Pedagogia

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DISPENSE DI PEDAGOGIA GENERALE

La pedagogia nacque quando l’uomo iniziò ad interrogarsi sulle finalità dell’educazione e sui mezzi per raggiungerla; essa era tradizionalmente legata ai modelli educativi dell’Antica Grecia, e più specificatamente sulla Paideia la tecnica con cui il fanciullo era preparato alla vita. Tra il V e il IV secolo A.C, con i Sofisti, con Socrate, Platone e Aristotele, l’educazione era finalizzata alla formazione del cittadino.
Secondo questa concezione l’uomo diventava portatore di una cultura che si esprimeva nella sua libertà individuale, resa possibile dalla vita nella comunità politica. L’educazione, quindi, non costituiva un aspetto individuale ma apparteneva alla comunità, il cittadino infatti si completava nella Paideia stessa.
Questo termine nel corso della storia, andò sempre di più arricchendosi di significato, fino ad esprimere l’ideale della formazione umana; non si parlava più di “preparazione alla cultura”, ma di cultura in quanto “valore della personalità”.
Nella seconda metà del XIX secolo la pedagogia si propose come scienza, come filosofia dell’educazione, rinnovandosi radicalmente come sapere e, al tempo stesso imponendosi come pratica sociale sempre più centrale, articolata, diffusa.
Secondo Pestalozzi, l’educazione era un insieme di processi con i quali, la persona sviluppava le sue potenzialità e si inseriva costruttivamente nel suo ambiente sociale; difficoltà congenite o acquisite, dovute soprattutto alla mancanza di cure materne e alla mancanza di un attaccamento sicuro erano invece le condizioni per cui l’inserimento non poteva procedere correttamente.
Era compito dell’educatore sopperire a queste mancanze, non solo rispettando le esigenze del disadattato, ma cercare anche mezzi nuovi e idonei per sollecitarlo in senso creativo, tentando di migliorare la sua condizione. Era necessario stabilire quindi un clima di socialità e confidenza, cercando di stabilire il più possibile un rapporto di fiducia.
Il bambino doveva quindi imparare a coltivare le “tre divine energie” che lo rendevano unico ed erano cuore, intelletto e arte e solo grazie ad un produttivo attaccamento alla madre avrebbe potuto fare ciò; espresse questa sicurezza nel libro “Madre e figlio” e ne rimase convinto per tutta la sua speculazione pedagogica.
Il suo grande sogno era quello di risollevare le classi popolari dalle misere condizioni in cui vivevano cercando di istruirle per condurle verso una più dignitosa condizione di vita. Infatti acquistò una tenuta agricola Neuhof per adibirla a scuola, per ospitare ragazzi poveri dediti all’accattonaggio, per fornire loro un’istruzione elementare e allo stesso tempo insegnare loro il lavoro agricolo e la filatura, anche come mezzo di mantenimento della scuola.
Questa scuola tuttavia ebbe vita breve infatti durò poco più che dieci anni per una sbagliata gestione amministrativa, ma poi riprese piede in altri paesi europei che la presero come esempio.
Il metodo pestalozziano era basato sul principio di naturalità dell’educazione in cui l’educatore doveva favorire lo sviluppo delle qualità fisiche intellettuali e morali di ogni singolo bambino; egli promuoveva anche nel bambino l’intuizione facendogli capire la differenza tra quello che era facile o difficile, o anche partendo dal concreto per arrivare all’astratto.
Dopo di questo venivano promossi giochi di gruppo, passeggiate, nuoto e vari lavori agricoli, e la forza dell’arte veniva attuata attraverso attività elementari come il battere, il trascinare, il torcere e il bilanciare; i ragazzi però non dovevano essere sottoposti a fatiche eccessive perché il lavoro doveva servire ad elevare lo spirito verso un miglioramento della società.
Con Pestalozzi la pedagogia stava prendendo forma, ma solo dopo la Seconda Guerra Mondiale gli studiosi di pedagogia cominciarono un cammino di ricerca per costruire una nuova identità della disciplina, ma servì arrivare agli anni 70’ per darle un nuovo assetto e per non essere più considerata “ancilla philosophiae”. Infatti non le veniva riconosciuta una sua autonomia teorica, tanto che venne definita filosofia dell’educazione e non pedagogia.
Tra i tanti autori che hanno contributo alla sua emancipazione, è necessario ricordare J. Dewey, uno dei più importanti esponenti dell’Attivismo pedagogico americano, il quale affermò nel testo “Le fonti di una scienza dell’educazione”, scritto nel 1929 che la pedagogia è “una disciplina scientifica, ovvero che può utilizzare i metodi delle scienze sperimentali pur riconoscendo la complessità dell’evento educativo e la sua irriducibilità ad una mera catena di causa-effetto”.
In altre parole, la pedagogia poteva essere definita come la scienza dell’educazione deputata al difficile compito di organizzare una progettazione esistenziale per una persona, in grado di combattere i processi di omologazione generati da una società dei consumi e della cultura mediatica che espropriano la sua “singolarità”; essa diffondeva formazione in termini di costruzione di una persona che era innanzitutto capace di pensare con la propria testa, sia responsabile e cosciente dei propri diritti,  sia solidale e cooperativo ma soprattutto proteso alla giustizia.
L’uomo poi aveva bisogno secondo Dewey, di essere formato già da bambino, prima imparando gli aspetti elementari del leggere e dello scrivere, e poi attraverso i lavori domestici temprare il proprio spirito, imparando quindi una professione. La scuola diventava, quindi un luogo di istruzione, attraverso materiali didattici volti alla tecnica per le classi subalterne all’interno della società, e volti verso la cultura umanistica riservata alla classe dirigente, per garantire un’educazione democratica, destinata a tutti. I bambini dovevano, quindi essere impegnati a sviluppare progressivamente lo spirito di iniziativa personale e sociale.
Tra le figure più autorevoli, ci fu anche Claparéde, il cui programma era imperniato sulla “concezione funzionale dell’educazione” e su una scuola su misura. Egli si specializzò prima in neurologia che gli permise di sviluppare una concezione funzionale e biologica della psiche, per poi concentrarsi quindi sullo sviluppo mentale, già dalle prime fasi dello sviluppo infantile. Il bambino quindi doveva essere libero di farsi da sé in relazione ai propri bisogni e interessi e l’educatore lo deve solo stimolare e indirizzarlo quando aveva bisogno. Claparéde ha individuato poi le leggi fondamentali dello sviluppo alle quali l’educatore doveva rifarsi per individuare le concrete modalità di sviluppo di interessi e bisogni dell’allievo:

