo indusse non solo a desistere dall’intenzione di occupare Roma, ma anche a far consegnare alla Chiesa il castello di Sutri (nell’attuale provincia di Viterbo). Tale donazione segnò l’origine dello Stato Pontificio e, con essa, l’inizio ufficiale del potere temporale dei Papi. Più tardi la Chiesa, forse per giustificare tale potere, fece segretamente redigere un documento, passato alla storia come la “donazione di Costantino”, del quale si dichiarava, falsamente, che fosse autore l’imperatore

romano. In questo documento, che per tutto il Medioevo si credette autentico, e che quindi anche Dante considerò tale, era scritto che nel 313 d.C. l’imperatore Costantino fece una donazione di alcuni territori a papa Silvestro, dando così inizio al potere temporale della Chiesa, che in realtà avrebbe avuto legittimamente inizio, come abbiamo detto, con la donazione del castello di Sutri oltre quattro secoli dopo.


124-133
Però con ambo le braccia mi prese; e poi che tutto su mi s'ebbe al petto, rimontò per la via onde discese.
Né si stancò d'avermi a sé distretto, sì men portò sovra 'l colmo de l'arco
che dal quarto al quinto argine è tragetto.

Quivi soavemente spuose il carco, soave per lo scoglio sconcio ed erto che sarebbe a le capre duro varco. Indi un altro vallon mi fu scoperto.

Quindi Virgilio prende fra le braccia Dante e risale fino al ponte che porta dalla terza alla quarta bolgia, e sulla sommità del ponte lo depone a terra.

CANTO XX


1-24
Di nova pena mi conven far versi e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, ch'è d'i sommersi.
Io era già disposto tutto quanto a riguardar ne lo scoperto fondo,
che si bagnava d'angoscioso pianto; e vidi gente per lo vallon tondo venir, tacendo e lagrimando, al passo che fanno le letane in questo mondo.
Come 'l viso mi scese in lor più basso, mirabilmente apparve esser travolto ciascun tra 'l mento e 'l principio del casso,

ché da le reni era tornato 'l volto, e in dietro venir li convenia,
perché 'l veder dinanzi era lor tolto.
Forse per forza già di parlasia si travolse così alcun del tutto; ma io nol vidi, né credo che sia.
Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto di tua lezione, or pensa per te stesso com' io potea tener lo viso asciutto, quando la nostra imagine di presso vidi sì torta, che 'l pianto de li occhi le natiche bagnava per lo fesso.

Dalla sommità del ponte su cui l’ha deposto Virgilio, Dante guarda il fondo della quarta bolgia dell’ottavo cerchio, bagnata dalle lacrime dei dannati, i quali avanzano a passo lento come in una processione: sono gli indovini, la cui testa è orrendamente voltata all’indietro, cosa che li costringe a camminare a ritroso, mandando avanti le calcagna. La punizione degli indovini comprende anche la perdita della parola; pertanto l’unica loro espressione è il pianto.
Il contrappasso è, qui, evidente e corrisponde alla colpa: come troppo vollero vedere nel futuro, così ora gli indovini sono condannati a guardare sempre indietro e a non poter più usare la parola così tanto illecitamente adoperata durante la vita terrena.


25-30
Certo io piangea, poggiato a un de' rocchi del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: «Ancor se' tu de li altri sciocchi?

Qui vive la pietà quand' è ben morta; chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?

Dante, in preda allo sconforto per la condizione di questi dannati, si lascia andare al pianto; ma Virgilio prontamente lo rimprovera, dicendogli che è da sciocchi commuoversi dinanzi alla punizione inflitta dalla giustizia di Dio.


31-130
Drizza la testa, drizza, e vedi a cui s'aperse a li occhi d'i Teban la terra; per ch'ei gridavan tutti: "Dove rui, Anfïarao? perché lasci la guerra?"
E non restò di ruinare a valle
fino a Minòs che ciascheduno afferra.

Mira c'ha fatto petto de le spalle; perché volse veder troppo davante, di retro guarda e fa retroso calle.
Vedi Tiresia, che mutò sembiante quando di maschio femmina divenne, cangiandosi le membra tutte quante;

e prima, poi, ribatter li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga, che rïavesse le maschili penne.
Aronta è quel ch'al ventre li s'atterga, che ne' monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese che di sotto alberga, ebbe tra ' bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle e 'l mar non li era la veduta tronca.
E quella che ricuopre le mammelle, che tu non vedi, con le trecce sciolte, e ha di là ogne pilosa pelle,
Manto fu, che cercò per terre molte; poscia si puose là dove nacqu' io; onde un poco mi piace che m'ascolte. Poscia che 'l padre suo di vita uscìo e venne serva la città di Baco,
questa gran tempo per lo mondo gio. Suso in Italia bella giace un laco,
a piè de l'Alpe che serra Lamagna sovra Tiralli, c'ha nome Benaco.
Per mille fonti, credo, e più si bagna tra Garda e Val Camonica e Pennino de l'acqua che nel detto laco stagna. Loco è nel mezzo là dove 'l trentino pastore e quel di Brescia e 'l veronese segnar poria, s'e' fesse quel cammino.
Siede Peschiera, bello e forte arnese
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi, ove la riva 'ntorno più discese.
Ivi convien che tutto quanto caschi
ciò che 'n grembo a Benaco star non può, e fassi fiume giù per verdi paschi.
Tosto che l'acqua a correr mette co, non più Benaco, ma Mencio si chiama fino a Governol, dove cade in Po.
Non molto ha corso, ch'el trova una lama, ne la qual si distende e la 'mpaluda;
e suol di state talor esser grama. Quindi passando la vergine cruda vide terra, nel mezzo del pantano, sanza coltura e d'abitanti nuda.
Lì, per fuggire ogne consorzio umano, ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.

Li uomini poi che 'ntorno erano sparti s'accolsero a quel loco, ch'era forte
per lo pantan ch'avea da tutte parti. Fer la città sovra quell' ossa morte; e per colei che 'l loco prima elesse, Mantüa l'appellar sanz' altra sorte.
Già fuor le genti sue dentro più spesse, prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse. Però t'assenno che, se tu mai odi originar la mia terra altrimenti, la verità nulla menzogna frodi».
E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti mi son sì certi e prendon sì mia fede, che li altri mi sarien carboni spenti. Ma dimmi, de la gente che procede, se tu ne vedi alcun degno di nota; ché solo a ciò la mia mente rifiede». Allor mi disse: «Quel che da la gota porge la barba in su le spalle brune, fu - quando Grecia fu di maschi vòta, sì ch'a pena rimaser per le cune -
augure, e diede 'l punto con Calcanta in Aulide a tagliar la prima fune.
Euripilo ebbe nome, e così 'l canta l'alta mia tragedìa in alcun loco: ben lo sai tu che la sai tutta quanta.
Quell' altro che ne' fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente de le magiche frode seppe 'l gioco. Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente, ch'avere inteso al cuoio e a lo spago ora vorrebbe, ma tardi si pente.
Vedi le triste che lasciaron l'ago,
la spuola e 'l fuso, e fecersi 'ndivine; fecer malie con erbe e con imago.
Ma vienne omai, ché già tiene 'l confine d'amendue li emisperi e tocca l'onda sotto Sobilia Caino e le spine;
e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de' ricordar, ché non ti nocque alcuna volta per la selva fonda».
Sì mi parlava, e andavamo introcque.

Poi Virgilio indica alcuni indovini del passato, tra cui Tiresia e sua figlia Manto.

Dalla mitologia classica sappiamo che Tiresia era un tebano, il quale un giorno, mentre si trovava sul monte Citerone (in Grecia), vide due serpenti accoppiati. Infastidito da quella scena, uccise la femmina, e contemporaneamente egli subì una prodigiosa trasformazione in donna. Sette anni dopo vide altri due serpenti accoppiati; questa volta uccise il maschio, e fu ritrasformato in uomo.
La figlia di Tiresia, Manto, condusse una vita asociale e povera di ideali, accecata dalla sua inutile pratica delle arti magiche, per diffondere le quali ella girovagò come una zingara per il mondo, finché si stabilì definitivamente nel territorio in cui suo figlio Ocno fondò la città, Mantova, che prese il nome da lei.
Al termine dell’elenco degli indovini, Virgilio invita Dante ad affrettarsi, perché il nuovo giorno è alle porte.

CANTO XXI


1-57
Così di ponte in ponte, altro parlando che la mia comedìa cantar non cura, venimmo; e tenavamo 'l colmo, quando restammo per veder l'altra fessura
di Malebolge e li altri pianti vani; e vidila mirabilmente oscura.
Quale ne l'arzanà de' Viniziani bolle l'inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,
ché navicar non ponno - in quella vece chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece; chi ribatte da proda e chi da poppa; altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa - : tal, non per foco ma per divin' arte, bollia là giuso una pegola spessa, che 'nviscava la ripa d'ogne parte. I' vedea lei, ma non vedëa in essa mai che le bolle che 'l bollor levava, e gonfiar tutta, e riseder compressa. Mentr' io là giù fisamente mirava,
lo duca mio, dicendo «Guarda, guarda!», mi trasse a sé del loco dov' io stava.
Allor mi volsi come l'uom cui tarda di veder quel che li convien fuggire e cui paura sùbita sgagliarda,
che, per veder, non indugia 'l partire: e vidi dietro a noi un diavol nero correndo su per lo scoglio venire.

Ahi quant' elli era ne l'aspetto fero! e quanto mi parea ne l'atto acerbo, con l'ali aperte e sovra i piè leggero! L'omero suo, ch'era aguto e superbo,
carcava un peccator con ambo l'anche, e quei tenea de' piè ghermito 'l nerbo.
Del nostro ponte disse: «O Malebranche, ecco un de li anzïan di Santa Zita!
Mettetel sotto, ch'i' torno per anche a quella terra, che n'è ben fornita:
ogn' uom v'è barattier, fuor che Bonturo; del no, per li denar, vi si fa ita».
Là giù 'l buttò, e per lo scoglio duro si volse; e mai non fu mastino sciolto con tanta fretta a seguitar lo furo.
Quel s'attuffò, e tornò sù convolto;
ma i demon che del ponte avean coperchio, gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto! qui si nuota altrimenti che nel Serchio!
Però, se tu non vuo' di nostri graffi, non far sopra la pegola soverchio». Poi l'addentar con più di cento raffi, disser: «Coverto convien che qui balli, sì che, se puoi, nascosamente accaffi». Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli fanno attuffare in mezzo la caldaia
la carne con li uncin, perché non galli.

Dante e Virgilio giungono sul ponte che scavalca la quinta bolgia dell’ottavo cerchio, e si fermano a guardare in basso. Il fondo della bolgia è scuro a causa della pece che vi ribolle. Completamente sommersi dalla pece bollente sono i dannati di questa bolgia, i barattieri, cioè coloro che, ricoprendo posti di potere, se ne servirono per ottenere denaro o altri vantaggi personali. Se i dannati tentano di riemergere un po’ per alleviare la loro pena, vengono dilaniati dagli artigli e dagli uncini dei diavoli di questa bolgia.
Per contrappasso, come nel mondo i barattieri arraffarono di nascosto, così ora essi stanno nascosti in mezzo alla pece bollente.
Al verso 40 si afferma che particolarmente dediti alla baratteria furono i magistrati lucchesi. Lucca fu una delle tappe dell’esilio di Dante, che vi soggiornò tra la fine del 1307 e i primi del 1309. Nella sentenza che lo condannò all’esilio, lo stesso poeta

fu accusato di baratteria. Qui quest’accusa egli indirettamente la ritorce contro coloro che l’hanno formulata; infatti a quel tempo Lucca era una roccaforte dei Guelfi neri, cui si deve nel 1302 la cacciata dei Guelfi bianchi da Firenze e l’esilio del poeta.


58-105
Lo buon maestro «Acciò che non si paia che tu ci sia», mi disse, «giù t'acquatta dopo uno scheggio, ch'alcun schermo t'aia; e per nulla offension che mi sia fatta,
non temer tu, ch'i' ho le cose conte, perch' altra volta fui a tal baratta». Poscia passò di là dal co del ponte; e com' el giunse in su la ripa sesta, mestier li fu d'aver sicura fronte.
Con quel furore e con quella tempesta ch'escono i cani a dosso al poverello che di sùbito chiede ove s'arresta, usciron quei di sotto al ponticello,
e volser contra lui tutt' i runcigli; ma el gridò: «Nessun di voi sia fello! Innanzi che l'uncin vostro mi pigli,
traggasi avante l'un di voi che m'oda, e poi d'arruncigliarmi si consigli».
Tutti gridaron: «Vada Malacoda!»;
per ch'un si mosse - e li altri stetter fermi - e venne a lui dicendo: «Che li approda?»
«Credi tu, Malacoda, qui vedermi esser venuto», disse 'l mio maestro,
«sicuro già da tutti vostri schermi,

sanza voler divino e fato destro?
Lascian' andar, ché nel cielo è voluto
ch'i' mostri altrui questo cammin silvestro». Allor li fu l'orgoglio sì caduto,
ch'e' si lasciò cascar l'uncino a' piedi,
e disse a li altri: «Omai non sia feruto».
E 'l duca mio a me: «O tu che siedi
tra li scheggion del ponte quatto quatto, sicuramente omai a me ti riedi».
Per ch'io mi mossi e a lui venni ratto; e i diavoli si fecer tutti avanti,
sì ch'io temetti ch'ei tenesser patto; così vid' ïo già temer li fanti ch'uscivan patteggiati di Caprona, veggendo sé tra nemici cotanti.
I' m'accostai con tutta la persona
lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi da la sembianza lor ch'era non buona.
Ei chinavan li raffi e «Vuo' che 'l tocchi», diceva l'un con l'altro, «in sul groppone?» E rispondien: «Sì, fa che gliel' accocchi».
Ma quel demonio che tenea sermone col duca mio, si volse tutto presto
e disse: «Posa, posa, Scarmiglione!»

Virgilio invita Dante a nascondersi dietro una sporgenza della roccia e lo rassicura di non temere, qualunque offesa gli venga fatta, in quanto lui conosce le cose, perché ebbe già una contesa in questi luoghi durante la sua prima discesa al basso Inferno (cfr. Inf., IX, 1-33).
Dopo di che il maestro scende sull’argine tra la quinta e la sesta bolgia. Immediatamente i diavoli gli si scatenano contro con una furia simile a quella dei cani che, per un improvviso rumore, si lanciano addosso al poverello che si è avvicinato alla soglia di casa per chiedere l’elemosina. Ma Virgilio blocca il loro impeto chiedendo di parlare con uno di loro. I diavoli mandano come loro rappresentante Malacoda, al quale Virgilio dice di lasciare passare lui e Dante, perché il loro viaggio è stato voluto dalla Provvidenza divina. Allora il diavolo ordina ai suoi compagni di lasciarli passare, e Virgilio chiama Dante ad uscire dal nascondiglio; ma, non appena egli raggiunge il maestro, i diavoli cominciano a scaldarsi contro di lui ed a stento Malacoda li tiene a freno.


106-139
Poi disse a noi: «Più oltre andar per questo iscoglio non si può, però che giace
tutto spezzato al fondo l'arco sesto. E se l'andare avante pur vi piace, andatevene su per questa grotta; presso è un altro scoglio che via face.
Ier, più oltre cinqu' ore che quest' otta, mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta.
Io mando verso là di questi miei
a riguardar s'alcun se ne sciorina; gite con lor, che non saranno rei».
«Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina», cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la decina. Libicocco vegn' oltre e Draghignazzo,
Cirïatto sannuto e Graffiacane e Farfarello e Rubicante pazzo.

Cercate 'ntorno le boglienti pane;
costor sian salvi infino a l'altro scheggio che tutto intero va sovra le tane».
«Omè, maestro, che è quel ch'i' veggio?», diss' io, «deh, sanza scorta andianci soli, se tu sa' ir; ch'i' per me non la cheggio.
Se tu se' sì accorto come suoli,
non vedi tu ch'e' digrignan li denti e con le ciglia ne minaccian duoli?»
Ed elli a me: «Non vo' che tu paventi; lasciali digrignar pur a lor senno, ch'e' fanno ciò per li lessi dolenti».
Per l'argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno;
ed elli avea del cul fatto trombetta.

Malacoda dice ai due poeti: «Ieri, oltre cinque ore più tardi rispetto all’ora attuale, sono trascorsi 1266 anni da quando il ponte della sesta bolgia crollò, al momento della morte di Cristo». Ora, dai Vangeli, ed in particolare da quello di Matteo (XXVII, 45-53), sappiamo che Cristo morì verso le tre del pomeriggio (cioè verso le 15), e che al momento della sua morte il velo del tempio (il velo divideva le parti più riservate del tempio dedicato a Dio, chiamate rispettivamente il “Santo” e il “Santo dei Santi”) si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono… Perciò il dialogo tra Malacoda e i due poeti si svolge prima delle ore dieci di mattina (15 ─ 5) del 1300. A tale anno si è risaliti sommando 1266 (gli anni trascorsi dalla morte di Cristo) a 34, l’età che secondo Dante aveva Cristo quando morì; infatti Dante, come era consuetudine nel suo tempo, contava l’età di Cristo non dalla sua nascita (cioè dal 25 dicembre), ma dalla sua incarnazione (avvenuta, per induzione, nove mesi prima, e cioè il 25 marzo); pertanto secondo Dante Cristo morì a trentaquattro anni (e non a trentatré, come noi calcoliamo oggi). E siccome secondo la tradizione cristiana Cristo morì nel Venerdì Santo e Dante ha fatto il suo ingresso nell’Inferno la sera precedente rispetto al momento del dialogo con Malacoda, se ne deduce che Dante colloca l’inizio del suo viaggio ultraterreno nel Venerdì Santo del 1300, che quell’anno cadde l’8 aprile. Tale data conferma quanto il poeta dice nel v. 43 del I canto, e cioè che lui incontrò la lonza durante la dolce
stagione (la primavera: l’8 aprile cade in primavera).
Proprio nel 1300 papa Bonifacio VIII indisse il primo Giubileo della storia. Il Giubileo, detto anche “Anno Santo” è l’anno durante il quale i pellegrini che si recano a Roma ottengono l’indulgenza plenaria e cioè il condono delle pene per tutti i peccati commessi. Bonifacio VIII stabilì che si celebrasse ogni cento anni, ma i

Papi successivi accorciarono la cadenza gradualmente a cinquanta, poi a trentatré e infine ai venticinque anni attuali.
La notizia fornita da Malacoda, e cioè che il ponte sulla sesta bolgia è crollato nel momento della morte di Cristo, è vera, ma di proposito egli aggiunge una notizia non vera, ossia che un altro ponte poco più avanti è rimasto illeso (la notizia è falsa per il fatto che tutti i ponti crollarono nel momento della morte di Cristo); ed in quella direzione li avvia offrendogli come scorta dieci diavoli, guidata dal diavolo Barbariccia.
Dante vorrebbe fare a meno di quella scorta che gli incute timore, ma il maestro lo rassicura dicendogli che i gesti e gli sguardi minacciosi dei diavoli non sono rivolti contro loro due, bensì contro i barattieri.
I nove diavoli mostrano per scherno la lingua a Barbariccia, in attesa del suo segnale di partenza, il quale subito dopo giunge triviale e osceno, per mezzo di una scorreggia (ed elli avea del cul fatto trombetta).

