La morte in Occidente

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La morte in Occidente

L’uomo e la morte in Occidente
Verso un nuovo paradigma interpretativo

Stefano Allievi

in corso di pubblicazione in C. Viafora (a cura di), “Morire altrove”, Milano, Franco Angeli, 2012

 

Il dibattito sulla morte oggi: dalla ri-mozione al ritorno dell’e-mozione?

“La morte continua ad essere, per eccellenza, l’avvenimento più universale e irrefutabile: la sola cosa di cui siamo veramente sicuri, anche se ne ignoriamo il giorno e l’ora, il perché e il come, è che si deve morire” . Già lo diceva Agostino di Ippona, del resto: “Incerta omnia. Sola mors certa”.
Eppure, di fronte a questa inaggirabile e tremendamente solida certezza, sta l’illusione, che le società contemporanee hanno coltivato con pervicace convinzione e grande spiegamento di mezzi, che la morte si possa dimenticare, escludere dal proprio orizzonte di vita: che la società possa ‘fare finta che’, e vivere ‘come se’. Come se la morte non ci fosse. Come se si potesse capire il senso di una storia, qualsiasi storia, a cominciare dalla storia personale di ciascuno di noi, a prescindere da come va a finire. Come se, infine, il modo di morire e di concepire la morte non avesse influenza sul modo di vivere degli individui, ma anche sul modo di concepire la società stessa.
Questa ingombrante assenza, questo assordante silenzio, sono stati fedelmente rispecchiati dalla scienza che per definizione si occupa di analizzare la società, e in specifico le società occidentali avanzate, di cui questa scienza è un’espressione ma anche una delle modalità di autoriflessione. Non a caso la voce ‘morte’ risulta quasi del tutto assente dai manuali e dai dizionari di sociologia. Non se ne parla, nemmeno la si cita. L’uomo e la donna costruiti e immaginati dalla sociologia non muoiono mai: si pongono solo il problema del vivere, mai quello del morire. La morte risulta quindi essere una grande assente, o una grande rimossa, nella disciplina che di mestiere ha il compito di leggere la società e interpretarla. Le cose vanno diversamente per altre discipline umanistiche, dall’antropologia (che si occupa di società altre) alla filosofia: nella prima la morte non la si è mai dimenticata, perché in queste società è ben presente, e nella seconda sembra vivere oggi un certo ritorno di interesse. Questa assenza della morte dalla riflessione sociologica (che comincia tuttavia ad essere messa timidamente in questione) è tanto strana da meritare di andare a cercarne una spiegazione plausibile – che non troveremo nella sociologia, ma a monte di essa, in un clima culturale che la comprende e tuttavia la supera di gran lunga. E che ha spinto Edgar Morin, uno dei pochi sociologi che ha analizzato per tempo questo aspetto della costruzione sociale della realtà – centrale e marginalizzato al tempo stesso – a definire la nostra una “società amortale” .
La morte ha costituito infatti negli ultimi decenni – ma per effetto di una tendenza molto più lunga e lontana nel tempo, che risale almeno, come vedremo, all’Illuminismo – uno dei grandi tabù del nostro tempo: l’ultimo, forse, e il più sconveniente . L’uomo (l’uomo occidentale contemporaneo, almeno: non così in altre epoche e in altre culture), il solo animale che sappia – culturalmente, perché biologicamente lo sanno certamente anche altri – di essere mortale, ha preferito spesso, di fronte alla morte, abdicare alle sue capacità e possibilità cognitive. Nello stesso momento in cui si sono profuse risorse colossali ed enormi capitali scientifici, culturali e finanziari allo scopo di allungare la vita, di migliorarne le possibilità e la durata, di rallentare i processi di senescenza, di lenire i dolori, di guarire o almeno contenere malattie in passato inesorabili, di fronte a quest’ultima barriera si è continuato a preferire il non sapere, il non indagare, il non conoscere. E di fronte all’immane progresso scientifico intorno alla vita, è certo imparagonabile la povertà dei nostri discorsi intorno alla morte: scientifici, ma anche filosofici e religiosi, per quanto quest’ultimo sia rimasto uno dei pochi ambiti in cui il discorso sulla morte è considerato ancora ‘lecito’ – come se questo linguaggio fosse rimasto il solo a trovare qualche parola, di fronte all’indicibile.
L’uomo occidentale insomma sembra preferire di non sapere con la sua mente quello che la sua carne, in ogni caso, sa e non può ignorare. Una tentazione individuale che ha sempre accompagnato l’uomo, ma che oggi si è trasformata, nelle moderne civiltà avanzate d’occidente, in pratica sociale, non solo ammessa e codificata, ma anche socialmente accettata. Le cose stanno tuttavia, per certi aspetti, cambiando. E la morte sta ri-diventando visibile: anche, persino, nel discorso medico-scientifico e nella pratica ospedaliera. E sta tornando ad essere quello che non può non essere: un’evidenza. Siamo all’inizio di una svolta culturale, forse, seppure tra molte ambivalenze e contraddizioni. Ma vale la pena, anche per meglio capirla, di guardare a ciò che la precede, e alla storia dell’immaginario sulla morte in occidente.
Perché va capito come mai la società occidentale, che più di altre, e con una forza che non ha probabilmente paralleli nella storia, sembra provare un gusto e una vocazione particolare nell’abbattere tutti i tabù, intorno alla morte ne ha eretto per lungo tempo uno particolarmente solido e impenetrabile. Ma va anche capito come mai le cose stanno oggi lentamente ma progressivamente cambiando; o per meglio dire come mai si sviluppano anche delle controtendenze, che vanno in direzione diversa pur senza negare e contrastare altre tendenze lunghe della società. Ma cominciamo dalle premesse, come giusto.

 