  1. Legge della successione genetica, dove lo sviluppo avveniva per tappe costanti, ripetendo lo sviluppo della specie
  2. Legge dell’esercizio genetico- funzionale dove l’esercizio di ogni funzione che determina lo sviluppo, era premessa dello sviluppo di quelle successive.
  3. Legge dell’adattamento funzionale, era l’esercizio che nasce da un bisogno o da un interesse.
  4. Legge dell’autonomia funzionale, implicava che il bambino doveva essere considerato come un essere completo e autonomo.
  5. Legge dell’individualità, dove ogni individuo veniva considerato autonomo.

In altri termini l’educatore doveva pertanto diventare non solo stimolatore d’interesse, ma anche una guida per il processo educativo degli alunni, affinché questi attraverso la ricerca personale, potevano acquisire le conoscenze indispensabili, per orientarsi nella vita sociale e operare scelte professionali, compatibili con la formazione, realizzata attraverso l’educazione.
Secondo Decroly, altro esponente di spicco dell’attivismo insieme a Dewey e Claparéde, la pedagogia si doveva fondare primariamente sulla psicologia del bambino, sul rispetto per l’individuo e la realtà della natura: infatti tutto ruotava tra laboratori, campi e giardini, allevamenti e spazi di gioco e di vita comune, dove il bambino poteva avvicinarsi con gradualità alle attività sociali e materiali. In primo piano era necessario alfabetizzare il fanciullo per aiutarlo a diventare un uomo, successivamente lo si educava verso i suoi bisogni, come quello di nutrirsi, di lottare contro le intemperie, a difendersi dai nemici, al diritto inalienabile al lavoro sia singolarmente che in maniera collettiva, al riposo e alla ricreazione di se stesso.
Il bambino poi era avviato all’osservazione, attraverso l’apprendimento alle scienze, alla raccolta dei dati emersi e alla sua rielaborazione cercando di intuire i legami di causa-effetto tra i fenomeni analizzati; si passava poi agli esercizi di espressione volte al lavoro manuale, allo scritto, al disegno, alla parola attraverso i quali l’alunno aveva modo di esprimere cosa aveva appreso.
Secondo i critici che hanno analizzato il suo operato, Decroly avrebbe mancato di dare interesse ai bisogni di natura affettiva, intellettuale e religiosa del bambino, avendo quindi di lui un quadro del tutto parziale e imperfetto.
Secondo la Montessori, una delle pedagogiste più importanti dei primi del 900’nonché la prima donna italiana a laurearsi in medicina, invece l’educazione doveva essere svolta soprattutto verso i bambini disadattati e per questo ricoprì la carica di Direttrice della Scuola magistrale ortofrenica di Roma.
L’educazione non doveva fornire la cultura ma doveva sviluppare le condizioni e i presupposti per poterla acquisire; la sua “Casa dei Bambini” era a misura di bambino poiché esso si doveva muovere autonomamente e indipendentemente e chiedere sostegno all’educatrice solo nel momento del bisogno. Lei infatti, doveva agire come un’osservatrice e indirizzare il bambino alle varie attività, lasciandolo libero di agire seguendo un comportamento per prove ed errori.
Solo attraverso l’educazione si potevano gettare le basi di un comportamento equilibrato e solidale verso il proprio prossimo, e tale concetto doveva essere compreso quindi già da bambini; solo attraverso una pedagogia scientifica, con un metodo rigido e rigoroso e soprattutto applicato alla lettera si sarebbero potuti raggiungere risultati ottimali e duraturi.
Tale metodo verteva quindi: su un puerocentrismo dove il fanciullo era al centro dell’educazione, sulla valorizzazione del fare ponendo al centro la manualità, il gioco e il lavoro, sulla motivazione dove ogni apprendimento era collegato all’interesse del fanciullo e quindi sollecitato dai suoi bisogni educativi, sulla socializzazione come atto primario e costituente del fanciullo verso un adulto più equilibrato e sociale.