CANTO XXII


1-120
Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra, e talvolta partir per loro scampo; corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane, fedir torneamenti e correr giostra;
quando con trombe, e quando con campane, con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane; né già con sì diversa cennamella cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella. Noi andavam con li diece demoni. Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni. Pur a la pegola era la mia 'ntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno e de la gente ch'entro v'era incesa. Come i dalfini, quando fanno segno a' marinar con l'arco de la schiena
che s'argomentin di campar lor legno, talor così, ad alleggiar la pena, mostrav' alcun de' peccatori 'l dosso e nascondea in men che non balena.
E come a l'orlo de l'acqua d'un fosso stanno i ranocchi pur col muso fuori, sì che celano i piedi e l'altro grosso, sì stavan d'ogne parte i peccatori; ma come s'appressava Barbariccia, così si ritraén sotto i bollori.
I' vidi, e anco il cor me n'accapriccia, uno aspettar così, com' elli 'ncontra ch'una rana rimane e l'altra spiccia; e Graffiacan, che li era più di contra, li arruncigliò le 'mpegolate chiome
e trassel sù, che mi parve una lontra. I' sapea già di tutti quanti 'l nome, sì li notai quando fuorono eletti,
e poi ch'e' si chiamaro, attesi come.
«O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!», gridavan tutti insieme i maladetti.

E io: «Maestro mio, fa, se tu puoi, che tu sappi chi è lo sciagurato venuto a man de li avversari suoi». Lo duca mio li s'accostò allato;
domandollo ond' ei fosse, e quei rispuose:
«I' fui del regno di Navarra nato.
Mia madre a servo d'un segnor mi puose, che m'avea generato d'un ribaldo, distruggitor di sé e di sue cose.
Poi fui famiglia del buon re Tebaldo; quivi mi misi a far baratteria,
di ch'io rendo ragione in questo caldo».
E Cirïatto, a cui di bocca uscia d'ogne parte una sanna come a porco, li fé sentir come l'una sdruscia.
Tra male gatte era venuto 'l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia
e disse: «State in là, mentr' io lo 'nforco». E al maestro mio volse la faccia;
«Domanda», disse, «ancor, se più disii saper da lui, prima ch'altri 'l disfaccia». Lo duca dunque: «Or dì: de li altri rii conosci tu alcun che sia latino
sotto la pece?». E quelli: «I' mi partii, poco è, da un che fu di là vicino.
Così foss' io ancor con lui coperto, ch'i' non temerei unghia né uncino!» E Libicocco «Troppo avem sofferto», disse; e preseli 'l braccio col runciglio, sì che, stracciando, ne portò un lacerto. Draghignazzo anco i volle dar di piglio giuso a le gambe; onde 'l decurio loro si volse intorno intorno con mal piglio. Quand' elli un poco rappaciati fuoro,
a lui, ch'ancor mirava sua ferita, domandò 'l duca mio sanza dimoro:
«Chi fu colui da cui mala partita di' che facesti per venire a proda?» Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita, quel di Gallura, vasel d'ogne froda,
ch'ebbe i nemici di suo donno in mano, e fé sì lor, che ciascun se ne loda.

Danar si tolse e lasciolli di piano,
sì com' e' dice; e ne li altri offici anche barattier fu non picciol, ma sovrano.
Usa con esso donno Michel Zanche di Logodoro; e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche. Omè, vedete l'altro che digrigna;
i' direi anche, ma i' temo ch'ello
non s'apparecchi a grattarmi la tigna». E 'l gran proposto, vòlto a Farfarello che stralunava li occhi per fedire,
disse: «Fatti 'n costà, malvagio uccello!»
«Se voi volete vedere o udire», ricominciò lo spaürato appresso,
«Toschi o Lombardi, io ne farò venire;
ma stieno i Malebranche un poco in cesso, sì ch'ei non teman de le lor vendette;
e io, seggendo in questo loco stesso,

per un ch'io son, ne farò venir sette quand' io suffolerò, com' è nostro uso di fare allor che fori alcun si mette». Cagnazzo a cotal motto levò 'l muso, crollando 'l capo, e disse: «Odi malizia ch'elli ha pensata per gittarsi giuso!»
Ond' ei, ch'avea lacciuoli a gran divizia, rispuose: «Malizioso son io troppo,
quand' io procuro a' mia maggior trestizia».
Alichin non si tenne e, di rintoppo a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali, io non ti verrò dietro di gualoppo, ma batterò sovra la pece l'ali.
Lascisi 'l collo, e sia la ripa scudo, a veder se tu sol più di noi vali». O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da l'altra costa li occhi volse, quel prima, ch'a ciò fare era più crudo.

Durante il cammino, scortato dai diavoli, Dante osserva alcuni barattieri. Uno di questi viene uncinato da un diavolo e viene tirato fuori dalla pece bollente. Virgilio domanda al dannato il proprio nome, e questi gli risponde di essere Ciampolo di Navarra. Questi stava alla corte di Tebaldo II, re di Navarra dal 1253 al 1270; Ciampolo abusò della fiducia del re dispensando, in cambio di denaro, grazie e benefici a molta gente.
Virgilio domanda a Ciampolo se tra i dannati della bolgia conosca qualche italiano. Ciampolo risponde che uno di questi è frate Gomita, il quale fu vicario di Nino Visconti, signore della Gallura, in Sardegna, dal 1275 al 1296. Avendo arrestato alcuni cittadini che avevano congiurato contro Nino Visconti, frate Gomita si lasciò corrompore da essi per denaro e li lasciò liberi.
Poi Ciampolo fa anche il nome di Michele Zanche, il quale fu vicario di Enzo, re li Logudoro, sempre in Sardegna, alla fine del XIII secolo. Dopo la morte di Enzo, Michele ne sposò la vedova, proclamandosi signore di Logudoro.


121-151
Lo Navarrese ben suo tempo colse; fermò le piante a terra, e in un punto saltò e dal proposto lor si sciolse.
Di che ciascun di colpa fu compunto, ma quei più che cagion fu del difetto; però si mosse e gridò: «Tu se' giunto!» Ma poco i valse: ché l'ali al sospetto non potero avanzar; quelli andò sotto, e quei drizzò volando suso il petto:

non altrimenti l'anitra di botto,
quando 'l falcon s'appressa, giù s'attuffa, ed ei ritorna sù crucciato e rotto.
Irato Calcabrina de la buffa, volando dietro li tenne, invaghito che quei campasse per aver la zuffa; e come 'l barattier fu disparito,
così volse li artigli al suo compagno, e fu con lui sopra 'l fosso ghermito.

Ma l'altro fu bene sparvier grifagno ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno. Lo caldo sghermitor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente, sì avieno inviscate l'ali sue.

Barbariccia, con li altri suoi dolente, quattro ne fé volar da l'altra costa con tutt' i raffi, e assai prestamente di qua, di là discesero a la posta; porser li uncini verso li 'mpaniati, ch'eran già cotti dentro da la crosta. E noi lasciammo lor così 'mpacciati.

Sfruttando un momento propizio, Ciampolo si tuffa nella pece bollente, sfuggendo così ai diavoli. Tra alcuni di essi scoppia una rissa, approfittando della quale i due poeti si allontanano.

CANTO XXIII


1-75
Taciti, soli, sanza compagnia n'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo, come frati minor vanno per via.
Vòlt' era in su la favola d'Isopo
lo mio pensier per la presente rissa, dov' el parlò de la rana e del topo; ché più non si pareggia 'mo' e 'issa'
che l'un con l'altro fa, se ben s'accoppia principio e fine con la mente fissa.
E come l'un pensier de l'altro scoppia, così nacque di quello un altro poi,
che la prima paura mi fé doppia.
Io pensava così: «Questi per noi sono scherniti con danno e con beffa sì fatta, ch'assai credo che lor nòi.
Se l'ira sovra 'l mal voler s'aggueffa, ei ne verranno dietro più crudeli
che 'l cane a quella lievre ch'elli acceffa».
Già mi sentia tutti arricciar li peli de la paura e stava in dietro intento,
quand' io dissi: «Maestro, se non celi te e me tostamente, i' ho pavento
d'i Malebranche. Noi li avem già dietro; io li 'magino sì, che già li sento».
E quei: «S'i' fossi di piombato vetro, l'imagine di fuor tua non trarrei
più tosto a me, che quella dentro 'mpetro. Pur mo venieno i tuo' pensier tra ' miei, con simile atto e con simile faccia,
sì che d'intrambi un sol consiglio fei. S'elli è che sì la destra costa giaccia,
che noi possiam ne l'altra bolgia scendere, noi fuggirem l'imaginata caccia».
Già non compié di tal consiglio rendere, ch'io li vidi venir con l'ali tese
non molto lungi, per volerne prendere. Lo duca mio di sùbito mi prese,
come la madre ch'al romore è desta e vede presso a sé le fiamme accese,

che prende il figlio e fugge e non s'arresta, avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta; e giù dal collo de la ripa dura supin si diede a la pendente roccia,
che l'un de' lati a l'altra bolgia tura. Non corse mai sì tosto acqua per doccia a volger ruota di molin terragno, quand' ella più verso le pale approccia, come 'l maestro mio per quel vivagno, portandosene me sovra 'l suo petto, come suo figlio, non come compagno.
A pena fuoro i piè suoi giunti al letto del fondo giù, ch'e' furon in sul colle sovresso noi; ma non lì era sospetto: ché l'alta provedenza che lor volle porre ministri de la fossa quinta, poder di partirs' indi a tutti tolle.
Là giù trovammo una gente dipinta che giva intorno assai con lenti passi,
piangendo e nel sembiante stanca e vinta. Elli avean cappe con cappucci bassi dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
che in Clugnì per li monaci fassi.
Di fuor dorate son, sì ch'elli abbaglia; ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, che Federigo le mettea di paglia.
Oh in etterno faticoso manto!
Noi ci volgemmo ancor pur a man manca con loro insieme, intenti al tristo pianto; ma per lo peso quella gente stanca
venìa sì pian, che noi eravam nuovi di compagnia ad ogne mover d'anca.
Per ch'io al duca mio: «Fa che tu trovi alcun ch'al fatto o al nome si conosca, e li occhi, sì andando, intorno movi».

Per la strettezza dell’argine i due poeti vanno l’uno dietro l’altro, senza la compagnia tumultuosa dei diavoli.
Dante è terrorizzato dall’idea che i diavoli possano seguirli e raggiungerli. Infatti poco dopo questi sopraggiungono, con l’intenzione di aggredirli. Virgilio,

prontamente, con atto materno prende a sé il discepolo per metterlo in salvo, e lo trascina scivolando giù per il pendio verso il piano della bolgia sottostante. Qui i due poeti sono al sicuro, perché l’ordine divino ha tolto a questi demoni il potere di allontanarsi dalla quinta bolgia.
Nella nuova bolgia, che è la sesta dell’ottavo cerchio, sono puniti gli ipocriti, i quali camminano molto stancamente e piangono a causa dell’oppressione di cappe pesantissime che sono costretti a portare indosso, con il cappuccio che ricade loro sugli occhi. Le cappe sono dorate all’esterno, ma internamente sono di piombo: la doratura esteriore rappresenta l’apparenza virtuosa, ma il piombo interno rivela la vera natura malvagia di questi peccatori. Ipocrita è infatti chi simula sentimenti e intenzioni lodevoli e moralmente buone, allo scopo di ingannare qualcuno per ottenerne simpatia o favori.


76-108
E un che 'ntese la parola tosca,
di retro a noi gridò: «Tenete i piedi, voi che correte sì per l'aura fosca!
Forse ch'avrai da me quel che tu chiedi». Onde 'l duca si volse e disse: «Aspetta,
e poi secondo il suo passo procedi». Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta de l'animo, col viso, d'esser meco;
ma tardavali 'l carco e la via stretta. Quando fuor giunti, assai con l'occhio bieco mi rimiraron sanza far parola;
poi si volsero in sé, e dicean seco:
«Costui par vivo a l'atto de la gola; e s'e' son morti, per qual privilegio vanno scoperti de la grave stola?»
Poi disser me: «O Tosco, ch'al collegio de l'ipocriti tristi se' venuto,
dir chi tu se' non avere in dispregio».

E io a loro: «I' fui nato e cresciuto
sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa, e son col corpo ch'i' ho sempre avuto.
Ma voi chi siete, a cui tanto distilla quant' i' veggio dolor giù per le guance? e che pena è in voi che sì sfavilla?»
E l'un rispuose a me: «Le cappe rance son di piombo sì grosse, che li pesi fan così cigolar le lor bilance.
Frati godenti fummo, e bolognesi; io Catalano e questi Loderingo nomati, e da tua terra insieme presi
come suole esser tolto un uom solingo, per conservar sua pace; e fummo tali, ch'ancor si pare intorno dal Gardingo».

Due anime, ascoltando l’accento toscano del poeta, lo esortano a fermarsi ed aspettare che loro lo raggiungano. Durante la vita terrena i due dannati furono podestà di diverse città, ed appartennero entrambi all’ordine dei Frati gaudenti. Nel 1266 furono chiamati a reggere insieme il comune di Firenze, con la speranza che, essendo uno guelfo e l’altro ghibellino, avrebbero riconciliato la due fazioni. Ma essi, in cambio di denaro, ipocritamente favorirono i Guelfi a danno dei Ghibellini.
I Frati gaudenti erano un ordine di frati cavalieri fondato nel XIII secolo con lo scopo di assistere i poveri e i deboli contro i soprusi dei potenti e mettere pace tra i partiti, le città e le famiglie rivali. Potevano sposarsi e non erano obbligati a vivere in convento. Col tempo però la regola dell’ordine fu sempre meno rispettata dai

suoi appartenenti, che divennero sempre più corrotti e avidi di ricchezze materiali. L’ordine fu sciolto da papa Sisto V verso la fine del XVI secolo.


109-123
Io cominciai: «O frati, i vostri mali... »; ma più non dissi, ch'a l'occhio mi corse un, crucifisso in terra con tre pali.
Quando mi vide, tutto si distorse, soffiando ne la barba con sospiri;
e 'l frate Catalan, ch'a ciò s'accorse, mi disse: «Quel confitto che tu miri, consigliò i Farisei che convenia
porre un uom per lo popolo a' martìri.

Attraversato è, nudo, ne la via,
come tu vedi, ed è mestier ch'el senta qualunque passa, come pesa, pria.
E a tal modo il socero si stenta
in questa fossa, e li altri dal concilio che fu per li Giudei mala sementa».

Mentre ancora sta parlando con i due frati, Dante viene distratto dalla vista di alcuni dannati crocifissi per terra: sono Caifa, suo suocero Anna e i sacerdoti del Sinedrio. Presso gli antichi Ebrei il Sinedrio era la più alta assemblea per amministrare la giustizia e decidere sui problemi religiosi. Caifa era un sommo sacerdote il quale, dopo il miracolo della resurrezione di Lazzaro, temeva, così come gli altri sommi sacerdoti e i Farisei, che i Romani potessero credere in Gesù e pertanto distruggere i luoghi santi e la nazione degli Ebrei; per evitare questo rischio, Caifa consigliò al Sinedrio l’uccisione di Gesù, ma ipocritamente disse che quella non era una sua personale opionione ma il frutto di una profezia che era stata rivelata a lui in qualità di sommo sacerdote (Vangelo di s. Giovanni, XI, 47-53). Caifa, Anna e i sacerdoti del Sinedrio subiscono l’umiliante pena di essere calpestati perfino dagli altri ipocriti, così come in vita essi umiliarono e disprezzarono Cristo.


124-148
Allor vid' io maravigliar Virgilio sovra colui ch'era disteso in croce tanto vilmente ne l'etterno essilio. Poscia drizzò al frate cotal voce:
«Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci s'a la man destra giace alcuna foce onde noi amendue possiamo uscirci, sanza costrigner de li angeli neri
che vegnan d'esto fondo a dipartirci». Rispuose adunque: «Più che tu non speri s'appressa un sasso che da la gran cerchia si move e varca tutt' i vallon feri,

salvo che 'n questo è rotto e nol coperchia; montar potrete su per la ruina,
che giace in costa e nel fondo soperchia». Lo duca stette un poco a testa china;
poi disse: «Mal contava la bisogna colui che i peccator di qua uncina». E 'l frate: «Io udi' già dire a Bologna del diavol vizi assai, tra ' quali udi'
ch'elli è bugiardo e padre di menzogna». Appresso il duca a gran passi sen gì, turbato un poco d'ira nel sembiante; ond' io da li 'ncarcati mi parti'
dietro a le poste de le care piante.