L’uomo e la morte in occidente: historia brevis

La vita media, anche in Italia, si è notevolmente allungata. La speranza di vita, in un senso molto letterale, sale ormai costantemente. Oggi in Italia ha quasi raggiunto i 79 anni per gli uomini e superato gli 84 per le donne (dati Istat al 2009), con un guadagno di 25-30 anni in meno di un secolo, e di quasi due anni per gli uomini e 1,3 per le donne solo nell’ultimo decennio.
La differenza tra uomini e donne, tradizionale (è attestata almeno dal Rinascimento in avanti, almeno in Occidente: in altre latitudini e culture è tuttora vero il contrario), viene confermata per tutte le età: sono sempre più gli uomini a morire delle donne; anche se le differenze, che sono in primo luogo di ruoli sociali, e in secondo luogo di stili di vita a questi connessi, tendono a diminuire.
Oltre il 60% dei morti sono ultrasessantenni – si muore dunque sempre più tardi: il che costituisce un progresso notevole, se si pensa che ancora nella prima metà dell’Ottocento, causa la mortalità assai più precoce, la popolazione piemontese, su cui abbiamo dati attendibili (in altre aree del Paese del resto, meno sviluppate, era anche peggio), solo il 5-6% della popolazione – appena un decimo rispetto ad oggi – arrivava a superare i sessant’anni. Ovviamente, essendo le morti concentrate in fasce d’età in cui le donne sono maggioritarie, significa anche che a morire a questa età sono sempre più spesso donne sole, comunque prive di coniuge, con gli intuibili problemi sociali, economici e di sostegno connessi.
Risulta inoltre interessante notare che nella fascia d’età precedente, tra i cosiddetti giovani-adulti (tra i 25 e i 44 anni), età in cui comunque si muore molto meno che in passato, e molto meno della popolazione anziana, le donne muoiono meno della metà degli uomini: ciò che in parte è dovuto a mestieri differentemente pericolosi (si pensi al peso degli incidenti sul lavoro), ma in parte nettamente maggiore a differenti stili di vita, che sono anche, per così dire, ‘stili di morte’; il che ci può suggerire che la morte è in realtà un evento assai più ‘scelto’ di quanto siamo abituati a pensare: dagli incidenti stradali alla cirrosi epatica, dagli scontri a fuoco agli incidenti sportivi, dall’overdose ai suicidi, gli uomini hanno dati di mortalità, nella fascia d’età citata, sostanzialmente doppi rispetto alle donne.
Più in generale, come considerazione che trascende il caso italiano e riguarda tutto il mondo economicamente più sviluppato, occidentale in particolare, possiamo dire che la morte è sempre più posposta nel tempo, che la corsa contro il tempo, intrapresa dalla scienza medica, in nome e per conto di tutta la società, sta mostrando i suoi successi. Nel caso degli Stati Uniti per esempio è stato calcolato che la semplice introduzione degli apparecchi per la defibrillazione e la respirazione assistita, resi ormai popolari da molti telefilm sui reparti d’emergenza degli ospedali, ma ormai esistenti anche come strumenti portatili di pronto soccorso, affidati anche a personale paramedico, abbia fatto diminuire (o meglio, appunto, posporre) le morti per arresto cardiaco del venti per cento. Il che significa venti persone su cento che, letteralmente, dopo essere ‘morte’, come sarebbe accaduto prima dell’invenzione di queste tecnologie, sono state riportate in vita – uno dei motivi, incidentalmente, per cui si è dovuto introdurre il criterio di ‘morte cerebrale’, di cui prima degli anni ‘50 non ci sarebbe stato bisogno.
Già questi primi dati ci dicono che non si muore come si è sempre morti. Ogni società produce i propri modi ‘giusti’ di morire. E la morte, come ogni cosa, ha una storia – affascinante .
Demografia e statistica già ci danno informazioni fondamentali, ricordandoci che nel Medio Evo, nel 1200-1300, prima ancora delle grandi pestilenze, la speranza media di vita in Europa era intorno ai 30-35 anni a seconda dei paesi, e che il 40-50% della popolazione non raggiungeva i vent’anni. Una speranza di vita che non si eleverà di molto fino ad epoche recenti, talvolta fino al secolo scorso, se è vero, come riporta Vovelle, che la speranza di vita era ancora di 25 anni nella Francia del 1795 e di 32 nei Paesi Bassi del 1816.
La morte, in quest’epoca, è, assai più spesso che per noi, morte violenta: in cui gioca un ruolo la brutalità degli uomini (guerre, violenze, condizioni di lavoro), ma anche della natura: carestie, epidemie (anch’esse tuttavia, in buona parte, eventi con cause sociali, e che, nonostante la retorica sull’uguaglianza davanti alla morte, colpivano spesso in modo diverso ricchi e poveri), malattie e parto, ma anche tempeste o aggressioni di animali, pericoli per noi sopravvissuti solo nelle favole o nella fiction a carattere horror.
Ma al di là dei dati e dei numeri, come è cambiato l’atteggiamento di fronte alla morte, pure a questi evidentemente collegato? Ariès propone di distinguere quattro diverse fasi, che riassume come segue.
La prima fase è quella della morte addomesticata. La morte fa in qualche modo parte del paesaggio, e in questo senso è ‘naturale’, ovvia. L’atteggiamento prevalente di fronte ad essa è la rassegnazione, e c’è un’abitudine alla coesistenza di vivi e morti: entrambi appartengono, per così dire, allo stesso mondo, lo con-dividono. Si attende la morte come un destino accettato, ed essa viene, quando possibile, organizzata come cerimonia pubblica, i cui riti sono relativamente semplici, privi di carattere drammatico e, quasi, di emozione.
Dalla metà del Medio Evo in avanti abbiamo una fase di morte di sé, di ‘scoperta’ della morte individuale e della sua drammaticità. Si diffondono le artes moriendi, i manuali del ben morire, e nell’arte temi come le danze macabre e i trionfi della morte (si pensi al trionfo della morte del camposanto di Siena, con la morte a cavallo, e alle danze macabre di Clusone, Pinzolo e Carisolo, con la morte che conduce con sé nella sua danza ricchi e poveri, papi e contadini), che nella loro talvolta morbosa descrizione di decomposizione dei cadaveri e di scheletri rivelano forse un ancora più forte amore per la vita, e il terrore di perderla; “la morte è divenuto il luogo in cui l’uomo ha preso meglio coscienza di se stesso”. Si assiste anche a una ‘personalizzazione’ della figura stessa della morte, che diviene in certo modo indipendente dallo stesso Dio, e non più un suo strumento. Col passare del tempo, grazie anche alla ‘invenzione’ del purgatorio, aumenterà l’investimento sul cielo, attraverso i legati testamentari, almeno per i nobili: in Inghilterra, nel 1438, verrà creata una istituzione specializzata, lo All Souls college, con lo scopo precipuo di celebrare messe e pregare per l’anima di re Enrico V e dei ricchi che si possono permettere tale trattamento, pratica di cui si fanno carico gli scolari indigenti. E per i ricchi si svilupperanno anche le rappresentazioni ‘dal vivo’ del morto, nella pittura e nella scultura, a partire dal Due-Trecento – i ‘morti raddrizzati’, e non più giacenti, come li chiamerà Panofsky. Poi, gradualmente, con l’umanesimo, si ha una rivalutazione della vita e dell’amore; si affronta bensì la morte, ma non ci si insiste sopra: “chi ben vive ben muore, e chi vive male muore anche male”, sintetizzerà il cardinal Bellarmino.
La terza fase, la morte dell’altro, si inaugura a partire dal XVIII secolo. La morte è drammatizzata, dominante, ma, attraverso per esempio la concezione romantica, si esce dalla contemplazione di se stessi e del proprio destino per osservare maggiormente quello altrui: la morte dell’altro che piangiamo, che ci interroga e ci fa soffrire – la ‘morte del tu’, dell’amato, all’interno anche di una più accentuata sensibilità familiare. E l’idea della morte, anche altrui, commuove, talvolta con un certo compiacimento. La morte si laicizza, perde molti caratteri religiosi – si scristianizza, dirà Vovelle. E si diffonde, invece, il culto dei morti, attraverso monumenti e celebrazioni, in una nuova forma di religione civile, legata anche al nascente nazionalismo e all’enfasi sulle glorie collettive dello stato . Nasce qui anche il culto delle tombe, l’attenzione ai propri morti, il dialogo con loro, in un’accezione quasi intima, quotidiana.
Quarta tappa, la nostra, l’attuale, è quella della morte proibita, e comincia grosso modo dal secondo dopoguerra di questo secolo. La morte scompare dal panorama sociale, oggetto di vergogna e di divieto, “poiché ormai è generalmente ammesso che la vita è sempre felice o deve sempre averne l’aria”. I riti restano uguali, ma sono svuotati dall’interno del loro pathos, della loro carica drammatica. Non si muore nemmeno più a casa e tra i propri familiari, ma in ospedale e sempre più soli, circondati al massimo dalla famiglia ristretta, non da quella cerchia allargata, anche a vicini ed amici, che caratterizzava la fase precedente. La morte viene rimossa, scompare dall’orizzonte sociale, come anche da quello individuale. Non è più né vista né pensata: Ariès parla di questa “messa a morte della morte” come di una “rivoluzione brutale”, un “fenomeno inaudito”.
Questa schematizzazione è stata criticata da molti, anche sul piano storico, ed accusata di eccessiva rigidità, e di aver tratto troppo in fretta conclusioni talvolta opinabili, come osservato ad esempio da Tenenti. A noi, in questa sede, non interessa tuttavia il dibattito storiografico, ma alcune delle indicazioni, sul piano sociologico, che possiamo trarne per le nostre riflessioni. Prendendo magari atto delle puntualizzazioni di Vovelle, che parlerà di una “svolta irreversibile” a partire già dal Settecento, quando si avrà il raddoppio della popolazione e “la fine della peste, che conclude un intero ciclo della storia della morte nell’Europa occidentale”.
E’ in questo periodo che si comincia a misurare un aumento significativo della durata della vita, una sua minore insicurezza, e per inciso anche lo scarto nella speranza di vita tra uomini e donne. Sul piano culturale comincerà l’opera di demistificazione e quasi di banalizzazione della morte iniziata dai philosophes, grazie alla quale essa non è più considerata una punizione divina ma un fenomeno naturale, “null’altro che limite, accidente”. Non un castigo o una fatalità, ma appunto legge naturale contro cui combattere. Possiamo datare a quest’epoca la nascita della scommessa moderna di vincere la morte, anziché di accettarla come un dato .
E’ in questo periodo inoltre che si assiste all’emergere al capezzale del morente della figura del medico, che prima affianca e poi progressivamente sostituisce il prete. C’è quindi un esplicito tentativo, se non di eliminare la morte, per lo meno di comprenderla e di combatterla. La laicizzazione dei testamenti, la diminuzione degli aspetti religiosi, dell’enfasi sulle messe, e della presenza stessa di personale religioso, è un altro chiaro segno di questa mutata mentalità.
Dal punto di vista ‘tecnico’ assistiamo all’introduzione della bara e a un progressivo ‘esilio’ dei morti in nome dell’igiene pubblica: anche questa una forma di desacralizzazione, perché la morte non è più legata a un luogo santo, quale era il cimitero parrocchiale, situato intorno alla chiesa, visitato e attraversato ordinariamente, integrato nel panorama – tanto urbanistico quanto sentimentale – cittadino, ma a un luogo posto fuori città, ‘fuori le mura’, sempre meno visibile, visitato solo occasionalmente.
Dal punto di vista sociale, data la diminuzione o scomparsa di legami diretti nella popolazione cittadina, si creano figure di ‘annunziatori’ specializzati, ‘angeli della morte’ che progressivamente si incaricheranno anche di organizzare i funerali, gli antenati delle attuali agenzie di pompe funebri ; e si introducono le partecipazioni di lutto, per comunicare una morte di cui altrimenti non si avrebbe più notizia diretta.
Nelle sepolture assistiamo al passaggio da quelle individuali al diffondersi delle tombe di famiglia. E la memoria, il ricordo, assume un altro status, un valore civico, quasi un incentivo ‘laico’ a una vita spesa anche per il bene comune; come dirà Comte: “vivere per gli altri al fine di sopravvivere attraverso e negli altri”. Il ricordo, la memoria, la com-memorazione ha del resto un ruolo rassicurante: noi moriremo, ma altri ci ricorderanno; una certezza che si va tuttavia perdendo, nella progressiva diminuzione delle visite ai cimiteri, anche nei giorni ai morti deputati. E, per cogliere un altro segno, nella delega ad altri delle funzioni legate alla morte: in diversi paesi europei infatti le attività legate alla morte, da sempre considerate impure, ‘sporche’, sono sempre più lasciate, come altri lavori sporchi, a personale straniero, a immigrati. E forse ci sarebbe da riflettere su cosa significa per una società il lasciare ad altri, che non considera pienamente membri della società stessa, le funzioni legate alla memoria, al ricordo, alla tradizione, al radicamento: alla propria storia in fin dei conti. I morti costituiscono un legame con la terra, e assai concreto, dopo tutto.
Infine, si cominciano a introdurre le pratiche di incinerazione, peraltro ancora elitarie. Una delle primissime società ad hoc di tutta Europa nasce a Milano nel 1875, anche se la pratica si diffonderà soprattutto nei paesi protestanti, mentre in quelli cattolici gode tuttora di scarso favore.
Segni comunque, anche questi, della fine del monopolio cristiano sulla morte; un monopolio tuttavia non ancora demolito come ad un prima lettura sembrerebbe. Lo vediamo tutt’oggi quanto ancora sia centrale nella vita di molti paesi europei: la nascita, il matrimonio e altri riti di passaggio si laicizzano – ma di fronte alla morte si cerca ancora, spesso, la chiesa, la sinagoga, il tempio, e un senso religioso, talvolta solo perché non ce ne sono altri disponibili.
Resta il fatto, semplice e proprio per questo decisivo, travolgente nel suo impatto sulla società, sulla cultura, e ovviamente sull’immaginario legato alla morte, del cambiamento radicale che si è avuto nella speranza di vita, passata in occidente da 30 a 50 anni nel corso dell’Ottocento, e poi ancora da 50 a 80 anni nel corso del Novecento: cinquant’anni di vita in più nella vita di ognuno, in soli due secoli! Una vera e propria rivoluzione, più decisiva di tante altre. E ancora non sappiamo cosa ci riserva il futuro, se continuasse questa tendenza – e non ci sono ragioni plausibili perché debba invertirsi…
Dunque, è vero, sembra di assistere a una progressiva rimozione della morte, di cui analizzeremo di seguito alcuni segni. Ma anche perché la morte è diventata fenomeno più raro, meno frequente, e che è molto più difficile incontrare, per così dire, ‘dal vivo’.