Erano dello stesso parere anche le sorelle Agazzi, che fondarono la prima scuola materna nei pressi di Brescia ed erano convinte della centralità del bambino a livello educativo. La loro concezione pedagogica si basava sull’offrire all’infanzia, all’interno della scuola un ambiente attivo che rispecchi quello famigliare e faciliti, in tal modo il libero sviluppo dell’educando.
La maestra quindi non era un’osservatrice come per Montessori, ma era dotata di spirito di iniziativa, di organizzazione e promozione, sensibilità e flessibilità che la rendeva capace di coordinare la vita scolastica dei bambini. La scuola, infatti era una piccola casa, ed una sala era adibita a “museo delle cose umili”, dove i bambini riponevano tutte le cianfrusaglie che nella giornata avevano trovato, come se fossero dei beni preziosi e da tenere con cura. Oltre all’aula e a un ripostiglio per i grembiulini e altro, vi era anche un giardino con animali e piante.
Il loro metodo era basato sul fare da sé, ossia il bambino svolgeva le sue attività giornaliere in completa libertà, ma sotto l’occhio vigile e amorevole della maestra; ogni trascuratezza o sedentarietà veniva bloccata su nascere, perché ogni bambino doveva essere autonomo e indipendente in ogni momento della giornata. Infatti l’educatrice, doveva disporre l’ambiente rispettando comunque la spontaneità del bambino, e invogliarlo ad attività di vita pratica ogni giorno: ad esempio promuoveva la cura della propria igiene personale, li avviava al giardinaggio per far sviluppare loro capacità di osservazione e di rapporto consapevole con la natura.
Altrettanto importante era anche il contrassegno di un oggetto per stabilirne la proprietà di chi lo aveva trovato e il rispetto come bene utile del bambino.
Di grande rilievo fu anche il contributo di Piaget, un pedagogista e psicologo che si interessò allo sviluppo clinico e sperimentale del bambino fino ai 9 anni, dando poi vita all’epistemologia genetica. Mentre la visione freudiana era incentrata solo sull’emozione e sull’affettività, la psicologia genetica, non considerava l’affettività come motore dello sviluppo psichico, ma studiava esclusivamente lo sviluppo delle funzioni e delle strutture cognitive legato all’intelligenza.
Essa, era per Piaget quindi un caso specifico di comportamento adattivo che aveva lo scopo di far fronte all’ambiente mediante una continua creazione di forme sempre più complesse e un progressivo adattamento ad esse. In base alle sue teorie, il bambino possedeva già dalla nascita solo dei riflessi basilari che agivano attraverso l’assimilazione e l’accomodamento.
Con la prima il bambino incorporava uno schema già noto o nuovi stimoli esterni legati all’ambiente, con il secondo invece acquisiva la padronanza e la capacità di riprodurre cosa aveva imparato, adattandosi ad ogni situazione nuova. I due processi, quindi era complementari, ossia agivano parallelamente e a seconda dell’età del bambino la padronanza di ripetizione era più o meno valida.
Il lato sociale del bambino, secondo Piaget prendeva forma intorno ai 6/7 anni quando sia a livello sociale che linguistico, il bambino era in grado di capire “il punto di vista dell’altro”, ed imparava quindi a socializzare correttamente. La scuola e l’educazione avevano un ruolo di contorno, perché servivano semplicemente ad “accelerare” gli stadi dello sviluppo mentale del bambino.
Anche per Bruner, la conoscenza del bambino si basava sull’esperienza, ma contrariamente a Piaget ha dato molto rilievo all’educazione partendo dalla scuola. Il bambino infatti agiva seguendo tre fasi:

  1. La fase attiva o esecutiva nella quale la conoscenza era legata al fare
  2. La fase iconica nella quale la conoscenza dipendeva dall’organizzazione sensoriale e dall’uso di schemi mentali ed immagini.
  3. La fase simbolica era la rappresentazione dell’azione attraverso l’uso di simboli, come quelli che detta il linguaggio.

La prima fase era quella della scuola d’infanzia, la seconda della scuola elementare e la terza della scuola media; tale divisione che Bruner delineò era per sostenere che era possibile insegnare tutto a tutti, privilegiando anche la creatività e l’individualità dei singoli.
L’iter scolastico poi doveva avvalersi di tutti e tre i tipi di rappresentazione ed era completamente gestito dall’insegnante che con lui assumeva nuove caratteristiche; infatti doveva avere un’ottima competenza didattica, conoscenze psicologiche, e capacità di gestire un corso di studi avvalendosi e lavorando all’unisono con i colleghi.
L’alunno poi andava anche stimolato al pensiero intuitivo, doveva apprezzare la ricerca e le possibilità che gli venivano offerte le proprie capacità intellettive, come attraverso l’utilizzo della memoria e per migliore la propria autostima.
Durante la seconda metà del 900’invece, si è compiuto il passo decisivo della pedagogia, perché essa è diventata completamente scienza dell’educazione; si è dunque avuta una rivoluzione del sapere educativo, partendo principalmente dal pensiero di Visalberghi, il quale scrisse “Pedagogia e scienze dell’educazione” nel 1978 e ben presto divenne il documento che attestata tutti i cambiamenti in corso della pedagogia stessa.
Infatti il termine pedagogia venne ad essere sostituito con scienza dell’educazione sulla base di alcune considerazioni, tra cui la consapevolezza che il metodo di indagine della pedagogia si era spostato sulla ricerca sperimentale, su un metodo speculativo, quindi non era più riflessione teorica alla stregua della filosofia. Inoltre, essa non riguardava solo l’educazione del fanciullo, ma volgeva lo sguardo ad una educazione e ad una formazione che ricoprivano l’intero arco di vita.
Si studiava infatti l’istruzione dei giovani e degli adolescenti, l’educazione degli adulti e la loro rieducazione se avevano avuto a che fare con condizioni di disagio come il carcere o i riformatori e quindi li si analizzava nei contesti delle comunità e dei centri di recupero finché ne avessero soggiornato. Un grande sostegno a cui i pedagogisti hanno attinto e attingono ancora tutt’ora sono infatti i mezzi di informazione e di comunicazione, come mezzo di propaganda di messaggi positivi da portare avanti nella società, ma anche per vedere attraverso essi come quest’ultima nel corso degli anni si sia modificata.
Di grande esempio fu Don Lorenzo Milani, un esponente dell’alta borghesia fiorentina, e che il 13 Luglio 1947 decise di intraprendere la carriera di prete; per questo venne inviato a San Donato di Calenzano, dove decise di aprire una scuola per giovani operai e contadini. Successivamente poi a causa di alcuni screzi con la curia di Firenze venne mandato a Barbiana un minuscolo e sperduto paesino di montagna nel Mugello dove decise di porre il primo tentativo di scuola a tempo pieno.
Secondo lui la scuola “di stato” era discriminatoria, selettiva e classista e per questo il fenomeno della dispersione scolastica cresceva di giorno in giorno; per funzionare bene la scuola doveva insegnare la solidarietà e la reciprocità, ma soprattutto l’utilizzo consapevole della lingua per ridare la parola i poveri.
Il ragazzo quindi si doveva auto-formare, attingendo principalmente anche ai valori che la religione poteva insegnare; fondamentale era l’atto dell’interpretazione delle Sacre Scritture perché attraverso esse il ragazzo sarebbe stato “recuperato” come individuo sociale e moralmente giusto. Don Milani era di religione ebraica e credeva profondamente nella midrash, perché essa gettava le basi di un vivere insieme in maniera giusta e sotto l’occhio amorevole di Dio.