Poi Virgilio domanda ad uno dei frati la strada per uscire dalla sesta bolgia. Il dannato gli risponde che non lontano c’è un ponte rotto, e che quindi occorre

passare per le macerie. Virgilio si rende conto della bugia di Malacoda (il quale, ricordiamo, gli aveva detto che c’era un ponte integro: cfr. Inf., XXI, 106-139) e riprende il cammino assieme a Dante.

CANTO XXIV


1-45
In quella parte del giovanetto anno
che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra e già le notti al mezzo dì sen vanno, quando la brina in su la terra assempra l'imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra, lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna biancheggiar tutta; ond' ei si batte l'anca, ritorna in casa, e qua e là si lagna,
come 'l tapin che non sa che si faccia; poi riede, e la speranza ringavagna, veggendo 'l mondo aver cangiata faccia in poco d'ora, e prende suo vincastro
e fuor le pecorelle a pascer caccia. Così mi fece sbigottir lo mastro quand' io li vidi sì turbar la fronte,
e così tosto al mal giunse lo 'mpiastro; ché, come noi venimmo al guasto ponte, lo duca a me si volse con quel piglio dolce ch'io vidi prima a piè del monte. Le braccia aperse, dopo alcun consiglio eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio.

E come quei ch'adopera ed estima,
che sempre par che 'nnanzi si proveggia, così, levando me sù ver' la cima
d'un ronchione, avvisava un'altra scheggia dicendo: «Sovra quella poi t'aggrappa;
ma tenta pria s'è tal ch'ella ti reggia». Non era via da vestito di cappa,
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto, potavam sù montar di chiappa in chiappa.
E se non fosse che da quel precinto più che da l'altro era la costa corta, non so di lui, ma io sarei ben vinto. Ma perché Malebolge inver' la porta del bassissimo pozzo tutta pende,
lo sito di ciascuna valle porta
che l'una costa surge e l'altra scende; noi pur venimmo al fine in su la punta onde l'ultima pietra si scoscende.
La lena m'era del polmon sì munta quand' io fui sù, ch'i' non potea più oltre, anzi m'assisi ne la prima giunta.

Virgilio abbraccia Dante e lo sospinge per agevolargli la salita del pendio che collega la sesta alla settima bolgia: ricordiamo infatti che ciascuna valle che ospita una bolgia dell’ottavo cerchio è separata da quella confinante da un argine roccioso; quindi, anche se i due poeti stanno scendendo di bolgia in bolgia, devono comunque ogni volta salire sugli argini, e poi ridiscendere.
Giunto in vetta all’argine, Dante è esausto, e crolla a terra per la stanchezza.

46-51
«Omai convien che tu così ti spoltre», disse ‘l maestro; «ché, seggendo in piuma, in fama non si vien, né sotto coltre;
sanza la qual chi sua vita consuma, cotal vestigio in terra di sé lascia,
qual fummo in aere ed in acqua la schiuma.

Il maestro incita Dante a vincere la sua pigrizia, perché sedendo su comodi cuscini o standosene oziosi sotto le coperte non è possibile raggiungere la fama; e chi spreca la propria vita senza conseguire la fama, quando muore non lascia nulla sulla terra, la propria esistenza si dissolve nel nulla, così come si dissolvono il fumo nell’aria e la schiuma nell’acqua. Questa efficacissima espressione è di origine biblica: si veda in proposito il libro “Sapienza”, V, 14.


52-60
E però leva sù; vinci l'ambascia
con l'animo che vince ogne battaglia, se col suo grave corpo non s'accascia. Più lunga scala convien che si saglia; non basta da costoro esser partito.
Se tu mi 'ntendi, or fa sì che ti vaglia».

Leva'mi allor, mostrandomi fornito meglio di lena ch'i' non mi sentia,
e dissi: «Va, ch'i' son forte e ardito».

Quindi Virgilio spiega al discepolo che con una grande forza di volontà si può vincere qualunque fatica; e aggiunge che il percorso che rimane da compiere sarà ancora più arduo di quello già compiuto.
Le parole del maestro forniscono un grande vigore morale a Dante, il quale risponde così: «Va, ch’i’ son forte e ardito».


61-75
Su per lo scoglio prendemmo la via, ch'era ronchioso, stretto e malagevole, ed erto più assai che quel di pria.
Parlando andava per non parer fievole; onde una voce uscì de l'altro fosso,
a parole formar disconvenevole.
Non so che disse, ancor che sovra 'l dosso fossi de l'arco già che varca quivi;
ma chi parlava ad ire parea mosso.

Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi non poteano ire al fondo per lo scuro; per ch'io: «Maestro, fa che tu arrivi
da l'altro cinghio e dismontiam lo muro; ché, com' i' odo quinci e non intendo, così giù veggio e neente affiguro».

Così i due poeti riprendono il cammino e attraverso un percorso più angusto, scosceso e difficile di quello precedenete raggiungono la sommità del ponte che scavalca la settima bolgia, da cui Dante sente arrivare delle parole che (a causa della distanza) sono poco comprensibili e non riesce a vedere chi le ha pronunciate (a causa dell’oscurità). Perciò egli avanza al maestro la proposta di scendere nella bolgia.

76-78
«Altra risposta», disse, non ti rendo se non lo far; ché la dimanda onesta

si de’ seguir con l’opera tacendo.»

Alla proposta del discepolo, Virgilio risponde che la giusta richiesta si deve soddisfare immediatamente, con i fatti, senza bisogno di aggiungere parole.


79-151
Noi discendemmo il ponte da la testa dove s'aggiugne con l'ottava ripa,
e poi mi fu la bolgia manifesta: e vidivi entro terribile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa. Più non si vanti Libia con sua rena;
ché se chelidri, iaculi e faree produce, e cencri con anfisibena, né tante pestilenzie né sì ree mostrò già mai con tutta l'Etïopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe. Tra questa cruda e tristissima copia corrëan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia: con serpi le man dietro avean legate; quelle ficcavan per le ren la coda
e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate. Ed ecco a un ch'era da nostra proda, s'avventò un serpente che 'l trafisse là dove 'l collo a le spalle s'annoda.
Né O sì tosto mai né I si scrisse, com' el s'accese e arse, e cener tutto convenne che cascando divenisse;
e poi che fu a terra sì distrutto, la polver si raccolse per sé stessa
e 'n quel medesmo ritornò di butto. Così per li gran savi si confessa che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa; erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol d'incenso lagrime e d'amomo, e nardo e mirra son l'ultime fasce.
E qual è quel che cade, e non sa como, per forza di demon ch'a terra il tira,
o d'altra oppilazion che lega l'omo,

quando si leva, che 'ntorno si mira tutto smarrito de la grande angoscia ch'elli ha sofferta, e guardando sospira: tal era 'l peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant' è severa, che cotai colpi per vendetta croscia! Lo duca il domandò poi chi ello era;
per ch'ei rispuose: «Io piovvi di Toscana, poco tempo è, in questa gola fiera.
Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci bestia, e Pistoia mi fu degna tana».
E ïo al duca: «Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giù 'l pinse; ch'io 'l vidi uomo di sangue e di crucci». E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse, ma drizzò verso me l'animo e 'l volto,
e di trista vergogna si dipinse;
poi disse: «Più mi duol che tu m'hai colto ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de l'altra vita tolto.
Io non posso negar quel che tu chiedi; in giù son messo tanto perch' io fui ladro a la sagrestia d'i belli arredi,
e falsamente già fu apposto altrui. Ma perché di tal vista tu non godi, se mai sarai di fuor da' luoghi bui, apri li orecchi al mio annunzio, e odi. Pistoia in pria d'i Neri si dimagra; poi Fiorenza rinova gente e modi.
Tragge Marte vapor di Val di Magra ch'è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetüosa e agra sovra Campo Picen fia combattuto; ond' ei repente spezzerà la nebbia, sì ch'ogne Bianco ne sarà feruto.
E detto l'ho perché doler ti debbia!»

Quindi i due poeti scendono nella settima bolgia, dove sono puniti i ladri. Il fondo della bolgia è pieno di serpenti. I dannati corrono nudi e terrorizzati, senza alcuna

speranza di trovare alcun nascondiglio (essi che in vita spesso rubarono di nascosto); le loro mani sono legate dietro la schiena da serpenti.
Per contrappasso, le mani dei ladri sono ora tanto strettamente legate quanto in terra furono troppo sciolte sulle cose altrui. Il serpente, così come rappresentato nella Bibbia, è un chiaro riferimento alla natura subdola e ingannatrice del peccato dei ladri.
Quando vengono morsi da un serpente, i dannati si incendiano e inceneriscono, per poi riprendere le sembianze originali (come essi in vita, travisandosi per compiere i furti, rinunciarono alle proprie sembianze). I due poeti osservano uno dei dannati subire questa trasformazione. Il suo nome è Vanni Fucci, pistoiese malvagio e violento, che rubò oggetti sacri nelle chiese.
Irritato per il fatto di essere stato riconosciuto da Dante e dover quindi confessare la sua colpa, il dannato per dispetto gli predice la sconfitta dei Guelfi bianchi a Firenze.

CANTO XXV


1-33
Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche, gridando: «Togli, Dio, ch'a te le squadro!» Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, perch' una li s'avvolse allora al collo, come dicesse 'Non vo' che più diche';
e un'altra a le braccia, e rilegollo, ribadendo sé stessa sì dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo. Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi d'incenerarti sì che più non duri,
poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi? Per tutt' i cerchi de lo 'nferno scuri non vidi spirto in Dio tanto superbo, non quel che cadde a Tebe giù da' muri. El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: «Ov' è, ov' è l'acerbo?»

Maremma non cred' io che tante n'abbia, quante bisce elli avea su per la groppa infin ove comincia nostra labbia.
Sovra le spalle, dietro da la coppa, con l'ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s'intoppa. Lo mio maestro disse: «Questi è Caco, che, sotto 'l sasso di monte Aventino, di sangue fece spesse volte laco.
Non va co' suoi fratei per un cammino, per lo furto che frodolente fece
del grande armento ch'elli ebbe a vicino; onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d'Ercule, che forse gliene diè cento, e non sentì le diece».

Il pistoiese Vanni Fucci termina il suo discorso con una bestemmia contro Dio, e subito due serpenti gli avvinghiano il collo e le braccia.
Dante allora pronuncia un’aspra critica contro la città di Pistoia.
Il dannato fugge, ma viene braccato dal centauro Caco, il quale ha sulla groppa tanti serpenti, mentre sulle spalle e dietro la nuca ha un drago che vomita fiamme. Caco viveva in una caverna dell’Aventino (uno dei sette colli su cui venne fondata Roma) e terrorizzava i paesi circostanti con uccisioni e ruberie.
Virgilio spiega al discepolo che Caco non si trova, come gli altri centauri, nel primo girone del settimo cerchio, bensì si trova nella bolgia dei ladri perché aveva rubato con la frode quattro tori e quattro giovenche a Ercole; ma dopo il furto una giovenca muggì, Ercole accorse e uccise il ladro.


34-151
Mentre che sì parlava, ed el trascorse, e tre spiriti venner sotto noi,
de' quai né io né 'l duca mio s'accorse, se non quando gridar: «Chi siete voi?»; per che nostra novella si ristette,
e intendemmo pur ad essi poi.
Io non li conoscea; ma ei seguette, come suol seguitar per alcun caso, che l'un nomar un altro convenette,

dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;
per ch'io, acciò che 'l duca stesse attento, mi puosi 'l dito su dal mento al naso.
Se tu se' or, lettore, a creder lento ciò ch'io dirò, non sarà maraviglia,
ché io che 'l vidi, a pena il mi consento. Com' io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia.

Co' piè di mezzo li avvinse la pancia e con li anterïor le braccia prese;
poi li addentò e l'una e l'altra guancia; li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra 'mbedue
e dietro per le ren sù la ritese. Ellera abbarbicata mai non fue ad alber sì, come l'orribil fiera
per l'altrui membra avviticchiò le sue. Poi s'appiccar, come di calda cera fossero stati, e mischiar lor colore,
né l'un né l'altro già parea quel ch'era: come procede innanzi da l'ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e 'l bianco more. Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se' né due né uno». Già eran li due capi un divenuti, quando n'apparver due figure miste in una faccia, ov' eran due perduti. Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso divenner membra che non fuor mai viste. Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l'imagine perversa parea; e tal sen gio con lento passo. Come 'l ramarro sotto la gran fersa dei dì canicular, cangiando sepe, folgore par se la via attraversa,
sì pareva, venendo verso l'epe
de li altri due, un serpentello acceso, livido e nero come gran di pepe;
e quella parte onde prima è preso nostro alimento, a l'un di lor trafisse; poi cadde giuso innanzi lui disteso.
Lo trafitto 'l mirò, ma nulla disse; anzi, co' piè fermati, sbadigliava pur come sonno o febbre l'assalisse.
Elli 'l serpente e quei lui riguardava; l'un per la piaga e l'altro per la bocca fummavan forte, e 'l fummo si scontrava.
Taccia Lucano ormai là dov' e' tocca del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch'or si scocca. Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio, ché se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo 'nvidio;

ché due nature mai a fronte a fronte non trasmutò sì ch'amendue le forme a cambiar lor matera fosser pronte.
Insieme si rispuosero a tai norme, che 'l serpente la coda in forca fesse, e 'l feruto ristrinse insieme l'orme. Le gambe con le cosce seco stesse s'appiccar sì, che 'n poco la giuntura non facea segno alcun che si paresse.
Togliea la coda fessa la figura che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura.
Io vidi intrar le braccia per l'ascelle, e i due piè de la fiera, ch'eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle. Poscia li piè di rietro, insieme attorti, diventaron lo membro che l'uom cela,
e 'l misero del suo n'avea due porti. Mentre che 'l fummo l'uno e l'altro vela di color novo, e genera 'l pel suso
per l'una parte e da l'altra il dipela, l'un si levò e l'altro cadde giuso, non torcendo però le lucerne empie, sotto le quai ciascun cambiava muso.
Quel ch'era dritto, il trasse ver' le tempie, e di troppa matera ch'in là venne
uscir li orecchi de le gote scempie;
ciò che non corse in dietro e si ritenne di quel soverchio, fé naso a la faccia
e le labbra ingrossò quanto convenne. Quel che giacëa, il muso innanzi caccia, e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia;
e la lingua, ch'avëa unita e presta prima a parlar, si fende, e la forcuta ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta. L'anima ch'era fiera divenuta, suffolando si fugge per la valle,
e l'altro dietro a lui parlando sputa. Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a l'altro: «I' vo' che Buoso corra, com' ho fatt' io, carpon per questo calle».
Così vid' io la settima zavorra mutare e trasmutare; e qui mi scusi la novità se fior la penna abborra.
E avvegna che li occhi miei confusi fossero alquanto e l'animo smagato, non poter quei fuggirsi tanto chiusi,

ch'i' non scorgessi ben Puccio Sciancato; ed era quel che sol, di tre compagni

che venner prima, non era mutato; l'altr' era quel che tu, Gaville, piagni.

Dopo che Virgilio ha finito di parlare e Caco si è allontanato alla ricerca di Vanni Fucci, si avvicinano tre nuovi spiriti, i quali sono tutti appartenenti a nobili famiglie fiorentine.
Dante non conosce nessuno dei tre, ma subito dopo uno di loro domanda: «Dov’è rimasto Cianfa?» Questo Cianfa di cui domandano i dannati era anche lui fiorentino, e sembra che rubò svolgendo cariche pubbliche; i tre dannati non lo trovano perché costui si è precedentemente trasformato in serpente. Ad un tratto questo serpente si lancia su uno dei tre spiriti e vi si attorciglia; dopo di che avviene gradualmente un’orrenda trasformazione che fonde il corpo del serpente con quello del dannato, formando un solo corpo di serpente. Poi appare un serpente nero, che è anch’esso lo spirito trasformato di un ladro fiorentino. Questo serpente nero, pieno di ira e di veleno, con uno scatto fulmineo morde l’ombelico di uno degli altri due dannati. Dopo il morso, sia dalla bocca del serpente sia dall’ombelico dello spirito esce un fumo denso; dopo di che avviene una doppia terribile trasformazione: il serpente diventa uomo e l’uomo diventa serpente.
Queste trasformazioni evidenziano che, come in vita i ladri derubarono gli altri dei loro averi, così ora essi si derubano l’un l’altro dell’unica cosa che rimane indissolubilmente legata all’uomo: la personalità.

CANTO XXVI


1-12
Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande che per mare e per terra batti l'ali,
e per lo 'nferno tuo nome si spande! Tra li ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali.

Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna. E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss' ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com' più m'attempo.

Il canto XXVI inizia con una manifestazione di sdegno e vergogna da parte di Dante per il fatto che i cinque dannati (oltre a Vanni Fucci) che lui ha visto nella bolgia dei ladri sono tutti suoi concittadini.


13-48
Noi ci partimmo, e su per le scalee che n'avea fatto iborni a scender pria, rimontò 'l duca mio e trasse mee;
e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio lo piè sanza la man non si spedia.
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio quando drizzo la mente a ciò ch'io vidi,
e più lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio, perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m'ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi. Quante 'l villan ch'al poggio si riposa, nel tempo che colui che 'l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede a la zanzara, vede lucciole giù per la vallea, forse colà dov' e' vendemmia e ara:

di tante fiamme tutta risplendea l'ottava bolgia, sì com' io m'accorsi tosto che fui là 've 'l fondo parea.
E qual colui che si vengiò con li orsi vide 'l carro d'Elia al dipartire, quando i cavalli al cielo erti levorsi, che nol potea sì con li occhi seguire, ch'el vedesse altro che la fiamma sola, sì come nuvoletta, in sù salire:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra 'l furto, e ogne fiamma un peccatore invola.
Io stava sovra 'l ponte a veder surto,
sì che s'io non avessi un ronchion preso, caduto sarei giù sanz' esser urto.
E 'l duca che mi vide tanto atteso, disse: «Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch'elli è inceso».