La morte nelle società contemporanee: segnali ambivalenti

 

Socialmente pare davvero di poter leggere i segni che ci fanno dire che ci siamo accomodati a questa paradossale finzione sociale: che la morte non esiste. E che, se anche sospettiamo che esista, in ogni caso non dobbiamo parlarne. Meno che mai con il morente. E ancora meno con i bambini. La società dell’informazione e della conoscenza ha scelto in questo caso, volontariamente, l’ignoranza, il nascondimento, il silenzio. Con significativi costi sociali e individuali.
“Der Mensch ist zum Tode” (Heidegger). L’uomo è la sua morte, se la porta dietro dalla nascita, comincia a morire dal giorno in cui nasce (quotidie morior), come ci insegna la filosofia, da Epicuro, con il suo noto ‘sofisma dell’inesistenza della morte’, in avanti, passando per gli stoici latini fino all’esistenzialismo . Ma questa constatazione, lungi dal divenire consapevolezza individuale, rischia di essere soltanto una fredda frase. L’approccio intellettuale alla morte è troppo freddo e distante per toccare corde veramente sensibili. Il solo approccio profondo è quello radicato nei sentimenti: la morte di qualcuno che conosciamo, che amiamo. E’ questa la sola morte che ci interroga personalmente, sulla nostra morte, e magari anche sul senso che diamo alla nostra vita. Anche se la società può cullarsi nella tranquillità illusoria del nascondimento, l’individuo, solo, i conti con l’’estrema nemica’ li deve fare. Non sa quando, è vero, ma sa che verrà: “Mors certa, hora incerta”.
Il nascondimento, la rimozione della morte, appare quindi dannosa per l’individuo proprio perché gli toglie le occasioni e dunque le possibilità di entrare in contatto con quello che sarà anche il proprio futuro, e dunque di fare i conti: con se stesso, i propri sentimenti, la propria famiglia, il proprio lavoro, i propri obiettivi esistenziali – raggiunti o mancati – in definitiva il senso della vita di ciascuno . Una celebre iconografia del memento mori che ci viene dal Medio Evo è per l’appunto quella dei morti che dicono ai passanti: “Ciò che siete lo fummo. Ciò che siamo lo diverrete”. Li avvisano, in sostanza. Per l’uomo moderno, che vive nell’illusione che la morte non esista, e che in ogni caso non la incontra più, “la morte – come dice Max Scheler – sopraggiunge soltanto come catastrofe” . Qualcosa di insensato e di alieno: che non si capisce, e che ci lascia interdetti, senza parole e alla deriva. La morte in fondo ci sorprende e ci stupisce sempre, non la consideriamo mai davvero ‘naturale’, tanto è vero che, di fronte a una persona che muore, anche anziana, se non chiediamo propriamente “chi l’ha uccisa?”, ci chiediamo comunque “di cosa è morta?”, che è quasi la stessa cosa. Come se fosse impossibile e inaudito pensare che si possa morire, per l’appunto, di morte ‘naturale’: perché si è cessato di vivere, semplicemente – perché ‘era ora’. “La morte è un giallo in cui bisogna trovare il colpevole”, è stato detto (anche se a chi muore, se ne è cosciente, spesso interessa più il senso della sua morte che la sua causa, più o meno oggettiva od oggettivabile). Lo dimostra la diffusione sempre più ampia, nel mondo economicamente più avanzato, della pratica dell’autopsia, allo scopo di ‘spiegare’ (certe morti improvvise, per esempio): e non solo quando è necessario per motivi o sospetti di carattere giudiziario (o, sempre più spesso, assicurativo). Quasi un desiderio di spiegare ciò che inconsciamente, altrimenti, consideriamo inspiegabile.
Certo, siamo confrontati continuamente – teoricamente – con la minaccia di morte come strumento di lotta politica (dalla corsa agli armamenti al terrorismo, dalla dissuasione nucleare alle guerre tribali, dalla pena capitale al genocidio); con la morte sociale, magari sotto forma di handicap con le sue conseguenti forme di esclusione, di malattie degenerative come il morbo di Alzheimer, o di pensionamento anticipato, di vita in ospizio, che è insieme un esempio di morte sociale e il suo strumento più raffinato, comunque di inutilità, di mancanza di un ruolo sociale (de-functus, si dice appunto del morto: privo di funzioni). Ma queste sono immagini della morte astratte, metaforiche, per i più, fino a che non le si sperimentano personalmente.
Mentre non siamo abbastanza confrontati a quella che, con un’espressione di per sé significativa, chiamiamo ‘morte naturale’. E che oggi, come la morte ‘di vecchiaia’, è non a caso scomparsa dalla classificazione delle cause di morte.
Non ha torto chi, dopo anni in cui lo slogan, di per sé giusto, era ‘riprendiamoci la vita’, consiglia ora anche di ‘riprenderci la morte’: di toglierla ai medici, alle infermiere, e anche ai sacerdoti, per riportarla a casa, in famiglia, nei nostri pensieri, nelle nostre discussioni, nella nostra vita, insomma.
Ricominciando, per esempio, ad organizzarla. Sembra strano, parlare così, e tuttavia il pensare alla morte era in passato anche l’occasione per fare testamento, e fare testamento non era solo ‘dividere le spoglie’: era l’occasione per motivare delle scelte, per dare dei consigli. Per insegnare qualcosa a coloro che restano, magari. Per dire un’ultima parola ‘forte’. Anche ai bambini. Ricorda Ariès che fino al XVIII secolo non esistono immagini di una stanza di agonizzante in cui non ci sia la presenza dei bambini... Mentre è probabile che il silenzio di oggi rifletta altre preoccupazioni che non il supposto bene dei bambini: “Gli adulti che evitano di parlarne ai loro figli temono, forse a ragione, di poter comunicare loro le proprie angosce e paure della morte”, come sottolinea Norbert Elias . Ma così facendo il bambino viene cresciuto “come un immortale in un mondo immortale” .
La morte tuttavia non è solo un fatto individuale: è anche un fatto sociale, che dice molte cose sulla struttura della società. E sulle sue disuguaglianze, per esempio. La diseguaglianza più grande e radicale, e la più evidente delle ingiustizie, anche se è stranamente meno percepita di altre, è infatti quella relativa alle differenze nelle aspettative di vita, nella speranza di vita: la ‘mortalità differenziale’. Una diseguaglianza che può differenziare ricchi e poveri all’interno di un paese, ma che si proietta anche su scala globale: tra paesi ricchi e paesi poveri. Inoltre può differenziare categorie sociali, sessi, etnie, ecc., secondo la situazione. Nella Londra del 1830, nelle élites l’età media al decesso era di 43 anni, ma di 25 tra artigiani e impiegati, e di 22 tra gli operai. Nel 1842 a Manchester è di 38 per la gentry, la nobiltà, e di 17 tra i labourers. A Derby è rispettivamente di 49 e 21 anni, e a Liverpool addirittura di 35 e 15! . In misura meno netta, è vero anche qui ed ora, oggi in Italia. Basti pensare alla contabilità, occulta e occultata, che potremmo dedurre dagli incidenti e dalle morti sul lavoro, per rendercene conto. Per non parlare degli effetti delle condizioni di vita (reddito, cibo, abitazione) sulla mortalità nelle varie classi sociali, o della disponibilità e accessibilità di cure mediche e ospedaliere e della loro diversa efficienza nelle varie aree del paese. L’Istituto Nazionale di Statistica da qualche tempo ha cominciato a produrre degli indici di mortalità per grado di istruzione, condizione professionale e caratteristiche socioeconomiche della famiglia di appartenenza. Ne risulta per esempio che il titolo di studio è un indicatore altamente predittivo della mortalità (essa è tre volte più alta tra gli analfabeti che tra i laureati), così come lo è la condizione lavorativa: in particolare la mortalità tra i disoccupati è tre volte superiore a quella dei lavoratori attivi, e la differenza è ancora più rilevante per quanto concerne i suicidi. Significativamente, inoltre, le differenze sono più marcate tra gli uomini che tra le donne, e nelle fasce di età più basse. Tuttavia pochi si interessano a questo tipo di statistiche, e ne colgono il peso e diremmo la drammaticità in quanto indicatori e persino simboli della questione sociale.