Don Milani non aveva un metodo elaborato, non si preoccupava di scrivere un trattato metodologico per la didattica. Come tutti i grandi educatori aveva alcune idee chiare che però dovevano essere sperimentate attraverso una ricerca costante.
“Il fine ultimo è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come vuole amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola? Siamo sovrani. Non è più il tempo delle elemosine, ma delle scelte. Contro i classisti che siete voi, contro la fame, l’analfabetismo, il razzismo, le guerre coloniali”
“Diventare ed essere sovrani perché è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli. Gli onorevoli costituenti credevano che si patisse tutti la voglia di cucir budella o di scrivere sulla carta intestata: “I capaci e i meritevoli anche se privi di mezzi hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere.”
Essere sovrani lo si imparava tramite l’autogestione pedagogica degli apprendimenti e la capacità di auto-correggersi; il maestro era un regista che favoriva la discussione, lo scambio, la riflessione individuale e collettiva.
Si lavorava collettivamente sull’uso delle parole: l’esercizio era semantico, si ragionava non sulla parola che faceva più colpo ma sulla parola più profonda, si andava in profondità nell’analisi del senso delle parole che si usano. Lavorare le parole era come lavorare la materia con degli attrezzi; la parola andava pensata e ripensata; da quella singola parola ne nascevano altre e il linguaggio si arricchiva ma l’apprendimento della lettura e della scrittura non era più un atto tecnico ma un atto produttore di senso. La scuola dove s’imparava a leggere e scrivere in quel modo è una scuola d’arte che favoriva il risveglio della coscienza.
Lo spazio era organizzato come una piccola comunità; Barbina è una comunità di vita e di esperienza dove ognuno, a secondo il proprio ritmo e con le proprie modalità apprende.
Si comunicava, si entrava in relazione, si ascoltava e vi era la possibilità della presa della parola. La presa della parola da parte di chi (i bambini dei poveri) non ha voce; Don Milani voleva quindi creare le condizioni della presa di parola da parte dei poveri e dei diseredati. Si trattava di un grande esperimento di apprendimento civico e democratico volto a far diventare i ragazzi sovrani.
Nella scuola di Don Milani non vi era divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale; anzi si partiva anche dal lavoro manuale per pensare; la divisione lavoro manuale/lavoro intellettuale era il prodotto di una società divisa in classi e portatrice di forti disuguaglianze.
La più grossa disuguaglianza è quella davanti all’accesso del sapere e delle conoscenze; in questo Don Milani assomigliava molto al laico Célestin Freinet: l’educazione infatti passava tramite il lavoro sia intellettuale o manuale perché esso favoriva lo sviluppo di tutte le facoltà della personalità dell’alunno ed era centrato sui suoi interessi e bisogni. I ragazzi di Barbiana partecipavano alla costruzione della piscina ma anche delle stanze dove venivano adibiti i laboratori.
Per Don Milani la scuola deve incoraggiare e non scoraggiare; per questa ragione non esisteva la bocciatura o il voto, ma questo non significava una totale mancanza di valutazione. Questa era presente come auto-valutazione infatti, i ragazzi che facevano errori sapevano riconoscerli e correggersi da soli. La scuola era privata e gli alunni di Don Milani dovevano comunque sostenere un esame di Stato in una scuola pubblica.
La questione che poneva Don Milani sul piano pedagogico era una questione di democrazia: se non si voleva ridurre a parole vuote il concetto di sovranità popolare presente nella Costituzione italiana occorreva costruire le condizioni che permettono a tutti i cittadini, a tutti i bambini di accedere alla padronanza del linguaggio dominante che era anche il linguaggio che li domina.

 

 

Fonte: http://www.centrostudiatena.it/assets/dispense-di-pedagogia.docx

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