I due poeti si allontanano dal punto del ponte su cui si erano fermati per osservare la bolgia dei ladri, e Virgilio risale i gradini, traendo a sé il discepolo per aiutarlo. La salita si rivela molto impegnativa, tant’è che è necessario aiutarsi con le mani aggrappandosi alle sporgenze delle rocce. Raggiunta la sommità dell’argine, Dante vede sotto di sé la valle dell’ottava bolgia, dove sono puniti i consiglieri di frodi, la quale è disseminata di tante fiamme che si spostano. Ogni fiamma avvolge completamente un dannato.
Contrappasso: come in vita i consiglieri di frodi agirono per vie sotterranee, così ora sono irriconoscibili nella lingua di fuoco.

49-63
«Maestro mio», rispuos' io, «per udirti son io più certo; ma già m'era avviso che così fosse, e già voleva dirti:
chi è 'n quel foco che vien sì diviso di sopra, che par surger de la pira dov' Eteòcle col fratel fu miso?» Rispuose a me: «Là dentro si martira Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l'ira;

e dentro da la lor fiamma si geme l'agguato del caval che fé la porta onde uscì de' Romani il gentil seme. Piangevisi entro l'arte per che, morta, Deïdamìa ancor si duol d'Achille,
e del Palladio pena vi si porta».

Il poeta si accorge che tra le fiamme ce n’è una suddivisa in due parti, e incuriosito domanda al maestro chi ci sta dentro. Virgilio gli risponde che dentro quella fiamma biforcuta stanno Ulisse e Diomede, guerrieri greci, i quali sono puniti insieme, come in vita erano uniti nell’ordire tranelli e frodi. Le colpe che essi scontano sono tre: 1) l’ideazione dell’inganno del cavallo di legno, per mezzo del quale i Greci penetrarono in Troia, distruggendola; 2) l’invenzione dello stratagemma per mezzo del quale Achille fu smascherato nell’isola di Sciro (in Grecia), dove la madre lo aveva nascosto vestito da donna per non farlo partire per la guerra di Troia; 3) il rapimento col quale, travestiti da mendicanti, portarono fuori dalla città di Troia il Palladio, che era la statua raffigurante la dea Pallade Atena (nome greco di Minerva), la quale finché era tra le mura della città la rendeva inespugnabile.
Dante punisce le frodi messe in atto da Ulisse e Diomede, non le giustifica perché, secondo la concezione medievale, il male quando è male non si può cancellare neanche se commesso per amor di patria o per ragioni di guerra. Inoltre bisogna considerare che Dante (come egli stesso afferma nel De Monarchia) fu un grande estimatore della civiltà romana; e siccome Roma fu fondata dal troiano Enea, e Troia fu distrutta per opera soprattutto di Ulisse, non c’è da meravigliarsi se, malgrado quest’ultimo sia comunemente visto come un eroe, il poeta lo pone nell’Inferno.


64-117
«S'ei posson dentro da quelle faville parlar», diss' io, «maestro, assai ten priego e ripriego, che 'l priego vaglia mille,
che non mi facci de l'attender niego fin che la fiamma cornuta qua vegna; vedi che del disio ver' lei mi piego!»
Ed elli a me: «La tua preghiera è degna di molta loda, e io però l'accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.

Lascia parlare a me, ch'i' ho concetto ciò che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi, perch' e' fuor greci, forse del tuo detto».
Poi che la fiamma fu venuta quivi dove parve al mio duca tempo e loco, in questa forma lui parlare audivi:
«O voi che siete due dentro ad un foco, s'io meritai di voi mentre ch'io vissi, s'io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l'un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi». Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando, pur come quella cui vento affatica; indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori e disse: «Quando mi diparti' da Circe, che sottrasse me più d'un anno là presso a Gaeta, prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né 'l debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta, vincer potero dentro a me l'ardore ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore;

ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto.
L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,
e l'altre che quel mare intorno bagna. Io e ' compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov' Ercule segnò li suoi riguardi acciò che l'uom più oltre non si metta; da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l'altra già m'avea lasciata Setta. "O frati", dissi, "che per cento milia perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri sensi ch'è del rimanente non vogliate negar l'esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Su richiesta di Dante, Virgilio si rivolge ai due dannati e domanda chi dei due voglia raccontare la propria morte. Alla domanda di Virgilio, si comincia ad agitare una delle due parti della fiamma, quella maggiore, dando l’impressione che la cima della fiamma si muova come una lingua che parla. Dante qui pone in risalto la lingua associata al fuoco: questi peccatori infatti si servirono della propria eloquenza per un fine sbagliato.
La parte maggiore della fiamma è quella che avvolge Ulisse; la differenza di grandezza tra le due parti della fiamma indica la preminenza delle qualità del re di Itaca (Ulisse) su quelle di Diomede.
Ulisse comincia il suo racconto dal giorno in cui si allontanò, dopo esservi stato per oltre un anno, dalla maga Circe, che abitava nell’isola Eèa, che si volle poi identificare con un promontorio del Lazio, e che da lei prese il nome di Circello (l’odierno Circeo). Ciò che spinse Ulisse ad abbandonare l’isola fu l’ardore di conoscere il mondo, di fare esperienza, di scoprire i pregi e i difetti umani; e nulla riuscì a trattenerlo dal suo proposito, nemmeno il tenero affetto per il figlio Telemaco, il religioso sentimento di venerazione per il padre Laerte e l’amore per la sposa Penelope. Così egli salpò con una sola nave e con la compagnia di pochi ma fedelissimi uomini, toccando i lidi di Europa e Africa. Il viaggio in mare durò tanti anni, tant’è che quando giunsero davanti alle colonne d’Ercole (in corrispondenza dell’attuale stretto di Gibilterra) lui e gli altri erano già alquanto invecchiati. Le colonne d’Ercole erano due colonne o rupi che Ercole aveva posto come confini del mondo, che era proibito agli uomini superare. Giunti qui, Ulisse fece un discorso ai suoi uomini, incitandoli ad affrontare un’impresa mai tentata da altri, quella appunto di oltrepassare le colonne e continuare la navigazione nell’Oceano.

118-120

Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza».

In questa celebre terzina, Ulisse, nel suo discorso di incitamento fatto ai suoi uomini, li spinge a riflettere sull’origine e la dignità della natura umana, rimarcando il fatto che l’uomo non è stato creato per vivere come le bestie, ma per praticare il bene morale e quello dell’intelletto.


121-142
Li miei compagni fec' io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino, de' remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino. Tutte le stelle già de l'altro polo vedea la notte, e 'l nostro tanto basso, che non surgëa fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,

quando n'apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto. Tre volte il fé girar con tutte l'acque; a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com' altrui piacque, infin che 'l mar fu sovra noi richiuso».

Il breve ma intenso discorso di Ulisse rese i suoi compagni fortemente desiderosi di continuare il viaggio verso Occidente, al di là delle colonne d’Ercole. Dopo cinque mesi di viaggio, essi si rallegrarono per essere loro apparsa una montagna altissima (quella dove Dante colloca il Purgatorio); ma la gioia si tramutò subito in dramma, poiché da quella montagna si originò un turbine che provocò un naufragio nel quale Ulisse e compagni persero la vita.
Il turbine, secondo quanto lascia intendere Dante, fu determinato dalla volontà divina (com’altrui piacque). Infatti la temeraria impresa tentata da Ulisse e compagni di oltrepassare le colonne d’Ercole simboleggia la presunzione di coloro che per mezzo della sola ragione vorrebbero abbattere i limiti della conoscenza umana, i quali possono essere superati solo con l’aiuto della grazia divina.

CANTO XXVII


1-15
Già era dritta in sù la fiamma e queta per non dir più, e già da noi sen gia con la licenza del dolce poeta,
quand' un'altra, che dietro a lei venìa, ne fece volger li occhi a la sua cima per un confuso suon che fuor n'uscia.
Come 'l bue cicilian che mugghiò prima col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l'avea temperato con sua lima,

mugghiava con la voce de l'afflitto, sì che, con tutto che fosse di rame, pur el pareva dal dolor trafitto; così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio si convertïan le parole grame.

La fiamma in cui bruciano Ulisse e Diomede si allontana e se ne avvicina un’altra, dalla quale esce un suono di parole confuse e soffocate, che ricordano il lamento proveniente dal toro che fece costruire Falaride, tiranno di Agrigento, per i condannati di lesa maestà. Questo toro era di rame e al suo interno, che era vuoto, vi si introduceva il condannato, che poi veniva chiuso dentro; dopo di che si accendeva il fuoco sotto il toro. Quest’ultimo, divenuto rovente, sembrava che muggisse per le urla di dolore provenienti dal condannato. Ma il primo a sperimentare il funzionamento dell’ordigno di morte fu proprio il suo inventore, l’ateniese Perillo.


16-129
Ma poscia ch'ebber colto lor vïaggio su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio, udimmo dire: «O tu a cu' io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo, dicendo "Istra ten va, più non t'adizzo", perch' io sia giunto forse alquanto tardo, non t'incresca restare a parlar meco; vedi che non incresce a me, e ardo!
Se tu pur mo in questo mondo cieco caduto se' di quella dolce terra latina ond' io mia colpa tutta reco,
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; ch'io fui d'i monti là intra Orbino
e 'l giogo di che Tever si diserra».
Io era in giuso ancora attento e chino, quando il mio duca mi tentò di costa, dicendo: «Parla tu; questi è latino». E io, ch'avea già pronta la risposta, sanza indugio a parlare incominciai:
«O anima che se' là giù nascosta,

Romagna tua non è, e non fu mai, sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni; ma 'n palese nessuna or vi lasciai.
Ravenna sta come stata è molt' anni: l'aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co' suoi vanni.
La terra che fé già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio, sotto le branche verdi si ritrova.
E 'l mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio, che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d'i denti succhio. Le città di Lamone e di Santerno conduce il lïoncel dal nido bianco, che muta parte da la state al verno. E quella cu' il Savio bagna il fianco,
così com' ella sie' tra 'l piano e 'l monte, tra tirannia si vive e stato franco.
Ora chi se', ti priego che ne conte; non esser duro più ch'altri sia stato,
se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte».

Poscia che 'l foco alquanto ebbe rugghiato al modo suo, l'aguta punta mosse
di qua, di là, e poi diè cotal fiato:
«S'i' credesse che mia risposta fosse a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse; ma però che già mai di questo fondo non tornò vivo alcun, s'i' odo il vero, sanza tema d'infamia ti rispondo.
Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero, credendomi, sì cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venìa intero,
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, che mi rimise ne le prime colpe;
e come e quare, voglio che m'intenda. Mentre ch'io forma fui d'ossa e di polpe che la madre mi diè, l'opere mie
non furon leonine, ma di volpe. Li accorgimenti e le coperte vie io seppi tutte, e sì menai lor arte,
ch'al fine de la terra il suono uscie. Quando mi vidi giunto in quella parte di mia etade ove ciascun dovrebbe calar le vele e raccoglier le sarte,
ciò che pria mi piacëa, allor m'increbbe, e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe. Lo principe d'i novi Farisei, avendo guerra presso a Laterano, e non con Saracin né con Giudei,
ché ciascun suo nimico era Cristiano, e nessun era stato a vincer Acri
né mercatante in terra di Soldano, né sommo officio né ordini sacri guardò in sé, né in me quel capestro che solea fare i suoi cinti più macri.

Ma come Costantin chiese Silvestro d'entro Siratti a guerir de la lebbre, così mi chiese questi per maestro
a guerir de la sua superba febbre; domandommi consiglio, e io tacetti perché le sue parole parver ebbre.
E' poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti; finor t'assolvo, e tu m'insegna fare
sì come Penestrino in terra getti. Lo ciel poss' io serrare e diserrare, come tu sai; però son due le chiavi
che 'l mio antecessor non ebbe care". Allor mi pinser li argomenti gravi là 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio, e dissi: "Padre, da che tu mi lavi
di quel peccato ov' io mo cader deggio, lunga promessa con l'attender corto
ti farà trïunfar ne l'alto seggio". Francesco venne poi, com' io fu' morto, per me; ma un d'i neri cherubini
li disse: "Non portar: non mi far torto. Venir se ne dee giù tra ' miei meschini perché diede 'l consiglio frodolente, dal quale in qua stato li sono a' crini;
ch'assolver non si può chi non si pente, né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente". Oh me dolente! come mi riscossi quando mi prese dicendomi: "Forse tu non pensavi ch'io löico fossi!".
A Minòs mi portò; e quelli attorse otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse, disse: "Questi è d'i rei del foco furo"; per ch'io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro».

Ma non appena le parole si aprono bene la via per uscire chiare e comprensibili attraverso la cima della fiamma, il dannato che vi arde dentro domanda a Virgilio notizie sulla propria terra, la Romagna. Virgilio incarica di dare la risposta Dante, il quale riferisce al dannato che quella regione non è mai stata in pace; tuttavia in questo momento (siamo nel 1300) nessuna guerra vi è manifestamente in corso.
Infine il poeta chiede al dannato di rivelare il proprio nome. Il dannato accetta di rispondere solo perché crede di rivolgersi a un’anima, e non a una persona viva; il suo timore infatti è quello, rispondendo, di procurarsi infamia sulla terra, ed è convinto che le notizie che sta per rivelare resteranno racchiuse nella bolgia dei consiglieri fraudolenti. Chi parla è Guido da Montefeltro, prode guerriero e uomo di stato scaltrissimo, il quale dice che se non fosse stato per colpa di papa Bonifacio

VIII, adesso lui non sarebbe condannato alle pene dell’Inferno; e gli spiega in che modo e per quale motivo. Guido dice di se stesso che in vita si comportò non come un leone, ma come una volpe: ciò significa che non affrontò i pericoli apertamente, confidando sulla propria forza, ma per raggiri e inganni, confidando sulla propria astuzia. All’età di settantaquattro anni egli provò rimorso e rincrescimento della propria vita passata, e decise di entrare nell’ordine fracescano, nella speranza di ottenere la redenzione dei peccati commessi. Ma papa Bonifacio VIII lo indusse a ricommettere i vecchi peccati, chiedendogli di elaborare un piano per abbattere la città di Palestrina (RM), dove la famiglia dei Colonna, suoi nemici, avevano la propria roccaforte. Chiedendogli questo consiglio, Bonifacio VIII lo rassicurò di non temere alcunché, in quanto lui, con la propria autorità papale, lo avrebbe assolto dal peccato che stava per compiere (cioè quello di dare un consiglio fraudolento); ma il Papa non mantenne la promessa. Alla morte di Guido, venne san Francesco per portarlo in Paradiso; ma intervenne un demonio, il quale lo ghermì e lo portò davanti a Minosse, nell’Inferno, perché non è ammesso, nello stesso tempo, pentirsi e peccare, come aveva fatto Guido.


130-136
Quand' elli ebbe 'l suo dir così compiuto, la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo 'l corno aguto.

Noi passamm' oltre, e io e 'l duca mio, su per lo scoglio infino in su l'altr' arco che cuopre 'l fosso in che si paga il fio
a quei che scommettendo acquistan carco.

Dopo aver finito di raccontare la propria storia, la fiamma in cui arde Guido da Montefeltro si allontana, addolorata, dai poeti, ed essi salgono sull’argine che sovrasta la nona bolgia, dove sono puniti i seminatori di discordie.

CANTO XXVIII


1-63
Chi poria mai pur con parole sciolte dicer del sangue e de le piaghe a pieno ch'i' ora vidi, per narrar più volte?
Ogne lingua per certo verria meno per lo nostro sermone e per la mente
c'hanno a tanto comprender poco seno.
S'el s'aunasse ancor tutta la gente che già, in su la fortunata terra
di Puglia, fu del suo sangue dolente per li Troiani e per la lunga guerra che de l'anella fé sì alte spoglie, come Livïo scrive, che non erra,
con quella che sentio di colpi doglie per contastare a Ruberto Guiscardo;
e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie a Ceperan, là dove fu bugiardo ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
dove sanz' arme vinse il vecchio Alardo; e qual forato suo membro e qual mozzo mostrasse, d'aequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo.
Già veggia, per mezzul perdere o lulla, com' io vidi un, così non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e 'l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia. Mentre che tutto in lui veder m'attacco, guardommi e con le man s'aperse il petto, dicendo: «Or vedi com' io mi dilacco! vedi come storpiato è Mäometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì, fesso nel volto dal mento al ciuffetto.

E tutti li altri che tu vedi qui, seminator di scandalo e di scisma fuor vivi, e però son fessi così.
Un diavolo è qua dietro che n'accisma sì crudelmente, al taglio de la spada rimettendo ciascun di questa risma, quand' avem volta la dolente strada; però che le ferite son richiuse
prima ch'altri dinanzi li rivada.
Ma tu chi se' che 'n su lo scoglio muse, forse per indugiar d'ire a la pena
ch'è giudicata in su le tue accuse?»
«Né morte 'l giunse ancor, né colpa 'l mena», rispuose 'l mio maestro, «a tormentarlo;
ma per dar lui esperïenza piena,
a me, che morto son, convien menarlo per lo 'nferno qua giù di giro in giro; e quest' è ver così com' io ti parlo».
Più fuor di cento che, quando l'udiro, s'arrestaron nel fosso a riguardarmi per maraviglia, oblïando il martiro.
«Or dì a fra Dolcin dunque che s'armi, tu che forse vedra' il sole in breve, s'ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve non rechi la vittoria al Noarese,
ch'altrimenti acquistar non saria leve». Poi che l'un piè per girsene sospese, Mäometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese.