Non è solo la morte comunque a differenziarci, con aspettative di vita diverse. Anche il ricordo del morto, spesso, ci differenzia. Anche avere un passato, una memoria, è spesso una forma di lusso, di ricchezza. E il ricordo dei morti ‘di pregio’, nella nostra cultura, dura di più, non foss’altro che per questioni ‘tecniche’: la statua in marmo e il sarcofago del nobile contro la sepoltura nella nuda terra e la croce in legno destinato a marcire del povero, per sintetizzare. Anche le testimonianze sulla morte del passato più lontano, del resto, sono giunte a noi grazie ai tumuli giganti, alle piramidi, o alle pietre innalzate di qualche tomba regale. Una consapevolezza, questa, che forse ritroviamo nella diffusa e un po’ patetica ossessione per le genealogie più o meno nobiliari, frutto del desiderio di un passato, da ricordare e da ri-scoprire (in qualche caso anche da re-inventare), per essere a nostra volta ricordati, forse sintomo più di un bisogno sociale reale che di una dubbia ricchezza: una povertà autentica, non rimpiazzata più, come nelle piccole ma anche grandi comunità del passato, quanto meno, da una storia e una memoria collettive. Altro che “’a livella”, quindi, come diceva Totò, che ci rende tutti uguali: “nulla di più inegualitario della morte”, ha ricordato ancora Vovelle; “non c’è uguaglianza davanti alla morte, né prima né durante né dopo il morire” .
Ma ci sono anche delle conseguenze sociali, e dei costi culturali, prodotti dalla rimozione odierna della morte.
La convenzione sociale vuole che non se ne parli, che non la si nomini nemmeno, che venga avvolta nella cortina fumogena di irritanti metafore, che anziché dire meglio e in altro modo, semplicemente nascondono la realtà, illudendosi in questo modo di cancellarla, di negarla. Una prassi, questa della negazione – della malattia, oltre che della morte – che è di tutta la società; e che si traduce in una preoccupazione particolarmente visibile nel linguaggio usato per cercare di non dirla, di non nominarla: dalla comunicazione giornalistica (nessuno muore mai di cancro, ma sempre ‘dopo lunga malattia’) ai tecnicismi del gergo medico-ospedaliero, fino alla ipocrita delicatezza del linguaggio quotidiano (nessuno è mai morto: al massimo, è ‘mancato’, quasi si fosse perso...) e al linguaggio pudico della pubblicità delle agenzie di pompe funebri (per le quali la morte è diventata un insapore ‘transito’ o un ‘decesso’, i parenti ‘dolenti’, la tomba una sepoltura, il funerale le esequie, la bara il feretro, il cadavere la salma, le spoglie o, peggio, i resti, ecc.).
E’ come se la società non volesse sapere di dover morire, si cullasse in un’illusione di eternità. La società, e individualmente i suoi membri. Ciò che è vero per la natura (“Il bastone del nonno dura comunque più a lungo del nonno stesso, per non parlare della montagna, che lui ha salito”, sintetizza Ernst Bloch), e per la specie rispetto all’individuo (“La morte è un taglialegna, ma la foresta è immortale”, si consola Gesualdo Bufalino, nella Diceria dell’untore), la società lo vorrebbe anche per sé. La collettività, con la sua rimozione sociale dell’argomento ‘morte’, sembra voler pretendere anch’essa questo privilegio. E nascondersi dunque la propria caducità, la propria mortalità (mentre anche le civiltà, e al loro interno le istituzioni, sono mortali – “civiltà noi adesso sappiamo che siete mortali”, dirà Paul Valéry). Come se la società non potesse funzionare se si mettesse in discussione questo assioma. Come se questo rendesse il ‘re sociale’ definitivamente nudo. Il che, forse, è più vero di quel che pensiamo. La società stessa, ha notato Edgar Morin, non funziona malgrado e contro la morte, ma per, attraverso e dentro di essa, quasi una sua conseguenza. La stessa impresa culturale, l’esistenza della cultura, non acquista il profondo del proprio senso, della sua epica drammaticità, che a causa del fatto che le antiche generazioni muoiono e bisogna trasmettere senza tregua il patrimonio collettivo dei saperi alle nuove generazioni: “Essa non ha senso che come riproduzione, e questo termine di riproduzione prende il suo senso pieno in funzione della morte” .
Gli esempi di rimozione sociale si possono moltiplicare a iosa. E non si tratta solo del ‘non dire’, delle ipocrisie del linguaggio. Un’altra forma di rimozione, tipica del resto della modernità, è quella della divisione del lavoro sociale: creare delle istituzioni specializzate che se ne occupino (che si occupino di occultarla), liberando così il resto della società, a cominciare dai parenti, dall’obbligo anche solo di pensarci. Il fatto che sempre meno si muoia a casa, in famiglia, e che si passi direttamente dall’ospedale al cimitero, ci rende estranei al fatto stesso della morte: l’incontro con essa non può quindi che essere casuale (per esempio un incidente).
Ma di questo paghiamo anche un prezzo: la morte ‘ospedalizzata’ diventa anche morte spersonalizzata, perché l’istituzione ospedaliera “si fa carico non dell’individuo, ma del suo male” (Michel de Certeau). Come già notava Rilke, nei Quaderni di Malte Laurids Brigge, “ora si muore in 559 letti. In serie, naturalmente. Con una produzione così enorme ogni singola morte non è proprio ben eseguita, ma non importa (...) Oggi chi dà ancora valore a una morte ben fatta?”. Del resto si tratta di un problema più generale legato all’istituzione ospedaliera. Come ha notato Elizabeth Kübler-Ross, il sovraccarico di lavoro burocratico e tecnico rischia di far sì che, anche per il personale infermieristico, “in questo sistema sempre più elaborato, il malato può diventare meno importante dei suoi elettroliti” .
Persino quando ce lo vuole ricordare, e ci vuole preparare, per motivi di interesse (il ramo assicurativo ne è un eccellente esempio), la società si incarica di rendere il fatto neutro e per così dire ‘dolce’, ricorrendo a espressioni che per essere pie menzogne non sono meno sintomatiche: non per caso questo tentativo di sconfiggere almeno alcune conseguenze della morte, questa forma tutta moderna di praeparatio mortis, la si chiama, significativamente, assicurazione sulla vita.
Una società vitalista e giovanilista non inciampa volentieri nei suoi morti, come del resto nei suoi vecchi. La morte, e con essa tutto ciò che può ricordarla (la vecchiaia, la malattia, il dolore) viene sempre più ‘privatizzata’ e nascosta. Forse anche per ragioni strutturali, come lascia intendere Elias: “In passato la morte era una questione pubblica in misura assai maggiore di quanto lo sia oggi; del resto non poteva essere altrimenti perché di rado gli uomini rimanevano soli”. Ma molto anche per ragioni culturali.
Come si è detto, si muore sempre meno a casa, in mezzo alla gente, ai sani, ai ‘normali’. Il funerale lo si fa in chiesa ; sparisce anche il corteo funebre nel quartiere, e si vedono sempre meno simboli esteriori (addobbi, paramenti). Anche le esistenze chiassose si spengono discretamente: con la notevole eccezione della morte dei vip, quelli che Edgar Morin chiama gli olympiens, che diventa essa stessa notizia, e rito collettivo – si pensi alla morte e ai funerali di Diana Spencer, Lady D, ma anche, quasi nello stesso periodo, di personaggi alquanto diversi e morti in circostanze del tutto dissimili, come Madre Teresa di Calcutta e Gianni Versace, o, in tempi più recenti, la morte e i funerali in mondovisione di Giovanni Paolo II . La pubblicità, salvo eventi drammatici, è affidata ai soli necrologi sui giornali: l’ultimo quarto d’ora di celebrità possibile, in una società dove un evento, se non passa sui media, non esiste . L’estremo capolavoro di una società che dedica colossali energie a cercare disperatamente di non invecchiare, di allungare la vita a tutti i costi, foss’anche di un minuto, e di cancellare dunque il dolore e la morte dal panorama sociale: ‘non sta bene’, morire in pubblico, come non sta bene ed è sconveniente esternare la tristezza e il pianto. Una società che a giusto titolo è stata chiamata ‘analgesica’.