Dalla sommità del ponte i due poeti osservano, sotto di loro, la valle che ospita la nona bolgia dell’ottavo cerchio, in cui sono puniti i seminatori di discordie e di scismi. Un diavolo armato di spada squarcia e mutila orrendamente questi dannati, i quali devono fare il giro completo della bolgia; durante il percorso le piaghe si rimarginano e, ogni volta che passano davanti al diavolo, essi vengono nuovamente squarciati e mutilati crudelmente dalla sua spada.
Contrappasso: così come in vita adoperarono la loro intelligenza per dividere gli uomini, ora il loro corpo è squartato in più parti.

Dante vede un dannato squarciato dal mento all’ano, con il cuore, lo stomaco, l’intestino e gli altri visceri che gli pendono tra le gambe. Sentendosi osservato, il dannato pronuncia spontaneamente il proprio nome: si tratta di Maometto, il fondatore della religione islamica, nato a La Mecca tra il 570 e il 580 e morto a Medina nel 632. Il dannato aggiunge che davanti a lui c’è suo genero Alì, fondatore di una setta distinta in seno all’Islamismo, il quale ha uno squarcio dal mento alla fronte.
Maometto non può definirsi scismatico, rispetto alla Chiesa, non avendone mai fatto parte; tuttavia Dante lo considera tale per l’effetto deleterio che la diffusione dell’Islamismo rappresentò nei confronti del Cristianesimo.
Poi Maometto, vedendo che Dante è ancora vivo, lo incarica, quando sarà tornato sulla terra, di dire a fra Dolcino che, se non vuole raggiungerlo presto in questa bolgia, è necessario che si rifornisca di viveri prima che i soldati novaresi lo stringano di assedio; questi soldati facevano parte della crociata bandita contro di lui da papa Clemente V; nel mese di marzo 1307 fra Dolcino si arrese, e tre mesi dopo fu mandato al rogo. Il motivo per cui il Papa aveva bandito una crociata contro fra Dolcino è che questi, essendosi posto a capo della setta dei Fratelli Apostolici (fondata da Gherardo Segarelli, che fu bruciato vivo nel 1296), aveva creato uno scisma in seno alla Chiesa.


64-142
Un altro, che forata avea la gola
e tronco 'l naso infin sotto le ciglia, e non avea mai ch'una orecchia sola, ristato a riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi a li altri aprì la canna, ch'era di fuor d'ogne parte vermiglia,
e disse: «O tu cui colpa non condanna e cu' io vidi su in terra latina,
se troppa simiglianza non m'inganna, rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina. E fa saper a' due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello, che, se l'antiveder qui non è vano, gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica per tradimento d'un tiranno fello. Tra l'isola di Cipri e di Maiolica non vide mai sì gran fallo Nettuno,
non da pirate, non da gente argolica. Quel traditor che vede pur con l'uno, e tien la terra che tale qui meco vorrebbe di vedere esser digiuno,

farà venirli a parlamento seco; poi farà sì, ch'al vento di Focara
non sarà lor mestier voto né preco». E io a lui: «Dimostrami e dichiara, se vuo' ch'i' porti sù di te novella, chi è colui da la veduta amara».
Allor puose la mano a la mascella
d'un suo compagno e la bocca li aperse, gridando: «Questi è desso, e non favella. Questi, scacciato, il dubitar sommerse in Cesare, affermando che 'l fornito sempre con danno l'attender sofferse».
Oh quanto mi pareva sbigottito con la lingua tagliata ne la strozza Curïo, ch'a dir fu così ardito!
E un ch'avea l'una e l'altra man mozza, levando i moncherin per l'aura fosca,
sì che 'l sangue facea la faccia sozza, gridò: «Ricordera'ti anche del Mosca, che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta", che fu mal seme per la gente tosca».
E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»; per ch'elli, accumulando duol con duolo, sen gio come persona trista e matta.

Ma io rimasi a riguardar lo stuolo, e vidi cosa ch'io avrei paura, sanza più prova, di contarla solo; se non che coscïenza m'assicura,
la buona compagnia che l'uom francheggia sotto l'asbergo del sentirsi pura.
Io vidi certo, e ancor par ch'io 'l veggia, un busto sanza capo andar sì come andavan li altri de la trista greggia;
e 'l capo tronco tenea per le chiome, pesol con mano a guisa di lanterna: e quel mirava noi e dicea: «Oh me!» Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com' esser può, quei sa che sì governa.

Quando diritto al piè del ponte fue, levò 'l braccio alto con tutta la testa per appressarne le parole sue,
che fuoro: «Or vedi la pena molesta, tu che, spirando, vai veggendo i morti: vedi s'alcuna è grande come questa.
E perché tu di me novella porti,
sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli che diedi al re giovane i ma' conforti.
Io feci il padre e 'l figlio in sé ribelli;
Achitofèl non fé più d'Absalone e di Davìd coi malvagi punzelli.
Perch' io parti' così giunte persone, partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch'è in questo troncone. Così s'osserva in me lo contrapasso».

Nella rimanente parte del canto, Dante cita altri dannati variamente mutilati di questa bolgia: Pier da Medicina, che gettò discordia fra i signori di Romagna; il tribuno romano Caio Curione, che incitando Cesare a passare il Rubicone favorì la guerra civile tra lui e Pompeo; Mosca dei Lamberti, che esortò la famiglia Amidei a vendicare l’offesa di Buondelmonte, che aveva mancato alla promessa di sposare una giovane della loro casa.
Infine il poeta guarda un dannato che porta in mano per i capelli la propria testa tagliata: è il visconte Bertram dal Bormio, il quale istigò il giovane Enrico III a usurpare a suo padre, Enrico II, il regno d’Inghilterra. È il dannato stesso che spiega a Dante il contrappasso che pesa su di sé: «Come io divisi due persone strette da vincoli di natura e di sangue, così adesso porto la mia testa separata dal midollo spinale».

CANTO XXIX


1-36
La molta gente e le diverse piaghe avean le luci mie sì inebrïate,
che de lo stare a piangere eran vaghe. Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate? perché la vista tua pur si soffolge
là giù tra l'ombre triste smozzicate? Tu non hai fatto sì a l'altre bolge; pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge. E già la luna è sotto i nostri piedi;
lo tempo è poco omai che n'è concesso, e altro è da veder che tu non vedi».
«Se tu avessi», rispuos' io appresso,
«atteso a la cagion per ch'io guardava, forse m'avresti ancor lo star dimesso». Parte sen giva, e io retro li andava,
lo duca, già faccendo la risposta,
e soggiugnendo: «Dentro a quella cava

dov' io tenea or li occhi sì a posta,
credo ch'un spirto del mio sangue pianga la colpa che là giù cotanto costa».
Allor disse 'l maestro: «Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi sovr' ello. Attendi ad altro, ed ei là si rimanga; ch'io vidi lui a piè del ponticello mostrarti e minacciar forte col dito,
e udi' 'l nominar Geri del Bello. Tu eri allor sì del tutto impedito sovra colui che già tenne Altaforte,
che non guardasti in là, sì fu partito».
«O duca mio, la vïolenta morte
che non li è vendicata ancor», diss' io,
«per alcun che de l'onta sia consorte, fece lui disdegnoso; ond' el sen gio sanza parlarmi, sì com' ïo estimo:
e in ciò m'ha el fatto a sé più pio».

Sono le tredici, e Virgilio mette fretta a Dante, facendogli presente che il loro tempo a disposizione è poco e le cose da vedere sono ancora tante.
Il discepolo risponde al maestro che la ragione del suo indugio è dovuta al presentimento che in questa bolgia vi sia condannato un proprio consanguineo. Ma Virgilio avverte Dante che il dannato di cui parla non merita la sua pietà, e gliene spiega il motivo: mentre Dante parlava con Bertram dal Bormio, non si era accorto che il suo consanguineo agitava con ira il dito, in segno di minaccia, contro Dante. Virgilio conosce anche il nome di questo dannato, per averlo sentito chiamare dagli altri dannati: è Geri del Bello, cugino del padre di Dante. Questi fu seminatore di discordie e uccisore di uno della famiglia Sacchetti; per tale uccisione Geri fu a sua volta ucciso per vendetta da un appartenente alla famiglia Sacchetti. Geri del Bello è sdegnato perché nessuno dei parenti lo ha ancora vendicato.


37-72
Così parlammo infino al loco primo che de lo scoglio l'altra valle mostra, se più lume vi fosse, tutto ad imo.
Quando noi fummo sor l'ultima chiostra di Malebolge, sì che i suoi conversi potean parere a la veduta nostra, lamenti saettaron me diversi,
che di pietà ferrati avean li strali; ond' io li orecchi con le man copersi.

Qual dolor fora, se de li spedali
di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre e di Maremma e di Sardigna i mali fossero in una fossa tutti 'nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n'usciva qual suol venir de le marcite membre.
Noi discendemmo in su l'ultima riva del lungo scoglio, pur da man sinistra; e allor fu la mia vista più viva

giù ver' lo fondo, la 've la ministra de l'alto Sire infallibil giustizia punisce i falsador che qui registra.
Non credo ch'a veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto infermo, quando fu l'aere sì pien di malizia,
che li animali, infino al picciol vermo, cascaron tutti, e poi le genti antiche, secondo che i poeti hanno per fermo,

si ristorar di seme di formiche; ch'era a veder per quella oscura valle languir li spirti per diverse biche.
Qual sovra 'l ventre e qual sovra le spalle l'un de l'altro giacea, e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle. Passo passo andavam sanza sermone, guardando e ascoltando li ammalati, che non potean levar le lor persone.

Così parlando, i due poeti giungono al ponte che scavalca la decima e ultima bolgia dell’ottavo cerchio, dove sono puniti i falsari, dalla quale proviene un assordante lamento dei dannati e un insopportabile puzzo di membra putrefatte.
I poeti scendono alla bolgia e vedono da vicino questi dannati, i quali giacciono ammucchiati l’uno sull’altro colpiti da varie malattie.
Contrappasso: i falsari meritano più il disprezzo che la condanna. La pena è, così, adeguata alla meschinità della colpa: le malattie che colpiscono i dannati di questa bolgia sono ripugnanti e deformanti, ma non distruttive.
Questi dannati sono divisi in quattro gruppi: falsari di metalli, falsari di persone, falsari di moneta, falsari di parola.


73-139
Io vidi due sedere a sé poggiati,
com' a scaldar si poggia tegghia a tegghia, dal capo al piè di schianze macolati;
e non vidi già mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso,
né a colui che mal volontier vegghia, come ciascun menava spesso il morso de l'unghie sopra sé per la gran rabbia del pizzicor, che non ha più soccorso; e sì traevan giù l'unghie la scabbia, come coltel di scardova le scaglie
o d'altro pesce che più larghe l'abbia.
«O tu che con le dita ti dismaglie», cominciò 'l duca mio a l'un di loro,
«e che fai d'esse talvolta tanaglie, dinne s'alcun Latino è tra costoro
che son quinc' entro, se l'unghia ti basti etternalmente a cotesto lavoro».
«Latin siam noi, che tu vedi sì guasti qui ambedue», rispuose l'un piangendo;
«ma tu chi se' che di noi dimandasti?» E 'l duca disse: «I' son un che discendo con questo vivo giù di balzo in balzo,
e di mostrar lo 'nferno a lui intendo».

Allor si ruppe lo comun rincalzo; e tremando ciascuno a me si volse con altri che l'udiron di rimbalzo.
Lo buon maestro a me tutto s'accolse, dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»;
e io incominciai, poscia ch'ei volse:
«Se la vostra memoria non s'imboli nel primo mondo da l'umane menti, ma s'ella viva sotto molti soli, ditemi chi voi siete e di che genti;
la vostra sconcia e fastidiosa pena di palesarvi a me non vi spaventi».
«Io fui d'Arezzo, e Albero da Siena», rispuose l'un, «mi fé mettere al foco;
ma quel per ch'io mori' qui non mi mena. Vero è ch'i' dissi lui, parlando a gioco: "I' mi saprei levar per l'aere a volo";
e quei, ch'avea vaghezza e senno poco, volle ch'i' li mostrassi l'arte; e solo perch' io nol feci Dedalo, mi fece ardere a tal che l'avea per figliuolo.
Ma ne l'ultima bolgia de le diece
me per l'alchìmia che nel mondo usai dannò Minòs, a cui fallar non lece».

E io dissi al poeta: «Or fu già mai gente sì vana come la sanese?
Certo non la francesca sì d'assai!» Onde l'altro lebbroso, che m'intese,
rispuose al detto mio: «Tra'mene Stricca che seppe far le temperate spese,
e Niccolò che la costuma ricca del garofano prima discoverse
ne l'orto dove tal seme s'appicca;

e tra'ne la brigata in che disperse
Caccia d'Ascian la vigna e la gran fonda, e l'Abbagliato suo senno proferse.
Ma perché sappi chi sì ti seconda
contra i Sanesi, aguzza ver' me l'occhio, sì che la faccia mia ben ti risponda:
sì vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio, che falsai li metalli con l'alchìmia;
e te dee ricordar, se ben t'adocchio, com' io fui di natura buona scimia».

Il primo gruppo di dannati che Dante incontra in questa bolgia è quello dei falsari di metalli, ossia gli alchimisti. L’alchimia era una scienza medievale, spesso di carattere magico, rivolta alla scoperta del principio attraverso cui trasformare i metalli in oro o argento per mezzo della cosiddetta “pietra filosofale”.
I falsari di metalli sono colpiti dalla scabbia o lebbra (malattie analoghe per la medicina medievale); la loro pelle è piena di croste pruriginose che li costringono a grattarsi continuamente.
Dante scorge due di questi falsari, appoggiati dorso a dorso. Uno di questi dichiara di essere Griffolino d’Arezzo, e dice che morì sul rogo per le accuse mossegli da un insensato senese di nome Albero. Tali accuse si riferivano non al peccato per cui Griffolino è ora condannato nella bolgia dei falsari, ma a quello di eresia. Le cose erano andate così: Albero aveva stupidamente creduto alle parole che Griffolino gli aveva detto per scherzo, secondo le quali egli era in grado di volare; allora il credulone Albero gli chiese di far volare anche lui, e quando Griffolino gli disse la verità, e cioè che non era possibile far volare un uomo, l’altro ci rimase così male (un po’ per la delusione, un po’ perché si sentiva preso in giro) che lo denunciò al vescovo di Siena, che era proprio amico, e lo fece ardere vivo con l’accusa di eresia. Il poeta trae spunto dal racconto del dannato per rivolgere a Virgilio una domanda maliziosa, che contiene già la risposta: «Ci fu mai al mondo gente vuota e frivola come la senese? Di certo la gente di Francia, che pure ha fama di essere molto frivola, lo è molto meno di quella di Siena».
L’altro dannato, il fiorentino Capocchio, si dichiara d’accordo con Dante nell’accusa contro i Senesi, e aggiunge tre esempi, l’uno più evidente dell’altro, sulla frivolezza della gente di Siena.

CANTO XXX


1-45
Nel tempo che Iunone era crucciata per Semelè contra 'l sangue tebano, come mostrò una e altra fïata, Atamante divenne tanto insano, che veggendo la moglie con due figli andar carcata da ciascuna mano,
gridò: «Tendiam le reti, sì ch'io pigli la leonessa e ' leoncini al varco»;
e poi distese i dispietati artigli, prendendo l'un ch'avea nome Learco, e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella s'annegò con l'altro carco. E quando la fortuna volse in basso l'altezza de' Troian che tutto ardiva,
sì che 'nsieme col regno il re fu casso, Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta, e del suo Polidoro in su la riva del mar si fu la dolorosa accorta, forsennata latrò sì come cane; tanto il dolor le fé la mente torta.
Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonché membra umane,

quant' io vidi in due ombre smorte e nude, che mordendo correvan di quel modo
che 'l porco quando del porcil si schiude. L'una giunse a Capocchio, e in sul nodo del collo l'assannò, sì che, tirando, grattar li fece il ventre al fondo sodo.
E l'Aretin che rimase, tremando
mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi, e va rabbioso altrui così conciando».
«Oh», diss' io lui, «se l'altro non ti ficchi li denti a dosso, non ti sia fatica
a dir chi è, pria che di qui si spicchi». Ed elli a me: «Quell' è l'anima antica di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica. Questa a peccar con esso così venne, falsificando sé in altrui forma,
come l'altro che là sen va, sostenne, per guadagnar la donna de la torma, falsificare in sé Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma».

Sempre nella decima bolgia dell’ottavo cerchio Dante vede due dannati appartenenti al gruppo dei falsari di persone, cioè coloro che si finsero un’altra persona per ingannare il prossimo. La pena di questi dannati è quella di correre in continuazione colpiti dalla rabbia, mordendo chiunque incontrino.
Griffolino d’Arezzo (v. canto precedente) riferisce al poeta l’identità dei due dannati che egli ha visto, che sono uno di sesso maschile e uno di sesso femminile:
• uno è il fiorentino Gianni Schicchi, il quale in vita era abile nel contraffare voci e gesti delle persone. Essendo morto Buoso Donati senza lasciare testamento, il figlio di lui Simone chiese consiglio a Gianni. Quest’ultimo gli espose il suo piano: non dire a nessuno che il padre era morto, chiamare il notaio per il testamento, mentre Gianni si sarebbe introdotto nel letto di Buoso camuffato da bende e cappello; dopo di che, essendo molto bravo a imitarne la voce, avrebbe pronunciato il testamento a piacimento di Simone. Quest’ultimo fu naturalmente d’accordo, ma all’atto pratico Gianni ingannò Simone, perché gli assegnò ben poco del patrimonio paterno, ed invece assegnò a Gianni Schicchi (cioè a se stesso) una elevata somma di denaro e la migliore mula dell’armento di Buoso;

• l’altra è Mirra, figlia del re di Cipro. Accesa d’insano amore per il padre, si finse un’altra donna per entrare nel letto con lui. Questo episodio è narrato nelle Metamorfosi di Ovidio.


46-90
E poi che i due rabbiosi fuor passati sovra cu' io avea l'occhio tenuto, rivolsilo a guardar li altri mal nati. Io vidi un, fatto a guisa di lëuto, pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia
tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto.
La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con l'omor che mal converte, che 'l viso non risponde a la ventraia, faceva lui tener le labbra aperte
come l'etico fa, che per la sete
l'un verso 'l mento e l'altro in sù rinverte.
«O voi che sanz' alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo», diss' elli a noi, «guardate e attendete a la miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel ch'i' volli,
e ora, lasso!, un gocciol d'acqua bramo.
Li ruscelletti che d'i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno, faccendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi stanno innanzi, e non indarno, ché l'imagine lor vie più m'asciuga
che 'l male ond' io nel volto mi discarno.

La rigida giustizia che mi fruga tragge cagion del loco ov' io peccai a metter più li miei sospiri in fuga.
Ivi è Romena, là dov' io falsai la lega suggellata del Batista;
per ch'io il corpo sù arso lasciai.
Ma s'io vedessi qui l'anima trista
di Guido o d'Alessandro o di lor frate, per Fonte Branda non darei la vista. Dentro c'è l'una già, se l'arrabbiate ombre che vanno intorno dicon vero; ma che mi val, c'ho le membra legate?
S'io fossi pur di tanto ancor leggero
ch'i' potessi in cent' anni andare un'oncia, io sarei messo già per lo sentiero,
cercando lui tra questa gente sconcia, con tutto ch'ella volge undici miglia,
e men d'un mezzo di traverso non ci ha. Io son per lor tra sì fatta famiglia;
e' m'indussero a batter li fiorini ch'avevan tre carati di mondiglia».

Poi Dante osserva un dannato che appartiene al gruppo dei falsari di moneta, i quali sono condannati a un’eterna sete, che essi desiderano ardentemente soddisfare, ma non è loro consentito di bere neanche minimamente. Questo fortissimo desiderio insoddisfatto di bere che li tormenta fa sì che essi abbiano le labbra sempre aperte, come i malati di tubercolosi. Inoltre essi hanno il ventre enormemente gonfio e il viso magrissimo, come i malati di idropisia: questa sproporzione immiserisce sino al ridicolo questi colpevoli, che destano ripugnanza più che compassione. Il loro ventre è talmente grosso che arriva a terra, impedendo loro persino di fare un passo.
Contrappasso: come in vita questi falsari ebbero, grazie alla loro illecita arte, tutte le monete che vollero, così ora essi non possono neanche avere una goccia d’acqua per dissetarsi almeno un po’.
Il dannato che il poeta osserva è mastro Adamo da Brescia, il quale falsificò il fiorino di Firenze aggiungendo all’oro puro una maggior quantità di metallo vile di quello permesso. Per questa colpa egli fu arso vivo nel 1281.


91-99
E io a lui: «Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate 'l verno, giacendo stretti a' tuoi destri confini?»
«Qui li trovai - e poi volta non dierno - », rispuose, «quando piovvi in questo greppo, e non credo che dieno in sempiterno.

L'una è la falsa ch'accusò Gioseppo; l'altr' è 'l falso Sinon greco di Troia: per febbre aguta gittan tanto leppo».

Il poeta nota due dannati che emanano fumo, i quali appartengono al gruppo dei falsari di parola. La loro pena è un tremendo mal di testa e una febbre altissima, simbolo di quella follia che in vita fece loro mischiare parole false alle vere.
Dante domanda a mastro Adamo chi siano quei due dannati, e lui risponde che una è la moglie dell’egiziano Putifarre, consigliere del faraone e comandante delle guardie (cfr. Genesi, 39). Giacobbe amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia. I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo invidiavano e odiavano a tal punto che lo vendettero a dei mercanti, i quali a loro volta lo vendettero a Putifarre come servo. Giuseppe era un bell’uomo e la moglie di Putifarre gli fece più volte la proposta di unirsi a lei. Ma Giuseppe rifiutò sempre per rispetto del suo padrone. Un giorno la donna avanzò l’ennesima proposta di unirsi a lei, e lo afferrò per la veste; ma lui fuggì fuori lasciandole la propria veste in mano. Allora lei chiamò i suoi domestici e disse loro, falsamente, che Giuseppe aveva tentato di unirsi a lei, ma lei aveva gridato e lui, appena aveva sentito che lei aveva alzato la voce, aveva lasciato la propria veste accanto a lei ed era fuggito. Quando Putifarre tornò a casa, la moglie gli riferì le stesse cose che aveva già detto ai domestici, ed egli, in preda all’ira, fece imprigionare Giuseppe.
Poi mastro Adamo dice che l’altro dannato è il soldato greco Sinone. Questi si era consegnato prigioniero ai Troiani per convincerli, con le proprie menzogne, a introdurre il cavallo di legno nella città. Fingendosi traditore dei Greci, Sinone si rivolse a Priamo, re di Troia, e inventò una splendida e abile storia che convinse e impietosì il re, il quale lo fece liberare e gli domandò quale fosse la finalità della costruzione del cavallo. Sinone, aggiungendo menzogna a menzogna, spiegò che il cavallo rappresentava il voto riparatore della profanazione del tempio di Minerva avvenuta con il furto del Palladio compiuto da Ulisse e Diomede.


100-132
E l'un di lor, che si recò a noia forse d'esser nomato sì oscuro, col pugno li percosse l'epa croia.
Quella sonò come fosse un tamburo; e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro,

dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto lo muover per le membra che son gravi, ho io il braccio a tal mestiere sciolto». Ond' ei rispuose: «Quando tu andavi al fuoco, non l'avei tu così presto;
ma sì e più l'avei quando coniavi».

E l'idropico: «Tu di' ver di questo: ma tu non fosti sì ver testimonio
là 've del ver fosti a Troia richesto».
«S'io dissi falso, e tu falsasti il conio», disse Sinon; «e son qui per un fallo,
e tu per più ch'alcun altro demonio!»
«Ricorditi, spergiuro, del cavallo», rispuose quel ch'avëa infiata l'epa;
«e sieti reo che tutto il mondo sallo!»
«E te sia rea la sete onde ti crepa»,
disse 'l Greco, «la lingua, e l'acqua marcia che 'l ventre innanzi a li occhi sì t'assiepa!»

Allora il monetier: «Così si squarcia la bocca tua per tuo mal come suole; ché, s'i' ho sete e omor mi rinfarcia, tu hai l'arsura e 'l capo che ti duole, e per leccar lo specchio di Narcisso, non vorresti a 'nvitar molte parole». Ad ascoltarli er' io del tutto fisso,
quando 'l maestro mi disse: «Or pur mira, che per poco che teco non mi risso!»

Sinone, risentito per essere stato nominato, inizia un’aspra lite con mastro Adamo. Virgilio rimprovera Dante per essersi soffermato a osservare con interesse una contesa così volgare.

133-135
Quand’io ‘l senti’ a me parlar con ira, volsimi verso lui con tal vergogna, ch’ancor per la memoria mi si gira.

Appena Dante si sente rimproverato dal maestro, si volge verso di lui con una vergogna tale che ancora ne è scottato nella memoria.

136-141
Qual è colui che suo dannaggio sogna, che sognando desidera sognare,
sì che quel ch’è, come non fosse, agogna, tal mi fec’io, non possendo parlare,
che disiava scusarmi, e scusava me tuttavia, e nol mi credea fare.

Al rimprovero del maestro, Dante crede di sognare: come colui che sogna una cosa spiacevole, il quale nel sogno stesso spera che ciò che sta sognando sia un sogno e non realtà, cosicché desidera ciò che è veramente (un sogno e non un fatto reale), così Dante nel sogno in cui crede di trovarsi spera che il rimprovero di Virgilio sia solo frutto di un sogno, e non un fatto reale. Nel sogno apparente Dante si scusa col maestro. Credendo di trovarsi in un sogno, Dante non esprime a parole le proprie scuse; tuttavia il turbamento che lui prova dimostra che si è reso conto dell’errore che ha commesso ascoltando la lite tra i due dannati. Perciò Dante col suo

turbamento si sta scusando con Virgilio, pur non credendo di farlo (perché non sta parlando).

142-148
«Maggior difetto men vergogna lava», disse ‘l maestro, «che ‘l tuo non è stato; però d’ogne trestizia ti disgrava.
E fa ragion ch’io ti sia sempre allato, se più avvien che fortuna t’accoglia dove sien genti in simigliante piato: chè voler ciò udire è bassa voglia».
Virgilio risponde al discepolo che un rimorso (vergogna) minore di quello che lui ha provato basta a cancellare una colpa (difetto) più grande di quanto sia stata la sua; quindi lo tranquillizza e lo invita a liberarsi da qualunque rimorso. Il maestro aggiunge che se dovesse in futuro accadere che Dante si trovi ad assistere a una simile contesa, lui gli sarà accanto per guidarlo e ammonirlo, in quanto voler
ascoltare le liti di gente volgare significa abbassarsi a un basso livello.

CANTO XXXI

1-3
Una medesma lingua pria mi morse, sì che mi tinse l'una e l'altra guancia, e poi la medicina mi riporse;
La medesima lingua (quella di Virgilio) dapprima mi rimproverò (v. versi 133-135 del canto predente), in modo da farmi arrossire, e poi mi ridiede conforto (v. versi 142- 148 del canto precedente);


4-45
così od' io che solea far la lancia d'Achille e del suo padre esser cagione prima di trista e poi di buona mancia. Noi demmo il dosso al misero vallone su per la ripa che 'l cinge dintorno, attraversando sanza alcun sermone.
Quiv' era men che notte e men che giorno, sì che 'l viso m'andava innanzi poco;
ma io senti' sonare un alto corno, tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco, che, contra sé la sua via seguitando, dirizzò li occhi miei tutti ad un loco. Dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perdé la santa gesta, non sonò sì terribilmente Orlando. Poco portäi in là volta la testa,
che me parve veder molte alte torri;
ond' io: «Maestro, dì, che terra è questa?»
Ed elli a me: «Però che tu trascorri per le tenebre troppo da la lungi, avvien che poi nel maginare abborri.

Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi, quanto 'l senso s'inganna di lontano; però alquanto più te stesso pungi».
Poi caramente mi prese per mano
e disse: «Pria che noi siam più avanti, acciò che 'l fatto men ti paia strano, sappi che non son torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno da la ripa
da l'umbilico in giuso tutti quanti». Come quando la nebbia si dissipa,
lo sguardo a poco a poco raffigura ciò che cela 'l vapor che l'aere stipa, così forando l'aura grossa e scura,
più e più appressando ver' la sponda, fuggiemi errore e crescémi paura; però che, come su la cerchia tonda Montereggion di torri si corona,
così la proda che 'l pozzo circonda torreggiavan di mezza la persona li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tuona.

In silenzio i due poeti lasciano la decima bolgia dell’ottavo cerchio e si dirigono verso il nono cerchio, che ha la forma di un grande pozzo. Nella zona di confine tra i due cerchi la luce poco intensa consente di vedere solo le cose più vicine.
Ad un tratto si sente un fortissimo suono di corno. Dante volge lo sguardo verso la zona da cui proviene il suono, e lungo la sponda che gira tutt’intorno al pozzo gli pare di scorgere delle torri che sovrastano nettamente in altezza le pareti del pozzo stesso; quindi domanda al maestro che cosa siano quelle torri. Virgilio gli risponde che non sono torri ma giganti, i quali sono visibili solo dalla cintola in su, perché la parte inferiore del loro corpo è confitta nel terreno.

Nella mitologia classica il termine “giganti” è molto generico; ma i Giganti per antonomasia sono degli uomini enormi, dall’aspetto terrificante e dalla forza invincibile, con ispide capigliature e gambe a forma di serpente, nati dalle gocce di sangue di Urano (il cielo) cadute su Gea (la terra) in seguito alla sua evirazione ad opera di suo figlio Crono. Nelle Metamorfosi Ovidio racconta che i Giganti cercarono di conquistare il regno celeste, ma sconfitti da Zeus furono da lui seppelliti sotto le macerie delle montagne che col suo fulmine fece crollare. E nelle viscere della terra essi sono tuttora relegati. La lotta cui fa riferimento Ovidio è chiamata Gigantomachia, e fu voluta da Gea, che aveva chiesto aiuto ai Giganti (che come detto erano suoi figli) per punire Zeus, che aveva inabissato i Titani (tra cui suo padre Crono), figli anche questi di Gea. A fianco di Zeus anche gli altri dèi dell’Olimpo (la montagna su cui essi risiedevano) intervennero nella lotta, che si concluse con la sconfitta dei Giganti.
Oltre che avere la parte inferiore del corpo confitta nel terreno, tutti i Giganti (tranne Anteo, di cui parleremo tra poco) hanno collo e braccia legati, sicché non possono muovere neanche la parte superiore. Dante è terrorizzato, perché ogni volta che ciascuno di questi Giganti si scuote per cercare di liberarsi accade un movimento del terreno più violento di un terremoto.
Non esiste peccato più grave di quello che consiste nell’usare la ragione o le altre facoltà mentali o fisiche per tentare di appropriarsi della maestà che spetta solo a Dio; e perciò i Giganti, che confidarono nella loro forza fisica per cercare di vincere la più alta delle potenze, quella divina, sono posti da Dante a guardia del cerchio più basso dell’Inferno con le gambe, le braccia ed il collo immobilizzati per l’eternità.


46-81
E io scorgeva già d'alcun la faccia,
le spalle e 'l petto e del ventre gran parte, e per le coste giù ambo le braccia.
Natura certo, quando lasciò l'arte di sì fatti animali, assai fé bene per tòrre tali essecutori a Marte.
E s'ella d'elefanti e di balene
non si pente, chi guarda sottilmente, più giusta e più discreta la ne tene; ché dove l'argomento de la mente s'aggiugne al mal volere e a la possa, nessun riparo vi può far la gente.
La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di San Pietro a Roma,
e a sua proporzione eran l'altre ossa; sì che la ripa, ch'era perizoma
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto di sovra, che di giugnere a la chioma

tre Frison s'averien dato mal vanto; però ch'i' ne vedea trenta gran palmi
dal loco in giù dov' omo affibbia 'l manto.
«Raphèl maì amècche zabì almi», cominciò a gridar la fiera bocca, cui non si convenia più dolci salmi.
E 'l duca mio ver' lui: «Anima sciocca, tienti col corno, e con quel ti disfoga quand' ira o altra passïon ti tocca!
Cércati al collo, e troverai la soga che 'l tien legato, o anima confusa, e vedi lui che 'l gran petto ti doga». Poi disse a me: «Elli stessi s'accusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto pur un linguaggio nel mondo non s'usa. Lasciànlo stare e non parliamo a vòto; ché così è a lui ciascun linguaggio
come 'l suo ad altrui, ch'a nullo è noto».

Il primo gigante che Dante vede, tuttavia, non è preso in prestito dalla mitologia, bensì dalla Bibbia (Genesi, X, 8-10; XI, 1-9): si tratta di Nembròt (in ebraico Nimrodh), primo re di Babilonia. Questi era un grande cacciatore (di qui il corno a significare tanto la caccia quanto la guerra), e fu l’ideatore della torre di Babele, da cui ebbe origine la confusione delle lingue. Nel De Vulgari Eloquentia il poeta scrive che “istigato dal gigante Nembrot, l’uomo ebbe la presunzione di superare con l’arte sua non solo la natura ma anche lo stesso autore della natura, che è Dio, e cominciò a costruire a Sennaar (in Mesopotamia) una torre che poi fu chiamata Babele, cioè confusione, con la quale sperava di salire fino al cielo, proponendosi nella sua ignoranza non di eguagliare, ma di superare il suo Fattore […] Per punire quest’affronto, Dio fece sì che tutti gli addetti alla costruzione della torre (architetti, muratori, ecc.) non parlassero più la stessa lingua, ma lingue diverse l’uno dall’altro, con la conseguenza che essi non poterono proseguire i lavori, perché tra di loro non si capivano più […] ”
Interviene Virgilio, dicendo al discepolo di non provare ad avere un colloquio con questo gigante, perché il suo dire è incomprensibile agli uomini ed egli non comprende alcun linguaggio umano.


82-96
Facemmo adunque più lungo vïaggio, vòlti a sinistra; e al trar d'un balestro trovammo l'altro assai più fero e maggio. A cigner lui qual che fosse 'l maestro, non so io dir, ma el tenea soccinto dinanzi l'altro e dietro il braccio destro d'una catena che 'l tenea avvinto
dal collo in giù, sì che 'n su lo scoperto si ravvolgëa infino al giro quinto.

«Questo superbo volle esser esperto
di sua potenza contra 'l sommo Giove», disse 'l mio duca, «ond' elli ha cotal merto. Fïalte ha nome, e fece le gran prove quando i giganti fer paura a' dèi;
le braccia ch'el menò, già mai non move».

Così i due poeti proseguono il cammino e raggiungono il secondo gigante, il quale ha le braccia incatenate al busto: si tratta di Efialte (o Fialte), figlio del dio del mare Poseidone e della ninfa del mare Ifimedea (o Efimedea). Fu proprio Efialte che, assieme al fratello Oto (anche lui gigante), causò la Gigantomachia (v. sopra), sovrapponendo due monti uno sull’altro allo scopo di tentare la scalata all’Olimpo (la montagna sulla quale, come detto, risiedevano gli dèi).


97-111
E io a lui: «S'esser puote, io vorrei che de lo smisurato Brïareo esperïenza avesser li occhi mei».
Ond' ei rispuose: «Tu vedrai Anteo presso di qui che parla ed è disciolto, che ne porrà nel fondo d'ogne reo.