E tuttavia…: il paradosso della mediatizzazione

 

Già dalle prime pionieristiche ricerche condotte negli anni Sessanta da Görer risultava che il 70% circa delle persone da lui intervistate non aveva mai assistito a un seppellimento, e i bambini non erano stati fatti partecipare nemmeno ai funerali dei parenti più stretti.
La morte è oggi, nelle nostre società, “gravata da inibizione comunicativa”. In una società che si vuole culturalmente avanzata, è il testimone silenzioso della nostra arretratezza; in un certo senso, “il settore più primitivo della società industriale” . Non se ne può parlare. Spendiamo sempre più risorse ad occultarla. Di fronte ad essa rimaniamo, significativamente, senza parole: “muti come una tomba”. Ma poi la morte, il dolore che provoca, i funerali, si vedono in tv. Qual è allora il senso di questa opera di occultamento? Perché la morte viene nascosta?
Le ipocrisie del linguaggio non sono che uno dei tanti inganni e autoinganni intorno alla morte. L’altro, più grande ancora, concerne i mass media, che hanno desacralizzato la morte, e nello stesso tempo hanno “sostituito lo spettacolo al rito” . Il paradosso è pertanto che il meccanismo del nascondimento avvenga in una società in cui siamo circondati dalla morte, o meglio da una spettacolarizzazione della morte, che è l’altra faccia della rimozione: la sua banalizzazione. E’ stato calcolato – per quel che possono valere questi calcoli, diversi a seconda del paese e del momento, ma comunque indicativi – che un giovane di 18 anni ha assistito, in media, a 40.000 ‘ammazzamenti’ televisivi e cinematografici (se ci aggiungiamo i videogames e gli accessi ad internet i dati salgono esponenzialmente). E quasi sempre si tratta di morti con una causa precisa: disgrazie, omicidi, quasi mai comunque morti naturali.
La società dello spettacolo, e non c’è da stupirsi, ha fatto anche della morte uno spettacolo quotidiano e ordinario. Finto, per lo più: ma non solo. Casi celebri di suicidi o esecuzioni in diretta ci ricordano che questi sono eventi mediatici seguiti e ottimamente retribuiti. Una foto o un video di una tragedia vale denaro, e ne produce. E’ la morte ‘vera’, che passa però ancora dagli schermi televisivi, anziché dall’esperienza diretta: che in occasione di una carestia o di una strage terroristica fa irruzione nelle nostre case attraverso i Tg della sera, all’ora di cena. Ma che ormai è oggetto privilegiato di interi programmi basati in buona parte su un voyeurismo che ha nella morte il suo centro: si pensi alle varie ‘Real Tv’, o alla vendita in edicola di dvd di incidenti automobilistici e motociclistici o di stragi terroristiche.
Le morti ‘finte’ sono presenti anche più massicciamente: e per conseguenza anestetizzano. Come le droghe, danno l’assuefazione. La morte deve essere ‘tanta’, se no non fa più effetto. Hollywood insegna: lunghe e redditizie carriere si sono costruite su questo ‘genere’; Stallone, Schwarzenegger, Van Damme, Bruce Willis e tanti altri, anche meno muscolosi. La morte diventa seriale, come i natural born killers e i protagonisti di pulp fictions più o meno intellettuali o di splatters di serie B: i film horror – che coprono una vasta, redditizia ma poco analizzata quota di mercato cinematografico, soprattutto nel noleggio e nell’acquisto, dal Freddy Krueger di Nightmare ai vari Halloween, Saw, Hole, Hostel, etc. – gli zombies e le notti dei morti viventi, che da George Romero ha figliato numerosi epigoni, i vampiri, i Dracula e i Nosferatu, l’horror più intellettuale alla Stephen King, e tanti altri, come il filone catastrofico dei terremoti, degli aerei in avaria, degli uragani, degli incendi. Fino alla necrofilia ironica e gentile della famiglia Addams, oggi anche un cartone per bambini.

Le danze macabre medievali avevano una funzione educativa, contenevano un insegnamento – “memento mori”, ricordati che devi morire. Il cinema e la letteratura di massa in un certo modo svolgono la stessa funzione. Come avviene nelle necroculture giovanili , nella musica, nei fumetti e nei manga. Successi a fumetti come il Dylan Dog nostrano e alcuni manga giapponesi, certo dark rock, la musica ‘metallica’ in cui i nomi dei gruppi, i titoli e i testi delle canzoni non potrebbero essere più esplicitamente ‘mortiferi’ (lett. portatori di morte), molto cinema, la stessa esibizione sulla propria persona e sul proprio vestiario di simboli di morte, attraverso la diffusione di teschi anche in forme simpatiche, e come gadget, incluso per bambini, assume il ruolo di riflessione proprio là dove la riflessione e la verbalizzazione era stata espunta, di risposta forse non del tutto inconsapevole proprio a quella rimozione che si percepisce falsa e ipocrita, e forse pericolosa – mortale, appunto. Lasciando perdere una analisi di dettaglio dei contenuti di queste modalità comunicative, ci preme sottolineare, come fatto sociale significativo, il divario, quasi una forma di schizofrenia sociale, tra la sostanziale sparizione dalla vita delle persone della morte ‘vera’, e la diffusione a dosi massicce di quella ‘rappresentata’. La risposta magari inconscia ad un bisogno, verrebbe da dire.

Inizio di una quinta fase?