Quel che tu vuo' veder, più là è molto ed è legato e fatto come questo,
salvo che più feroce par nel volto». Non fu tremoto già tanto rubesto, che scotesse una torre così forte, come Fïalte a scuotersi fu presto.

Allor temett' io più che mai la morte, e non v'era mestier più che la dotta,

s'io non avessi viste le ritorte.

Dante esprime al maestro il desiderio di vedere Brianeo, che è uno dei tre Ecatonchiri. Questi erano degli esseri enormi, ciascuno dotato di cento braccia e cinquanta teste, nati anch’essi da Urano e Gaia.
Ma Virgilio gli risponde che adesso lui vedrà Anteo il quale, non essendo, come Efialte, incatenato, avrà le mani libere per deporre loro due sul fondo del pozzo. Anteo era un gigante molto aggressivo, figlio di Poseidone e di Gaia. Costringeva tutti coloro che attraversavano la sua terra – la Libia – a lottare contro di lui. Era invulnerabile finché toccava con i piedi la madre Terra (Gaia), che gli infondeva rinnovato vigore; ma Eracle (nome greco di Ercole), durante il suo passaggio in Libia, riuscì ad averne la meglio, tenendolo sollevato a lungo sulle proprie spalle.
Anteo ha le mani libere perché non partecipò alla Gigantomachia (v. sopra). Virgilio aggiunge che Brianeo si trova ancora più avanti, che assomiglia ad Efialte, e che è come lui legato, ma ha l’aspetto ancora più feroce.


112-145
Noi procedemmo più avante allotta,
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, sanza la testa, uscia fuor de la grotta.
«O tu che ne la fortunata valle che fece Scipïon di gloria reda,
quand' Anibàl co' suoi diede le spalle, recasti già mille leon per preda,
e che, se fossi stato a l'alta guerra
de' tuoi fratelli, ancor par che si creda ch'avrebber vinto i figli de la terra: mettine giù, e non ten vegna schifo, dove Cocito la freddura serra.
Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
questi può dar di quel che qui si brama; però ti china e non torcer lo grifo.
Ancor ti può nel mondo render fama, ch'el vive, e lunga vita ancor aspetta
se 'nnanzi tempo grazia a sé nol chiama».

Così disse 'l maestro; e quelli in fretta le man distese, e prese 'l duca mio, ond' Ercule sentì già grande stretta. Virgilio, quando prender si sentio,
disse a me: «Fatti qua, sì ch'io ti prenda»; poi fece sì ch'un fascio era elli e io.
Qual pare a riguardar la Carisenda sotto 'l chinato, quando un nuvol vada sovr' essa sì, ched ella incontro penda: tal parve Antëo a me che stava a bada di vederlo chinare, e fu tal ora
ch'i' avrei voluto ir per altra strada. Ma lievemente al fondo che divora Lucifero con Giuda, ci sposò;
né, sì chinato, lì fece dimora, e come albero in nave si levò.

Quindi i due poeti riprendono il cammino e giungono vicino ad Anteo. Virgilio prega il gigante di deporre lui e Dante sul fondo del pozzo, e cerca di allettarlo dicendogli che Dante, che è vivo, quando tornerà sulla terra potrà rendergli una buona fama.
Anteo, acconsentendo all’allettante proposta di Virgilio, depone i due poeti sul fondo del pozzo ghiacciato, sede del nono cerchio.

CANTO XXXII


1-12
S'ïo avessi le rime aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo buco sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce, io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch' io non l'abbo, non sanza tema a dicer mi conduco;

ché non è impresa da pigliare a gabbo discriver fondo a tutto l'universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo. Ma quelle donne aiutino il mio verso ch'aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.

Giunto nel nono cerchio, Dante non trova subito i versi adatti a descrivere bene quel luogo così orrendo e raccapricciante. Quindi invoca le Muse, affinché ciò che egli sta per scrivere corrisponda esattamente a ciò che sta vedendo (sì che dal fatto il dir non sia diverso, v. 12).


13-39
Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro, mei foste state qui pecore o zebe!
Come noi fummo giù nel pozzo scuro sotto i piè del gigante assai più bassi, e io mirava ancora a l'alto muro, dicere udi'mi: «Guarda come passi: va sì, che tu non calchi con le piante le teste de' fratei miseri lassi».
Per ch'io mi volsi, e vidimi davante e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d'acqua sembiante.
Non fece al corso suo sì grosso velo di verno la Danoia in Osterlicchi, né Tanaï là sotto 'l freddo cielo,

com' era quivi; che se Tambernicchi vi fosse sù caduto, o Pietrapana, non avria pur da l'orlo fatto cricchi.
E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de l'acqua, quando sogna di spigolar sovente la villana,
livide, insin là dove appar vergogna eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia, mettendo i denti in nota di cicogna. Ognuna in giù tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo tra lor testimonianza si procaccia.

Nel nono cerchio sono puniti i fraudolenti verso chi si fida, cioè i traditori. Questo cerchio è costituito da un pozzo profondo formato da un lago ghiacciato (Cocito) in lieve declivio verso il centro, dove è confitto Lucifero.
Il nono cerchio è diviso in quattro zone, a seconda del tipo di tradimento punito. A differenza dell’ottavo cerchio (Malebolge) non c’è divisione fisica fra le zone, ma la differenza è evidenziata dalla diversa posizione dei dannati confitti nel ghiaccio.
Contrappasso: la superficie ghiacciata di Cocito, che blocca i dannati nella posizione della loro pena, riflette la loro totale immobilità spirituale nella vita terrena e la loro estrema freddezza d’animo.
La prima zona del nono cerchio è detta Caina. Essa prende il nome da Caino, il noto personaggio biblico che uccise il fratello minore Abele per invidia (Genesi, IV, 1-16). In questa zona si trovano i traditori dei propri parenti. Questi dannati sono confitti

nel ghiaccio fino al collo, battono violentemente i denti per il freddo e tengono il viso rivolto in basso (per la vergogna di aver commesso il più turpe dei tradimenti).


40-69
Quand' io m'ebbi dintorno alquanto visto, volsimi a' piedi, e vidi due sì stretti,
che 'l pel del capo avieno insieme misto.
«Ditemi, voi che sì strignete i petti»,
diss' io, «chi siete?». E quei piegaro i colli; e poi ch'ebber li visi a me eretti,
li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli, gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse le lagrime tra essi e riserrolli.
Con legno legno spranga mai non cinse forte così; ond' ei come due becchi cozzaro insieme, tanta ira li vinse.
E un ch'avea perduti ambo li orecchi per la freddura, pur col viso in giùe, disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?

Se vuoi saper chi son cotesti due, la valle onde Bisenzo si dichina del padre loro Alberto e di lor fue.
D'un corpo usciro; e tutta la Caina potrai cercare, e non troverai ombra degna più d'esser fitta in gelatina:
non quelli a cui fu rotto il petto e l'ombra con esso un colpo per la man d'Artù;
non Focaccia; non questi che m'ingombra col capo sì, ch'i' non veggio oltre più,
e fu nomato Sassol Mascheroni; se tosco se', ben sai omai chi fu.
E perché non mi metti in più sermoni, sappi ch'i' fu' il Camiscion de' Pazzi; e aspetto Carlin che mi scagioni».

Nella Caina Dante vede due dannati che, pur odiandosi, sono costretti a stare a contatto perché confitti nella stessa buca. Essi si cozzano le teste reciprocamente come quando due caproni si scornano tra di loro. Un dannato dice al poeta i loro nomi: sono i fratelli Alessandro e Napoleone degli Alberti, conti di Mangona (località in provincia di Firenze) i quali, accesi di odio fra di loro, si uccisero a vicenda. Il dannato nomina poi altre anime punite in questa zona; tra queste, Sassol Mascheroni, che uccise, per avere l’eredità, l’unico figlio di un suo zio, che gli era stato affidato in tutela. Il dannato che parla è Alberto Camicione dei Pazzi di Valdarno, il quale uccise a tradimento un suo congiunto, e aggiunge che sta aspettando Carlino dei Pazzi, il quale commetterà un peccato così enorme che a confronto quello suo è poca cosa: tradirà gli esuli Fiorentini Bianchi, vendendo ai Neri il castello di Piantravigne, dove i Bianchi si erano rifugiati.


70-123
Poscia vid' io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, e verrà sempre, de' gelati guazzi.
E mentre ch'andavamo inver' lo mezzo al quale ogne gravezza si rauna,
e io tremava ne l'etterno rezzo; se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste, forte percossi 'l piè nel viso ad una.

Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste? se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?» E io: «Maestro mio, or qui m'aspetta, sì ch'io esca d'un dubbio per costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta».
Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
«Qual se' tu che così rampogni altrui?»

«Or tu chi se' che vai per l'Antenora, percotendo», rispuose, «altrui le gote, sì che, se fossi vivo, troppo fora?»
«Vivo son io, e caro esser ti puote», fu mia risposta, «se dimandi fama,
ch'io metta il nome tuo tra l'altre note». Ed elli a me: «Del contrario ho io brama. Lèvati quinci e non mi dar più lagna, ché mal sai lusingar per questa lama!»
Allor lo presi per la cuticagna
e dissi: «El converrà che tu ti nomi, o che capel qui sù non ti rimagna».
Ond' elli a me: «Perché tu mi dischiomi, né ti dirò ch'io sia, né mosterrolti
se mille fiate in sul capo mi tomi». Io avea già i capelli in mano avvolti, e tratti glien' avea più d'una ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti,

quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca? non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?»
«Omai», diss' io, «non vo' che più favelle, malvagio traditor; ch'a la tua onta
io porterò di te vere novelle».
«Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta; ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel ch'ebbe or così la lingua pronta. El piange qui l'argento de' Franceschi: "Io vidi", potrai dir, "quel da Duera
là dove i peccatori stanno freschi".
Se fossi domandato "Altri chi v'era?", tu hai dallato quel di Beccheria
di cui segò Fiorenza la gorgiera. Gianni de' Soldanier credo che sia più là con Ganellone e Tebaldello, ch'aprì Faenza quando si dormia».

I due poeti, procedendo verso il centro del pozzo, raggiungono la seconda zona del nono cerchio, chiamata Antenora, dove sono puniti i traditori della patria o del proprio partito. Questa zona prende il nome da Antenore, un principe troiano accusato di aver tradito la sua città ospitando segretamente Ulisse (che come si sa era eroe greco) e concordando con lui come salvare i propri beni dopo la distruzione di Troia. I dannati della seconda zona sono confitti nel ghiaccio fino al collo, ma, a differenza dei primi, non tengono il viso in basso.
Dante dà un calcio, non si sa se accidentalmente o di proposito, alla testa di un dannato, il quale per reazione gli grida: «Perché mi percuoti? Se non vieni ad accrescere la punizione che mi è stata inflitta a causa di Montaperti, perché mi molesti?» Il dannato si riferisce alla battaglia (già menzionata nel X canto) che in tale località (in provincia di Siena) fu combattuta il 4 settembre 1260 tra Fiorentini e Senesi. All’udire di tale battaglia, Dante chiede il permesso al maestro di fermarsi un poco a parlare col dannato. Il poeta vorrebbe sapere il suo nome, ma costui rifiuta di rivelarglielo, anche quando prende a strappargli i capelli per costringerlo a parlare. Un altro dannato, udito il battibecco, chiama il dannato per nome: è Bocca degli Alberti, fiorentino guelfo che alla vista del contrattacco senese tradì i suoi compagni nella battaglia suddetta, tranciando di netto la mano del portastendardo fiorentino.
Dante, soddisfatto, si allontana dichiarando che farà conoscere a tutti sulla terra chi sia stato il traditore della parte guelfa. Bocca allora rivela il nome del dannato che ha fatto il suo nome: Buoso da Druera, il quale nel 1265 tradì i Ghibellini e, per denaro, nei pressi di Parma, non si oppose al passaggio dell’esercito francese di Carlo I d’Angiò.
Poi Bocca rivela i nomi di altri traditori: come si può notare, anche nell’Inferno, come già in vita, i traditori continuano a tradire.

124-139
Noi eravam partiti già da ello,
ch'io vidi due ghiacciati in una buca, sì che l'un capo a l'altro era cappello; e come 'l pan per fame si manduca, così 'l sovran li denti a l'altro pose
là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca: non altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno, che quei faceva il teschio e l'altre cose.

«O tu che mostri per sì bestial segno odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi 'l perché», diss' io, «per tal convegno, che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca, nel mondo suso ancora io te ne cangi, se quella con ch'io parlo non si secca».

Poco più avanti il poeta scorge due dannati, uno sopra l’altro, confitti insieme nel ghiaccio. Il dannato che sta sopra sta mangiando con avidità la parte posteriore della testa dell’altro. Il poeta, colpito dalla crudele scena, domanda all’aggressore il motivo di tale ferocia.

CANTO XXXIII

Il canto XXXIII inizia riprendendo la scena la cui descrizione è iniziata alla fine del canto precedente.

1-3
La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.
Il dannato allontana la bocca dalla nuca dell’altro dannato, e se la pulisce con i capelli della testa che sta mangiando.

4-6
Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli disperato dolor che ‘l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
Quindi il dannato risponde a Dante: «Tu mi chiedi di ricordare la profonda angoscia che, già sola a pensarla, mi addolora prima ancora che io cominci a parlarne.

7-9
Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo, parlare e lagrimar vedrai insieme.
Ma se il racconto che sto per farti può servire a procurare infamia al traditore di cui sto mangiando la testa, esaudisco la tua richiesta, anche se il racconto mi procurerà inevitabilmente una grande sofferenza nel cuore.

10-12
Io non so chi tu se’ né per che modo venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand’io t’odo.
Io non so chi sei né per quale motivo ti trovi qui nell’Inferno, ma dall’accento mi sembri fiorentino.

13-15
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino, e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
Devi sapere che in vita fui il conte Ugolino, e costui è l’arcivescovo Ruggieri: adesso ti dico perché sono per lui un vicino così molesto.
Ugolino, conte della Gherardesca, nato nella prima metà del XIII secolo, fu signore di molte terre nel Pisano e in Sardegna. Di famiglia ghibellina, parteggiò per i Guelfi e li aiutò nel 1274-75 a impadronirsi della Repubblica pisana (tentativo che peraltro fallì).
Ruggieri degli Ubaldini, arcivescovo di Pisa dal 1278, di parte ghibellina, approfittò delle discordie interne dei Guelfi per favorire l’avvento dei Ghibellini al potere. Il conte Ugolino, che era fuori Pisa, fu richiamato dall’arcivescovo col pretesto di concludere la pace, ma, da lui tradito, fu accusato di avere ceduto per denaro i castelli ai nemici, e nel luglio del 1288 fu rinchiuso nella torre dei Gualandi (a Pisa) con i figli Gaddo e Uguccione e coi nipoti Nino, detto Brigata, e Anselmuccio. Dopo otto mesi di prigionia furono tutti lasciati morire di fame.
Dante condanna nel nono cerchio sia il conte Ugolino, come traditore della parte ghibellina, sia l’arcivescovo Ruggieri, per aver tradito il conte, vilmente imprigionato dopo averlo invitato in città con la scusa di stipulare un accordo.


16-48
Che per l'effetto de' suo' mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri; però quel che non puoi avere inteso, cioè come la morte mia fu cruda, udirai, e saprai s'e' m'ha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda, la qual per me ha 'l titol de la fame,
e che conviene ancor ch'altrui si chiuda, m'avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand' io feci 'l mal sonno che del futuro mi squarciò 'l velame.
Questi pareva a me maestro e donno, cacciando il lupo e ' lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno. Con cagne magre, studïose e conte Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi s'avea messi dinanzi da la fronte.

In picciol corso mi parieno stanchi lo padre e ' figli, e con l'agute scane mi parea lor veder fender li fianchi. Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli ch'eran con meco, e dimandar del pane. Ben se' crudel, se tu già non ti duoli pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava; e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran desti, e l'ora s'appressava che 'l cibo ne solëa essere addotto, e per suo sogno ciascun dubitava; e io senti' chiavar l'uscio di sotto
a l'orribile torre; ond' io guardai
nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.

Il conte Ugolino comincia il suo racconto:
«Dopo alcuni mesi che ero imprigionato assieme ai miei figli e ai miei nipoti, feci un cattivo sogno premonitore. La mattina seguente, nell’ora in cui di solito ci veniva portato il cibo, sentii inchiodare la porta di ingresso della torre.

49-51
Io non piangea, sì dentro impetrai: piangevan elli; e Anselmuccio mio disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”

Io non piansi, per non mostrare il mio sgomento ai bambini; ma il cuore per l’angoscia mi diventò duro come la pietra: loro invece piangevano; e Anselmuccio disse: “Tu guardi in modo diverso dal solito, padre (lo chiama padre, ma in realtà è lo zio)! Che hai?”


52-57
Perciò non lagrimai né rispuos' io tutto quel giorno né la notte appresso, infin che l'altro sol nel mondo uscìo.

Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,

Ciononostante non piansi né quel giorno né la notte seguente, finché con le prime luce dell’alba del giorno successivo vidi l’aspetto emaciato e sfinito dei bambini.

58-63
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ‘l fessi per voglia di manicar, di sùbito levorsi
e disser: “Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia.”

Tutte e due le mani per il dolore morale e per la fame mi morsi; i bambini, pensando che lo facessi solo per la fame, subito si alzarono e dissero: “Padre, sarà molto meno doloroso per noi se mangi noi: tu ci hai dato questo corpo e tu hai il diritto di togliercelo.”

64-66
Queta’mi allor per non farli più tristi;

lo dì e l’altro stemmo tutti muti; ahi dura terra, perché non t’apristi?

Allora cercai di mostrarmi calmo e sereno, per non rendere i bambini più tristi di quanto già fossero; così scelsi di non parlare e non parlarono nemmeno loro né quel giorno né il successivo; perché, oh terra, con le tue forze, non intervenisti a spalancare una voragine per inghiottire tutti e cinque, onde porre fine a questa agonia?

67-69
Poscia che fummo al quarto dì venuti, Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi, dicendo: “Padre, chè non m’aiuti?”
Quando arrivammo al quarto giorno dall’inizio del digiuno, Gaddo si gettò disteso ai miei piedi, dicendo: “Padre mio, perché non mi aiuti?”

70-75
Quivi morì; e come tu mi vedi, vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ‘l quinto e ‘l sesto; ond’io mi diedi, già cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ‘l dolor potè ‘l digiuno».
In quel momento morì; e come tu puoi vedere me, così con questi occhi vidi cascare gli altri tre bambini a uno a uno tra il quinto e il sesto giorno; poi, già cieco a causa del digiuno, cercai di riconoscere i miei figli e nipoti tastandoli con le mani, continuando a chiamarli per altri due giorni. Infine morii anch’io a causa della fame».

76-78
Quand' ebbe detto ciò, con li occhi torti riprese 'l teschio misero co' denti,
che furo a l'osso, come d'un can, forti.

Finito il suo racconto, il conte Ugolino riprende a mordere il teschio dell’arcivescovo Ruggieri con la stessa ferocia con cui un cane morde un osso.

79-90
Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese là dove 'l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti, muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce, sì ch'elli annieghi in te ogne persona!

Che se 'l conte Ugolino aveva voce d'aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. Innocenti facea l'età novella,
novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata e li altri due che 'l canto suso appella.

Dante, indignato per la orribile fine degli incolpevoli figli e nipoti del conte Ugolino, pronuncia un’aspra invettiva contro la città di Pisa.


91-108
Noi passammo oltre, là 've la gelata ruvidamente un'altra gente fascia, non volta in giù, ma tutta riversata. Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo, si volge in entro a far crescer l'ambascia; ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo, rïempion sotto 'l ciglio tutto il coppo.

E avvegna che, sì come d'un callo, per la freddura ciascun sentimento cessato avesse del mio viso stallo, già mi parea sentire alquanto vento;
per ch'io: «Maestro mio, questo chi move? non è qua giù ogne vapore spento?»
Ond' elli a me: «Avaccio sarai dove di ciò ti farà l'occhio la risposta, veggendo la cagion che 'l fiato piove».

I poeti proseguono e raggiungono la terza zona, detta Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti. Tale zona prende il nome, secondo alcuni, da Tolomeo re d’Egitto, che uccise l’amico Pompeo, che si era rifugiato nella sua città; secondo altri, da Tolomeo governatore di Gerico (una città dell’attuale Cisgiordania), che uccise a tradimento il suocero e i suoi figli, che aveva invitati a banchetto nella sua casa (Primo libro dei Maccabei, XVI, 11-16). I dannati di questa zona non sono confitti verticalmente come gli altri, ma distesi supini (e quindi con la faccia all’in su) orizzontalmente, con solamente la testa che affiora dalla superficie gelata, cosicché le lacrime che sgorgano dagli occhi non scivolano via ma si accumulano sugli occhi e sul viso, e congelandosi per il freddo formano una maschera di cristallo che ostacola la fuoriuscita delle altre lacrime, aumentando così il dolore del dannato, che non può trovare sfogo nel pianto.
Intanto Dante, nonostante la sua pelle sia insensibile per il freddo, avverte un forte vento e se ne meraviglia, perché nel Medioevo si riteneva che il vento fosse originato dal calore del sole che solleva i vapori, e nell’Inferno non c’è il sole; il maestro replica che presto scoprirà da solo la risposta.


109-150
E un de' tristi de la fredda crosta gridò a noi: «O anime crudeli tanto che data v'è l'ultima posta,

levatemi dal viso i duri veli,
sì ch'ïo sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna, un poco, pria che 'l pianto si raggeli».

Per ch'io a lui: «Se vuo' ch'i' ti sovvegna, dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna». Rispuose adunque: «I' son frate Alberigo; i' son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo».
«Oh», diss' io lui, «or se' tu ancor morto?»
Ed elli a me: «Come 'l mio corpo stea nel mondo sù, nulla scïenza porto.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea, che spesse volte l'anima ci cade innanzi ch'Atropòs mossa le dea.
E perché tu più volentier mi rade le 'nvetrïate lagrime dal volto, sappie che, tosto che l'anima trade come fec' ïo, il corpo suo l'è tolto
da un demonio, che poscia il governa mentre che 'l tempo suo tutto sia vòlto.

Ella ruina in sì fatta cisterna; e forse pare ancor lo corpo suso
de l'ombra che di qua dietro mi verna. Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso: elli è ser Branca Doria, e son più anni poscia passati ch'el fu sì racchiuso».
«Io credo», diss' io lui, «che tu m'inganni; ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni».
«Nel fosso sù», diss' el, «de' Malebranche, là dove bolle la tenace pece,
non era ancora giunto Michel Zanche, che questi lasciò il diavolo in sua vece nel corpo suo, ed un suo prossimano che 'l tradimento insieme con lui fece. Ma distendi oggimai in qua la mano; aprimi li occhi». E io non gliel' apersi; e cortesia fu lui esser villano.

Un dannato si rivolge ai due poeti chiedendo loro di togliergli le lacrime ghiacciate dal volto, affinché possa alleviare il proprio dolore. Dante promette che lo farà se lui gli rivelerà il proprio nome. Il dannato afferma allora di essere Alberigo dei Manfredi, appartenente all’ordine dei Frati gaudenti (di quest’ordine si è già parlato nel canto XXIII, vv. 76-108). Costui invitò a pranzo nella sua villa due suoi parenti, coi quali era stato in discordia, fingendo di voler riappacificarsi con loro; ma alla fine del pranzo, al segnale convenuto, li fece assassinare dai sicari.
Sentito il nome del dannato, Dante si stupisce, perché gli risulta che tale frate sia ancora vivo sulla terra. Il dannato gli spiega che le anime dei traditori degli ospiti piombano nell’Inferno subito dopo il tradimento, mentre un diavolo prende possesso del loro corpo per tutti gli anni che restano loro di vita.
Frate Alberigo fa il nome di un altro dannato della terza zona del nono cerchio: il genovese Branca Doria il quale, volendo impossessarsi della signoria di Logudoro, in Sardegna, tenuta da suo suocero Michele Zanche (personaggio già citato nel canto XXII), lo invitò a banchetto e a tradimento lo fece uccidere.
Al termine del suo discorso, frate Alberigo richiede a Dante di esaudire la sua promessa di liberargli gli occhi dalle lacrime ghiacciate. Ma il poeta non mantiene fede alla parola, in quanto l’essere villano con lui è un trattamento che si merita un simile traditore ; tanto più che liberargli gli occhi significherebbe operare contro la giustizia di Dio.


151-157
Ahi Genovesi, uomini diversi
d'ogne costume e pien d'ogne magagna, perché non siete voi del mondo spersi?

Ché col peggiore spirto di Romagna trovai di voi un tal, che per sua opra in anima in Cocito già si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra.

Il poeta conclude il canto con un’invettiva contro i Genovesi.

CANTO XXXIV


1-15
«Vexilla regis prodeunt inferni verso di noi; però dinanzi mira»,
disse 'l maestro mio, «se tu 'l discerni». Come quando una grossa nebbia spira, o quando l'emisperio nostro annotta, par di lungi un molin che 'l vento gira, veder mi parve un tal dificio allotta;
poi per lo vento mi ristrinsi retro
al duca mio, ché non lì era altra grotta.

Già era, e con paura il metto in metro, là dove l'ombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro. Altre sono a giacere; altre stanno erte, quella col capo e quella con le piante; altra, com' arco, il volto a' piè rinverte.

Dante ha l’impressione di vedere, da lontano, un gran mulino a vento. In realtà esso è il corpo di Lucifero, e il luogo in cui si trovano è la quarta zona del nono cerchio, la Giudecca, dove sono puniti i traditori dei benefattori. Questa zona prende il nome da Iudiaica, termine con cui, nel Medioevo, si indicava il ghetto ebraico; esso a sua volta deriva da Giuda, il traditore di Cristo. I dannati si trovano completamente immersi nel ghiaccio in quattro diverse posizioni (alcuni sdraiati, altri diritti, altri capovolti, altri curvi ad arco) che corrispondono al loro grado di tradimento verso i benefattori.

16-21
Quando noi fummo fatti tanto avante, ch’al mio maestro piacque di mostrarmi la creatura ch’ebbe il bel sembiante, d’innanzi mi si tolse e fè restarmi,
«Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco ove convien che di fortezza t’armi».

Appena i due poeti arrivano abbastanza vicino per poter osservare Lucifero, Virgilio blocca Dante e gli dice: «Ecco Dite (Lucifero). Ed ecco il luogo dove è necessario che ti armi di coraggio». Lucifero è chiamato qui “la creatura ch’ebbe il bel sembiante”, perché prima di ribellarsi a Dio era il più bello degli angeli.

22-24
Com’io divenni allor gelato e fioco,
nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo, però ch’ogne parlar sarebbe poco.

Dante si rivolge ai lettori della Divina Commedia, comunicando loro l’impossibilità di descrivere il suo stato di blocco mentale e di debolezza spirituale di fronte alla vista terrificante di Lucifero; infatti qualunque espressione non renderebbe l’idea di tale stato.

25-27
Io non morì e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno, qual io divenni, d’uno e d’altro privo.

Dante continua il suo ipotetico colloquio con i lettori, ma solo a quelli che hanno abbastanza ingegno da capirlo, per dire loro che alla vista di Lucifero lui si sente di essere tra la vita e la morte, tant’è che si sente privo sia della vita sia della morte.


28-67
Lo 'mperador del doloroso regno
da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia; e più con un gigante io mi convegno,
che i giganti non fan con le sue braccia: vedi oggimai quant' esser dee quel tutto ch'a così fatta parte si confaccia.
S'el fu sì bel com' elli è ora brutto, e contra 'l suo fattore alzò le ciglia, ben dee da lui procedere ogne lutto.
Oh quanto parve a me gran maraviglia quand' io vidi tre facce a la sua testa! L'una dinanzi, e quella era vermiglia; l'altr' eran due, che s'aggiugnieno a questa sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco de la cresta: e la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali vegnon di là onde 'l Nilo s'avvalla.
Sotto ciascuna uscivan due grand' ali, quanto si convenia a tanto uccello: vele di mar non vid' io mai cotali.

Non avean penne, ma di vispistrello era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello: quindi Cocito tutto s'aggelava.
Con sei occhi piangëa, e per tre menti gocciava 'l pianto e sanguinosa bava.
Da ogne bocca dirompea co' denti un peccatore, a guisa di maciulla, sì che tre ne facea così dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla verso 'l graffiar, che talvolta la schiena rimanea de la pelle tutta brulla.
«Quell' anima là sù c'ha maggior pena», disse 'l maestro, «è Giuda Scarïotto,
che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena. De li altri due c'hanno il capo di sotto, quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto!;
e l'altro è Cassio, che par sì membruto.

Lucifero piange conficcato nel ghiaccio al centro della terra, nel punto più basso dell’Inferno. Le sue dimensioni sono smisurate: vari commentatori calcolano la sua altezza in circa mille metri. Ha tre facce (l’antitesi della Trinità) di colore diverso: una è rossa (simbolo dell’odio, contrapposto all’amore dello Spirito Santo), una è bianca e gialla (simbolo dell’impotenza, e dell’invidia e dell’accidia che ad essa conseguono, contrapposte alla Somma Potenza del Padre), una è nera (simbolo dell’ignoranza, contrapposta alla luce della sapienza del Figlio). Sotto ciascuna testa

sporgono un paio di brutte ali membranose, come quelle dei pipistrelli: in totale quindi ha sei ali. Ogni coppia di ali genera un vento che congela il lago Cocito: così Dante ha la risposta al suo dubbio su quale sia l’origine del vento che soffia nel nono cerchio (cfr. canto precedente, vv. 91-108).
Dalle tre bocche di Lucifero esce bava mista alle sue lacrime e al sangue dei tre peccatori che maciulla: il dannato le cui gambe sporgono e si agitano dalla bocca centrale (mentre la testa e il busto sono nella bocca di Lucifero) è tormentato più duramente, perché oltre ad essere maciullato con i denti è anche graffiato sulla schiena, ed è Giuda, il traditore di Cristo, e quindi traditore della Chiesa; gli altri due dannati, i cui corpi pendono e si dimenano fuori dalle bocche laterali (mentre le gambe sono all’interno delle bocche), sono Bruto e Cassio, gli uccisori di Giulio Cesare, e quindi traditori dell’Imperatore. Dante, come già detto, considera la Chiesa e l’Imperatore come le podestà supreme che Dio ha preposto per l’ordinata convivenza umana; pertanto tradire tali istituzioni costituisce il peccato più grave in assoluto.


68-139
Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto». Com' a lui piacque, il collo li avvinghiai; ed el prese di tempo e loco poste,
e quando l'ali fuoro aperte assai, appigliò sé a le vellute coste;
di vello in vello giù discese poscia tra 'l folto pelo e le gelate croste.
Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l'anche, lo duca, con fatica e con angoscia,
volse la testa ov' elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com' om che sale, sì che 'n inferno i' credea tornar anche.
«Attienti ben, ché per cotali scale»,
disse 'l maestro, ansando com' uom lasso,
«conviensi dipartir da tanto male». Poi uscì fuor per lo fóro d'un sasso e puose me in su l'orlo a sedere; appresso porse a me l'accorto passo. Io levai li occhi e credetti vedere Lucifero com' io l'avea lasciato,
e vidili le gambe in sù tenere;
e s'io divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede qual è quel punto ch'io avea passato.
«Lèvati sù», disse 'l maestro, «in piede: la via è lunga e 'l cammino è malvagio, e già il sole a mezza terza riede».

Non era camminata di palagio
là 'v' eravam, ma natural burella ch'avea mal suolo e di lume disagio.
«Prima ch'io de l'abisso mi divella, maestro mio», diss' io quando fui dritto,
«a trarmi d'erro un poco mi favella: ov' è la ghiaccia? e questi com' è fitto sì sottosopra? e come, in sì poc' ora,
da sera a mane ha fatto il sol tragitto?» Ed elli a me: «Tu imagini ancora d'esser di là dal centro, ov' io mi presi al pel del vermo reo che 'l mondo fóra. Di là fosti cotanto quant' io scesi; quand' io mi volsi, tu passasti 'l punto al qual si traggon d'ogne parte i pesi.
E se' or sotto l'emisperio giunto
ch'è contraposto a quel che la gran secca coverchia, e sotto 'l cui colmo consunto fu l'uom che nacque e visse sanza pecca; tu haï i piedi in su picciola spera
che l'altra faccia fa de la Giudecca. Qui è da man, quando di là è sera; e questi, che ne fé scala col pelo, fitto è ancora sì come prim' era.
Da questa parte cadde giù dal cielo; e la terra, che pria di qua si sporse, per paura di lui fé del mar velo,

e venne a l'emisperio nostro; e forse per fuggir lui lasciò qui loco vòto quella ch'appar di qua, e sù ricorse». Luogo è là giù da Belzebù remoto tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono è noto d'un ruscelletto che quivi discende per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso, col corso ch'elli avvolge, e poco pende.

Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d'alcun riposo, salimmo sù, el primo e io secondo, tanto ch'i' vidi de le cose belle
che porta 'l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle.

Virgilio comunica a Dante che il viaggio nell’Inferno è terminato; esso è durato, dal momento in cui hanno varcato la porta infernale, ventiquattr’ore: dalla sera dell’8 aprile (che come detto nel canto XXI era un Venerdì Santo) a quella del 9 aprile 1300. Perciò il maestro dice che è tempo di ripartire. Così Dante si aggrappa al collo di Virgilio, e questi si appiglia ai fianchi di Lucifero e scende giù tra il suo folto pelame e le pareti ghiacciate del pozzo. I due poeti, attraverso una fessura della roccia, durante la notte passano il centro della Terra e intraprendono il cammino nelle sue viscere attraverso un sentiero in salita che fiancheggia il corso di un ruscelletto (il Letè) che si sente per il rumore, ma che non si vede per l’oscurità.
Quindi i due poeti affiorano sulla superficie terrestre, nell’emisfero opposto a quello di partenza, dove cambia l’ora: qui sono le sette e mezza circa del mattino. All’inizio del loro viaggio nell’Inferno essi erano partiti dall’emisfero boreale (quello compreso tra l’equatore e il polo nord), mentre adesso si trovano nell’emisfero australe (quello compreso tra l’equatore e il polo sud).
Tornando sulla superficie terrestre, i due poeti, dopo tanto aspro cammino nei bui abissi infernali, possono finalmente rivedere il cielo.


INDICE

 

Presentazione, bibliografia e avvertenze per la consultazione
Biografia di Dante e introduzione alla Divina Commedia
Introduzione all’Inferno
Canto I
Canto II
Canto III
Canto IV
Canto V
Canto VI
Canto VII
Canto VIII
Canto IX
Canto X
Canto XI
Canto XII
Canto XIII
Canto XIV
Canto XV
Canto XVI
Canto XVII
Canto XVIII
Canto XIX
Canto XX

Canto XXI
Canto XXII
Canto XXIII
Canto XXIV
Canto XXV
Canto XXVI
Canto XXVII
Canto XXVIII
Canto XXIX
Canto XXX
Canto XXXI
Canto XXXII
Canto XXXIII
Canto XXXIV
Schema dell’Inferno dantesco

 

Fonte: http://www.sebastianointurri.it/1/upload/inferno.pdf

Sito web da visitare: http://www.sebastianointurri.it

Autore del testo: Sebastiano Inturri

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