Ariès, come abbiamo visto, parlava della quarta e ultima fase della storia della morte in occidente come della ‘morte proibita’. Siamo forse oggi all’inizio di una quinta fase: dai tratti, però, fortemente ambivalenti. La morte non è più negata, proibita appunto. Il discorso sulla morte esiste, e gode di sempre maggiore interesse: ma per due ragioni opposte. Da un lato viene infatti esplicitamente affrontata, ma per sconfiggerla: la ‘morte rinviata’, potremmo dire. Dall’altro si assiste a una progressiva presa in conto della morte come accadimento naturale, da accettare, talvolta persino da ricercare – anche a dispetto e contro la scienza medica che cerca di rinviarla per via tecnologica – comunque da umanizzare: la ‘morte ritrovata’, forse (anche se non ancora veramente ‘riconciliata’).
Da un lato abbiamo infatti la potente spinta tecnologica verso una ‘società postmortale’ , quella che Remo Bodei chiama ‘l’epoca dell’antidestino’ , caratterizzata dall’ossessione culturale, perseguita con un gigantesco spiegamento di mezzi economici e scientifici, di posporre tecnicamente la morte, di vivere senza invecchiare (o di ridurre fino ad annullare, sul piano estetico e non solo, le conseguenze dell’invecchiamento, secondo i modelli veicolati dai media e dalla pubblicità), di prolungare indefinitamente la vita. E’ la risposta concreta alla prospettiva allora solo immaginabile da Condorcet , oggi perseguita dalle tecnoscienze a vari livelli: dalla medicina preventiva a quella curativa, dalla genetica alla medicina rigeneratrice, dalle nanotecnologie ai trapianti, nella convinzione di perseguire un orizzonte di tendenziale immortalità. Questa ricerca è sostenuta e perseguita da un vasto complesso scientifico-industriale , dotato di immense risorse e di un vastissimo consenso culturale, almeno in occidente. Una lotta – caratterizzata non a caso da frequenti metafore belliche che, dalla pubblicità di prodotti anti-ageing alla volgarizzazione della ricerca (che si tratti di combattere l’invecchiamento, di dichiarare guerra al dolore o di vincere tout court la morte), pervadono questo intero settore – che ha costruito anche una propria mitologia. Una mitologia che dalle biotecnologie ai cyborg , dalla crionia ai trapianti diffusi, dalla clonazione agli interventi sul DNA attraverso le nanotecnologie, accompagnati dalla relativa mistica del gene, ci fa entrare senza che ce ne rendiamo conto in un immaginario in cui la fusione uomo/macchina e corpo/tecnologia allo scopo di combattere, posporre, e infine vincere la morte sembra diventare un orizzonte possibile e persino ovvio, in qualche modo un esito paradossalmente ‘naturale’ delle attuali evoluzioni. E che per le nuove generazioni potrebbe effettivamente essere tale: esattamente come è per esse ovvia e naturale la disponibilità infinita di energie e l’orizzonte della connessione permanente. Indirizzando culturalmente e praticamente la società nella direzione del respingimento dell’idea stessa di morte, non solo del suo continuo ed efficace allontanamento.
D’altro canto – a fronte di questa tendenza pur assai potente e pervasiva – assistiamo all’emergere di una nuova riflessione sulla morte, e di una sua progressiva neo-umanizzazione: il suo rientro, per così dire (che non è, storicamente, una novità assoluta, semmai un ritorno), nell’alveo del pensabile, anzi di ciò che deve essere pensato, ma ancora di più dell’esperienziale, di ciò che è sentito e vissuto, e vissuto collettivamente e non solo individualmente. Una controtendenza insomma, rispetto a quella delineata: e forse una vera e propria controcultura, non diversa, nella sua genesi e nelle sue potenzialità, dalle controculture degli anni ’60, alcune delle quali sono poi diventate tendenze dominanti, caratterizzanti, paradigmi interpretativi di riferimento, e in termini concreti istituzione, potere.
Le ragioni forti di questa controtendenza sono almeno due. La prima ragione è l’emergere nello spazio pubblico del dibattito bioetico, anche attraversi casi e storie individuali altamente mediatizzati e politicizzati: che ha costretto ampie fette di opinione pubblica, pur personalmente estranee agli accadimenti dibattuti, a misurarsi con scelte individuali significative e individualmente impegnative, secondo il classico meccanismo dell’immedesimazione: cosa farei se mi dovessi trovare al suo posto? La seconda ragione è la progressiva pluralizzazione culturale e religiosa della società, con il ritorno nella sfera pubblica di modi di sentire e di pensare che la cultura biomedica, che era stata capace di influenzare anche quella religiosa e di ridurla alle proprie ragioni, e più in generale la cultura e lo spirito del tempo, era riuscita in passato a marginalizzare. Oggi l’insoddisfazione e in certa misura il discredito, o i timori, che questa stessa cultura biomedica – la medicina ufficiale dell’occidente, con la sua smisurata presunzione, con la sua potenza di fuoco tecnologica, e con le sue pretese di egemonia culturale se non addirittura di esclusiva – evoca, riportano a galla desideri di approfondimento di ordine diverso, insieme a pratiche sociali provenienti da realtà e mondi differenti che oggi si rendono visibili anche nelle nostre società.
Per quanto riguarda il dibattito bioetico, in Italia sono stati determinanti i casi Welby e Englaro, così come negli Stati Uniti il caso di Terry Schiavo: storie individuali che sono diventati delle sorte di psicodrammi sociali, con pesantissimi interventi della ragione politica e di quella religiosa, in lotta diretta e senza esclusione di colpi, più che con la ragione scientifica, con alcune determinate coscienze individuali. E che hanno mostrato come, nella misura in cui la morte diventa materia decidibile, ri-diventa anche dicibile, e viene infatti aspramente dibattuta. Storie che – al di là delle opinioni di ciascuno – hanno fatto capire a molti, con una assunzione di consapevolezza a livello di massa che non va sottovalutata, che oggi la medicina moderna ci pone di fronte a una serie di problemi in qualche modo opposti all’orizzonte promesso dai progressi della scienza. A cominciare dal fatto che, lungi dal rendere più chiaro e netto lo spazio della vita rispetto a quello della morte, il confine tra i due stati si è fatto, più che sottile, evanescente, dubbio, spurio, rendendoli in realtà sempre più interrelati e confusi: tanto che la scienza e la tecnica moderne, attraverso le escrescenze meccaniche che circondano e invadono il corpo, sono state in grado di inventare quell’impensabile paradosso che è “una persona morta con un corpo vivo” (il caso è avvenuto per la prima volta nel 1993 negli Stati Uniti, ma da allora si è ripetuto spesso, con una madre dichiarata cerebralmente morta ma incinta al quinto mese, cui si è fatta completare la gravidanza fino all’ottavo mese, per poi far nascere il figlio con un parto cesareo, prima di ‘scollegarla’ definitivamente; ma la cosa è ormai prassi ordinaria in caso di trapianto). In più questi stessi progressi ci rendono manifesto il fatto che – almeno nel mondo occidentale sviluppato, e per alcune fasce di pazienti (creando gigantesche e inquietanti domande sul fronte delle diseguaglianze sia interne sia internazionali) – “il problema oggi non è cominciare, ma sospendere una terapia” . Con le implicazioni sconcertanti di nuove definizioni di vita e morte, e ambivalenti tentativi di sacralizzarla e desacralizzarla, che sono poi quelli che hanno diviso l’opinione pubblica (o buona parte di essa dall’establishment politico-religioso maggioritario), nel caso Englaro: in cui si è potuto assistere, tra le altre cose, al paradosso di “religiosi e politici che sacralizzano, più che la vita, la tecnica che permette di farla proseguire artificiosamente”, come ha notato acutamente un filosofo cattolicissimo come Giovanni Reale .
L’altro aspetto che, come abbiamo notato, ha portato una nuova riflessione sulla morte nella società e, nello specifico, nell’istituzione ospedaliera, ma anche nella pratiche funerarie e cimiteriali, obbligando a un confronto più diretto e per così dire faccia a faccia con la morte, e soprattutto a modalità diverse di vederla e di viverla, che stridono fortemente con il pensiero unico della scienza biomedica occidentale, è stato la progressiva pluralizzazione culturale e religiosa della società. Un pluralismo che si produce per dinamiche interne – l’aumentata diversità culturale e religiosa interna delle popolazioni autoctone (e in concreto, ad esempio, per l’Italia, la fine del monopolio cattolico) – così come per dinamiche esterne – tipicamente le migrazioni – e in questa seconda forma ne accentua fortemente la visibilità nello spazio pubblico .
Questo nuovo pluralismo culturale e religioso, che incorpora credenze e pratiche sociali diverse di fronte alla malattia, alla nascita, al corpo, alla morte, costringe a una nuova riflessione, che ha, a dispetto di numeri ancora relativamente modesti anche se certamente già molto percepibili, effetti assai rilevanti: anche perché impatta innanzitutto con le strutture e le routine ospedaliere, e l’ospedale è diventato, come sappiamo, il luogo e l’orizzonte finale della morte di un numero sempre maggiore di individui . Gli ospedali (e dopo di loro le agenzie funebri e i cimiteri) vengono sempre più interrogati, giusto per citare qualche esempio: dal desiderio presente in molte culture di essere vicini al morente (e in molti: familiari, parenti, amici…), di accompagnarlo, di socializzare con lui e in sua presenza, di prendersene cura; dalla richiesta di spazi e pratiche particolari di preghiera, dalla presenza di personale religioso di religioni altre, dal voler rendere visibili (o al contrario rimuovere) specifici simboli religiosi; dalle diverse etiche correlate alle emotrasfusioni o ai trapianti; dal desiderio in alcune culture di provvedere direttamente al lavaggio e alla vestizione del cadavere; dalla necessità imposta da alcune religioni di provvedere alla sepoltura del corpo entro le 24 ore; dalla questione delle sepolture permanenti, contro la pratica sempre più frequente di sepolture temporanee; e si potrebbe continuare. Si tratta di problemi pratici, ma con forti correlazioni etiche, e portatori di significative risonanze religiose, che hanno un importante effetto, destrutturante all’inizio, ma di obbligo ad una maggiore riflessione poi, e che hanno avuto un ruolo molto importante nel ridare visibilità alla questione della morte, in strutture che avevano preso l’abitudine di nasconderne sempre più la presenza (a cominciare dall’occultamento progressivo del malato terminale, e poi del cadavere). Tra gli effetti ‘a monte’, per così dire, vi sono anche importanti conseguenze a livello sistemico, di feedback e di meticciato culturale.
Uno schema idealtipico di feedback culturale nel campo della salute, dovuto alla presenza di immigrati (ma anche di culture minoritarie autoctone), potrebbe essere descritto più o meno così :

il malato (e il morente) straniero (o di cultura diversa) si pone di fronte, con la sua diversità di intendere il corpo, la salute, la malattia, la morte, al
medico autoctono. Questi inizia una
riflessione sulla diversità culturale di fronte alla malattia e alla morte stessa, che, a sua volta, può arrivare ad una
nuova concettualizzazione, che può includere elementi eteroctoni, cioè appartenenti ad altra cultura. Questa nuova concettualizzazione si manifesta dapprima nel medico stesso, come una sorta di ‘risonanza’ interna (comincia a farsi domande nuove, inattese), ma può successivamente tradursi in una
riflessione collettiva, con colleghi impegnati nello stesso tipo di ricerca, che può arrivare fino alla
elaborazione di un nuovo paradigma interpretativo, sia in polemica/rottura con i paradigmi dominanti precedenti, che cercando sintesi e mediazioni. L’esistenza di un mercato in crescita per modalità diverse di concepire il corpo, il morente, la morte (di una ‘soglia’ culturale ed economica, quindi ) è naturalmente un aiuto potente nello svilupparsi di questo processo.

Si tratta, come detto, di un modello idealtipico, che si presta quindi a molte varianti empiriche, fino all’inversione stessa degli attori (malato e morente autoctono/medico straniero), e alla produzione di questo stesso processo ‘dal basso’ (il cambiamento culturale avviene in questo caso nel malato e nel morente, e in generale tra i fruitori del sapere medico, prima ancora che tra i suoi produttori).
A questi due aspetti (bioetica e pluralizzazione culturale), che hanno fatto aumentare, e di molto, la riflessione sulla morte e il morire, e concretamente sul malato e il morente, occorre aggiungere una tendenza, certamente influenzata anche dai due aspetti precedenti, che spinge il mondo medico ospedaliero stesso, ma anche una più larga fetta di società, a promuovere una cultura, ma anche concretamente delle istituzioni, attente a una nuova e diversa umanizzazione della morte (ad esempio negli hospice, ma anche nella pratica ospedaliera ordinaria), e a una cura diversa del morente, con maggiore attenzione alle sue esigenze, alle sue relazioni, ai suoi bisogni e ai suoi affetti. Una attenzione che arriva anche a riflettere in maniera nuova e diversa anche sul ‘dopo’: che si tratti del destino individuale (cosa succede dopo la morte? Una domanda che certo non si fanno solo i morenti, e che sempre più sono sollecitati a farsi coloro che gli stanno intorno, per motivi professionali o meno) o, più banalmente ma non meno significativamente, del destino del cadavere, e del senso e del modo di occuparsi dei cimiteri, e più in generale della memoria dei defunti .

 

Conclusioni: ‘Normalizzare’ la morte?

E’ indubbio che c’è un lato positivo, e straordinario, nelle ‘restrizioni all’arbitrio della morte’ che l’uomo è stato capace di porre, in particolare attraverso i progressi dell’igiene, della medicina e della scienza. Il prolungamento progressivo della durata della vita, la sconfitta di molte cause endemiche di morte (ricordiamo che una malattia che ha a più riprese decimato la popolazione europea, la ‘Peste Nera’, era diventata un simbolo della morte stessa), le meraviglie terapeutiche odierne, testimoniano l’aspetto titanico di questa lotta contro la morte, di questo rifiuto prometeico, di questa lotta a coltello per rubarle un giorno di vita dopo l’altro.
Ma questo progresso, sul piano sociale, è stato finora pagato con quella che Elias ha definito la progressiva ‘solitudine del morente’ – peraltro specchio fedele di altre diffuse solitudini –, con la “silenziosa esclusione degli individui senescenti e morenti dalla comunità umana”, con il raffreddamento e quasi la cessazione (attraverso l’ospedalizzazione) dei rapporti tra viventi e morenti, provocando un ulteriore distacco dagli affetti e dai luoghi che danno senso e sicurezza alla vita, e anche voglia di vivere. Un costo, questo, che non sembra tuttavia dover essere ineluttabile.
Forse è da considerarsi un’inconscia risposta a questa evoluzione culturale, se, tra i momenti topici della vita, la nascita e il matrimonio tendono ad essere, per una parte importante della popolazione, sempre più separate dalla religione, mentre la morte trova ancora il suo ‘spazio naturale’ nei luoghi detti sacri (il numero di funerali religiosi tende ad essere molto superiore a quello di altri riti di passaggio), quasi che la religione (e, oggi, le religioni, ma anche culture laiche attente alla dignità del morire) fosse tra le poche ad avere parole per dire la morte, o almeno uno dei pochi ambiti in cui non viene negata. Come ha ricordato Ariès, il culto dei morti è l’unica manifestazione religiosa comune a credenti e miscredenti ; e c’è più ‘tolleranza’ verso un modo religioso di intenderla anche in ambienti e tra persone individualmente magari poco propense ad attardarsi su interrogativi di tipo religioso, anche negli stessi ospedali e nel corpo medico. Seppure quasi sempre inconsapevolmente, l’estremo saluto al morto prima del ‘transito’, del viaggio, è un addio nel senso etimologico: un affidamento a-Dio, seppure un Dio spesso vago e indefinito, di cui non c’è molta certezza.
Forse si tratta solo di una sopravvivenza culturale, destinata pure essa a ridimensionarsi. È significativo tuttavia che oggi ci venga riproposta, in forme atipiche, dalle dinamiche stesse della società multiculturale, dalle differenti visioni della morte, e della vita, che culture diverse ci propongono, e con cui la stessa vita ospedaliera ha cominciato a confrontarsi. Ma al di là degli aspetti religiosi tradizionalmente intesi, il processo di ‘normalizzazione’ della morte – il viverla come accadimento normale, appunto, e quindi il non ignorarla, recuperando il coraggio di ‘guardarla in faccia’ – investe anche altri ambiti culturali.
Non sappiamo se davvero il nostro corpo è la crisalide che con la morte libera la farfalla, come dopo anni di vicinanza ‘fisica’ con la morte e con i morenti sostiene E. Kübler-Ross. Sappiamo però che il nostro atteggiamento di fronte alla morte non è indifferente e irrilevante rispetto al nostro atteggiamento di fronte alla vita.
Forse l’uomo non è il solo animale a sapere di essere mortale, ma certamente è il solo “animale che seppellisce i propri morti”; e il solo, anche, a ricordarli. Puntualizza Thomas: “tra tutti gli esseri viventi l’uomo rappresenta la sola specie animale cui la morte è onnipresente durante tutta la sua vita (e sia pure solo a livello di fantasmi); la sola specie animale che accompagna la morte con un rituale funebre complesso e ricco di simboli; la sola specie animale che ha potuto credere, e spesso ancora crede, alla sopravvivenza e alla rinascita dei defunti; in breve, la sola specie per la quale la morte biologica, fatto di natura, si trova continuamente superata dalla morte come fatto di cultura”.
E’ possibile dunque che anche gli attuali modi di vedere (o meglio, di non voler vedere) la morte, siano soggetti a moda culturale, e possano cambiare: così come, almeno in certi settori della società, si tende a recuperare un’alimentazione più naturale, dei tempi di vita non totalmente subordinati ai tempi del lavoro, una nuova cultura del parto e della nascita, una diversa concezione, più olistica e naturale, della malattia, del corpo, della salute. Quella al nascondimento e alla rimozione della morte (o al combattimento gladiatorio contro di essa) è certamente una ‘tendenza lunga’ della società. Si potrebbe però ipotizzare che, a fronte di essa, la società sia capace di produrre degli anticorpi, sotto forma di individui e gruppi sociali capaci di ricercare una migliore ‘qualità della vita’, e correlativamente anche la consapevolezza dell’importanza di una adeguata ‘qualità della morte’. Del resto vanno di pari passo, e si richiamano l’un l’altra. Non si tratta di un lusso, ma di una necessità che non ci dispiace qualificare di vitale.

Thomas L.-V. Antropologia della morte, Garzanti, Milano, 1976. Thomas, tra i fondatori della tanatologia, è stato uno degli artefici della ri-scoperta della morte ma anche un analista severo della sua sostanziale rimozione nelle società occidentali. Tra gli altri suoi testi si vedano il più ‘politico’, Mort et pouvoir, Payot, Paris, 1978, Le cadavre. De la biologie à l'anthropologie, Complexe, Bruxelles, 1980, libro dall’autore stesso definito ‘nauseabondo’, che “sfida l’indecenza”, e il sintetico La mort, Presses Universitaires de France, Paris, 1988.

Morin, E., L’homme et la mort, Seuil, Paris, nell’introduzione all’edizione 2002 di un suo testo largamente in anticipo sui tempi, datato al 1951.

Questa chiave di lettura ha prevalso per almeno un quarantennio, nella riflessione sul tema. E probabilmente è databile al veloce e voluto oblio del secondo conflitto mondiale, e agli anni ottimisti della ricostruzione e del boom economico: si veda tra gli altri anche Allievi S., “L’ultimo tabù: individuo e società di fronte alla morte”, in Bucchi M., Neresini F. (a cura di), Sociologia della salute, Carocci, Roma 2001, p. 324, da cui diverse considerazioni sono qui rielaborate.

Non abbiamo spazio e modo di ricostruire qui la storia della morte in occidente. Altri l’hanno fatto magistralmente, seppure in serrata discussione sulla sua interpretazione. Citiamo tra gli altri gli splendidi libri, che hanno costituito l’inizio di una riflessione storica approfondita e seria sulla morte, di Ariès P., Storia della morte in occidente, Rizzoli, Milano, 1978 e L'uomo e la morte dal medioevo ad oggi, Laterza, Bari, 1980, i testi di Vovelle M., La morte e l’Occidente, Laterza, Bari, 1986, e Vovelle et al., Mourir autrefois. Attitudes collectives devant la mort aux XVII et XVIII siècles, Gallimard, Paris, 1974, nonché di Tenenti A., Il senso della morte e l'amore della vita nel Rinascimento, Einaudi, Torino,  1977. Con altro taglio e un’attenzione maggiore alle evoluzioni più recenti, Kellehear A., A Social History of Dying, Cambridge University Press, New York, 2007.

La morte gloriosa interpretata dall’adagio dulce et decorum est pro patria mori. Anche se, con il tempo, anziché perpetuare il ricordo e l’onore del morente per la patria, l’evolversi delle guerre in carneficine di massa ha fatto sì che, al contrario, la morte in guerra sia divenuta morte in serie, anonima; che non dà diritto, talvolta, nemmeno più al nome su un monumento ai caduti o su una lapide – il diffondersi dei monumenti al milite ignoto è un emblema di questo cambiamento, di questo, letteralmente, ‘trapasso’.

Suonano contemporanee infatti le parole e le speranze di Condorcet nell’Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain (1795): “Sarebbe assurdo, oggi, supporre (…) che debba arrivare un momento in cui la morte non sarà più che l’effetto, o di accidenti straordinari, o della distruzione sempre più lenta delle forze vitali, e che infine la durata dell’intervallo medio tra la nascita e questa distruzione non abbia più alcun termine assegnabile”?, cit. in Lafontaine C., La société postmortelle, Seuil, Paris, 2008.

L’espressione tuttavia deriva dalla ‘pompe funebri’ dell’età barocca, che esaltano la teatralizzazione della morte in elaborati e fastosi (pomposi, appunto) cerimoniali, a misura solo dei ricchi e soprattutto dei nobili.

Il testo, volgarizzato da Cicerone e da Lucrezio, ci mette di fronte a questa constatazione ‘sensoriale’: se noi esistiamo, la morte non esiste; e se esiste, è perché non esistiamo più noi. O ci siamo noi, o c’è la morte, insomma. Nel primo caso, la cosa non ci riguarderebbe ancora, nel secondo non ci riguarderebbe più. Un tipico esempio di pseudo-soluzione, puramente intellettuale, di un problema, che l’astrattezza del ragionamento non ci risolve affatto.

Da un punto di vista anche più pratico possiamo riportare l’opinione di Elisabeth Kübler-Ross, una psicologa che molto ha fatto per favorire la comprensione delle implicazioni personali, familiari e istituzionali della consapevolezza del morire, secondo la quale “se tutti noi facessimo il massimo sforzo per contemplare la nostra morte personale, per lottare contro l’inquietudine che ci prende pensando alla nostra morte, e per aiutare altri a familiarizzare con questi pensieri, forse ci sarebbe meno potenza distruttiva intorno a noi”.

Scheler M., Il dolore, la morte, l’immortalità, Elle Di Ci, Leumann, 1983.

Elias N., La solitudine del morente, Il Mulino, Bologna, 1985 (sottolineatura nostra).

Yonnet, P., Le recul de la mort, Gallimard, Paris, 2006.

Vovelle M., La morte e l’Occidente, op. cit.

Javeau C., Mourir, Les Eperonniers, Bruxelles, 2000.

Morin E., L’homme et la mort, cit.

Ottima introduzione al suo pensiero, cui si deve molto del risveglio di interesse intorno alla morte, e della maggiore attenzione al morente che ne è il corollario, anche a livello di pubblico generico, è La morte e il morire, Cittadella, Assisi, 1979, il suo testo più completo. Utili testi di ‘accompagnamento’ e di riflessione, non strettamente scientifica, sono altri volumi della Kübler-Ross, come Domande e risposte sulla morte e il morire, Red edizioni, Como, 1996, Living with death and dying, Macmillan, New York, 1982, tratto da sue conferenze, La morte è di vitale importanza, Armenia, Milano, 1997. Più specifici, nei rispettivi ambiti, On children and death, Macmillan, New York, 1984, AIDS. L’ultima sfida, Raffaello Cortina, Milano, 1989, e Working it through, Macmillan, New York, 1987, che rende conto dei suoi workshop sul tema della morte.

Quando non è, come negli Stati Uniti e sempre più anche altrove, una apposita funeral home, l’esempio più tipico dell’american way of death, istituzione specializzata che serve essenzialmente a nascondere e a mascherare la morte, e, letteralmente, anche il morto, imbellettandolo e truccandolo per ridargli colore e una finzione di ‘vita’: tanto da rendere plausibili, sullo stile della presa in giro che di questi comportamenti ha fatto E.Waugh nel suo romanzo Il caro estinto, espressioni come: “bello, sembra vivo!”.

Sembra quasi che la morte dei vip, dei personaggi celebri, assuma un ruolo catartico, divenendo uno dei pochi casi di morte ‘lecita’, o meglio di discorso lecito sulla morte: in cui se ne può, e anzi se ne deve parlare apertamente, seppure in maniera ampollosa e retorica, non riflessiva ma solo descrittiva, spettacolo anch’essa.

Gli annunci mortuari – come del resto gli avvisi funebri e le stesse incisioni sulle lapidi – sono tuttavia il triste e desolante specchio della nostra incapacità di dire personalmente la morte: lo stereotipo è l’unica comunicabilità condivisa. Soggetta peraltro ad una forma peculiare di voyeurismo: non per caso è un genere letterario di successo, che conta avidi lettori tra gli acquirenti dei giornali soprattutto locali. Forse come terapia anti-ansiogena: perché ci conferma che noi, invece, siamo ancora vivi.

Görer G., Death, Grief and Mourning in contemporary Britain, Doubleday, London, 1965.

Fuchs W, Le immagini della morte nella società moderna, Einaudi, Torino, 1973.

Thomas L.-V., Morte et pouvoir, cit.

Giovannini F., Necrocultura. Estetica e culture della morte nell’immaginario di massa, Castelvecchi, Roma, 1998.

Lafontaine C., op. cit.

Bodei R., “L’epoca dell’antidestino”, in Monti D. (a cura di), Che cosa vuol dire morire, Einaudi, Torino, 2010, pp.168.

v. nota 6.

Scegliamo volutamente la metafora sul calco del ‘complesso militare-industriale’ all’origine del gigantesco sforzo bellico che ha caratterizzato i decenni della guerra fredda e della rincorsa nucleare.

Non a caso il morente intubato in macchinari sempre più complessi sembra diventare il tipo ideale stesso del cyborg; cfr. Hables Gray, C., Cyborg Citizen, Routledge, London, 2002, cit. in Lafontaine, op. cit.

Monti D. (a cura di), Che cosa vuol dire morire, Einaudi, Torino, 2010.

Reale G., “L’uomo non si accorge più di morire”, in Monti D., op. cit.

Rinvio, sulle dinamiche e gli effetti del pluralismo religioso, a Allievi S., Pluralismo, EMI, Bologna, 2006.

Un tentativo di proporre un primo approccio a questa diversità, dalla parte delle comunità religiose e in collaborazione con esse, ad uso del personale ospedaliero, in Allievi S. (a cura di), Salute e salvezza. Le religioni di fronte alla nascita, alla malattia e alla morte, EDB, Bologna, 2003.

Rinvio, per un’ampia elaborazione su questo tema, a Allievi S., “Corpi migranti. Culture, religioni, salute e malattia in una società plurale”, in Guizzardi G. (a cura di), Star bene. Benessere, salute, salvezza tra scienza, esperienza e rappresentazioni pubbliche, Il Mulino, Bologna, 2004, da cui, con qualche rielaborazione, anche questo modello è tratto.

Riprendiamo il concetto in voluta assonanza con quello di ‘soglia etnica’, che consente agli immigrati di riprodursi culturalmente, parlando una lingua comune, ecc.

A testimonianza di un recente recupero di studi sul tema, tra gli altri, Maddrell A. e Sidaway J. (a cura di), Deathscapes. Spaces for Death, Dying, Mourning and Remembrance, Abingdon, Ashgate, 2010.

Troviamo una bella testimonianza letteraria di questo aspetto nel racconto di Henry James, L’altare dei morti: unica forma di culto e unico modo di trovare un senso nella storia e un posto nella memoria per un uomo che non crede a molto altro.

 

Fonte: http://www.stefanoallievi.it/wp-content/uploads/2012/01/matcorsomorte.doc

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